giovedì 14 marzo 2019

Via della Seta benedetta da Mattarella. Qui il “Memorandum

La data è certa, la firma forse. Il 22 marzo il presidente cinese Xi Jinping sarà in Italia, accompagnato da manager di almeno 70 colossi industriali del suo paese, e non certo per fare turismo.
C’è da apporre la firma sotto il Memorandum of Understanding – ovvero l’accordo-quadro, la “cornice di obbiettivi” – attraverso cui l’Italia comincia a discutere le modalità della sua partecipazione alla nuova Via della Seta, ossia alla Belt and Road Initiative (BRI). Ossia alla più gigantesca infrastrutturazione planetaria che sia mai stata anche solo immaginata per connettere – via terra, porti, aeroporti, ferrovia – Asia, Medio Oriente ed Europa. Ma in larga misura anche l’Africa.
Ai tempi della “globalizzazione” imperante questa iniziativa sarebbe stata salutata come la dimostrazione delle “magnifiche sorti e progressive” del capitalismo. Oggi è apertamente osteggiata da Stati Uniti ed Unione Europea. Per ragioni e con modalità molto diverse, come si conviene al tempo della competizione globale.
Del Memorandum si favoleggia molto e quindi ci sembra opportuno metterlo a disposizione dei nostri lettori, anche se probabilmente la versione finale sarà nel frattempo “limata” dal lavoro degli sherpa di entrambe le delegazioni. La troverete alla fine di questo articolo.
Gli Stati Uniti vi vedono un pericolo mortale al loro predominio in tutte queste aree, specialmente in Europa, dove da qualche tempo – e certamente a far data dall’elezione di Donald Trump – sono al lavoro per rianimare la mummia del “partito americano”, che dovrebbe nelle loro intenzioni indebolire il processo di unificazione europea sotto l’egemonia tedesca e contemporaneamente costruire un argine anticinese, oltre ad una “proiezione di potenza” verso la Russia (Ucraina, Polonia e paesi baltici sono l’avamposto di questa strategia).
Sanno meglio di tutti che più stretti rapporti economici e commerciali favoriscono od obbligano a stringere anche migliori rapporti geostrategici, perché creano legami, dipendenze più o meno reciproche, interessi comuni che poi diventa complicato separare.
Lo spiega bene, come sempre senza mezzi termini, l’ex capo stazione della Cia in Italia, Edward Luttwack: “L’accordo coi cinesi sulla Nuova Via della Seta è un atto dimostrativo e simbolico. Il memorandum è opaco e proprio per questo ancora più significativo dal punto di vista strategico. L’Italia pagherebbe un alto costo sia politico sia diplomatico. Con gli Stati Uniti ma non solo. Non è che fai arrabbiare solo Donald Trump in questa situazione ma tutta la coalizione marittima che vede tra le sue fila Stati Uniti, Regno Unito, India e Giappone. La scelta di stare con la Cina dimostrerebbe che l’Italia si rivela essere ancora una volta provinciale e fuori dai giochi”. Una minaccia pura e semplice, senza zuccherini di contorno.
Più complessa, ma altrettanto “competitiva”, è l’ostilità dell’Unione Europa (che mai come in questo caso appare ben diversa dall’”Europa”). Qui le preoccupazioni sono tutte di tipo nazionalistico. Persino un “europeista senza se e senza ma” come Romano Prodi si sente costretto a ricordare che “la Nuova Via della Seta ha suscitato l’interesse di tutti i Paesi europei tanto che, Germania e Polonia in testa, si sono affrettati a concludere accordi per nuovi collegamenti ferroviari”.
Insomma, il nervosismo “europeo” è figlio del timore tedesco-polacco e francese di avere un competitore in più, geograficamente avvantaggiato dal fatto di essere un ponte naturale tra il Nordafrica e il Vecchio Continente.
E’ del resto un mistero solo per l’opinione pubblica italiana – intrattenuta in genere dai media principali su vicende di gossip politico di quart’ordine – che Egitto, Algeria, Marocco, Turchia, Grecia sono ormai teatro di investimenti colossali da parte di Pechino come parte del progetto BRI, tanto da delineare un modello di sviluppo e riproduzione per quei paesi davvero diverso da quello fin qui mantenuto.
E persino Israele si mostra molto interessato e disponibilissimo a fare da hub per una serie di commerci.
Davanti a processi di queste dimensioni, nessun governo (neanche uno sovietico) potrebbe restare estraneo o indifferente, per il buon motivo che l’”autarchia” è fisicamente impossibile (oltre storicamente una cazzata) e dunque bisogna inserirsi – in modo intelligente, accorto, guardingo quanto volete – in un sistema di scambi tale da garantire l’ingresso di beni e risorse qui indisponibili e l’uscita di quanto di meglio si sa produrre qui. Poi, con quale “modo di produzione” interno questo viene fatto, con quali obbiettivi di redistribuzione e giustizia sociale, è un affare che riguarda “noi”.
