La
data è certa, la firma forse. Il 22 marzo il presidente cinese Xi
Jinping sarà in Italia, accompagnato da manager di almeno 70 colossi
industriali del suo paese, e non certo per fare turismo.
C’è
da apporre la firma sotto il Memorandum of Understanding – ovvero
l’accordo-quadro, la “cornice di obbiettivi” – attraverso cui l’Italia
comincia a discutere le modalità della sua partecipazione alla nuova Via
della Seta, ossia alla Belt and Road Initiative (BRI). Ossia alla più
gigantesca infrastrutturazione planetaria che sia mai stata anche solo
immaginata per connettere – via terra, porti, aeroporti, ferrovia –
Asia, Medio Oriente ed Europa. Ma in larga misura anche l’Africa.
Ai
tempi della “globalizzazione” imperante questa iniziativa sarebbe stata
salutata come la dimostrazione delle “magnifiche sorti e progressive”
del capitalismo. Oggi è apertamente osteggiata da Stati Uniti ed Unione
Europea. Per ragioni e con modalità molto diverse, come si conviene al
tempo della competizione globale.
Del
Memorandum si favoleggia molto e quindi ci sembra opportuno metterlo a
disposizione dei nostri lettori, anche se probabilmente la versione
finale sarà nel frattempo “limata” dal lavoro degli sherpa di entrambe
le delegazioni. La troverete alla fine di questo articolo.
Gli
Stati Uniti vi vedono un pericolo mortale al loro predominio in tutte
queste aree, specialmente in Europa, dove da qualche tempo – e
certamente a far data dall’elezione di Donald Trump – sono al lavoro per
rianimare la mummia del “partito americano”, che dovrebbe nelle loro
intenzioni indebolire il processo di unificazione europea sotto
l’egemonia tedesca e contemporaneamente costruire un argine anticinese,
oltre ad una “proiezione di potenza” verso la Russia (Ucraina, Polonia e
paesi baltici sono l’avamposto di questa strategia).
Sanno
meglio di tutti che più stretti rapporti economici e commerciali
favoriscono od obbligano a stringere anche migliori rapporti
geostrategici, perché creano legami, dipendenze più o meno reciproche,
interessi comuni che poi diventa complicato separare.
Lo spiega bene, come sempre senza mezzi termini, l’ex capo stazione della Cia in Italia, Edward Luttwack: “L’accordo
coi cinesi sulla Nuova Via della Seta è un atto dimostrativo e
simbolico. Il memorandum è opaco e proprio per questo ancora più
significativo dal punto di vista strategico. L’Italia pagherebbe un alto
costo sia politico sia diplomatico. Con gli Stati Uniti ma non solo.
Non è che fai arrabbiare solo Donald Trump in questa situazione ma tutta
la coalizione marittima che vede tra le sue fila Stati Uniti, Regno
Unito, India e Giappone. La scelta di stare con la Cina dimostrerebbe
che l’Italia si rivela essere ancora una volta provinciale e fuori dai
giochi”. Una minaccia pura e semplice, senza zuccherini di contorno.
Più
complessa, ma altrettanto “competitiva”, è l’ostilità dell’Unione
Europa (che mai come in questo caso appare ben diversa dall’”Europa”).
Qui le preoccupazioni sono tutte di tipo nazionalistico. Persino un
“europeista senza se e senza ma” come Romano Prodi si sente costretto a
ricordare che “la Nuova Via della Seta ha suscitato l’interesse di
tutti i Paesi europei tanto che, Germania e Polonia in testa, si sono
affrettati a concludere accordi per nuovi collegamenti ferroviari”.
Insomma,
il nervosismo “europeo” è figlio del timore tedesco-polacco e francese
di avere un competitore in più, geograficamente avvantaggiato dal fatto
di essere un ponte naturale tra il Nordafrica e il Vecchio Continente.
E’
del resto un mistero solo per l’opinione pubblica italiana –
intrattenuta in genere dai media principali su vicende di gossip
politico di quart’ordine – che Egitto, Algeria,
Marocco, Turchia, Grecia sono ormai teatro di investimenti colossali da
parte di Pechino come parte del progetto BRI, tanto da delineare un
modello di sviluppo e riproduzione per quei paesi davvero diverso da
quello fin qui mantenuto.
E persino Israele si mostra molto interessato e disponibilissimo a fare da hub per una serie di commerci.
Davanti
a processi di queste dimensioni, nessun governo (neanche uno sovietico)
potrebbe restare estraneo o indifferente, per il buon motivo che
l’”autarchia” è fisicamente impossibile (oltre storicamente una cazzata)
e dunque bisogna inserirsi – in modo intelligente, accorto, guardingo
quanto volete – in un sistema di scambi tale da garantire l’ingresso di
beni e risorse qui indisponibili e l’uscita di quanto di meglio si sa
produrre qui. Poi, con quale “modo di produzione” interno questo viene
fatto, con quali obbiettivi di redistribuzione e giustizia sociale, è un
affare che riguarda “noi”.
