lunedì 29 febbraio 2016

Il referendum si vince o si perde tra la gente

Quando sarà esaurito il procedimento parlamentare, l’ultima parola sulla riforma della Costituzione toccherà ai cittadini chiamati a pronunciarsi con un referendum.
Una prova che appare sin da oggi ardua e destinata a lacerare quell’articolato arcipelago di forze politiche, culturali e sociali che nel giugno del 2006 si era unanimemente schierato contro la consanguinea riforma voluta dal governo Berlusconi. Né potremo confidare nella libera informazione.
L’omologazione strisciante ha come protagonista il sistema mediatico (in particolare quello radiotelevisivo).
Specialmente la televisione è impegnata in un’offensiva culturale così pressante da essere riuscita, in poco tempo, a sortire nel senso comune la percezione che la riforma sia oggi necessaria per ottenere “flessibilità dall’Ue”, “liberare il paese dalla casta”, “ridurre gli sprechi della politica”.
La mistificazione del reale alla quale stiamo assistendo ci conferma che non è più tempo di contorsionismi accademici. La retorica della riforma va disinnescata sul terreno della mobilitazione politica. Il referendum si vince o si perde fra le gente. Lo ha compreso il capo del governo che gioca tutte le sue carte sulla consultazione referendaria, sottoponendo questo istituto a una torsione demagogica senza precedenti. Lo ha compreso meno il fronte referendario, schiacciato sulla difensiva e spesso incapace di connettersi con la realtà sociale e le sue trasformazioni.
Poniamola in questi termini: a un giovane precario, senza prospettive di futuro che vede giorno dopo giorno svanire i propri diritti cosa risponderemo quando ci obietterà che la sua condizione e quella dell’intero paese sono peggiorate vigendo la Costituzione repubblicana, la più bella del mondo, quella fondata sul lavoro e che pone al primo posto la dignità sociale delle persone? Una domanda scarna, essenziale alla quale siamo tenuti a dare una risposta, la cui efficacia discende dalla nostra capacità di riuscire a ribaltare le parole d’ordine del fronte avversario, rompendo l’assedio.
Bisognerebbe, in altre parole, far comprendere, soprattutto nelle aree più disagiate del Paese, che l’attacco alla Costituzione è alla base dell’ecatombe sociale che si è in questi anni abbattuta su milioni di lavoratori (privati dei loro diritti), sulle famiglie più povere (alle prese con un sistema sanitario divenuto economicamente inaccessibile), sui giovani precari e su tanti studenti espulsi dalle Università in ragione di costi divenuti proibitivi.
La controriforma della Costituzione è parte di questa storia perché punto di condensazione di un processo erosione delle garanzie democratiche e dei diritti sociali che ha avuto nell’egemonia liberista la sua matrice. Un ordine che oggi non si contenta più di eludere, sospendere, piegare l’interpretazione delle norme costituzionali ai propri interessi come è avvenuto per lungo tempo. Ma che spingendosi oltre ogni limite intima agli Stati di intervenire direttamente sul testo delle Costituzioni per modificarne l’impianto.
Collocata in questo contesto la lettera Draghi-Trichet (5 agosto 2011) non fu soltanto un minuzioso compendio di macelleria sociale (privatizzazioni su larga scala, adeguamento dei salari e delle «condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende»; controriforma del sistema pensionistico e della P.A. con «riduzione significativa dei costi del pubblico impiego e … stipendi»). Ma anche un raffinato trattato di riformismo costituzionale (pareggio di bilancio, riforme strutturali, superamento delle Province …).
Ciò a cui stiamo oggi assistendo è, in altre parole, una vera e propria offensiva contro gli ordinamenti democratici europei le cui «costituzioni – si legge nella nota della JP Morgan (28.05.2013) – mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo». Una sorta di vizio genetico dal quale la banca d’affari fa discendere talune fra le più gravi “perversioni” del costituzionalismo democratico: «Esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti e delle regioni, tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori, diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi».
Ma dalla nota apprendiamo anche qualcosa in più. Qualcosa che ci riguarda direttamente: «Il test chiave sarà l’Italia, dove il governo ha l’opportunità concreta di iniziare riforme incisive».
Come è andata a finire lo sappiamo: smantellamento dello Statuto dei lavoratori; verticalizzazione della decisione politica (dalle scuole al governo della Rai), leggi elettorali a rappresentanza compressa … E ora il disegno Boschi-Renzi che normativizza (in combinato con la legge elettorale) il primato dei governi su regioni e parlamento.
Da questo scenario possiamo ricavare tre conclusioni:
l’attacco sferrato in questi anni ai diritti sociali rischia oggi di estendersi ai diritti politici e alle libertà;
l’Italia è divenuta, in termini gramsciani, il terreno privilegiato di sperimentazione del nuovo sovversivismo delle classi dirigenti;
questo accade non perché l’ordine neoliberista è troppo forte, ma perché inizia a essere troppo debole. E per difendersi ha bisogno di alzare muri (contro i migranti), blindare il sistema ricorrendo a leggi elettorali contraffatte (Italia), rafforzare i poteri di emergenza attraverso modifiche della Costituzione (Francia), “commissariare” la volontà democratica dei popoli (Grecia).
Le classi dirigenti europee sono oggi allo sbando. E ai partiti tradizionali, per continuare a governare, non resta che coalizzarsi, erigendo partiti della nazione o dando vita ad alleanze che fino a poco tempo fa avremmo giudicato innaturali (Germania).
È questo il fronte conservatore oggi in azione. E il terreno di sfondamento prescelto in Italia per portarne a compimento il disegno è la controriforma costituzionale.
Ecco perché il governo ha deciso di trasformare il referendum nella madre di tutte le battaglie. Ecco perché siamo chiamati a difendere la Costituzione repubblicana.