Si può considerare “velleitaria” la decisione del governo gialloverde di arrivare a un accordo (peraltro avviato già ai tempi del governo Gentiloni!), che schiaccia i calli di “alleati-padroni” sicuramente potenti e nervosi. Senza neanche aver ben chiaro il ventaglio delle “rappresaglie” che questi potrebbero mettere in moto e comunque senza una chiara strategia di “autonomizzazione” nelle relazioni commerciali.
Ma d’altro canto neanche un governo scombiccherato come questo può restare con le mani in mano – sul fronte economico – mentre da un lato l’austerity europeista ti svuota il patrimonio produttivo e le esigenze geopolitiche Usa ti vietano di fare affari con chi a loro non piace (ma con cui comunque commerciano alla grandissima). Se non altro per preoccupazioni elettorali qualcosa dovevano inventarsi, magari copiando dal Pd…
Il “partito americano” presente trasversalmente in tutte le formazioni parlamentari si è messo subito in moto. Matteo Salvini – spalleggiato da Corriere e Repubblicaaffronta la questione quasi come un oppositore, mentre a condurre le trattative con i cinesi è Michele Geraci, il sottosegretario al Ministero dello Sviluppo Economico… indicato dalla Lega!
Il che costringe a guardare, più che a questi fantocci politici, a come il mondo imprenditoriale italiano sta posizionandosi rispetto alla Via della Seta.
Scopriamo che un vecchissimo nemico di classe come Cesare Romiti è letteralmente entusiasta, con argomenti strettamente di business: Firmare l’accordo con la Cina? L’Italia non fa bene, fa benissimo. Innanzitutto la partecipazione all’iniziativa della Belt and Road e poi la possibilità di aumentare le esportazioni in un mercato di consumo immenso come quello cinese“.
Proprio come Giuliano Noci,ingegnere e prorettore del del Polo territoriale cinese del Politecnico di Milano, nonché uno dei massimi esperti di Cina in Italia: “L’Italia fa bene a firmare il memorandum of understanding della Belt and Road, a patto che ottenga delle contropartite reali. Penso alle operazioni di business che possono essere fatte congiuntamente nei paesi eurasiatici e in Africa. Farebbe male invece a firmare lo stesso identico memorandum firmato dagli altri paesi che hanno aderito alla Belt and Road.
Anche perché: “Da tempo Francia e Germania, pur non aderendo alla Belt and Road, stanno facendo operazioni sottobanco con la Cina. Ognuno segue la propria linea provando a non scoprirsi. In questo caso l’Italia può invece portare a termine alla luce del sole un’operazione avviata da Paolo Gentiloni. Fino adesso tedeschi e francesi hanno operato in Cina senza chiedere il permesso a nessuno, non vedo perché gli Stati Uniti dovrebbero prendersela con l’Italia”.
Alberto Bombassei, uno dei pochi produttori davvero leader globali, sebbene in un settore “minore” (la sua azienda, Brembo, fabbrica i migliori impianti frenanti del mondo), non fa mistero di apprezzare al massimo l’iniziativa cinese: Le esigenze di sicurezza degli Usa vanno tenute in considerazione, ma non si capisce come la Belt and Road Initiative, nella versione che conosciamo, possa creare effettivo pericolo per la sicurezza italiana ed europea”.
Esigenze di sicurezza fortemente concentrate soprattutto su Huawei, che sta testando anche in Italia il 5G, ovvero il wifi di nuova generazione. Ma per cui non esiste alternativa: non c’è alcuna società europea in grado di sviluppare il 5G. O ci si accorda con un’azienda cinese oppure con una statunitense. E non è che gli Usa godano prprio di buona fama, in termini di invadenza tecnologica sui loro alleati persino il telefono di Angela Merkel era sotto controllo della Nsa…).
Più “mediatorio”, come si conviene, il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia: “è un’opportunità se puntiamo su un industria forte che va anche a vendere in Cina e non trasformiamo l’Europa in un continente di consumatori che comprano solo prodotti cinesi. Servono degli accorgimenti, per esempio il porto di Trieste è un asset strategico del paese e non può essere parte di una società dove ci sono dentro altri Paesi”.