Si
può considerare “velleitaria” la decisione del governo gialloverde di
arrivare a un accordo (peraltro avviato già ai tempi del governo
Gentiloni!), che schiaccia i calli di “alleati-padroni” sicuramente
potenti e nervosi. Senza neanche aver ben chiaro il ventaglio delle
“rappresaglie” che questi potrebbero mettere in moto e comunque senza
una chiara strategia di “autonomizzazione” nelle relazioni commerciali.
Ma
d’altro canto neanche un governo scombiccherato come questo può restare
con le mani in mano – sul fronte economico – mentre da un lato
l’austerity europeista ti svuota il patrimonio produttivo e le esigenze
geopolitiche Usa ti vietano di fare affari con chi a loro non piace (ma
con cui comunque commerciano alla grandissima). Se non altro per
preoccupazioni elettorali qualcosa dovevano inventarsi, magari copiando
dal Pd…
Il
“partito americano” presente trasversalmente in tutte le formazioni
parlamentari si è messo subito in moto. Matteo Salvini – spalleggiato da
Corriere e Repubblica – affronta
la questione quasi come un oppositore, mentre a condurre le trattative
con i cinesi è Michele Geraci, il sottosegretario al Ministero dello
Sviluppo Economico… indicato dalla Lega!
Il
che costringe a guardare, più che a questi fantocci politici, a come il
mondo imprenditoriale italiano sta posizionandosi rispetto alla Via
della Seta.
Scopriamo
che un vecchissimo nemico di classe come Cesare Romiti è letteralmente
entusiasta, con argomenti strettamente di business: “Firmare l’accordo con la Cina? L’Italia non fa bene, fa benissimo. Innanzitutto la partecipazione all’iniziativa della Belt and Road e poi la possibilità di aumentare le esportazioni in un mercato di consumo immenso come quello cinese“.
Proprio come Giuliano Noci,ingegnere e prorettore del del Polo territoriale cinese del Politecnico di Milano, nonché uno dei massimi esperti di Cina in Italia: “L’Italia
fa bene a firmare il memorandum of understanding della Belt and Road, a
patto che ottenga delle contropartite reali. Penso alle operazioni di
business che possono essere fatte congiuntamente nei paesi eurasiatici e
in Africa. Farebbe male invece a firmare lo stesso identico memorandum
firmato dagli altri paesi che hanno aderito alla Belt and Road.”
Anche perché: “Da
tempo Francia e Germania, pur non aderendo alla Belt and Road, stanno
facendo operazioni sottobanco con la Cina. Ognuno segue la propria linea
provando a non scoprirsi. In questo caso l’Italia può invece portare a
termine alla luce del sole un’operazione avviata da Paolo Gentiloni.
Fino adesso tedeschi e francesi hanno operato in Cina senza chiedere il
permesso a nessuno, non vedo perché gli Stati Uniti dovrebbero
prendersela con l’Italia”.
Alberto
Bombassei, uno dei pochi produttori davvero leader globali, sebbene in
un settore “minore” (la sua azienda, Brembo, fabbrica i migliori
impianti frenanti del mondo), non fa mistero di apprezzare al massimo
l’iniziativa cinese: “Le
esigenze di sicurezza degli Usa vanno tenute in considerazione, ma non
si capisce come la Belt and Road Initiative, nella versione che
conosciamo, possa creare effettivo pericolo per la sicurezza italiana ed
europea”.
Esigenze
di sicurezza fortemente concentrate soprattutto su Huawei, che sta
testando anche in Italia il 5G, ovvero il wifi di nuova generazione. Ma
per cui non esiste alternativa: non c’è alcuna società europea in grado
di sviluppare il 5G. O ci si accorda con un’azienda cinese oppure con
una statunitense. E non è che gli Usa godano prprio di buona fama, in
termini di invadenza tecnologica sui loro alleati persino il telefono di
Angela Merkel era sotto controllo della Nsa…).
Più “mediatorio”, come si conviene, il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia:
“è un’opportunità se puntiamo su un industria forte che va anche a
vendere in Cina e non trasformiamo l’Europa in un continente di
consumatori che comprano solo prodotti cinesi. Servono degli
accorgimenti, per esempio il porto di Trieste è un asset strategico del
paese e non può essere parte di una società dove ci sono dentro altri
Paesi”.
