venerdì 29 marzo 2019

La Procura di Torino contro i combattenti in Rojava

Uno Stato reazionario si vede da certe cose.
Sono passati pochi giorni dalla morte in combattimento di Lorenzo “Tekoser” Orsetti in Siria, insieme alle forze curde che stanno finendo di distruggere l’Isis. E per una volta anche le voci dell’establishment avevano in qualche misura condiviso il dolore della famiglia, se non quello dei tanti compagni che l’avevano conosciuto.
Ma si vede che la Procura di Torino non ha gradito troppo questo rispetto, pur fermandosi un attimo per non apparire “eccessiva”. Lunedì si è tenuta l’udienza con cui l’accusa – rappresentata dalla pm Manuela Pedrotta – ha chiesto la “sorveglianza speciale” per cinque compagni che avevano preceduto “Orso” nell’esperienza con le Ypg.
La requisitoria del pm ha avuto momenti di pura ideologia reazionaria: «Non credo che siano andati in Siria per salvare la nostra società da una minaccia terroristica. Uno di loro ha scritto che “dopo l’Isis il nemico numero uno è la società capitalista”. Loro vogliono continuare la lotta in Italia».
La presunta conferma della loro pericolosità starebbe, sempre a parere del magistrato, nella frequentazione che alcuni di loro hanno avuto con il movimento No Tav. «(I cinque) si sono resi responsabili di condotte violente contro le forze dell’ordine in occasione di manifestazioni contro il Tav, le politiche contro l’immigrazione, gli avversari politici all’università».
Quindi, seguendo un sillogismo non formalmente esplicitato (e giuridicamente assurdo), i cinque sarebbero “pericolosi” perché sarebbero andati a combattere in Rojava soltanto per imparare come si fa e poter “fare la rivoluzione” in Italia.
Non staremo qui a ricordare a un pm che “l’addestramento militare” – quella fase in cui si imparano a maneggiare le armi e a muoversi secondo le regole della guerra – si fa in condizioni di sicurezza, praticamente senza rischi, così come avviene per gli allenamenti pre-gara sportiva. Mentre il combattere contro un nemico che ti spara comporta il forte rischio di rimanere uccisi.
Dunque, è manifestamente infondata – e proprio sul piano militare – l’idea che si vada a combattere sul serio solo per “imparare” come si fa e riproporlo altrove… Forse se gli stessi pm si occupassero dei fascisti italiani che vanno a fare addestramento in Ucraina andrebbero un po’ più vicini a un reato come quello che vanno ipotizzando.
I compagni Paolo Andolina, Jacopo Bindi, Davide Grasso, Fabrizio Maniero e Maria Edgarda Marcucci, invece, hanno corso i loro rischi e sono fortunatamente tornati nel proprio paese, mantenendo ovviamente le proprie opinioni politiche, al contrario di quanto avvenuto per “Orso” e Giovanni Francesco Asperti (“Hiwa Bosco”).
La sentenza ci sarà tra 90 giorni, tempo che al tribunale deve esser sembrato sufficiente a far cadere il definiticìvo silenzio mediatico sulla vicenda di “Orso” e quindi rendere meno “antipatica” la misura richiesta dalla Procura.
Sta di fatto, però, che così facendo la Procura torinese sintetizza una posizione precisa dello Stato italiano a proposito dei combattenti per l’autodeterminazione e la libertà dei popoli: sarete considerati brava gente solo se tornerete morti.

giovedì 28 marzo 2019

Recessione europea, anche “gli dei” ora balbettano

Due notizie in una botta sola. Ma entrambe segnalano crisi nera per l’economia, sia italiana che europea. Ma se così è, la causa va cercata nel modello continentale, più che nelle storture di questo paese (che aggravano una situazione, naturalmente, ma non ne sono all’origine).
Proviamo a sintetizzare, nei limiti del possibile.
Il Centro Studi di Confindustria azzera le previsioni crescita per l’anno in corso, portandole da un già misero 0,9% al nulla assoluto. La lista delle concause è come sempre lunga e orientata secondo gli schemini asfittici del solito neoliberismo accecato: si va da “una manovra di bilancio poco orientata alla crescita” all’”aumento del premio di rischio che gli investitori chiedono” sui titoli pubblici italiani, dal “progressivo crollo della fiducia delle imprese” rilevato “da marzo, dalle elezioni in poi” fino al calo degli investimenti privati (-2,5%, escluse le costruzioni) dopo 4 anni di modesta risalita. 
Un economista normale – ossia uno che guarda all’economia reale invece che alla finanza speculativa – partirebbe da quest’ultimo punto: se si investe di meno, come pretendi che si possa avere una crescita?
Oltretutto è universalmente noto che gli investimenti pubblici sono o vietati dalle norme dell’Unione Europea, oppure drasticamente tagliati per ridurre il deficit o il debito dello Stato. Mentre, infine, i capitali che lasciano l’Italia (capitali “itagliani”, sia chiaro) sono molto più sostanziosi di quelli esteri in entrata.
Ma al Csc di Confindustria non può scappare neppure uno sbaglio una critica verso il committente (le imprese italiane) o il modello teorico neoliberista.
Dunque le “indicazioni” che ne vengono sono sempre le solite. Ovvero risanare i conti pubblici (tagliando ancora, quindi aggravando le tendenze recessive) e non sforare il rapporto deficit/Pil.
Il Csc sottolinea che ci troviamo al “bivio” tra “rincaro Iva” o “far salire il deficit pubblico al 3,5%”. Per annullare il primo e fare la correzione richiesta sui conti “servirebbero 32 miliardi di euro senza risorse per la crescita”. Così appare “inevitabile un aumento delle tasse”.
“L’Italia – dice ancora il capo economista di Confindustria, Andrea Montanino – deve evitare di andare oltre il 3% nel rapporto deficit-Pil: sarebbe un segnale molto negativo per i mercati. Il fatto che lo spread non si è richiuso significa che continuiamo ad essere un paese sotto osservazione. Verremmo puniti dai mercati”.
Messa così non c’è speranza. Anche perché si invita alla “prudenza” nel firmare contratti con la Cina (tra i pochissimi investitori globali, in questa fase): “il 60% degli scambi europei con la Cina avviene via mare”, ma “le tensioni strategiche sino-americane, anche in caso di accordo bilaterale, si riverseranno in territorio europeo”. Per concluderne che “Una maggiore cooperazione con la Cina è necessaria ma senza rotture con il principale alleato atlantico e soprattutto costruendo una posizione negoziale forte”.
Uno stallo mentale e progettuale che inchioda l’economia del paese in una situazione critica e dipendente da scelte altrui. Che sono parimenti fallimentari.
La conferma arriva inaspettatamente da Mario Draghi, ancora per qualche mese al vertice della Bce. “Lo scorso anno ha fatto segnare una perdita di velocità delle dinamiche di crescita dell’area euro, dinamica che si è estesa al 2019. Ciò è stato dovuto principalmente alla pervasiva incertezza nell’economia globale che si è riversata sull’andamento della domanda esterna. Anche se la domanda interna ha retto e i fattori alla base dell’espansione non sono stati compromessi permangono rischi al ribasso per l’economia».
In pratica un confessione: il modello economico europeo, incentrato sulle esportazioni (come da diktat tedesco), è impantanato perché totalmente dipendente da dinamiche che non può controllare. La sostanziale rinuncia pluriventennale al consolidamento del mercato interno – fatto di spesa per consumi (e quindi salari adeguati e crescenti), welfare (salario differito o indiretto), investimenti pubblici per qualcosa di più “redistributivo” rispetto alle “grandi opere”, ecc – ha eliminato l’unico fattore che può compensare l’inevitabile caduta della domanda estera.
Ma di questo modello Draghi è stato uno dei principali sostenitori, se riandiamo a leggere la famosa “lettera” inviata al governo italiano dell’agosto del 2011 e che si tradusse, di lì a poco, nella svolta durissima del governo Monti-Fornero. Eppure da Francoforte non esce neppure un accenno di autocritica…
Anzi, a ben guardare si vede la disperazione di un presidente di banca centrale che deve smentirsi a poche settimane dalla decisione di metter fine ai quantitative easing, presa nella convinzione che si stessero ricreando le condizioni di una crescita economica “normale”. Ossia non drogata da una politica di tassi di interesse a zero e da “iniezioni di liquidità” permanenti.
«Un sostanziale accomodamento monetario è ancora necessario per assicurare il percorso di convergenza dell’inflazione verso l’obiettivo di lungo termine e questo è riflesso dalle nostre ultime decisioni di politica monetaria». Neanche una parola sul fatto che alcuni anni di “accomodamento monetario” non abbiano modificato in nulla la situazione; o meglio, hanno evitato il crollo finanziario, ma non hanno rimesso in moto l’economia reale.
In altri termini: che questa strategia non funziona affatto. Eppure viene ripresa…
Siamo, dal punto di vista della credibilità, alla caduta degli dei. Sembrano lontani secoli i tempi in cui “i mercati” reagivano immediatamente ad ogni parola o battito di ciglia dei governatori della banche centrali più importanti. Oggi parlano ancora, e a lungo, ma nessun operatore economico li prende più a riferimento per le scelte da fare.