domenica 28 febbraio 2016

Se l’Italicum è incostituzionale

Il cosiddetto Italicum nella pratica ancora non esiste ma è già stato impugnato per sospetti vizi di costituzionalità. La nuova legge elettorale infatti non ha ancora avuto modo di essere applicata e il suo definitivo ingresso tra le leggi dello stato è ancora subordinato all’esito favorevole del referendum confermativo previsto per ottobre, eppure già è accusata di essere contraria alla nostra Costituzione.
Il tribunale di Messina si è infatti costituito giudice a quo e dei 13 ricorsi che gli sono stati presentati ne ha ammessi, tecnicamente ritenendoli “non manifestamente infondati”, ben sei, rinviando così il testo della legge alla Corte Costituzionale, la quale ora dovrà pronunciarsi in merito. Quali sono questi dubbi? Il premio di maggioranza e le liste bloccate prima di tutto, ma poi anche la mancanza di soglia minima per accedere al ballottaggio, le soglie di sbarramento immotivatamente alte per il Senato. Quali erano invece i motivi per cui il vecchio Porcellum fu definito incostituzionale nel 2014? Il premio di maggioranza e le liste bloccate, anche per esso.
Dunque siamo esattamente, come si dice, da capo a dodici. Una legge elettorale vergognosa viene proclamata incostituzionale per l’assegnamento alla coalizione vincente di un premio di maggioranza sproporzionato e per la presenza di liste bloccate che non lasciano ai cittadini la minima scelta riguardo i candidati da eleggere, delegando tutto alle torbide scelte dei partiti. Due anni e infiniti bisticci politici dopo, c’è una nuova legge elettorale che assegna nuovamente un premio di maggioranza spropositato e che prevede anch’essa la presenza di quelle stesse liste bloccate presenti nella legge precedente. Non serve un sillogismo aristotelico per capire che conseguenza di ciò è che la seconda legge venga anch’essa prontamente contestata per gli stessi vizi della prima (e, abbiamo visto, anche per altri). E infatti è esattamente ciò che accaduto. Dopo nemmeno due anni, senza averla mai applicata, ci ritroviamo una legge elettorale che di nuovo puzza di incostituzionalità, oltre che di gran porcata, esattamente come la precedente.
Il Governo Renzi per questo si merita davvero un lungo applauso, e un bel chapeau. Non è da tutti rifare una legge riutilizzando gli stessi elementi che ne hanno resa incostituzionale un’altra. Così ora dovremo attendere il verdetto della Corte, che tra trafile burocratiche, cavilli e bizantinismi vari chissà quando arriverà, allungando ulteriormente i tempi per vedere finalmente una legge elettorale finita e degna di questo nome. E nel caso possibile in cui la Consulta dovesse giudicare anche l’Italicum incostituzionale? A parte un altro, lunghissimo, applauso al Governo e al Parlamento tutto, ritornerà per così dire “operante” il cd Consultellum, ovvero il vecchio Porcellum amputato delle parti che due anni fa furono ritenute incostituzionali.
Quella che racconteranno a noi però sarà un’altra storia, ossia che senza una legge elettorale che sia costituzionale non si possono fare elezioni, e quindi prima di approvarne un’altra non si può minimamente pensare di andare alle urne, guai. Un modo già sperimentato per continuare a ricattare gli italiani, tenendoli sotto scacco e impedendo loro di esercitare il proprio diritto di voto, convincendoli che non c’è alternativa a un Governo, come quello di Renzi, che nessuno ha eletto e che sta facendo tutto tranne l’interesse degli elettori (giustamente elettori non ne ha, quindi perché dovrebbe fare gli interessi di qualcuno che non c’è). Ma con tutta probabilità gli italiani non se ne avranno a male, visto che in questi giorni sono impegnati in ben altre discussioni, tra unioni civili e altri argomenti ben più interessanti e petalosi di certe noiose questioni di diritto costituzionale.

