Messi
alle spalle i ballottaggi, che hanno confermato il momento di spinta
del centrodestra (la Lega si è presentata in coalizione con Berlusconi e
Meloni quasi dappertutto), le questioni sul tavolo sono numerose. E
tutte molto “divisive”. In tre, non in due.
C’è
il problema dei rapporti con l’Unione Europea, e su più livelli. Sul
piano strettamente politico, c’è da nominare i membri della Commissione –
all’Italia ne spetta uno – a partire dall’accordo sul nome del
presidente.
Il
tedesco Manfred Weber, candidato al ruolo ancora ricoperto da
Jean-Claude Juncker, è oggi a Roma per ottenere da Giuseppe Conte un
sostanziale via libera (dopo il “no” opposto da Macron). La partita è
complessa e a carte coperte, perché questa è una delle poche cose su cui
abbia un’utilità controllare la maggioranza dell’inutile parlamento di
Strasburgo.
Se
neanche l’Italia dovesse appoggiare Weber, la sua nomina diventerebbe
un po’ più complicata, ma non moltissimo (a Strasburgo c’è una
maggioranza molto forte di “europeisti”, anche se Ppe e
socialdemocratici devono ora ricorrere – e contrattare – l’appoggio di
Verdi e Liberali). Mentre il commissario proposto dall’Italia, in quel
caso, riceverebbe un niet piuttosto sonoro, se dovesse essere un “euroscettico” indicato da Lega o Cinque Stelle.
Della situazione sono consapevoli tutti, ma Conte la ricorda in modo piuttosto ruvido proprio al suo vice leghista: «l’Italia
un commissario lo avrà. Ma sarà importante vedere chi, come e con quale
ruolo economico. Dobbiamo sapere che ci troveremo di fronte un
Parlamento europeo molto diffidente. Lì passa chi ha la maggioranza più
uno dei voti, e noi non saremo in maggioranza. Le forze politiche
interne non hanno capitalizzato i voti, a Strasburgo. Si prefigura un
loro ruolo non decisivo anche per la Lega che pure ha riportato una
grande vittoria in Italia».
Delle
serie: non strillare troppo, perché tanto fuori dai confini non conti
un tubo, e rischi di farci avere un posto che non conta nulla (è in
uscita Flavia Mogherini, in un ruolo di peso, il cosiddetto “ministero
degli esteri” europeo). Discorso che si applica però con ancora più
forza ai grillini, che stanno ancora cercando un gruppo parlamentare che
li accetti come soci di minoranza.
Su
questo punto, insomma, la componente “europeista” del governo (lo
stesso Conte, Tria, Moavero Milanesi) sa di avere tutti gli assi in
mano.
Situazione
simile anche sul tavolo della “procedura di infrazione”, che la
Commissione si appresta a valutare, per ricondurre il bilancio dello
Stato italiano dentro i parametri e gli obbiettivi fissati da Bruxelles.
Qui il gioco è solo apparentemente più elastico. Salvini ha lasciato salire per giorni la favola-bufala dei MiniBot
per consentire alle amministrazioni pubbliche di pagare i debiti con i
fornitori (quasi tutte imprese italiane). Ha ottenuto l’appoggio
acritico di Di Maio (che ormai si è convinto di doverle mandare giù
tutte: “Se lo strumento per pagare le imprese non è il minibot, il
Mef ne trovi un altro. Ma lo trovi, perché il punto sono le soluzioni,
non le polemiche, né le presunte ragioni dei singoli. Ripeto, una
parola: soluzioni!“.), ma una pernacchia sia da Conte che dal ministro dell’economia.