mercoledì 27 marzo 2019

Di fronte agli affari con la Cina la Ue scopre di non essere “unione

Stanno saltando molte “narrazioni” intorno alla “comunità europea”. Tante delle formule retoriche stese a protezione del reale contenuto dei trattati, delle “regole” e delle direttive di Bruxelles (o della Bce) vanno svaporando di fronte al venire alla luce degli interessi sottostanti.
La Francia di Macron ha firmato insieme al presidente Xi Jinping l’ordine di acquisto di oltre 300 aerei Airbus (una joint venture industriale franco-tedesca, da cui l’Italia è rimasta fuori, all’epoca della fondazione, per compiacere l’alleato americano). L’ordinativo, siglato formalmente dalla holding dell’aviazione cinese Casc, è molto più cospicuo del previsto. Complice la crisi di immagine dei Boeing 737Max (ne sono precipitati due, nuovi di fabbrica, con centinaia di morti) il quantitativo è passato dai 184 aerei, inizialmente annunciati nel gennaio 2018, a 290 Airbus A320 e 10 A350.
Un assegno da quasi 30 miliardi di euro, accompagnato da accordi per altri 10 miliardi, ha fatto passare la Cina – nelle definizioni ufficiali di Macron – da “rivale sistemico” a “partner strategico”.
Per salvare la faccia, il piccolo banchiere francese ha avuto l’impudenza di presentarsi come interprete delle “preoccupazioni europee per i diritti fondamentali in Cina”. Lui, che a forza di decreti emergenziali sta trasformando la Francia in una Cayenna governata dalla polizia per proteggere se stesso, il suo governo e il grande business transalpino dalla protesta popolare di gilet gialli e dei sindacati “non complici”.
Oggi si affiancherà alla Merkel per chiedere – un po’ tardivamente – di affrontare i rapporti commerciali con Pechino con una “comune visione europea”.
Fin qui non era sembrata necessaria, visto che la più grande fetta di questo rapporto era stato appannaggio proprio di Francia e Germania. Da almeno un paio d’anni, per esempio, Duisburg è diventato il terminale ferroviario della Via della Seta; e nessuno aveva provato a chiedere una “condivisione comunitaria” per autorizzare questo prezioso asset infrastrutturale.
Ma il tour europeo di Xi Jinping sta sancendo che ogni paese dell’Unione si può e deve rapportare con Pechino con una forte attenzione alle possibilità di crescita economica che – guarda caso – sono invalidate dalle politiche di austerità imposte (soprattutto da Berlino) come “politiche europee”.
Ognun per sé, ben poco insieme (quando c’è da guadagnare). Ma fin quando gli accordi extra “motore franco-tedesco” erano stati siglati da Grecia (il porto del Pireo è stato venduto ai cinesi per ripagare parte del debito contratto con Ue e Fmi) e Portogallo, nessuno si era preoccupato troppo. Quando lo ha fatto un membro del G7 come l’Italia sono suonati tutti gli allarmi possibili e immaginabili.
Se la Cina investe davvero nel Mediterraneo – e lo sta facendo con cifre colossali – allora c’è la possibilità (o il rischio, vista dal Nord Europa) che il baricentro strategico dell’Europa si sposti verso la sponda meridionale, privando i soliti noti di una comoda rendita di posizioneRiaprendo, di fatto, anche spiragli sfruttabili per immaginare e perseguire differenti assetti sociali, fin qui “vietati” dalla struttura coercitiva dei trattati ordoliberisti.

Nelle stesse ore in cui in Francia si siglavano maxi-accordi, il commissario europeo al bilancio Guenther Oettinger, solo casualmente democristiano e tedesco, è stato protagonista di un’inaudita sortita censoria per l’Italia: «Vedo con preoccupazione che in Italia e in altri Paesi europei importanti infrastrutture strategiche – come reti elettriche, linee di alta velocità e porti – non sono più in mano europea, bensì cinese». Secondo lui  i governi degli Stati membri non si rendono sufficientemente conto di quelli che sono «gli interessi nazionali ed europei». E quindi ritiene che «sarebbe opportuno pensare a uno strumento come il diritto di veto europeo oppure un dovere di assenso europeo, esercitato attraverso la Commissione» a qualsiasi tipo di accordo con Pechino.
Il terreno di sperimentazione di questo “diritto di veto” è al momento la possibilità di imporre a Huawei – colosso tecnologico delle reti, al momento in grande vantaggio sul wireless 5G – un “approccio comune” di gestione, er limitare i rischi dell’utilizzo della tecnologia cinese nelle reti 5G. Su questo, oggi, dovrebbe esserci già una “raccomandazione” della Commissione europea.
La tecnologia Huawei è buona ed è economica, il solo problema è che è cinese“, ha affermato un diplomatico europeo parlando della posizione dei 28, quindi “l’approccio sarà vediamo come in qualche modo possiamo gestire i rischi di sicurezza, questa è chiaramente la direzione verso cui stiamo andando”.
E’ appena il caso di ricordare che , “grazie” alle politiche di austerità e alla storica sudditanza tecnologica nei confronti degli Usa, al momento non c’è alcuna società europea – né pubblica, né privata – che sia in grado di proporsi come alternativa credibile per l’infrastrutturazione e gestione delle reti 5G.

martedì 26 marzo 2019

Rompere l’Unione: una possibilità realistica, non ideologia

La firma del Memorandum tra Italia e Cina – mentre altri sono stati formati o lo saranno a breve da altri paesi europei – è un fatto storico. L’unico, probabilmente, che verrà ascritto a questo governo di furbetti mal assemblati anche se a metterne le basi sono stati soprattutto il Vaticano e, due anni fa, Mattarella e Gentiloni. Ovvero dai due rappresentanti “democratici” più “vicini” alla Santa Sede (non che gli altri siano dei fierissimi atei, tutt’altro).
L’origine geostrategica è importante e viene apertamente rivendicata, stamattina su La Stampa, da Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica, organo dei gesuiti. Non a caso la congregazione di provenienza di papa Bergoglio.
La chiave di lettura è ovviamente quella “cultural-religiosa” (“Pechino insiste molto sugli scambi culturali tra i popoli dell’ecumene euro-afro-asiatica, e lo fa anche investendo risorse in innumerevoli iniziative dedicate al patrimonio immateriale: musei, fiere, mostre”), ma coglie un punto-chiave, un non detto che traspare sempre più spesso dietro le preoccupazioni o le isterie “sull’invasione” che hanno riempito strumentalmente molte pagine ed ore di trasmissione tv, sia “democratica” che apertamente di destra.
Il punto è questo:
Gli storici si chiedono se stiamo sperimentando la conclusione di cinquecento anni di predominio occidentale. Il dibattito riflette il dilemma di una società dell’ovest che sente il futuro del mondo sempre meno nelle sue mani. La presenza di altri grandi attori nello scenario internazionale (India, Giappone, Brasile, Russia) rende il quadro molto complesso e richiede una governance globale… Non è immaginabile un Oriente che emerga e sommerga l’Occidente”.
Naturalmente sappiamo bene che la crisi culturale e di egemonia globale segue – non precede – l’arrestarsi di un modello di accumulazione che da oltre un trentennio, in Occidente, ha preferito la via della finanza speculativa al duro impegno della produzione materiale, i tagli di spesa agli investimenti. Ovvero proprio il terreno su cui la Cina, in meno di quattro decenni, ha costruito la sua gigantesca “rimonta”.
E quindi guardiamo a questo “fatto storico” da un’angolatura molto diversa da quella del brillante gesuita. Senza affatto sottostimare l’importanza di affiancare alla brutalità dei fatti economici la necessità di una visione che tiene conto del rapporto tra civiltà millenarie. Cosa che sembra completamente sfuggire all’orizzonte neoliberista di stampo anglosassone (ed anche all’ordoliberismo tedesco), il cui simbolo è oggi un tronfio palazzinaro che sponsorizza hot dog e big mac…
Perché, da nostro punto di osservazione, la firma di questo Memorandum è un “fatto storico”?
Veniamo da un trentennio – dagli accordi di Maastricht in poi – in cui l’orizzonte del futuro si è progressivamente ridotto alla necessità di praticare un’austerità senza fine, che ha eroso, disperso, svenduto, smantellato una capacità industriale e in generale produttiva di cui non si riesce neanche ad intravedere la fine.
Un trentennio dominato dal mantra “non ci sono i soldi”, “vanno trovate le coperture”, “bisogna tagliare la spesa” e con essa la vita e la stessa riproduzione sociale (la natalità è scesa sotto il livello di equilibrio di lungo termine e la fuga dei giovani all’estero aggrava ogni proiezione previsionale su questo punto).
Una austerità cui è corrisposto l’aumento della ricchezza in mano a pochi (soprattutto finanzieri) e il crescere delle disuguaglianze, sia tra paesi ricchi e quelli sulla via del declino, sia all’interno di tutti i paesi dell’Unione Europea, tra classi sociali. Questo scarto è stato particolarmente accentuato per i paesi mediterranei e al loro interno.
L’Unione Europea è diventata – o si è rivelata nel tempo – una autentica gabbia fatta di condizioni contrattuali e materiali (trattati, vincoli economici e filiere produttive integrate) da cui, per alcune aree territoriali molto estese (non solo nazionali, ma addirittura regionali), sarebbe dolorosissimo uscire e in cui è però mortale restare.
Al punto che pensare di rompere questa gabbia implica immediatamente l’obbligo di prefigurare un altro posizionamento geostrategico, o un’altra collocazione nel mondo. L’esatto contrario del “nazionalismo” stupido immaginato dalle varie destre, con tanto di impossibile autarchia produttiva e presunta “purezza della razza” o “delle tradizioni”.
Altrimenti non resta che accordarsi allo spirito di competizione tra aree imperialistiche che va sostituendo l’ormai morta fase della globalizzazione guidata dagli Stati Uniti. E quindi farsi “soldati della patria europea” in fabbrica, in ufficio, sui campi di battaglia…