Tremano e temono, invece, i rappresentanti di un mondo imprenditoriale più fragile e frammentato (Confcommercio e Conftrasporto), che arrivano a invocare la protezione della “sovranità nazionale” (“Siamo già molto preoccupati per le intese sottoscritte da importanti imprese italiane con industrie cinesi che rischiano di farci perdere know how e competitività. Se poi dovessimo aggiungere la perdita della piena sovranità nazionale sulle infrastrutture strategiche portuali e ferroviarie, rischieremmo di pregiudicare quell’economia del mare che è fondamentale per il nostro Paese”). Qualcuno li avverta che questo paese non ha più da tempo una politica internazionale, non batte più moneta, ha forze armate sotto comando Usa-Nato, si vede scrivere la legge più importante – quella di bilancio – dalla Commissione Europea… Insomma, la “sovranità” non abita più qui da un pezzo…
E’ il quadro, seppure sintetico, di un mondo imprenditoriale pavido, diviso tra la voglia di tuffarsi in un affare gigantesco – specie in confronto delle loro dimensioni da nani – e la paura di perdere i “protettori” storici, con cui hanno contratti in essere.
In breve: una classe dirigente senza una minima idea progettuale di futuro per questo paese, in balia degli eventi e soprattutto degli interessi altrui. Le divisioni nel sottobosco del “mondo politico” le riflettono quasi senza mediazione.
Ci sono le aspettative del Nordest per ora leghista sulla possibilità di fare di Trieste il principale porto a disposizione dei cinesi verso il Nord Europa. E quelle del Nordovest (leghista e “democratico”) che invece sponsorizza Genova come alternativa.
Entrambi, comunque, ben saldi nel pretendere che si svuoti al più presto il princiaple porto cinese in Italia: quello di Napoli.
Dove vogliamo andare, con scapocchioni siffatti…
P.s. Nella serata di ieri, dopo il rituale incontro tra il presidente del Consiglio e quello della Repubblica (presenti anche i vice, Di Maio e Salvini), prima di ogni vertice europeo, dal Quirinale è arrivato un sostanziale via libera. Il documento su cui si sta lavorando “è molto meno pregnante di tanti altri siglati bilateralmente da altri Paesi Ue”. E molte delle regole lì contenute sono molto più severe e stringenti di quanto previsto dall’Unione europea. Naturalmente non sarà mai Mattarella a mettere in discussione il rapporto con gli Usa, ma proprio il Quirinale fa notare che la tecnologia 5G non riguarda il memorandum.
Tra l’altro, le indiscrezioni sugli accordi “pratici” che stanno maturando parlano di 50 accordi in fase di negoziazione in queste ore fra Italia e Cina. Sarebbero in fase di scrittura e in attesa di una via libera dal governo; 29 di questi riguardano enti pubblici e ministeri italiani e le controparti cinesi e coinvolgono quasi tutti i possibili campi di collaborazione. Come riferisce il Corriere, “in fase di contrattazioni ci sono al momento 21 intese, che coinvolgono la Cdp, la Snam, Sace, Enel, Terna, Fincantieri, i due maggiori gruppi bancari italiani, Unicredit e Intesa Sanpaolo, Danieli, l’Eni che dovrebbe siglare con Bank of China un accordo di cooperazione finanziaria per attività esplorative sul territorio cinese, Italgas, le autorità portuali di Genova e Trieste, le Fs, che si candidano a trasportare le merci che escono dal Pireo sino al cuore dell’Europa”.
E al cuore di Mattarella dovrebbe aver parlato anche della Bluetec (ex Fiat) di Termini Imerese, i cui vertici sono stati arrestati due giorni fa per distrazione dei fondi destinati alla riconversione della produzione. Lo stabilimento della cittadina siciliana, da tre anni in mano al gruppo Metec di Roberto Ginatta, “è l’oggetto di una bozza di protocollo d’intesa (memorandum of understanding, o MoU ) già firmato dai vertici della società Jiayuan, produttrice di auto”. Il documento “prevede di negoziare il passaggio dell’uso della fabbrica ai cinesi, che avrebbero prodotto 50 mila auto elettriche in tre anni destinate al mercato europeo, nonché un investimento da 50 milioni di euro congiunto di Blutec e Jiayuan o di altri investitori che sarebbero stati coinvolti nel rilancio dello stabilimento. La parte cinese aveva anche preparato tutto per riuscire a sottoscrivere il documento durante la visita di Stato del presidente cinese Xi Jinping a Roma il prossimo 21-22 marzo. Ora anche questa partita è in mano all’amministratore giudiziario”.
In più, la Cina è pronta per investire 5 miliardi nel porto di Palermo.
Nella contesa furibonda tra il “partito americano” e il “partito europeo” (o tedesco), stavolta pare che l’abbia spuntata il partito del… Vaticano e della Sicilia.

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