Il primo si è sentito obbligato a ricordargli che «Abbiamo
già introdotto uno strumento per raggiungere l’obbiettivo con la
triangolazione tra Comuni, Cassa depositi e prestiti e creditori». E del resto «È
una proposta mai portata a Palazzo Chigi. Siccome ha implicazioni di
sistema, mi aspettavo che correttamente mi fosse portata per esaminarne
insieme aspetti e contenuti». Chiacchiere per i giornali, insomma…
Ma
di fronte all’insistenza del trio Giorgetti-Salvini-Borghi (il
“tecnico” leghista che ha partorito l’ideuzza) anche Conte, nel suo
piccolo, ha alzato la voce tirando fuori le sue competenze economiche e
giuridiche: «Il problema è che lo strumento di soluzione deve essere
adeguato rispetto all’obiettivo. Ci sono molte criticità anche tecniche:
se i crediti della PA non sono certificati non sono neppure pagabili.
Siccome non possono costituire una moneta parallela, non c’è l’obbligo
di accettarli come mezzo per estinguere un’obbligazione. E chi li
accetta, ragionevolmente vorrebbe scontare il fatto di prendere in
carico un’attività parzialmente liquida che non frutta interesse. Il
risultato è che finirebbero per essere negoziati sotto la parità. E lo
sconto rispetto all’euro sarebbe una misura del rischio di uscita del
Paese dalla moneta unica».
Sotterrata
la questione, insomma, non resta che passare sul cadavere dei nemici
interni. Tria, infatti, si è preso anche il lusso di azzerare la serietà
del problema: “Non credo che ci sia una discussione interessante
perché abbiamo discusso di alcune opinioni. Non è una questione
principale che andremo a trattare a livello di governo“. Incassando la benedizione-minaccia di Pierre Moscovici: “Tria sa quello che deve fare“.
Restano
da discutere, insomma, solo le questioncelle di casa propria, ossia il
“rimpasto” che la Lega vorrebbe come riconoscimento del proprio
aumentato peso politico. Oltre a riempire la casella lasciata vuota da
Paolo Savona (passato dal ministero dei rapporti con la Ue a presidente
della Consob), ci sono i ministeri più ambiti dai salviniani: le
infrastrutture (con il defenestramento del povero Toninelli), ma anche
Difesa e Ambiente che – per motivi diversi – andrebbero a completare la
cornice istituzionale indispensabile per “valorizzare” il bla-bla
leghista (sono giorni che sbarcano migranti dai barconi, da Pozzallo a
Lampedusa, ma Salvini non ne parla più; si vede che ha esaurito il
bacino di voti sensibile all’argomento).
Come
rapporti di forza reali – ossia “europei” – i due soci della
maggioranza sono usciti a pezzi dalle elezioni europee. Ed è ancora
Conte a spiegarlo al suo vice più sbraitante: «Se la Lega aspira a
capitalizzare un consenso politico in un sistema fondato sulla
democrazia parlamentare, come il nostro, non può che passare da elezioni
politiche. Insomma deve assumersi la responsabilità di chiedere nuove
elezioni politiche e poi vincerle. Le Europee hanno una logica e
prospettive diverse …».
Il
che va a confermare una lettura dei fatti politici piuttosto diversa da
quella proposta ossessivamente dal mainstream “democratico” (Repubblica, Corriere, Pd
e Berlusconi uniti nella lotta). Il dato vero, infatti, non è
“l’avanzare della marea nera” – che è un problema da contrastare
seriamente, ma con tutt’altre politiche – ma l’impossibilità di cambiare indirizzo economico-sociale stando dentro il quadro dei trattati europei.
Sia “da sinistra”, con il moderato riformismo dei
post-socialdemocratici “europeisti”, sia da destra, con lo sguaiato
nazionalismo intriso di “furbizie” che reggono a malapena per 24 ore.
Come
Tsipras, anche il governo gialloverde si trova al punto di dover
rinnegare le proprie balzane promesse elettorali oppure passare la mano.
A un “governo tecnico”, preferibilmente.
Chiunque si proponga di dar vita ad un’opposizione di classe, ossia sistemica e geopoliticamente alternativa,
può fare ragionamenti dotati di senso solo a partire dalla presa d’atto
che questa è la situazione di partenza. E che non bastano “propostine
di riforma” per essere credibili agli occhi del nostro “blocco sociale
di riferimento”.
Il “potere politico” – da oltre 20 anni – ha cambiato sede.
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