E’ la trappola in cui è rimasta fucilata la breve esperienza “alternativa” della Grecia di Syriza, incapace di progettare nuove relazioni internazionali prima di avventurarsi al governo del paese e quindi rinchiusa a forza – senza troppa fatica – in una condizione di sudditanza mortifera.
E’ la trappola che ha di fatto svuotato “la sinistra” di molti paesi (Italia, Germania, Spagna, fortunatamente non la Francia e in parte la Gran Bretagna), incapace anche solo di immaginare una rottura dell’Unione Europea che non fosse la stupida ricaduta nel nazionalismo senza futuro, come ossessivamente ripetuto dalla propaganda “mercatista”.
Un deficit culturale gigantesco che ha reso impossibile formulare un progetto politico credibile, sia nei confronti del nostro “blocco sociale” sia sul piano strettamente elettorale.
E’ la trappola in cui è rimasta impigliata anche la capacità di immaginazione realistica che aveva prima caratterizzato la sinistra antagonista, o rivoluzionaria, sospingendola verso un immaginario polveroso (le varie “sette comuniste”) o la resa incondizionata sul piano della visione politico-strategica, da cui deriva il rifugiarsi nel localismo, nella fantasie pauperiste, nelle pratiche solidaristiche meritorie ma politicamente innocue, oppure anche nelle pratiche “formalmente antagoniste”, di strada, ma altrettanto mute sul medio periodo.
Immaginare il cambiamento sociale a partire dalla struttura materiale della società implica riprendere in mano la capacità di pensare concretamente, progettare, programmare concretamente il cambiamento. Perché solo il materialmente possibile può diventare reale.
Esempi? Sull’ambiente, per dirne uno… Non basta più indicare i responsabili (imprese e classi dirigenti), non basta più opporsi a singole grandi opere inutili o a centrali di inquinamento mortale.
Tutte queste cose debbono ovviamente essere fatte ancora, e con più determinazione e partecipazione di massa; ma va ricostruita una capacità progettuale che permetta di indicare come intendiamo cambiare le politiche energetiche, la cura del territorio, la riconversione delle produzioni e la riduzione delle emissioni inquinanti, la raccolta e smaltimento dei rifiuti, la gestione della mobilità individuale e collettiva nonché dei trasporti commerciali. Ecc.
Siamo un paese di trasformazione, con scarsa disponibilità di risorse naturali (al di fuori della nostra straordinaria biodiversità agricola ed alimentare) e ancora grandi capacità tecniche (in via di logoramento con la “liceizzazione” dell’università”). Dunque le relazioni internazionali, sia commerciali che politiche, sono una necessità naturale. Oltre che la prassi normale in una una Storia millenaria. La rottura dell’Unione Europea, in questa chiave, è addirittura una precondizione per integrare meglio questo paese con il resto dell’area (mediterranea ed europea) e, contemporaneamente, modificare radicalmente l’ordine di priorità tra gli interessi sociali.

Il Memorandum con la Cina è appena una piccola smagliatura in quella gabbia. Ma è la prova concreta che fuori dalla logica mortifera dell’Unione Europea c’è vita anche per l’Europa. E fuori dalla logica della subordinazione militare agli Usa (attraverso la Nato) c’è una possibilità di vivere in pace, anche e soprattutto con i paesi del Mediterraneo (quelli su cui abbiamo con più infamia infierito con aggressioni e bombardamenti, al seguito dei “nostri partner”).
Nulla più che una smagliatura, ma ogni diga regge fin quando la struttura è integra. Non più che una possibilità, ma comunque qualcosa che prima era addirittura difficile da pensare.
E’ quanto basta per definirlo un “fatto storico”, non vi sembra?

lunedì 25 marzo 2019

Pd, il “poliziotto buono” che si finge ambientalista e antifascista

Il rilancio di un’immagine “di sinistra” del Pd viaggia su due sole argomentazioni retoriche: antifascismo/antirazzismo e ambientalismo.
Parliamo di argomentazioni retoriche, non di sostanza politica, perché il Pd ha più volte, in più territori e in più occasioni “flirtato” con la destra estrema, in particolare con Casapund (la sede lussuosa sede romana fu oro concessa da Walter Veltroni, allora sindaco della Capitale). Che ha creato i lager per i migranti in Libia e venduto navi al Niger (!) per “aiutarli a casa loro”. Così come ha sostenuto – stando al governo, ma anche oggi dall’”opposizione” – le peggiori iniziative contro l’ambiente. Basterebbe pensare al Tav in Val Susa, che distingue nettamente tra ambientalisti veri e “partito del Pil”.
Due argomentazioni retoriche che però rischiano di far presa su un’opinione pubblica preoccupata per la crescita dalla Lega fasciorazzista, accompagnata e sostenuta dal revanscismo culturale oscurantista, bigotto, teocratico contro la libertà delle donne, come nell’ormai prossimo convegno di Verona.
Anche perché esiste ed è sempre fortissimo un potere mediatico mainstream che si presenta come “democratico”, ma esercita una censura micidiale, enfatizzando oltre ogni misura le iniziative “accettabili” perché “compatibiliste” con l’attuale assetto di potere economico e ignorando (o mostrificando) tutte le iniziative che invece – magari solo “oggettivamente”, per la radicalità delle proposte – mettono in discussione quegli assetti e dunque anche le forze politiche che debbono rappresentarli.
Lo abbiamo visto questo sabato. A Prato circa 5.000 persone hanno contestato la presenza in piazza del Mercato Nuovo di un centinaio di fascisti di Forza Nuova che inneggiavano a “dio, patria e famiglia”. Una contestazione ovviamente giustissima e sacrosanta, cui ha partecipato una pluralità di soggetti davvero sconfinata (dai centri sociali a Rosy Bindi, per dire…) e “benedetta” anche dal Pd e zone limitrofe.
A Roma, alla stessa ora, stavano manifestando oltre 100.000 persone solidali con tutte le lotte dei comitati cittadini e ambientalisti (No Tav, No Tap, No Muos, No autostrada Roma-Latina, ecc) contro le grandi opere inutili.
Il trattamento mediatico “democratico” è stato esemplare. Si è parlato molto – e giustamente – di Prato, nulla o quasi per il fiume in piena di Roma.
Una settimana fa, sul tema “ambiente”, c’erano state invece le mobilitazioni convocate intorno alla “protesta di Greta Thunberg”, cui era stata data una copertura eccezionale prima, durante e dopo le manifestazioni. Il tema ambientale, in quel caso, era però declinato in modo molto generico, senza particolari colpevolizzazioni del “sistema” produttivo capitalistico. Intere scolaresche erano state portate in piazza dai professori, a testimonianza della piena “compatibilità” di quell’impostazione data al problema del cambiamento climatico.
Che si sostanzia, in estrema sintesi, in un “appello ai grandi del mondo” perché facciano qualcosa di più – visto che gli scienziati ci concedono appena una decina di anni prima che i cambiamenti climatici superino il punto dell’irreversibilità – e nella maggiore “responsabilizzazione individuale” riguardo all’utilizzo delle migliaia di merci che hanno conseguenze negative sull’ambiente (dalle emissioni delle automobili al packaging dei cibi, ecc).
Volendo ridurla a slogan, è la lettura che colpevolizza “l’uomo” (ognuno di noi) invece che “il modello produttivo e di vita”. Come se ognuno di noi potesse davvero “far molto” per cambiare le dimensioni quantitative dei materiali inquinanti con cui ogni giorno abbiamo a che fare. Insomma, come se potessimo davvero scegliere un’automobile “pulita” (ammesso e non concesso che ne esista una…) invece che, banalmente, quella che ci possiamo permettere in base al reddito. Come se potessimo davvero scegliere, stando ore al supermercato, le confezioni che utilizzano meno plastica o similari, invece che – brutalmente – quelle con il prezzo più abbordabile.
Ovvio che si può e si deve fare, per esempio, raccolta differenziata dei rifiuti, collaborando ache individualmente alla migliore percentuale possibile. Ma la dimensione totale delle plastiche e microplastiche in circolazione non è riducibile in modo significativo “invitando al consumo responsabile”. Bisognerebbe invece intervenire a monte, ossia sul momento della produzione, vietando alle aziende di spargere in giro inquinanti non facilmente smaltibili, così come fanno quando sversano liquami chimici di scarto nei fiumi e nei mari. Ma “la libertà d’impresa” non si può toccare, quindi…