venerdì 26 febbraio 2016

Ma quale «difesa», i droni a Sigonella sono da attacco

Droni killer a Sigonella per bombardare le postazioni Isis in Nord Africa. La notizia, ancora una volta, arriva dall’altra parte dell’oceano. The Wall Street Journal , citando una fonte ufficiale delle forze armate Usa, ha rivelato che da circa un mese il governo italiano ha autorizzato il decollo di droni armati statunitensi dalla stazione aereonavale di Sigonella in Sicilia per effettuare «operazioni militari contro lo Stato islamico in Libia e attraverso il Nord Africa».
Sempre secondo il quotidiano, il via libera da parte del governo Renzi sarebbe giunto «dopo più di un anno di negoziati» e con una alcune limitazioni alle regole d’ingaggio. «Il permesso sarà dato dal governo italiano ogni volta caso per caso e i droni potranno decollare da Sigonella per proteggere il personale militare in pericolo durante le operazioni anti-Isis in Libia e in altre parti del Nord Africa», scrive il Wsj .
L’amministrazione Obama avrebbe tuttavia richiesto l’autorizzazione a operare dalla Sicilia anche per missioni offensive, dato «che sino al mese scorso i droni Usa schierati a Sigonella erano solo per scopi di sorveglianza».
Le autorità italiane hanno confermato le rivelazioni Usa ma la versione soft-difensiva sui velivoli senza pilota è assai poco credibile; inoltre è tutt’altro che vero che i droni-killer operino da Sigonella solo da un mese a questa parte. I sistemi di volo automatizzati in mano alle forze armate Usa sono i famigerati MQ-1 Predator e MQ-9 Reaper, armi letali da first strike, in grado d’individuare, inseguire ed eliminare gli obiettivi «nemici» grazie ai due missili aria-terra a guida laser AGM-114 «Helfire».
Questi droni sono stati impiegati negli ultimi dieci anni per più di 500 attacchi in Afghanistan, Pakistan, Iraq, Siria, Yemen e Libia con oltre 4.200 vittime. L’ultimo strike con i droni-killler è stato effettuato la settimana scorsa contro un presunto «campo d’addestramento» delle milizie filo-Isis a Sabratha, in Tripolitania, vicino al confine con la Tunisia.
Secondo Washington, il raid avrebbe causato la morte di una trentina di jihadisti tra cui il tunisino Noureddine Chouchane, ritenuto uno dei responsabili degli attentati effettuati lo scorso anno al Museo del Bardo e sulla spiaggia di Sousse. Il campo di Sabratha (ad una ventina di chilometri dal terminal gas di Melitha gestito dall’Eni) è stato colpito da missili aria-terra lanciati da alcuni bombardieri Usa decollati dalla Gran Bretagna e da Predator o Reaper presumibilmente di stanza proprio a Sigonella, come riferito da alcuni organi di stampa internazionali.
I Predator Usa erano stati impiegati da Sigonella per le operazioni di guerra in Libia nella primavera-estate 2011. Un rapporto dell’International Institute for Strategic Studies di Londra sulle unità alleate impegnate nell’operazione «Unified Protector», aveva documentato come a partire della metà dell’aprile 2011 due squadroni dell’Us Air Force con droni-killer erano stati trasferiti nella base siciliana. I primi raid furono effettuati il 23 aprile contro una batteria di missili libici nei pressi del porto di Misurata; un secondo raid fu sferrato invece a Tripoli il giorno seguente contro un sistema anti-aereo «SA-8».
Da allora l’uso della base di Sigonella come piattaforma di lancio dei droni Usa non ha conosciuto interruzioni e le operazioni sono state estese a tutta l’Africa sub-sahariana, alla Somalia, allo Yemen e più recentemente anche alla Siria.
Nel maggio 2013, l’Osservatorio di Politica Internazionale, un progetto di collaborazione tra il CeSI (Centro Studi Internazionali), il Senato della Repubblica, la Camera dei Deputati e il Ministero degli Affari Esteri, pubblicò uno studio sui velivoli senza pilota statunitensi a Sigonella in cui si documentò la presenza di «non meno di sei Predator Usa da ricognizione e attacco». «I droni temporaneamente basati a Sigonella hanno fondamentalmente lo scopo di permettere alle autorità americane il dispiegamento di questi determinati dispositivi qualora si presentassero delle situazioni di crisi nell’area nordafricana e del Sahel», scriveva l’Osservatorio.
«Ai tumulti della Primavera Araba che hanno portato alla caduta dei regimi di Tunisia, Egitto e Libia ha fatto seguito un deterioramento della situazione di sicurezza culminato nel sanguinoso attacco al consolato di Bengasi e nella recente crisi in Mali, dove la Francia ha lanciato l’Operazione Serval. In considerazione di tale situazione, la Difesa Italiana ha concesso un’autorizzazione temporanea allo schieramento di ulteriori assetti americani a Sigonella».
Anche allora si tentò comunque di edulcorare la pillola dei droni-killer con il Parlamento e l’opinione pubblica. «Concedendo le autorizzazioni, le autorità italiane hanno fissato precisi limiti e vincoli alle missioni di queste specifiche piattaforme», aggiungeva il rapporto. «Ogni operazione che abbia origine dal territorio italiano dovrà essere condotta come stabilito dagli accordi bilaterali in vigore e nei termini approvati nelle comunicazioni 135/11/4a Sez. del 15 settembre 2012 e 135/10063 del 17 gennaio 2013».
Nello specifico, si potevano autorizzare solo le sortite di volo volte all’«evacuazione di personale civile, e più in generale non combattente, da zone di guerra e operazioni di recupero di ostaggi» e quelle di «supporto» al governo del Mali «secondo quanto previsto nella Risoluzione n. 2085 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite». Le forze armate Usa sarebbero state tenute ad informare le autorità italiane prima dell’effettuazione di qualsiasi attività. Mistero fitto però sul modo in cui si potrà mai impedire a Washington di utilizzare Sigonella per operazioni contrarie alla Costituzione o agli interessi strategici nazionali.

