La
crisi attuale ci viene spesso spiegata come l’inevitabile esito della
nostra incapacità di adottare un modello di sviluppo moderno e vincente:
il modello tedesco. L’Europa viene rappresentata come divisa tra un
“centro” dinamico e vitale, capitanato dalla Germania, che costituisce
la locomotiva della crescita e l’avanguardia dello sviluppo economico,
ed una “periferia” inefficiente e improduttiva. Ma cosa c’è dietro
questa visione così aspramente dicotomica della geografia europea?
In breve, i Paesi del centro europeo – Germania in primis
– sarebbero più efficienti e produttivi dei Paesi periferici – tra cui
l’Italia – in quanto riuscirebbero meglio, dati alla mano, a vendere i
loro prodotti sui mercati esteri. Tuttavia, analizzando le ragioni della
leadership tedesca ci si accorge immediatamente che i beni
realizzati in Italia sono diventati dal 1999 ad oggi più cari del 20%
rispetto alle merci tedesche della stessa identica qualità: in altre
parole, il segreto del modello tedesco risiede soprattutto nella
capacità di produrre le stesse merci a costi minori. Risultato: i Paesi
centrali hanno sono cresciuti grazie alla domanda estera, mentre l’area
periferica ha progressivamente perso pezzi pregiati della propria
industria – con risultati drammatici sull’occupazione.
La
Commissione Europea vede nel costo dal lavoro il principale criterio
per valutare l’efficienza di sui mercati esteri: più si contiene il
livello dei salari, voce principale che concorre alla determinazione del
prezzo di un bene, più si risulta competitivi e virtuosi. Questa corsa
al ribasso scaturisce direttamente dai meccanismi economici operanti nel
particolare assetto istituzionale dell’unione monetaria, laddove i
Paesi della periferia europea sono costretti a recuperare la
competitività esterna ricorrendo al contenimento salariale perché non
hanno più la possibilità di svalutare la propria moneta rispetto al
marco tedesco. Se in passato potevamo agire sul tasso di cambio tra lira
e marco per difendere la competitività delle nostre merci, dal 1999 con
l’Euro abbiamo di fatto accettato la stessa moneta dei tedeschi,
cosicché tutta la pressione competitiva dei mercati internazionali
finisce per scaricarsi unicamente sulle spalle dei lavoratori.
Viceversa, qualora il Paese meno competitivo fosse munito dello
strumento della sovranità monetaria, un aggiustamento del tasso di
cambio sarebbe da considerarsi un normale meccanismo di riallineamento
della competitività che, evitando il contenimento dei salari,
preserverebbe il potere di acquisto dei lavoratori, il cosiddetto
salario reale.
È
chiaro che nel contesto europeo questo strumento di correzione non può
operare, e pertanto eventuali squilibri commerciali possono essere
corretti solo tramite la svalutazione del lavoro. Esiste tuttavia un
limite minimo al di sotto del quale le retribuzioni non possono
scendere: si tratta di quella soglia di salario socialmente accettabile
che consente di garantire la sopravvivenza fisica e morale del
lavoratore. La disoccupazione di massa e la precarizzazione del lavoro
che oggi colpiscono l’intera periferia europea si devono proprio a
questo: non tutti i lavoratori riescono a trovare un impiego in
corrispondenza di quel ‘salario di sussistenza’. Per ovviare a queste
criticità, le autorità di politica economica europee continuano
ostinatamente a proporre la ricetta delle riforme strutturali: in questo
direzione vanno le politiche di austerity ed il Jobs Act, un
provvedimento che, sulle orme della rimozione dell’articolo 18,
favorisce il precariato e riduce le tutele dei lavoratori, contribuendo
in ultima istanza ad abbassare quella soglia minima salariare sotto la
quale un individuo si vede costretto ad abbandonare il mercato del
lavoro. Così, in un sistema caratterizzato dalla libertà di movimento
dei capitali quale l’Unione Europea, i vari governi di centrosinistra e
centrodestra alternatisi negli ultimi trent’anni hanno pensato bene di
attrarre investimenti esteri promuovendo l’Italia come un paese in cui
gli ingegneri costano meno che altrove: in una recente brochure, Invest in Italy, si ammette candidamente che l’Italia
offre una forza lavoro altamente qualificata ad un prezzo competitivo –
cioè ad un salario che cresce meno che nel resto d’Europa.