L’”ambientalismo compatibile” è quello che per esempio si limita a vietare quasi soltanto la vendita dei cotton fioc (peraltro sconsigliati da decenni da tutti gli otorinolaringoiatri); ovvero un materiale plastico il cui consumo annuale individuale è probabilmente minore del quantitativo di plastica che ci portiamo a casa con una sola spesa al supermercato.
Non parliamo poi dell’antifascismo… Su questo sappiamo per esperienza che ogni tentativo di sbarrare davvero la strada ai neofascisti viene represso militarmente da polizie e magistratura, come sempre molto “permissive” con certi figuri. Ma se volete esprimere preoccupazione per il “risorgere del pericolo fascista” potete tranquillamente delegare il ruolo a qualche protagonista di talk show…
Possiamo fermarci qui, per ora. Il problema dei prossimi mesi è chiaro. Su ambientalismo e antifascismo/antirazzismo da educande, da delegare direttamente al Pd e consoci, ci sarà un battage mediatico infernale, con automatico oscuramento-cancellazione di ogni diversa declinazione degli stessi temi.
Naturalmente non si tratta di “abbandonare al nemico” due tematiche costitutive di ogni identità antagonista e popolare. Si tratta e si tratterà, invece, di mobilitarsi in completa autonomia, contrastando nella cultura politica e nelle piazze questi zombie incaricati di fare la parte del “poliziotto buono” a guardia del profitto.
Tra loro e il “poliziotto cattivo” – che sia Salvini, come oggi, o un altro (do you remember Minniti?) – non c’è davvero una sostanziale differenza. Cambia solo la retorica…

venerdì 22 marzo 2019

Il divieto allo sciopero generale del 12 aprile sul tavolo del governo

Il problema della repressione del diritto di sciopero verrà posto dalla Usb al vicepremier e Ministro del lavoro e dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, nel corso dell’incontro tra il ministro e le maggiori confederazioni del Paese previsto per oggi  mercoledì 13 marzo. L’Esecutivo nazionale dell’Unione Sindacale di Base ha deciso infatti di proseguire nella preparazione dello sciopero generale promosso dalla maggiore confederazione sindacale di base per il 12 aprile.
A tale scopo, ha presentato un ricorso con procedura d’urgenza al Tar di Roma, per ottenere l’annullamento del provvedimento censorio emesso dalla Commissione di garanzia sul diritto di sciopero.
Quest’ultima, con una “Indicazione immediata”, ha infatti intimato all’Usb di revocare lo sciopero del 12 aprile perché indetto prima che fosse effettuato quello dell’8 marzo, che lo stesso sindacato aveva proclamato assieme ad altre organizzazioni sindacali nell’ambito della giornata mondiale di lotta delle donne.
In una nota l’Usb fa sapere che considera assolutamente irragionevoli le motivazioni addotte dalla Commissione, trattandosi di uno sciopero generale, che si terrà a ben 35 giorni di distanza da quello effettuato con ottime percentuali di adesione l’8 marzo.
Lo sciopero generale del 12 aprile è stato convocato da Usb per protestare contro le politiche di austerity che l’Unione Europea impone ai Paesi del sud dell’Europa;  per l’abrogazione totale della legge Fornero; per l’istituzione di un vero reddito di cittadinanza, universale e incondizionato; per la crescita dei salari e l’abbassamento delle tasse anche al lavoro dipendente. In pratica le quattro questioni all’ordine del giorno nell’urgente agenda sociale e politica del paese e dei lavoratori

giovedì 21 marzo 2019

A Roma chi decide la politica nella capitale è sempre e solo il malaffare

Ancora una volta la politica al servizio delle grandi opere inutili si nutre del sostegno della peggiore corruttela. L’arresto di Marcello De Vito del M5S, Presidente del Consiglio Comunale di Roma, coinvolto sulla inchiesta delle tangenti per sostenere la cementificazione di Tor di Valle con annesso lo stadio, insieme alla costruzione di un albergo presso la ex stazione ferroviaria di Trastevere e alla speculazione sulll’area degli ex Mercati Generali di Ostiense, è la prova provata che nulla è cambiato e che tutto prosegue nel solco dei soli interventi speculativi e inutili nella capitale, che ingrassano sempre i soliti, ora con l’aggiunta di qualcuno nuovo.
A Roma occorre il rilancio delle periferie, un trasporto pubblico che funzioni e che risponda alle esigenze di chi ci lavora e di chi ci viaggia, una mobilità sostenibile e sicura per i pendolari e non l’autostrada Roma-Latina, la sicurezza delle scuole pubbliche, un piano virtuoso dei rifiuti con l’estensione ovunque della differenziata spinta porta a porta, la liberazione dal diffuso lavoro nero e precario che vive dei mancati controlli ispettivi.
Potere al Popolo non smetterà di denunciare e lottare per un progetto che veda finalmente Roma libera dalla corruzione e rispettosa dei suoi abitanti, per una vera riqualificazione urbana e per un pieno riscatto di chi oggi in questa città è sfruttato ed emarginato.
La novità millantata del M5S era un bluff e come tale deve essere smascherata.
Da Roma abbiamo un motivo in più per partecipare alla manifestazione nazionale di sabato 23 marzo contro le grandi opere inutili e per il clima.
Potere al Popolo propone una assemblea in piazza del Campidoglio – la prossima settimana –  per ribadire la necessità di un cambiamento di priorità e di rotta nelle scelte politiche di governo della città.

mercoledì 20 marzo 2019

Migranti sbarcati a Lampedusa. Salvini tuona ma oggi il Senato discute sull’autorizzazione a procedere

Sono sbarcati ieri notte a Lampedusa i 49 migranti salvati nel Canale di Sicilia dalla nave “Mare Jonio”.
L’imbarcazione, è entrata nel porto dell’isola scortata dalle motovedette della Guardia di Finanza al termine di un braccio di ferro andato avanti tutta la giornata è stata posta sotto sequestro. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini invitare gli agenti ad arrestare l’equipaggio. Una volta sceso a terra, il comandante della nave “Mare Ionio” Pietro Marrone è stato convocato d’urgenza dalla Guardia di Finanza a Lampedusa, e lì gli è stato notificato il provvedimento di sequestro disposto dalla Procura di Agrigento, che ha aperto una inchiesta, al momento a carico d’ignoti, per favoreggiamento all’immigrazione clandestina.
Il salvataggio in mare è avvenuto di fronte alle coste libiche ma in acque internazionali. Un gommone stracarico di migranti rischiava di colare a picco. Tra i naufraghi vi erano 14 minori, tutti di origine africana. Quando la Mare Ionio con i naufraghi a bordo si è avvicinata a Lampedusa, a bordo è salito il medico dell’isola, Pietro Bartolo, il quale ha accertato le buone condizioni di salute del gruppo, dando quindi il via libera allo sbarco.
Dal Viminale per tutto il giorno sono arrivate le indicazioni foraciole del ministro degli Interni Salvini, secondo cui sono state “Ignorate le indicazioni della Guardia Costiera libica che stava per intervenire, scelta di navigare verso l’Italia e non Libia o Tunisia, mettendo a rischio la vita di chi c’è a bordo, ma soprattutto disobbedienza (per ben due volte) alla richiesta di non entrare nelle acque italiane della Guardia di Finanza” – ha aggiunto Salvini – “Se un cittadino forza un posto di blocco stradale di Polizia o Carabinieri, viene arrestato. Conto che questo accada”.
Ma per Salvini oggi è una giornata politicamente rognosa. Nella giornata odierna infatti il Senato deve votare sulla richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del vicepremier Matteo Salvini per la vicenda della nave “Diciotti” della Guardia Costiera fatta bloccare in mare proprio dal ministro degli Interni alcuni mesi fa.. Ieri il presidente della giunta, Maurizio Gasparri, nella sua relazione ha proposto il no. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini è in Aula. Il voto è previsto per le 13,  sarà palese senza proclamazione immediata del risultato.