Tremano
e temono, invece, i rappresentanti di un mondo imprenditoriale più
fragile e frammentato (Confcommercio e Conftrasporto), che arrivano a
invocare la protezione della “sovranità nazionale” (“Siamo già molto
preoccupati per le intese sottoscritte da importanti imprese italiane
con industrie cinesi che rischiano di farci perdere know how e
competitività. Se poi dovessimo aggiungere la perdita della piena
sovranità nazionale sulle infrastrutture strategiche portuali e
ferroviarie, rischieremmo di pregiudicare quell’economia del mare che è
fondamentale per il nostro Paese”). Qualcuno li avverta che questo
paese non ha più da tempo una politica internazionale, non batte più
moneta, ha forze armate sotto comando Usa-Nato, si vede scrivere la
legge più importante – quella di bilancio – dalla Commissione Europea…
Insomma, la “sovranità” non abita più qui da un pezzo…
E’
il quadro, seppure sintetico, di un mondo imprenditoriale pavido,
diviso tra la voglia di tuffarsi in un affare gigantesco – specie in
confronto delle loro dimensioni da nani – e la paura di perdere i
“protettori” storici, con cui hanno contratti in essere.
In
breve: una classe dirigente senza una minima idea progettuale di futuro
per questo paese, in balia degli eventi e soprattutto degli interessi
altrui. Le divisioni nel sottobosco del “mondo politico” le riflettono
quasi senza mediazione.
Ci
sono le aspettative del Nordest per ora leghista sulla possibilità di
fare di Trieste il principale porto a disposizione dei cinesi verso il
Nord Europa. E quelle del Nordovest (leghista e “democratico”) che
invece sponsorizza Genova come alternativa.
Entrambi, comunque, ben saldi nel pretendere che si svuoti al più presto il princiaple porto cinese in Italia: quello di Napoli.
Dove vogliamo andare, con scapocchioni siffatti…
P.s.
Nella serata di ieri, dopo il rituale incontro tra il presidente del
Consiglio e quello della Repubblica (presenti anche i vice, Di Maio e
Salvini), prima di ogni vertice europeo, dal Quirinale è arrivato un
sostanziale via libera. Il documento su cui si sta lavorando “è molto
meno pregnante di tanti altri siglati bilateralmente da altri Paesi Ue”.
E molte delle regole lì contenute sono molto più severe e stringenti di
quanto previsto dall’Unione europea. Naturalmente non sarà mai
Mattarella a mettere in discussione il rapporto con gli Usa, ma proprio
il Quirinale fa notare che la tecnologia 5G non riguarda il memorandum.
Tra l’altro, le indiscrezioni sugli accordi “pratici” che stanno maturando parlano di 50 accordi in fase di negoziazione in queste ore fra Italia e Cina.
Sarebbero in fase di scrittura e in attesa di una via libera dal
governo; 29 di questi riguardano enti pubblici e ministeri italiani e le
controparti cinesi e coinvolgono quasi tutti i possibili campi di
collaborazione. Come riferisce il Corriere, “in fase di
contrattazioni ci sono al momento 21 intese, che coinvolgono la Cdp, la
Snam, Sace, Enel, Terna, Fincantieri, i due maggiori gruppi bancari
italiani, Unicredit e Intesa Sanpaolo, Danieli, l’Eni che dovrebbe
siglare con Bank of China un accordo di cooperazione finanziaria per
attività esplorative sul territorio cinese, Italgas, le autorità
portuali di Genova e Trieste, le Fs, che si candidano a trasportare le
merci che escono dal Pireo sino al cuore dell’Europa”.
E
al cuore di Mattarella dovrebbe aver parlato anche della Bluetec (ex
Fiat) di Termini Imerese, i cui vertici sono stati arrestati due giorni
fa per distrazione dei fondi destinati alla riconversione della
produzione. Lo stabilimento della cittadina siciliana, da tre anni in
mano al gruppo Metec di Roberto Ginatta, “è l’oggetto di una bozza di
protocollo d’intesa (memorandum of understanding, o MoU ) già firmato
dai vertici della società Jiayuan, produttrice di auto”. Il documento
“prevede di negoziare il passaggio dell’uso della fabbrica ai cinesi,
che avrebbero prodotto 50 mila auto elettriche in tre anni destinate al
mercato europeo, nonché un investimento da 50 milioni di euro congiunto
di Blutec e Jiayuan o di altri investitori che sarebbero stati coinvolti
nel rilancio dello stabilimento. La parte cinese aveva anche preparato
tutto per riuscire a sottoscrivere il documento durante la visita di
Stato del presidente cinese Xi Jinping a Roma il prossimo 21-22 marzo.
Ora anche questa partita è in mano all’amministratore giudiziario”.
In più, la Cina è pronta per investire 5 miliardi nel porto di Palermo.
Nella
contesa furibonda tra il “partito americano” e il “partito europeo” (o
tedesco), stavolta pare che l’abbia spuntata il partito del… Vaticano e
della Sicilia.
…
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