giovedì 25 febbraio 2016

Il fallimento dei filo-Ue: viaggio nella politica ucraina due anni dopo il colpo di stato di Maidan

Il 23 febbraio 2014 è una data che gli ucraini difficilmente scorderanno. Quel giorno a Kiev, dopo lunghi mesi di proteste,
manifestazioni, scontri e centinaia di morti, si insediava il nuovo presidente reggente della Repubblica, allora speaker della Rada, Olexander Turchinov, oggi a capo del Consiglio Nazionale di Sicurezza e difesa. Dunque, finiva ufficialmente l’era di Viktor Yanukovich, spodestato dalla sua carica e fuggito in Russia per evitare un processo e una probabile condanna a morte.
Al potere qualche mese dopo, sull’onda emotiva di una rivoluzione “aiutata” da forze esterne, come più di qualche elemento fa pensare, salì Petro Poroshenko, magnate televisivo e dell’industria dolciaria, appoggiato da una coalizione filoeuropea (il nome “Ucraina europea” era abbastanza eloquente), composta da cinque partiti: Blocco
Poroshenko, Fronte Popolare (partito del premier Yatsenyuk), Partito Radicale (di Oleg Lyashko), Patria (di Yulia Tymoshenko) e Samopomich (di Andreyi Sadovyi). Oggi, a due anni di distanza, il fallimento dei filoeuropei ucraini è piuttosto evidente.
Di quella coalizione non è rimasto assolutamente nulla. Lyashko è tornato all’opposizione diversi mesi fa, quando ha capito che ancorarsi a un governo telecomandato da Washington (sponda FMI) non pagava elettoralmente, mentre Patria e Samopomich sono usciti dalla maggioranza la scorsa settimana, in seguito alla crisi politica che sta paralizzando il paese. Nemmeno il Blocco Poroshenko, in realtà, anche se ancora ufficialmente in maggioranza, è completamente unito
nel sostenere il governo. Le due correnti che animano il movimento del presidente si stanno scontrando con tutti i mezzi possibili: da un lato c’è chi vorrebbe provare a costruire una nuova alternativa in Parlamento, senza dover incappare nel pericolo urne, dall’altro chi ritiene la strada delle elezioni legislative anticipate la strada più semplice per risolvere questa agonia.
E’ difficile prevedere come andrà a finire, perché la politica ucraina ci ha abituato a colpi di scena davvero inaspettati (l’ultimo settimana scorsa, quando Yatsenyuk sembrava finito e invece è sopravvissuto ancora una volta), anche se gli ultimi sondaggi possono in qualche modo contribuire a comprendere perché Poroshenko e i filo-europei al voto anticipato proprio non vogliono tornarci. Gli ultimi dati, diffusi proprio oggi dall’Istituto demoscopico Gorshenin,
dimostrano che le urne sarebbero un vero e proprio bagno di sangue per Poroshenko e Yatsenyuk.
Se le elezioni parlamentari si tenessero domenica, il primo partito risulterebbe a sorpresa Samopomich con il 15,6%. Un risultato indicativo, che dimostra come il sentimento antirusso radicale prenda sempre più piede nell’ex repubblica sovietica (Samopomich è il partito del sindaco di Leopoli, città nell’ovest dell’Ucraina, culla del nazionalismo antirusso ucraino e centro politico dei banderisti).
Dietro Samopomich la classifica vedrebbe una generale caduta del partito di Poroshenko e di quello di Yatsenyuk: Patria 14%, Blocco opposizione 12,8%, Partito Radicale 12,5%, Blocco Poroshenko 9,7%, Svoboda 8,6%, Ukrop 6,3%, GP 6,1%, Fronte Popolare 2,9%.
Il partito dell’attuale premier Yatsenyuk potrebbe rimanere fuori dal Parlamento, dove la soglia di sbarramento è del 5%, potendo sperare di conquistare qualche seggio solo nella quota dei seggi uninominali previsti dalla legge elettorale. A sparigliare tutto potrebbe però essere Mikheil Saakashvili. Il governatore della Regione di Odessa,
che ha parlato di un colpo di Stato degli oligarchi subito dopo il fallimento del voto di sfiducia nei confronti di Yatsenyuk, sarebbe caduto persino dalle grazie del presidente Poroshenko. Fonti politiche e giornalistiche di Odessa parlano di un imminente licenziamento in arrivo da Kiev.
Cosa che potrebbe indurre Saakashvili a schierarsi direttamente nell’arena politica, rubando voti a tutti i partiti in campo. Ecco come cambierebbero le intenzioni di voto, se l’ex premier georgiano presentasse una propria lista: partito Saakashvili 13,4%, Samopomich 12,2%, Patria 12,1%, Blocco Opposizione 11,3%, Partito Radicale 10,3%,
Blocco Poroshenko 8,5%, Svoboda 7,3%, Ukrop 6,1%, GP 5,6%

mercoledì 24 febbraio 2016

"Come si può credere ancora nella NATO, dopo quello che ha fatto in Libia?"