martedì 19 marzo 2019

Italia. Per “loro” 19 miliardi di dividendi. Per “noi” solo austerity e recessione

Continuano a raccontarci che l’Italia è in recessione, che la stagnazione economica influirà pesantemente sulla prossima Legge di Stabilità, che i salari sono troppo alti, che le famiglie vivono troppo al di sopra delle proprie possibilità, che conti pubblici vanno tagliati etc. etc. Eppure dal mondo delle blue chip (le azioni quotate in Borsa) arrivano dati del tutto diverso. Si parla di dividendi da distribuire agli azionisti per ben 19 miliardi di euro. Dopo avere chiuso il 2018 in profondo rosso, i dividendi distribuiti agli azionisti da inizio anno sono in deciso rialzo: +14%. Nonostante ci martellino tutti i giorni sulla disgraziata economia italiana, qualcuno ci sta guadagnando e di brutto. Milano infatti risulta la migliore Borsa d’Europa, facendo segnare nuovi massimi di periodo.
Il Corriere della Sera riferisce che “limitando lo sguardo alle sole blue chip, nelle tasche degli investitori entreranno circa 19 miliardi di euro, pari a un rendimento che sfiora il 4%. Cifra a cui si dovrebbe aggiungere l’impatto dei buyback (riacquisti di azioni proprie) nel corso dell’anno, che potrebbe valere altri 3 miliardi”.
Le pagine economiche del Corriere hanno messo in rassegna i 40 titoli dell’indice Ftse Mib e li ha confrontati con i rendimenti delle principali scadenze dei Btp (i titoli di Stato), ossia degli investimenti a basso rischio.

In cima alla lista dei generosi dividendi agli azionisti c’è il fondo di investimento Azimut (1) che, nonostante un rialzo del 44% da gennaio ad oggi, promette ancora una rendimento del 10,9%, grazie a una cedola di 1,5 euro pagata per tre quarti in contanti e il rimanente attraverso azioni proprie della società. Sul secondo gradino c’è il gruppo Intesa Sanpaolo, che ha annunciato un dividendo di poco meno di 0,20 euro, pari a uno yield (rapporto tra dividendo e prezzo) di circa il 10%. Seguono ancora gruppi bancari/finanziari come UnipolSai, Generali, Banca Generali.
Il primo gruppo non finanziario della classifica è l’Eni. Che distribuirà ai suoi azionisti una cedola di 86 centesimi, pari a una crescita del 3,6% sull’anno precedente e corrispondente a uno yield che sfiora il 6%, a cui vanno aggiunti i benefici di un piano acquisto di azioni proprie: 400 milioni di euro per il 2019 e altri 400 l’anno per i successivi, con uno scenario del prezzo del petrolio Brent tra oscilla tra 60 e i 65 dollari al barile. Una cifra che salirebbe a800 milioni, qualora il prezzo del petrolio superasse questo livello.
Insomma quando qualcuno porrà la solita, ipocrita, domanda: ma dove prendiamo i soldi? La risposta è semplice: lì dove stanno!!

lunedì 18 marzo 2019

La guerra del suprematista Salvini

Siamo in un periodo di pre-guerra. Le notizie e i tentativi di analisi che produciamo ogni giorno, purtroppo, vanno piuttosto univocamente in questa direzione.
Tralasciamo per una volta i dati strutturali – quelli economici, e i tentativi di uscire dalla crisi aumentando la “competizione” globale – e prestiamo attenzione agli atteggiamenti politici e al linguaggio.
I morti ammazzati in luoghi di preghiera o di divertimento, fin qui, hanno sollevato condanne unanimi e parole di cordoglio molto simili. Abbiamo infatti vissuto per 30 anni – dalla caduta del Muro in poi – in un mondo teoricamente omogeneo, sul piano dei “valori professati”, per cui ogni omicidio doveva provocare uguale orrore, contro chiunque fosse stato commesso e chiunque fosse stato l’assassino. Figuriamoci per le stragi…
Sappiamo benissimo che questa vernice ideologica copriva una realtà molto diversa, anzi opposta, che ogni tanto veniva fuori con nazista brutalità (la “democratica” Madeleine Albright, segretario di Stato Usa con Bill Clinton, definì “accettabile” che fossero stati fatti morire mezzo milione di bambini iracheni pur di abbattere Saddam Hussein). Ma almeno la narrazione ufficiale dei governi dell’Occidente – tutti – si sforzava di diffondere il discorso per cui “tutte le morti sono eguali” e tutti gli assassini da condannare.
A Christchurch, nella civilissima e pacificissima Nuova Zelanda, lontana dal resto del mondo e mai toccata da attentati, un commando di quattro “suprematisti bianchi” – un miscuglio molto anglosassone di nazismo, ku klux klan e integralismo cristiano – ha fatto strage in due moschee cittadine, uccidendo ben 49 persone.
L’orrore è stato molto relativo, anche sui media “democratici”, e soprattutto di breve durata. Altre notizie, considerate più “intriganti” (come il mistero sulla morte di una delle “olgettine” berlusconiane, una delle poche peraltro ad aver raccontato molti dettagli agli inquirenti), hanno dopo poche ore preso il sopravvento e il primo posto.
A fare la differenza, ancora una volta, Matteo Salvini.
L’unico estremismo che merita di essere attenzionato è quello islamico. Quello di estrema destra è rappresentato da nostalgici fuori dal mondo e fuori dal tempo che, stando ai servizi di informazione e sicurezza, meritano una condanna morale, come ogni episodio di violenza, ma se c’è estremismo riguardo al quale firmo la metà dei miei atti è quello di matrice islamica“.
Una strage nazista (magari una appena tentata e non riuscita, come quella di Macerata ad opera di un nazileghista “per Salvini”, peraltro ricordato come “esempio” dagli stragisti neozelandesi) meriterebbe insomma una “condanna solo morale”, ma non desta la preoccupazione del ministro dell’interno.
Perché? C’è una sola risposta logica: quei morti sono “degli altri”, gli assassini sono “dei nostri”.
La logica di guerra è tutta dentro questa distinzione.
C’è comunque qualcosa di peggio. Nella guerra propriamente detta, in linea teorica, ci si spara tra combattenti (le morti civili vengono classificate come “effetti collaterali” anche quando sono il risultato di bombardamenti sulle città). Dunque la possibilità di essere uccisi o di uccidere sta nel conto, è “la normalità” della guerra.
Nella realtà di questi tempi, invece, si spara tranquillamente sui civili della “parte avversa”.
Lo fanno i jihadisti nelle città occidentali, lo fanno i nazisti-suprematisti nelle stesse città. Cambia solo il bersaglio, non la logica (“ripulire il mondo da chi non ha la mia fede o il mio colore di pelle”).
Ci si attenderebbe dunque, da un ministro responsabile, un atteggiamento che non lascia spazio all’escalation dei giustizieri-fai-da-te o dei vendicatori autoproclamati.
Salvini fa l’opposto. Si dispiace dei morti, ma la sua preoccupazione è rivolta solo al “nemico”. Di fatto è un via libera, limitato soltanto dalla funzione istituzionale, che lo costringe a rivendicare per sé – ossia per le “forze dell’ordine” che dirige – il ruolo principale in questa guerra. Il “monopolio dell’uso della forza”.

