Mentre cerca di dissimulare la propria fedeltà all’austerità e al rigore fiscale imposti dall’Europa con le chiacchere sui Minibot e qualche fasullo scontro politico con le alte sfere di Bruxelles, il governo gialloverde, a conduzione sempre più leghista, mostra senza remore la propria natura
liberista e reazionaria. Per di più, proprio su quelle sfere della
decisione politica che restano, almeno in parte, fuori dal perimetro
della direzione sovranazionale di matrice europea: le politiche
tributarie (flat tax), le politiche di regolamentazione dei lavori
pubblici (Decreto ‘sblocca cantieri’) e le politiche di sicurezza
(Decreto ‘sicurezza bis’). Ecco il triplice pacchetto pronto per
favorire ricchi e padroni del cemento e per affinare la macchina
repressiva a presidio dell’ordine socio-economico costituito.
Di
questa triade micidiale, approfondiamo il ricorrente tema della tassa
piatta, ormai utilizzato a corrente alterna come strumento di consenso
da parte della Lega, nella sua non nuova posa antistatalista di partito
della protesta fiscale. Eravamo rimasti pochi mesi fa alla flat tax per le partite Iva. Salvini ora rilancia una riforma generale dell’Irpef, che assumerebbe le sembianze di una flat tax per le famiglie.
Quella in discussione costituisce tuttavia una versione ibrida della flat tax: la proposta più recente
si configura come una ristrutturazione del sistema impositivo sulla
base di tre aliquote che non consentono di parlare di vera e propria
flat tax, la quale implica necessariamente un’aliquota unica/piatta. Con
poco spazio fiscale a disposizione, il governo gialloverde ha deciso di
muoversi nel perimetro dell’austerità europea e al riparo da accuse di
incostituzionalità. L’unico ostacolo all’implementazione della versione
originale, quella socialmente più odiosa, pare dunque la genuflessione dei partiti di governo al rigore fiscale.
Niente
aliquota unica, quindi, ma un’ipotesi, sempre più probabile a giudicare
dalle notizie recenti, di un sistema di tre aliquote così calibrato: 15% fino a 50.000€, 20% fino a 100.000€ e 40% oltre i 100.000€. Un sistema che sostituirebbe l’attuale Irpef a cinque aliquote,
calibrate dal 23% al 43%, rimpiazzando l’insieme di detrazioni
esistenti con una deduzione forfettaria di 3.000€ per ogni componente,
applicabile fino alla soglia dei 35.000€ di reddito familiare, che
limiterebbe solo lievemente la perdita complessiva di progressività,
inevitabile con l’introduzione di una aliquota unica sotto i 50.000€.
Nell’ideologia
che sostiene questa proposta di riforma fiscale, uno dei cavalli di
battaglia insiste sul fatto che questa andrebbe a favore del ceto medio,
come se fosse una misura pensata per dare respiro ad una vasta
categoria di soggetti, intesi come grande maggioranza della popolazione,
asfissiata da un eccessivo carico fiscale. In questa proposizione vi è
un elemento di verità e una grande menzogna. La verità è che senza ombra
di dubbio esiste in Italia un ceto medio oberato iniquamente di
imposte. La menzogna è che la flat tax abbia come bersaglio questo
eccessivo fardello fiscale.
Prima
di tutto, occorre chiarire che cosa sia il ceto medio. Si può
approssimativamente definire come quell’insieme di individui o famiglie
il cui reddito e patrimonio si colloca intorno al livello mediano nella
scala sociale. Secondo la definizione dell’economista Lester Thurow,
questo è composto da coloro con un reddito tra il 75% e il 125% del
livello mediano; per altri, che considerano anche individui più ricchi,
l’incerta categoria includerebbe coloro il cui livello di reddito si
colloca tra il 75% e il 200%. Evidentemente un criterio unico non esiste
e il termine è soggetto a interpretazioni molto diversificate.
Non è dunque casuale il ricorso continuo del governo
giallo-verde al termine ‘ceto medio’, volendovi includere in modo
generico quella maggioranza che non si percepisce né ricca né povera. Un
termine che, proprio per la sua elasticità, si adatta facilmente ad
essere piegato per mascherare regali fiscali ai veri ricchi, spacciati
furbescamente come riduzioni generalizzate delle imposte.
È proprio il caso della flat tax proposta dal governo, coadiuvato in questo aspetto da una ‘opposizione’ liberista compiacente e più realista del re.
La proposta rappresenta un arretramento in termini di progressività
rispetto al sistema vigente e pare dunque improbabile che si tratti di
una riforma vantaggiosa per la tanto corteggiata maggioranza della
popolazione, come i suoi sostenitori sbandierano ai quattro venti. In
ogni caso, vale la pena fugare ogni dubbio, numeri alla mano.
Stando
al sistema attuale, un reddito di 15.000€ lordi annui corrisponde a
circa 1.100€ netti al mese, mentre 50.000€ corrispondono a circa 2.900€
netti: non proprio lo stesso reddito! Secondo il regime di imposte vigente,
il primo soggetto paga circa il 14% come aliquota media, mentre il
secondo circa il 30%; con la flat tax, il primo soggetto pagherebbe il
12% (una riduzione di 2 punti percentuali), il secondo il 14%
(un’aliquota media più che dimezzata).
Per
capire fino a che livello della scala di reddito la possibile riforma
garantirebbe vantaggi fiscali, proviamo a osservare il reddito mediano
individuale, che in Italia è stimato intorno a 16.500€ lordi nel 2018.
