In diversi articoli che hanno trattato l’evoluzione dell’economia
capitalistica, a partire dal dopoguerra, è risuonata spesso la famosa
frase “Quando è iniziato il declino della classe media?”. Alcuni
accademici e studiosi hanno individuato il grande cambiamento a cavallo
degli anni 70 e 80, quando l’economia neoliberista si impose in
Occidente, irradiandosi poi nel resto del mondo, attraverso una serie di
“riforme” promosse a più livelli, dalla singola nazione fino ai grandi
accordi internazionali per la liberalizzazione degli scambi.
Il trentennio precedente aveva rappresentato per la classe media dei paesi sviluppati un’epoca d’oro, grazie alle politiche keynesiane e alla ricostruzione post seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti al termine del grande conflitto si ritrovavano nel ruolo di superpotenza e con il controllo di quasi il 50% del Pil globale. Grazie all’intelligenza dei leader di allora (per esempio il piano proposto da George Marshall), seppero dar vita ad un sistema stabile in grado di rilanciare in breve tempo l’Europa e il Giappone, nonostante le immani distruzioni e i milioni di morti. Le particolari condizioni geopolitiche, economiche, sociali e culturali favorirono l’avvento della società del benessere e l’estensione del sistema industriale-tecnologico su scala planetaria. Ma ovviamente la ricchezza del primo mondo fu in parte “pagata” dalla spoliazione dei paesi arretrati in Asia, Africa e Sud America, dove venne sperimentato tutto il feroce potere del Sistema, attraverso i saccheggi delle risorse, ma soprattutto attraverso la pervasiva colonizzazione economica (decisamente differente a livello di impatto rispetto al vecchio colonialismo imperialista ottocentesco), che finì per distruggere i delicati equilibri di quelle società.
Nonostante il continuo estendersi del potere occidentale e lo scarico delle tensioni intrinseche del modello capitalistico sulle popolazioni più povere, lentamente si fecero largo in numerosi settori della società occidentale dei cambiamenti decisivi, i quali avrebbero decretato la fine del metodo keynesiano. L’avvento della scuola monetarista di Milton Friedman e altri studiosi (sperimentata per la prima volta in Cile sotto la dittatura di Pinochet), insieme alla progressiva liberalizzazione dei commerci tramite gli accordi Gatt, mutarono il quadro dell’economia globale e le sue politiche. Ma furono soprattutto l’innovazione tecnologica, come la progressiva finanziarizzazione dell’economia, le modifiche strutturali delle corporations, l’avvio della flessibilità nel mercato del lavoro e lo sviluppo della robotica, a modificare l’assetto economico.
Il vecchio sistema di Bretton Woods, di fronte all’accelerazione del sistema industriale-tecnologico, si rivelò sempre più inadeguato, andando incontro a molteplici crisi, tra cui quella fondamentale nel 1971, quando Nixon pose fine ai vecchi accordi dando il via al sistema del Fiat Money. Un cambiamento importatissimo che nel giro di pochi anni porterà, insieme ad altre variabili, all’ascesa delle forze neoliberiste culminate nell’epoca Reaganiana e Thatcheriana.
Le sicurezze del vecchio mondo (il welfare state, il posto fisso, lo sviluppo costante e il diffondersi del benessere materiale a più strati della popolazione) incominciarono ad essere lentamente incrinate. Ma al contrario di certe retoriche complottiste, non fu solo semplicemente il disegno delle élites occidentali, ma la conseguenza inevitabile di un cambiamento sistemico epocale a cui le nostre classi dirigenti non si opposero, ma anzi favorirono in nome dei loro interessi. Invece di riformare il modello socialdemocratico e i suoi pesanti difetti (tra cui le elevate inefficienze nei settori pubblici), preferirono mutarlo in favore di un parassitismo elitario, le cui gravi conseguenze giungono ora a maturazione. Ma molto probabilmente, anche con i migliori riformatori, sarebbe stato impossibile mantenere certi standards qualitativi per lo sviluppo della middle class, in un mondo dove sarebbero emerse nuove potenze, nuovi mercati e miliardi di nuovi consumatori.