L'ex presidente del Comitato per l´intelligence del Senato di Washington, Pete Hoekstra sul disastro libico: i leader occidentali hanno imparato qualcosa?
"I recenti attacchi aerei degli Stati Uniti sulla Libia hanno confermato una volta per tutte il completo fallimento dell'avventura della NATO per rovesciare Muammar Gheddafi nel 2011", ha affermato l'ex presidente del Comitato per l´intelligence del Senato di Washington, Pete Hoekstra.
"La Libia è diventata uno Stato fallito dopo che la NATO ha aiutato gli islamisti radicali, oppositori di Gheddafi, ad ucciderlo e poi ha subito lasciato il paese al suo destino", ha detto l'esperto in un'intervista con il canale Fox News .
"Il flusso di rifugiati verso l'Europa, gli attacchi terroristici che stanno diventando sempre più diffusi geograficamente e la guerra per procura in Siria (.
..) e nonostante questo l'ex segretario di Stato, Hillary Clinton, ancora definisce l'intervento in Libia 'il miglior esempio dell' uso intelligente della potenza americana", afferma Hoekstra.
Gheddafi, secondo l'esperto, era in realtà un partner affidabile degli Stati Uniti nella lotta contro l'Islam radicale e dopo il suo assassinio, "ogni leader dovrebbe chiedersi: come si può credere nella NATO e l'Occidente". Con questa logica Hoekstra spiega le azioni del presidente siriano Bashar al Assad nel conflitto.
La mattina del 19 febbraio, la US Air Force ha attaccato un campo di addestramento dello Stato Islamico in Libia. Uno dei leader dei militanti è stato eliminato. In totale, il sindaco della città di Sabratha, Houcine Daoudi, ha parlato di circa 49 morti nell'operazione, tra cui due cittadini serbi sequestrati.

martedì 23 febbraio 2016

Game over, l’orrida Europa non digerisce il pessimo Renzi

Prosegue imperterrita la “danza degli schiaffoni” fra Renzi e l’Unione Europea. In prima linea ci sono i popolari, ma il silenzio sprezzante dei socialisti pesa ancora di più. Quel povero diavolo di Pittella (per sua sfortuna capogruppo socialista a Strasburgo) cerca di sostenere il suo signore e padrone italiano, giungendo a minacciare la crisi dell’accordo popolari-socialisti che regge la Commissione, mentre i suoi compagni di gruppo francesi, tedeschi e olandesi lo guardano come lo scemo del villaggio con l’aria di pensare “Ma che stai dicendo?”. Da dove nasce questa inedita replica della Cavalleria Rusticana? I punti veri di dissenso sono due: l’applicazione del bail-in e la riduzione delle tasse. Renzi ha bisogno di margini di flessibilità molto più ampi (e usa l’emergenza rifugiati) perché vuol fare un taglio di tasse prima delle elezioni. Sul primo punto, Renzi, che non aveva mosso paglia contro la formazione della direttiva sul bail-in e neppure sulla sua immediata applicazione dal 1° gennaio 2016, aveva pensato di cavarsela con qualche furbata all’italiana (tipo il “salvabanche”), ma gli “europei” non glielo permettono, dando della direttiva l’interpretazione più restrittiva possibile (e ci vuol, poco perché la lettera è già più che sufficiente a bloccare il giullare).
E questa rigidezza dipende dal fatto che i nostri valenti alleati tedeschi e francesi hanno già forchette in pugno e tovagliolo al collo per banchettare suo beni italiani. Sul secondo punto, Renzi ha bisogno di fare qualcosa sul fisco per non arrivare alle Renzi e Merkelelezioni con un bilancio fatto solo di promesse mancate. Magari, poi le tasse le raddoppierebbe un minuto dopo la vittoria elettorale. Ma anche qui gli europei non mollano: “Niente tagli fiscali, devi pagare gli interessi sul debito e non puoi fare altro disavanzo”. Ma perché tanta indisponibilità, mentre all’Inghilterra è stato concesso tutto o quasi? I soci di maggioranza della Ue non vogliono perdere Londra che (sbagliando) ritengono un punto di forza dell’alleanza, mentre non hanno alcuna particolare propensione a tenersi Roma che (ricordiamolo sempre) è il terzo debito pubblico mondiale. Se a minacciare un referendum sull’uscita dalla Ue fosse il governo italiano, a fare la campagna elettorale a favore dell’uscita, giungerebbe in Italia Juncker.
In secondo luogo, proprio perché all’Uk è stato concesso tutto, poi non si può dare niente all’Italia, pena un assalto alla diligenza di tutti gli altri. L’Italia non è la Grecia, è uno dei 4 principali contraenti il patto e, dal punto di vista di Strasburgo ed Amburgo, sta dando un pessimo esempio agli altri. Se non si dà una lezione all’Italia, poi verranno la Spagna, il Portogallo, l’Estonia, Cipro, magari di nuovo la Grecia. In breve la Ue sarebbe solo una marmellata, mentre qui gli “alleati” intendono ribadire che nella Ue c’è chi comanda (la Germania), chi è capo in seconda (la Francia), chi ha diritto a privilegi (l’Inghilterra) e tutti gli altri che devono obbedire. Questo ordine interno non deve essere turbato per nessuna ragione e Renzi deve piantarla. Questo è il modo di vedere dei nostri ineffabili alleati. Beninteso: l’Italia se lo merita. Non si può mandare in giro per il mondo Renzi a Parigirappresentanti impresentabili come Berlusconi e Renzi, proni come Monti o Letta o deboli come Prodi e pretendere che gli altri ti prendano sul serio. O vigliamo parlare dei ministri degli esteri che abbiamo espresso?
Lo scontro fra Renzi e la Commissione Europea è uno scontro fra un branco di squali feroci ed uno squalo scemo, impossibile fare il tifo per nessuno dei due. D’altro canto, ho l’impressione che l’elenco dei nemici di Renzi sia già molto lungo e cresce di giorno in giorno: la magistratura, le grandi banche italiane, ora la Farnesina, la tecnocrazia europea, il Consiglio di Stato, infine buona parte del mondo ecclesiale inviperito per la legge sulle unioni civili… E molto è dovuto all’arroganza personale dell’uomo, splendido esempio del “fiorentino spirito bizzarro” andato a male. Forse sono troppo ottimista ma ho l’impressione che, per Renzi, il cronometro della Ue abbia già iniziato a scorrere verso l’ora zero.