Anche volendo dare un’interpretazione di ceto medio assai allargata
verso l’alto (dal 75% al 200%), potremmo immaginare che la cosiddetta
classe media italiana sia costituita da quella vasta platea i cui
redditi lordi si collocano tra i 12.500€ e i 33.000€ annui. I dati delle
dichiarazioni Irpef peraltro ci informano che l’80% degli italiani
(dunque la stragrande maggioranza) al 2018 dichiara un reddito inferiore
ai 30.000€ lordi annui.
Prendiamo
allora un soggetto che percepisce proprio 30.000€ lordi annui (circa
1.930€ netti al mese) e che si colloca quindi nel bel mezzo della parte
relativamente più benestante del ceto medio tanto corteggiato dai
politici. Allo stato attuale tale soggetto, senza figli o coniugi a
carico, paga circa il 23% di Irpef come aliquota media. Con la riforma
proposta la sua aliquota scenderebbe a circa il 14%: una riduzione di
quasi 10 punti dell’aliquota media.
Per
fare un altro esempio, un soggetto che attualmente percepisce 25.000€
lordi (circa 1.650€ netti al mese), passerebbe da un attuale aliquota
intorno al 20% ad una del 13%. Anche qui circa 7 punti di sconto al
lordo delle detrazioni specifiche, qui non considerate. Vantaggi molto
meno importanti rispetto a quelli conseguiti da chi guadagna il triplo o
il quintuplo degli importi qui considerati.
Tornando
ai redditi più elevati, un soggetto che percepisce 100.000€ annui, che
equivalgono a circa 5.500 netti al mese, ad oggi paga un’aliquota media
del 36%. Con la riforma annunciata pagherebbe il 17,5%: un’aliquota
media dimezzata!
Risulta
evidente allora come il risparmio fiscale aumenti esponenzialmente al
crescere del reddito. Una simile riforma non va quindi a vantaggio del
ceto medio, ma piuttosto dei percettori di redditi alti o molto alti. Se
la riforma da un lato abbassa, almeno in parte, il carico fiscale su
una vasta platea di contribuenti, questa avvantaggia in modo ben più
marcato i ricchi, senza peraltro sostenere significativamente i redditi
più bassi. Esattamente l’opposto di una misura popolare.
Come
se non bastasse, i vincoli di bilancio – ritenuti inviolabili dal
governo attuale, al netto delle chiacchiere – impongono che una simile
manovra sia necessariamente finanziata tramite tagli di spesa e
l’ennesimo e già annunciato condono. Le voci che si susseguono ad oggi
fanno ipotizzare che per il finanziamento si farà ricorso alle risorse
stanziate e non spese per quota 100 e reddito di cittadinanza, la
cancellazione degli 80 euro di Renzi e tagli alla sanità e alle spese
sociali.
Insomma,
per ridurre le tasse ai ricchi il governo giallo-verde attacca ancora
lo Stato sociale e la spesa pubblica diretta a favore delle classi
svantaggiate. Un Robin Hood al rovescio, un fenomeno che tutti i governi
degli ultimi decenni hanno tristemente riproposto: meno servizi per i
lavoratori per ridurre le imposte dei più ricchi.
Questa
disamina impietosa della flat tax naturalmente non implica che la
pressione fiscale in Italia sia equa ed accettabile. Dopo anni di
stravolgimenti, l’Irpef è ormai un’imposta scarsamente progressiva,
che colpisce in modo esagerato il ceto medio, mentre favorisce
fortemente i redditi alti e altissimi, non individuando ulteriori
scaglioni oltre la soglia dei 75.000€. Un’imposta che equipara, nella
sostanza, un reddito medio-alto ad un reddito milionario e che grava
come un fardello su chi percepisce un reddito ordinario di 1.500/1.800€
netti al mese, prevedendo salti di aliquota marginale clamorosi, come
quello dal 27% al 38% oltre la soglia del reddito non certo elevato di
28.000€ lordi annui.
Ma non è tutto: l’Irpef, come ribadito qui più volte,
ricomprende solo una parte dei redditi distribuiti, escludendo la gran
parte dei redditi da capitale e la totalità dei redditi finanziari e da
rendita immobiliare. Senza considerare l’evasione fiscale o i
giganteschi fenomeni di elusione conseguita tramite la delocalizzazione
delle sedi fiscali in altri paesi. Questi fenomeni sono oggi aspetti
cruciali della battaglia distributiva, fenomeni che si perpetuano nel
silenzio colpevole di tutti i partiti di maggioranza e opposizione.
Il
sistema fiscale italiano, in definitiva, richiederebbe una riforma
radicale, proprio nella direzione opposta a quella perseguita dal
disegno della flat tax. Una riforma popolare che difenda i lavoratori e i
soggetti più poveri dovrebbe prevedere: un innalzamento della no tax
area; un drastico abbassamento delle aliquote su redditi bassi e medi;
una maggiore gradualità e progressività, con un maggior numero di
aliquote; una più ampia forbice di reddito interessata, ben oltre
l’inadeguata soglia dei 75.000€ prevista oggi, per permettere di tassare
in modo pesante i redditi milionari; la ricomprensione nel disegno
della progressività di tutti i redditi, ad oggi volutamente sottratti
all’Irpef tramite una giungla di regimi paralleli che favorisce i veri
milionari e i redditi da capitale.
Un
percorso diametralmente opposto rispetto a quello sancito da anni di
controriforme condivise da tutte le forze politiche, e coronate
dall’odierno progetto di legge leghista appoggiato dai 5stelle.
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