Dopo anni di battaglie e “riforme” erano pronte e funzionanti le strutture del nostro turbo-capitalismo, le quali illusero milioni di baby boomers nei ruggenti e illusori anni 80 e 90.
Il trentennio precedente aveva rappresentato per la classe media dei paesi sviluppati un’epoca d’oro, grazie alle politiche keynesiane e alla ricostruzione post seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti al termine del grande conflitto si ritrovavano nel ruolo di superpotenza e con il controllo di quasi il 50% del Pil globale. Grazie all’intelligenza dei leader di allora (per esempio il piano proposto da George Marshall), seppero dar vita ad un sistema stabile in grado di rilanciare in breve tempo l’Europa e il Giappone, nonostante le immani distruzioni e i milioni di morti. Le particolari condizioni geopolitiche, economiche, sociali e culturali favorirono l’avvento della società del benessere e l’estensione del sistema industriale-tecnologico su scala planetaria. Ma ovviamente la ricchezza del primo mondo fu in parte “pagata” dalla spoliazione dei paesi arretrati in Asia, Africa e Sud America, dove venne sperimentato tutto il feroce potere del Sistema, attraverso i saccheggi delle risorse, ma soprattutto attraverso la pervasiva colonizzazione economica (decisamente differente a livello di impatto rispetto al vecchio colonialismo imperialista ottocentesco), che finì per distruggere i delicati equilibri di quelle società.
Nonostante il continuo estendersi del potere occidentale e lo scarico delle tensioni intrinseche del modello capitalistico sulle popolazioni più povere, lentamente si fecero largo in numerosi settori della società occidentale dei cambiamenti decisivi, i quali avrebbero decretato la fine del metodo keynesiano. L’avvento della scuola monetarista di Milton Friedman e altri studiosi (sperimentata per la prima volta in Cile sotto la dittatura di Pinochet), insieme alla progressiva liberalizzazione dei commerci tramite gli accordi Gatt, mutarono il quadro dell’economia globale e le sue politiche. Ma furono soprattutto l’innovazione tecnologica, come la progressiva finanziarizzazione dell’economia, le modifiche strutturali delle corporations, l’avvio della flessibilità nel mercato del lavoro e lo sviluppo della robotica, a modificare l’assetto economico.
Il vecchio sistema di Bretton Woods, di fronte all’accelerazione del sistema industriale-tecnologico, si rivelò sempre più inadeguato, andando incontro a molteplici crisi, tra cui quella fondamentale nel 1971, quando Nixon pose fine ai vecchi accordi dando il via al sistema del Fiat Money. Un cambiamento importatissimo che nel giro di pochi anni porterà, insieme ad altre variabili, all’ascesa delle forze neoliberiste culminate nell’epoca Reaganiana e Thatcheriana.
Le sicurezze del vecchio mondo (il welfare state, il posto fisso, lo sviluppo costante e il diffondersi del benessere materiale a più strati della popolazione) incominciarono ad essere lentamente incrinate. Ma al contrario di certe retoriche complottiste, non fu solo semplicemente il disegno delle élites occidentali, ma la conseguenza inevitabile di un cambiamento sistemico epocale a cui le nostre classi dirigenti non si opposero, ma anzi favorirono in nome dei loro interessi. Invece di riformare il modello socialdemocratico e i suoi pesanti difetti (tra cui le elevate inefficienze nei settori pubblici), preferirono mutarlo in favore di un parassitismo elitario, le cui gravi conseguenze giungono ora a maturazione. Ma molto probabilmente, anche con i migliori riformatori, sarebbe stato impossibile mantenere certi standards qualitativi per lo sviluppo della middle class, in un mondo dove sarebbero emerse nuove potenze, nuovi mercati e miliardi di nuovi consumatori.
Dopo anni di battaglie e “riforme” erano pronte e funzionanti le strutture del nostro turbo-capitalismo, le quali illusero milioni di baby boomers nei ruggenti e illusori anni 80 e 90.
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