Ma i “volenterosi” che hanno voglia di imbracciare le armi possono star tranquilli. Almeno fin quando non le usano sul serio, il ministro non chiederà alle polizie di indagare su di loro. E anche quando dovessero usarle, in qualche modo si darà da fare per far loro applicare il massimo possibile delle “attenuanti”.
Per le medaglie, bisogna attendere ancora un poco…
Ma attenzione. Non è che il portavoce leghista sia uno “fuori come un poggiolo”, un estremista arrivato lì per caso… Se guardiamo a tutta la politica dell’Occidente – in Ucraina, nei paesi baltici, all’interno delle metropoli stesse – vediamo che ovunque i “nostalgici” del reich o del fascismo sono coccolati, coltivati, foraggiati, stipendiati. E nessun capitalista “investe” solo per simpatia. Vengono “tenuti da conto”, possibilmente al guinzaglio e senza troppa libertà d’azione.
Ma se li tengono cari, che ti chiami Salvini o Minniti, Le Pen o Macron, Merkel o vattelapesca.

venerdì 15 marzo 2019

Salario minimo. E’ tempo che si faccia, ma attenzione alle insidie

In Italia, una lavoratrice o lavoratore su cinque (il 22% dei lavoratori dipendenti delle aziende private, escludendo gli operai agricoli e i domestici) ha una retribuzione oraria inferiore a 9 euro lordi, La stima arriva dall’Inps che ha partecipato ieri ad una audizione alla Commissione Lavoro del Senato intorno alla questione del salario minimo. Il 9% dei lavoratori è al di sotto degli 8 euro orari lordi mentre il 40% prende meno di 10 euro lordi l’ora.
I dati forniti dall’Inps confermano la vergogna dei bassi e bassissimi salari nel nostro paese e il vero e proprio boom dei working poor, cioè poveri anche se hanno un lavoro. Su questa contraddizione ormai esplosa, si è avviato un dibattito sul salario minimo che vede posizioni contrastanti e troppo spesso troppi “numeri in libertà”.  Fissando la soglia del salario minimo a 9 euro lordi l’ora – ha spiegato l’Istat in una memoria – ci sarebbero 2,9 milioni di lavoratori che avrebbero un incremento medio annuo di retribuzione di 1.073 euro. L’Istat spiega che sarebbe coinvolto il 21% dei lavoratori dipendenti con un aumento stimato del monte salari complessivo di 3,2 miliardi. Quasi tutti i livelli di inquadramento del lavoro domestico ad esempio, hanno un salario orario inferiore a 9 euro. A confermarlo è stata l’Inps nell’audizione alla Commissione Lavoro del Senato sul salario minimo chiedendo, nell’eventuale introduzione di una soglia di salario minimo, di tenere in considerazione “le oggettive caratteristiche del settore anche allo scopo di evitare il rischio di pericolose involuzioni che possono portare all’espansione del lavoro irregolare”. Tra il 2012 e il 2017, rileva l’Inps il numero dei lavoratori regolari nel settore è diminuito del 15% passando da 1,01 milioni a 864.526 unità.
Ciò che l’Inps non ha rilevato è che, per esempio, per migliaia di operatori delle cooperative sociali e del terzo settore, si sta cercando di trasformarne la condizione contrattuale proprio come collaboratori domestici con contratti individuali e non più collettivi come quelli del settore cooperative.
In questo dibattito sul salario minimo, l’Usb, anche lei presente all’audizione alla Commissione Lavoro del Senato, ha espresso la sua piena approvazione del fatto che finalmente anche in Italia venga istituito un salario minimo per legge. “I numeri clamorosi sulla diffusione del lavoro povero sono la dimostrazione che la contrattazione collettiva non è in grado di proteggere i salari e un intervento di legge è quindi indispensabile”. Ma la delegazione di USB, ha anche sottolineato come il lavoro povero non si misuri soltanto in base alle basse retribuzioni ma anche all’intensità del lavoro. “L’abuso del part-time obbligatorio, orari di lavoro settimanali molto limitati e contratti di breve durata non potranno mai essere compensati da una retribuzione oraria più alta. Occorre quindi combattere l’abuso del part-time, riconosciuto purtroppo in molti contratti nazionali, e ridurre la gestione arbitraria dei tempi determinati con interventi meno timidi di quelli del Decreto dignità”.
Ma la discussione sul salario minimo, almeno così come viene istruito, contiene anche delle insidie. L’Usb ad esempio, è fortemente contraria alla sovrapposizione della questione del salario minimo con quella della rappresentanza. Nel disegno di legge presentato dal Movimento Cinque Stelle si riconosce l’accordo interconfederale del 10 gennaio 2014, dandogli così indirettamente un valore di legge.
La delegazione USB nell’audizione al Senato ha segnalato la necessità di introdurre in Italia una legge sulla rappresentanza, richiesta che Usb avanza da almeno vent’anni, una rappresentanza democratica nei luoghi di lavoro ma non in base alle regole capestro imposte da Cgil, Cisl e Uil e Confindustria. “Le regole devono essere trasparenti, garantire libere elezioni per gli organi di rappresentanza dei lavoratori e l’obbligo delle imprese a certificare gli iscritti di tutti i sindacati. Nel testo del 2014, invece, confederali e Confindustria hanno anche inserito diverse disposizioni contro le libertà sindacali e il diritto di sciopero che sono inaccettabili e che non devono assolutamente essere riconosciute dalla legge. La questione del salario minimo non va quindi confusa con quella di una legge sulla rappresentanza che aspettiamo da tempo”.
Su questo nesso malefico tra salario minimo e rappresentanza, è emblematico quanto ha dichiarato Landini nell’intervista a L’Espresso: “se il Parlamento stabilisce un salario che prescinde dalla contrattazione e che può essere persino più basso dei limiti contrattuali, diventa una norma di legge che contrasta la contrattazione collettiva. E proprio in un’ottica di rafforzamento della contrattazione che abbiamo anche chiesto di misurare la rappresentanza dei sindacati così che gli accordi abbiamo validità generale. Eravamo d’accordo tutti, sindacati e confederazioni”.
In realtà, proprio l’opposizione di Cgil Cisl Uil e di Confindustria su entrambi i fronti, ha sempre impedito di realizzare questi provvedimenti che potrebbero veramente produrre un cambiamento reale nel sistema delle relazioni industriali. Cgil Cisl Uil e padronato sono infatti uniti nel contrastare l’introduzione del salario minimo. Così come sono saldamente assieme nel chiedere un intervento legislativo che avalli i loro accordi. I lavoratori poveri possono aspettare e così pure la democrazia sindacale. Una contraddizione pesante come un macigno sulla segreteria Landini nella Cgil ma che, in base alla recente intervista a L’Espresso, non sembra affatto inviare segnali positivi, al contrario.