Un
ulteriore quesito da porsi è come si sia potuti giungere, nel contesto
europeo, ad una tale situazione di squilibrio centro-periferia. A
riguardo, due sono le considerazioni da avanzare. La prima è che nel
1999, data di introduzione dell’Euro, la Germania presentava addirittura
un deficit commerciale: senza l’euro, era tra i Paesi meno competitivi.
La seconda considerazione è che i tedeschi stanno registrando surplus
commerciali perché dal 2003 hanno intrapreso una vigorosa svalutazione
salariale (riforme Hartz, agenda Schröder 2010) nonché un
imponente processo di delocalizzazione di una parte consistente delle
loro produzioni in Polonia ed Ucraina. Vige attualmente in Germania un
mercato del lavoro fortemente duale, in cui le grandi imprese che
operano sui mercati esteri, quelle che rendono la Germania competitiva,
assumono lavoratori qualificati garantendo un equo salario, mentre il
resto dell’economia, specialmente nel settore dei servizi, è
caratterizzato da contratti di lavoro precari con salari estremamente
bassi (mini-job, addirittura pagati un euro l’ora). In altre parole, i
tedeschi sono riusciti a diventare competitivi perché hanno
svalutato a dovere il lavoro e, malgrado l’inevitabile stagnazione
della domanda interna dovuta all’impoverimento della classe lavoratrice –
giacché minori salari tedeschi hanno portato minori consumi interni –
sono riusciti comunque a promuovere crescita e occupazione esportando
all’estero quelle merci che gli stessi tedeschi non potevano più
acquistare. È questo il modello economico trainato dalla domanda estera,
tutto fondato sul contenimento dell’inflazione – cioè dei salari. Ma il
successo del cosiddetto ‘modello tedesco’ si deve anche a quello che
succedeva, contemporaneamente, nei Paesi della periferia europea, Italia
inclusa: politiche di austerità, rinuncia ad una politica industriale,
riduzione del potere contrattuale dei lavoratori hanno prodotto
simultaneamente crescita delle disuguaglianze, disoccupazione,
stagnazione economica e impoverimento tecnologico senza tuttavia
conseguire il medesimo grado di raffreddamento dell’inflazione prodotto
in Germania. Il modello di sviluppo affermato in Europa non è altro che
una corsa al ribasso su salari e diritti che ha indebolito tutti i
lavoratori europei, dai tedeschi ai greci, ma che premia solo i primi
arrivati, quei Paesi centrali che hanno anticipato le riforme di
precarizzazione del lavoro senza mai abbandonare una rigorosa politica
industriale. Insomma, perché vi sia una locomotiva tedesca devono
esserci dei semplici vagoni merci privi di qualsiasi autonomia e capaci
solo di assorbire passivamente il surplus commerciale dei Paesi
centrali. Un centro solido richiede necessariamente una periferia
debole: non può aversi un modello tedesco per tutti i Paesi europei,
perché quel modello richiede che il centro scarichi sulla periferia le
sue merci.
Si
intravede a questo punto come, più che una partita tra la Germania e la
periferia, l’attuale situazione europea si configuri chiaramente come
un conflitto di classe: il contesto dell’Unione Europea e della moneta
unica rappresenta l’arma che i capitalisti usano contro i lavoratori del
Vecchio Continente per ottenere una porzione maggiore del prodotto
sociale sotto i colpi della competizione internazionale. La spartizione
di questo bottino, sottratto ai lavoratori europei, avviene poi secondo
la regola del più forte, animando un conflitto tutto interno alla classe
capitalista in cui i Paesi centrali stanno schiacciando le borghesie
dei Paesi periferici. D’altro canto non ci sorprende, dato che il
modello economico europeo è ispirato da principi ultraliberisti, per cui
oltre alla sovranità politica si è scelto di rinunciare anche alla
sovranità monetaria, perdendo così un ulteriore strumento di controllo
dell’economia.
La
libera concorrenza tra sistemi nazionali eterogenei ha prodotto, in un
sistema di cambi fissi quale l’Eurozona, una corsa al ribasso sui salari
sospinta dalla competizione internazionale che ha radicalmente spostato
i rapporti di forza in favore dei capitalisti e a scapito dei
lavoratori. Anche in vista della prossima scadenza elettorale, appare
quindi sempre più urgente convogliare le forze nella direzione di un
superamento dell’attuale assetto istituzionale europeo, verso la rottura
di un sistema capace solo di generare povertà e disoccupazione
attraverso i meccanismi della moneta unica e le regole dell’Unione
Europea.
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