lunedì 22 febbraio 2016

La Rai in mano agli amichetti di Renzi

Chi pensa che Matteo Renzi non abbia portato alcuna novità nella politica italiana, a parte lo schieramento di una batteria di iene dalla faccia ggiòvane, ha molte ragioni.
Sulla vicenda delle nomine alla Rai, invece, una novità c'è sicuramente: per la prima volta nella storia il partito governo non piazza nelle caselle principali dei professionisti appartenenti all'azienda, ovviamente trascegliendoli tra i più fedeli (il democristiano Buno Vespa, la piddina Bianca Berlinguer e via incasellando).
Aveva promesso “metterò fuori i partiti dalla Rai” e l'ha fatto. Purtroppo con un peggioramento evidente: invece di uomini o donne di partito ci ha messo direttamente degli amici suoi. Così come vuol fare con i servizi segreti, dove gli piacerebbe tanto piazzare - ai vertici, ovviamente, tramite una “autorità” nuova di zecca inventata per l'occasione – il suo ex padrone di casa fiorentino (quand'era soltanto un presidente di provincia o un sindaco), quel Marco Carrai fin qui soltanto un imprenditore in “sicurezza informatica”.
Lo spaccato di mondo da cui Renzi trae come conigli dal cappello personaggi inadeguati, impresentabili, incompetenti in tutto tranne che nell'omaggiare il potente di turno, risulta per noi chiaramente inaccessibile. Vi proponiamo perciò questo velenoso quadretto riassuntivo elaborato da Dagospia, che certamente ha più terminali in quello stesso mondo, condividendone spesso salotti e abitudini. Proprio per questo, forse anche inconsapevolmente, mortale per la credibilità di Renzi e la sua corte dei miracolati. Per esempio: quella Daria Bignardi che l'altro giorno liquidava con un sorriso e una parola "sciocchezze...") le robustissime voci sul suo tasso di renzianità.
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DAGONOTA - Evviva! Finalmente la politica è uscita dalla Rai! Ora sì che il nuovo corso renziano ha dimostrato che bisogna premiare il merito. Il grande merito di Daria Bignardi, per esempio, è quello di aver condotto solo un programma, sempre lo stesso, per 10 anni (''Le Invasioni Barbariche'') fino a portarlo a degli ascolti talmente bassi che persino La7 di Urbano Cairo ha deciso di tagliarlo. Sì, La7, quel canale che in prima serata festeggia se si raggiunge il 3% di share.
Una trasmissione peraltro rivoluzionaria, un format inedito: interviste faccia a faccia. Con a volte una birra sul tavolo. Forse sarà stata questa intuizione creativa a garantire alla Bignardi, che secondo fonti molto accreditate stava per perdere anche la sua rubrica su ''Vanity Fair'', la poltrona di direttore di Rai3.
O forse chissà, sarà stato il grande risultato di ''L'era glaciale'', il programma con cui tornò in Rai per un anno, nel 2009, e che fu cancellato alla fine della prima stagione, dopo che Dariona nostra si infuriò per la messa in onda, al suo posto, di un cartone di ''Paperino''. Essendo identico alle ''Invasioni'', non fu difficile riesumare lo stesso programma su La7 l'anno dopo. Che creatività, che guizzi!
Certo, come scriveva Alberto Dandolo su MilanoSpia, il marito Luca Sofri era stato avvistato il mese scorso "in zona Cadorna a Milano con una biondina mozzafiato". Ora che la moglie si trasferisce a Roma, sarà più libero di pranzare con chi gli pare...
Basta cattiverie però: non è mica detto che nonostante i flop televisivi, la Bignardi abbia incassato la poltrona per i suoi legami con Renzi, che ha molte volte invitato e promosso in tv. Tanto da dire, appena Matteo è diventato segretario del Pd, di ''averlo inventato lei'': ''Mi sento un po' come Pippo Baudo, s'intuiva il desiderio di Renzi di cambiare le cose e ce l'ha fatta''. (Su Radio24, gennaio 2014).