giovedì 14 marzo 2019

Via della Seta benedetta da Mattarella. Qui il “Memorandum

La data è certa, la firma forse. Il 22 marzo il presidente cinese Xi Jinping sarà in Italia, accompagnato da manager di almeno 70 colossi industriali del suo paese, e non certo per fare turismo.
C’è da apporre la firma sotto il Memorandum of Understanding – ovvero l’accordo-quadro, la “cornice di obbiettivi” – attraverso cui l’Italia comincia a discutere le modalità della sua partecipazione alla nuova Via della Seta, ossia alla Belt and Road Initiative (BRI). Ossia alla più gigantesca infrastrutturazione planetaria che sia mai stata anche solo immaginata per connettere – via terra, porti, aeroporti, ferrovia – Asia, Medio Oriente ed Europa. Ma in larga misura anche l’Africa.
Ai tempi della “globalizzazione” imperante questa iniziativa sarebbe stata salutata come la dimostrazione delle “magnifiche sorti e progressive” del capitalismo. Oggi è apertamente osteggiata da Stati Uniti ed Unione Europea. Per ragioni e con modalità molto diverse, come si conviene al tempo della competizione globale.
Del Memorandum si favoleggia molto e quindi ci sembra opportuno metterlo a disposizione dei nostri lettori, anche se probabilmente la versione finale sarà nel frattempo “limata” dal lavoro degli sherpa di entrambe le delegazioni. La troverete alla fine di questo articolo.
Gli Stati Uniti vi vedono un pericolo mortale al loro predominio in tutte queste aree, specialmente in Europa, dove da qualche tempo – e certamente a far data dall’elezione di Donald Trump – sono al lavoro per rianimare la mummia del “partito americano”, che dovrebbe nelle loro intenzioni indebolire il processo di unificazione europea sotto l’egemonia tedesca e contemporaneamente costruire un argine anticinese, oltre ad una “proiezione di potenza” verso la Russia (Ucraina, Polonia e paesi baltici sono l’avamposto di questa strategia).
Sanno meglio di tutti che più stretti rapporti economici e commerciali favoriscono od obbligano a stringere anche migliori rapporti geostrategici, perché creano legami, dipendenze più o meno reciproche, interessi comuni che poi diventa complicato separare.
Lo spiega bene, come sempre senza mezzi termini, l’ex capo stazione della Cia in Italia, Edward Luttwack: “L’accordo coi cinesi sulla Nuova Via della Seta è un atto dimostrativo e simbolico. Il memorandum è opaco e proprio per questo ancora più significativo dal punto di vista strategico. L’Italia pagherebbe un alto costo sia politico sia diplomatico. Con gli Stati Uniti ma non solo. Non è che fai arrabbiare solo Donald Trump in questa situazione ma tutta la coalizione marittima che vede tra le sue fila Stati Uniti, Regno Unito, India e Giappone. La scelta di stare con la Cina dimostrerebbe che l’Italia si rivela essere ancora una volta provinciale e fuori dai giochi”. Una minaccia pura e semplice, senza zuccherini di contorno.
Più complessa, ma altrettanto “competitiva”, è l’ostilità dell’Unione Europa (che mai come in questo caso appare ben diversa dall’”Europa”). Qui le preoccupazioni sono tutte di tipo nazionalistico. Persino un “europeista senza se e senza ma” come Romano Prodi si sente costretto a ricordare che “la Nuova Via della Seta ha suscitato l’interesse di tutti i Paesi europei tanto che, Germania e Polonia in testa, si sono affrettati a concludere accordi per nuovi collegamenti ferroviari”.
Insomma, il nervosismo “europeo” è figlio del timore tedesco-polacco e francese di avere un competitore in più, geograficamente avvantaggiato dal fatto di essere un ponte naturale tra il Nordafrica e il Vecchio Continente.
E’ del resto un mistero solo per l’opinione pubblica italiana – intrattenuta in genere dai media principali su vicende di gossip politico di quart’ordine – che Egitto, Algeria, Marocco, Turchia, Grecia sono ormai teatro di investimenti colossali da parte di Pechino come parte del progetto BRI, tanto da delineare un modello di sviluppo e riproduzione per quei paesi davvero diverso da quello fin qui mantenuto.
E persino Israele si mostra molto interessato e disponibilissimo a fare da hub per una serie di commerci.
Davanti a processi di queste dimensioni, nessun governo (neanche uno sovietico) potrebbe restare estraneo o indifferente, per il buon motivo che l’”autarchia” è fisicamente impossibile (oltre storicamente una cazzata) e dunque bisogna inserirsi – in modo intelligente, accorto, guardingo quanto volete – in un sistema di scambi tale da garantire l’ingresso di beni e risorse qui indisponibili e l’uscita di quanto di meglio si sa produrre qui. Poi, con quale “modo di produzione” interno questo viene fatto, con quali obbiettivi di redistribuzione e giustizia sociale, è un affare che riguarda “noi”.
Si può considerare “velleitaria” la decisione del governo gialloverde di arrivare a un accordo (peraltro avviato già ai tempi del governo Gentiloni!), che schiaccia i calli di “alleati-padroni” sicuramente potenti e nervosi. Senza neanche aver ben chiaro il ventaglio delle “rappresaglie” che questi potrebbero mettere in moto e comunque senza una chiara strategia di “autonomizzazione” nelle relazioni commerciali.
Ma d’altro canto neanche un governo scombiccherato come questo può restare con le mani in mano – sul fronte economico – mentre da un lato l’austerity europeista ti svuota il patrimonio produttivo e le esigenze geopolitiche Usa ti vietano di fare affari con chi a loro non piace (ma con cui comunque commerciano alla grandissima). Se non altro per preoccupazioni elettorali qualcosa dovevano inventarsi, magari copiando dal Pd…
Il “partito americano” presente trasversalmente in tutte le formazioni parlamentari si è messo subito in moto. Matteo Salvini – spalleggiato da Corriere e Repubblicaaffronta la questione quasi come un oppositore, mentre a condurre le trattative con i cinesi è Michele Geraci, il sottosegretario al Ministero dello Sviluppo Economico… indicato dalla Lega!
Il che costringe a guardare, più che a questi fantocci politici, a come il mondo imprenditoriale italiano sta posizionandosi rispetto alla Via della Seta.
Scopriamo che un vecchissimo nemico di classe come Cesare Romiti è letteralmente entusiasta, con argomenti strettamente di business: Firmare l’accordo con la Cina? L’Italia non fa bene, fa benissimo. Innanzitutto la partecipazione all’iniziativa della Belt and Road e poi la possibilità di aumentare le esportazioni in un mercato di consumo immenso come quello cinese“.
Proprio come Giuliano Noci,ingegnere e prorettore del del Polo territoriale cinese del Politecnico di Milano, nonché uno dei massimi esperti di Cina in Italia: “L’Italia fa bene a firmare il memorandum of understanding della Belt and Road, a patto che ottenga delle contropartite reali. Penso alle operazioni di business che possono essere fatte congiuntamente nei paesi eurasiatici e in Africa. Farebbe male invece a firmare lo stesso identico memorandum firmato dagli altri paesi che hanno aderito alla Belt and Road.
Anche perché: “Da tempo Francia e Germania, pur non aderendo alla Belt and Road, stanno facendo operazioni sottobanco con la Cina. Ognuno segue la propria linea provando a non scoprirsi. In questo caso l’Italia può invece portare a termine alla luce del sole un’operazione avviata da Paolo Gentiloni. Fino adesso tedeschi e francesi hanno operato in Cina senza chiedere il permesso a nessuno, non vedo perché gli Stati Uniti dovrebbero prendersela con l’Italia”.
Alberto Bombassei, uno dei pochi produttori davvero leader globali, sebbene in un settore “minore” (la sua azienda, Brembo, fabbrica i migliori impianti frenanti del mondo), non fa mistero di apprezzare al massimo l’iniziativa cinese: Le esigenze di sicurezza degli Usa vanno tenute in considerazione, ma non si capisce come la Belt and Road Initiative, nella versione che conosciamo, possa creare effettivo pericolo per la sicurezza italiana ed europea”.
Esigenze di sicurezza fortemente concentrate soprattutto su Huawei, che sta testando anche in Italia il 5G, ovvero il wifi di nuova generazione. Ma per cui non esiste alternativa: non c’è alcuna società europea in grado di sviluppare il 5G. O ci si accorda con un’azienda cinese oppure con una statunitense. E non è che gli Usa godano prprio di buona fama, in termini di invadenza tecnologica sui loro alleati persino il telefono di Angela Merkel era sotto controllo della Nsa…).
Più “mediatorio”, come si conviene, il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia: “è un’opportunità se puntiamo su un industria forte che va anche a vendere in Cina e non trasformiamo l’Europa in un continente di consumatori che comprano solo prodotti cinesi. Servono degli accorgimenti, per esempio il porto di Trieste è un asset strategico del paese e non può essere parte di una società dove ci sono dentro altri Paesi”.
Tremano e temono, invece, i rappresentanti di un mondo imprenditoriale più fragile e frammentato (Confcommercio e Conftrasporto), che arrivano a invocare la protezione della “sovranità nazionale” (“Siamo già molto preoccupati per le intese sottoscritte da importanti imprese italiane con industrie cinesi che rischiano di farci perdere know how e competitività. Se poi dovessimo aggiungere la perdita della piena sovranità nazionale sulle infrastrutture strategiche portuali e ferroviarie, rischieremmo di pregiudicare quell’economia del mare che è fondamentale per il nostro Paese”). Qualcuno li avverta che questo paese non ha più da tempo una politica internazionale, non batte più moneta, ha forze armate sotto comando Usa-Nato, si vede scrivere la legge più importante – quella di bilancio – dalla Commissione Europea… Insomma, la “sovranità” non abita più qui da un pezzo…
E’ il quadro, seppure sintetico, di un mondo imprenditoriale pavido, diviso tra la voglia di tuffarsi in un affare gigantesco – specie in confronto delle loro dimensioni da nani – e la paura di perdere i “protettori” storici, con cui hanno contratti in essere.
In breve: una classe dirigente senza una minima idea progettuale di futuro per questo paese, in balia degli eventi e soprattutto degli interessi altrui. Le divisioni nel sottobosco del “mondo politico” le riflettono quasi senza mediazione.
Ci sono le aspettative del Nordest per ora leghista sulla possibilità di fare di Trieste il principale porto a disposizione dei cinesi verso il Nord Europa. E quelle del Nordovest (leghista e “democratico”) che invece sponsorizza Genova come alternativa.
Entrambi, comunque, ben saldi nel pretendere che si svuoti al più presto il princiaple porto cinese in Italia: quello di Napoli.
Dove vogliamo andare, con scapocchioni siffatti…
P.s. Nella serata di ieri, dopo il rituale incontro tra il presidente del Consiglio e quello della Repubblica (presenti anche i vice, Di Maio e Salvini), prima di ogni vertice europeo, dal Quirinale è arrivato un sostanziale via libera. Il documento su cui si sta lavorando “è molto meno pregnante di tanti altri siglati bilateralmente da altri Paesi Ue”. E molte delle regole lì contenute sono molto più severe e stringenti di quanto previsto dall’Unione europea. Naturalmente non sarà mai Mattarella a mettere in discussione il rapporto con gli Usa, ma proprio il Quirinale fa notare che la tecnologia 5G non riguarda il memorandum.
Tra l’altro, le indiscrezioni sugli accordi “pratici” che stanno maturando parlano di 50 accordi in fase di negoziazione in queste ore fra Italia e Cina. Sarebbero in fase di scrittura e in attesa di una via libera dal governo; 29 di questi riguardano enti pubblici e ministeri italiani e le controparti cinesi e coinvolgono quasi tutti i possibili campi di collaborazione. Come riferisce il Corriere, “in fase di contrattazioni ci sono al momento 21 intese, che coinvolgono la Cdp, la Snam, Sace, Enel, Terna, Fincantieri, i due maggiori gruppi bancari italiani, Unicredit e Intesa Sanpaolo, Danieli, l’Eni che dovrebbe siglare con Bank of China un accordo di cooperazione finanziaria per attività esplorative sul territorio cinese, Italgas, le autorità portuali di Genova e Trieste, le Fs, che si candidano a trasportare le merci che escono dal Pireo sino al cuore dell’Europa”.
E al cuore di Mattarella dovrebbe aver parlato anche della Bluetec (ex Fiat) di Termini Imerese, i cui vertici sono stati arrestati due giorni fa per distrazione dei fondi destinati alla riconversione della produzione. Lo stabilimento della cittadina siciliana, da tre anni in mano al gruppo Metec di Roberto Ginatta, “è l’oggetto di una bozza di protocollo d’intesa (memorandum of understanding, o MoU ) già firmato dai vertici della società Jiayuan, produttrice di auto”. Il documento “prevede di negoziare il passaggio dell’uso della fabbrica ai cinesi, che avrebbero prodotto 50 mila auto elettriche in tre anni destinate al mercato europeo, nonché un investimento da 50 milioni di euro congiunto di Blutec e Jiayuan o di altri investitori che sarebbero stati coinvolti nel rilancio dello stabilimento. La parte cinese aveva anche preparato tutto per riuscire a sottoscrivere il documento durante la visita di Stato del presidente cinese Xi Jinping a Roma il prossimo 21-22 marzo. Ora anche questa partita è in mano all’amministratore giudiziario”.
In più, la Cina è pronta per investire 5 miliardi nel porto di Palermo.
Nella contesa furibonda tra il “partito americano” e il “partito europeo” (o tedesco), stavolta pare che l’abbia spuntata il partito del… Vaticano e della Sicilia.