Dietro può esserci anche la sua amicizia con Antonio Campo Dall'Orto: fu lui a portarla a La7 quando era direttore della piccola tv.
Nelle intenzioni del direttore generale Campo Dall'Orto, le scelte delle nuove direzioni proposte ad Cda - a quanto si apprende - sono ''basate su competenza esperienza e merito, autonomia dai partiti, guidate dalla volontà di rinnovamento proprio attraverso la competenza e nel segno della valorizzazione delle risorse interne''. Si tratta anche della prima volta di una direzione di rete affidata ad una donna nella storia della Rai (in realtà sono due Dellatana a Rai2 e Bignardi a Rai3), e del più giovane direttore di rete di Rai1 (Fabiano classe 1976).
Per la ripresa de Le invasioni barbariche Daria Bignardi ha puntato sul presunto nuovo e sull’usato forse sicuro: Renzi. In passato era andata bene, soprattutto dopo le primarie perse con Bersani (una delle migliori prestazioni televisive di Renzi). Due sere fa, no: 3.82% e 830mila spettatori. La prima puntata di un anno fa, ancora con Renzi, aveva avuto 1268milioni. Una slavina, ancor più pensando alla presenza del Presidente del Consiglio. Il quale, da parte sua, non incide più come prima sugli ascolti.
Forse perché vive in tivù, forse perché gli annunci hanno stancato e forse perché la rottamazione funzionava quando lui era un outsider ma non adesso: oggi Renzi è Premier e gli italiani, più che ottimismo, gradirebbero sentir parlare di soluzioni. E’ anche così che si spiega il flop. C’è poi un altro motivo: forse molti italiani si sono stancati di queste interviste che si rivelano piuttosto dei cinguettii d’amor. Quando Renzi è in tivù, la seconda domanda è spesso un miraggio e la prima un miracolo.
La Bignardi non ha mai avuto velleità da giornalismo d’inchiesta e neanche ha mai nascosto il suo fervente renzismo: legittimo, solo che poi l’effetto melassa è inevitabile. Ogni tanto qualche domanda puntuta aiuterebbe. E invece niente, perché “è solo intrattenimento” (la tesi anche di Fazio) e perché tutto è criticabile tranne Renzi. Mercoledì Le invasioni barbariche è diventato trending topic, a conferma di come spesso Twitter porti un po’ sfiga: dopo “piazze piene urne vuote”, ormai vale anche “Twitter pieno auditel vuoto”. Tra i molti tweet, qualche plauso e tante perplessità. Rosario Pellecchia (Radio 105): “Ciao, sono una domanda della Bignardi. Sono triste. Nessuno mi capisce”. Maice: “La Bignardi stasera ha preparato ‘Le linguine alla Leopolda’”
Il marito Luca Sofri, una delle menti del programma, pare in procinto di lavorare al nascente Minculpop renziano, un settimanale in coabitazione con noti sfollatori di lettori come Rocca e Menichini (solidarietà a Renzi). Così, prima che la Bignardi azzardasse con Fedez un surreale accostamento rapper-terrorismo ed evitasse accuratamente l’argomento Renzi (di cui Fedez è oppositore), il colloquio con il Premier sembrava quello tra due vecchi amici al bar (“Sei dimagrito, porti le lenti, tua moglie è bellissima, non sei cattivo, come hai festeggiato i 40 anni. Due amanti? No. Bignardi e Renzi”: così Alessandro Usai).
Curioso, poi, come la Bignardi abbia legittimamente chiesto al deputato 5 Stelle Di Battista se lo imbarazzasse avere un padre fascista, mentre non abbia ritenuto opportuno chiedere a Renzi se lo imbarazzi avere un padre indagato per bancarotta (“Dell’intervista a Renzi mi è piaciuta soprattutto la ficcante domanda della Bignardi sul padre, come con Di Battista”: così Alessandro Menabue). Ci sta che Bignardi e marito credano che Renzi sia il Salvatore. Sono in tanti a pensarlo. Ma ci sta pure che, di queste vagonate di melassa filogovernativa, molti spettatori ne abbiano abbastanza.