mercoledì 13 marzo 2019

La Tav? Solo archeologia geopolitica

Se anche i più attenti anaisti macroeconomici ritengono il Tav in Val Susa “una boiata pazzesca” sorge il sospetto – fondato – che la cosiddetta Grande Opera serva a chi deve costruirla e niente affatto al paese.
Vi proponiamo qui l’editoriale apparso sull’agenzia Teleborsa – testata poco incline alla repubblica sovietica – che boccia senza mezzi termini il cavallo di battaglia del cosiddetto “partito del Pil” (Lega, Partito Democratico, Forza Italia, Bonino, Leu e Fdi).
Neanche la probabile firma del Memorandum of understanding con la Cina potrebbe diminuirne l’inutilità, visto che comunque gli eventuali nuovi flussi di merci non passeranno su quella direttrice.
Guido Salerno Aletta ne rifà la storia, ricordando i tanti cambiamenti di progetti infrastrutturali succedutisi nel tempo, col variare delle congiunture economiche e degli scenari geopolitici (il crollo del “socialismo reale” ha costretto tutti a ripensare le vie di comunicazione, e non sempre in modo sensato).
Alla fine, il Tav Torino-Lione è un pezzo marginale di un progetto più grande (Kiev-Lisbona) che nel frattempo è stato abbandonato. Archeologia, insomma, ma fruttuosa per pochi e calamitosa per tanti (noi che paghiamo le tasse e gli abitanti della Val Susa).
Allora perché “si deve fare” a tutti i costi? Perché consente a un piccolo gruppo di grandi imprese, ben ammanicate con tutti i governi degli ultimi 30 anni (‘ndrangheta compresa), di guadagnarci costruendola con i soldi dello stato e dell’Unione Europea, senza rischiare un solo centesimo.
Un vero esempio del “coraggio imprenditoriale” della borghesia italica, che ha come unica stella polare la fuga dal rischio di impresa. Miserabili che andrebbero rieducati col lavoro in miniera…
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La Tav? Solo archeologia geopolitica
Neppure la Via della Seta passerà per Torino
Guido Salerno Aletta – Editorialista dell’Agenzia Teleborsa
Per capire che cosa sta succedendo davvero sulla TAV, con una analisi costi-benefici assai controversa che rimette in discussione la convenienza dell’opera, la lettera del Presidente del Consiglio Conte che invita la Società mista italo-francese a non assumere impegni che comportino oneri per l’Italia, e la prospettiva di ridiscutere tutto il progetto direttamente con il Presidente francese Emmanuel Macron e con la Commissione europea, bisogna fare qualche passo indietro, nella Storia.
Il progetto iniziale che più si avvicina al tema della TAV è quello che alla fine degli anni Ottanta prevedeva un Asse ferroviario Lione/Genova – Basilea – Duisburg – Rotterdam/Anversa, denominato “il ponte dei due mari”. Era orientato chiaramente sull’asse Nord-Sud: non passava per Torino, né tantomeno collegava questa città con Lione, poiché il tracciato prevedeva di attraversare le Alpi al confine tra l’Italia e la Svizzera. Si trattava di integrare con una rete efficiente il sistema dei trasporti dell’Europa. Era stato pensato quando ancora i Paesi dell’Est erano parte del blocco sovietico e del patto di Varsavia.
Mentre si costruiva il Mercato interno europeo, anche attraverso un sistema efficiente di infrastrutture di trasporto, cadeva il Muro di Berlino e cambiavano anche le priorità geopolitiche: occorreva integrare il più velocemente possibile i Paesi dell’Est. Era una strategia che richiedeva di collegarli economicamente all’Unione europea e militarmente alla Nato.
Ecco, allora, che nell’elenco dei 30 progetti prioritari (definiti Assi) delle reti Trans Europee di trasporto (TEN-T) si individua con il numero “6” un collegamento completamente diverso, orientato sull’asse Est-Ovest, che segue il seguente percorso: si attraversano le Alpi collegando Lione a Torino, poi si collega tutto il Nord Italia toccando Novara, Milano, Brescia, Verona, e Trieste, quindi si punta verso Est: prima si arriva in Slovenia a Lubiana, poi si sale verso l’Ungheria toccando Budapest, ed infine ci si arresta al confine della Ucraina. Era ancora quella la vera frontiera dell’Europa geopolitica.
Insomma, era completamente un’altra impostazione, che poi fu estesa con un collegamento ancora più ambizioso: si partiva da Lisbona in Portogallo per arrivare fino a Kiev in Ucraina. Anche l’Ucraina veniva pienamente integrata in un ambito europeo e naturalmente filo-Atlantico.
Si passa quindi dalla strategia dei primi anni Ottanta, che aveva come priorità la creazione del Mercato Unico europeo in un contesto definito dal Trans European Network (TEN-T), a quella che punta alla integrazione dei Paesi dell’Est europeo, che prima facevano parte del Blocco Sovietico e del Patto di Varsavia.
Prima le Reti trans-europee (TEN-T), poi gli Assi, ed infine i Corridoi pan-europei non sono affatto la stessa cosa: seguono logiche geopolitiche che si configurano in tempi diversi.
Una volta integrati i Paesi dell’Est europeo, il nuovo contesto geopolitico è rappresentato dalla avanzata della Cina e dal suo progetto BRI (Belt & Road Initiative) che approda nel Mediterraneo, sempre meglio collegato all’Oceano Indiano dopo il raddoppio del canale di Suez.
Sempre che non si apra la Rotta artica che sembrerebbe ormai praticabile per via della riduzione della banchisa polare, i porti di Genova e di Trieste diventerebbero teoricamente due terminali preferibili per le merci proveniente dall’Asia, rispetto a quelli del Nord Europa.
Ci sono però delle controindicazioni enormi: la TAV Torino-Lione sarà pronta tra una decina d’anni, e comunque non basta. Occorre potenziare Genova: ma qui il retroporto è inesistente, ed i collegamenti ferroviari ed autostradali sono fermi da decenni. Trieste, a sua volta, è stretta dalla frontiera.
In un ipotetico raccordo con la Cina, e nella prospettiva per l’Italia di diventare uno snodo logistico tra Europa ed Asia, forse sarebbe più utile il Porto di Gioia Tauro, opportunamente collegato con un passante ferroviario. Mentre la Calabria avrebbe un ruolo per la logistica, la Puglia diventerebbe un hub energetico essenziale con la TAP, collegandosi sia ai giacimenti dell’Azerbaijan che in futuro a quelli sottomarini intorno a Cipro e di fronte ad Israele.
Torino guarda alla TAV come rimedio ad un irreversibile declino, e lo stesso accade per Genova. I Paesi dell’Est europeo, ed ormai anche la Ucraina, ormai sono ben connessi dal punto di vista economico all’Unione europea ed alla Nato.
Neppure la Via della Seta passerà per Torino.
La TAV?
Solo archeologia geopolitica.