venerdì 19 febbraio 2016

Le giravolte della Merkel e la guerra siriana e irachena

In un articolo di oggi, la Repubblica riporta la notizia, ripresa da un’agenzia di stampa curda, che in questi giorni in Iraq l’Isis ha giustiziato trecento innocenti. «Hanno sentito avvicinarsi l’attacco delle truppe governative e i bombardamenti della coalizione a guida Usa e hanno reagito nel modo più sanguinoso», ha commentato Giampaolo Cadalanu nel suo scritto.
Riportiamo questa notizia come corollario alla nota riguardante l’indignazione di Angela Merkel riguardo i raid russi in Siria. Un po’ di indignazione per quanto fa l’Isis alle popolazioni che ha schiavizzato sarebbe quantomeno equa… ma tant’é, ne abbiamo già accennato in una Nota.
La vendetta dell’Isis colpisce anche ad Aleppo, dove i miliziani del terrore stanno bombardando in maniera più assidua i quartieri sotto il controllo del governo, come riporta in una sua commovente missiva padre Ibrahim Alsabagh, alla quale rimandiamo (inutile aggiungere parole).
Si può notare che anche in Iraq, come spiega l’articolo di Repubblica, si bombarda, e anche qui la gente fugge dalle bombe, ma in questo Paese le bombe sono della Nato e forse per questo non fanno indignare nessuno.
Al momento l’ondata di profughi iracheni è meno consistente (e inesistente sui media per i quali sembrano importanti solo i profughi siriani), anche perché i combattimenti vanno a ralenti, ché sembra che detta coalizione non abbia alcuna fretta di liberare il Paese dal cancro del terrorismo (si attende l’evoluzione della vicenda siriana, il vero nodo della vicenda).
Si fa notare, inoltre, che anche tra le milizie che imperversano in Iraq, tantissimi, molto più che in Siria dove incarognisce la legione straniera tirata su da turchi e sauditi, sono iracheni (ex componenti del partito Baath di Saddam).
Solo che in Siria per questo motivo vengono chiamati ribelli, in Iraq, a quanto pare, ci sono solo terroristi… bizzarrie del linguaggio…
Invece la categoria dei ribelli siriani è alquanto elastica. Abbraccia gruppi di jihadisti provenienti da mezzo mondo. E molto aperta, dal momento che miliziani di una formazione passano all’altra con facilità. Se serve propalare il terrore diventano dell’Isis, quando devono trattare passano a milizie più moderate. Come frequenti sono i passaggi di armi dall’una all’altra, come dimostrano i moderni equipaggiamenti che hanno in dotazione tutti indistintamente.
I “ribelli” siriani in realtà sono davvero pochini, basta considerare ad esempio che, per ammissione degli stessi Stati Uniti d’America, l’ultima leva è andata malino: dei 1500 ribelli siriani previsti ne hanno tirati su solo 54, quasi tutti poi uccisi nella loro prima missione dai miliziani di al Nusra, formazione legata ad al Qaeda e, dicono anche i media mainstream quando se ne ricordano, ad Ankara.
Già, Ankara. Da tempo martella senza tregua i villaggi curdi in Siria e Iraq. Bombardamenti indiscriminati, che la Turchia propaganda come eliminazione di pericolosi terroristi. Domenica scorsa, ad esempio, hanno bombardato il villaggio di Cizre, uccidendo sessanta civili, come denuncia il blog dell’Ufficio informazioni del Kurdistan in Italia (secondo loro anche usando armi chimiche, come dimostrerebbero le foto pubblicate; chi ha cuore forte, può vedere sul loro sito).
Solo uno dei tanti bombardamenti sui civili ad opera di Ankara. Tanto che monsignor Rabban al-Qas, vescovo caldeo di Amadiya nel nord Kurdistan, ha commentato alcuni di tali raid con queste parole: «Bisogna avere il coraggio di dirlo: questo è terrorismo bello e buono!».
Ma al di là dell’indignazione della Merkel, che paga così il suo tributo al Califfo di Ankara per trattenere nei suoi confini i milioni di profughi destinati al Vecchio Continente, val la pena accennare alle incognite future.
La vicenda dei profughi, che resta una tragedia, viene usata come una clava contro i russi, nel tentativo di frenarne la campagna militare, la quale, con Aleppo ormai praticamente accerchiata, tra poco sarà a un punto di svolta. Tante però le incognite, non solo quelle legate alle mene di sauditi e turchi per entrare direttamente in guerra (con possibile allargamento del conflitto alla Nato).
Anzitutto il problema dei profughi, che andrà aumentando con l’avanzata di russi e siriani. Più volte gli americani e la Ue hanno chiesto alla Turchia di serrare le frontiere per chiudere i rifornimenti all’Isis. Richiesta non accolta: troppo ampio il confine. Invece in questi giorni le ha chiuse ai profughi in fuga dai villaggi vicini ad Aleppo. E ha annunciato che creerà un campo di accoglienza alla frontiera, un modo come un altro per alimentare l’emergenza a fini anti-russi e mettere un piede in terra siriana.
C’è il rischio che usi di questo stratagemma per creare un corridoio “umanitario” in territorio siriano per portare aiuto agli jihadisti asserragliati dentro Aleppo. Con rischi di escalation.
D’altra parte Damasco e i suoi alleati hanno fretta di chiudere la partita, per tornare a sedersi sul tavolo dei negoziati con Aleppo ormai liberata (o conquistata secondo il punto di vista del mainstream, che annovera gli jihadisti tra i campioni della democrazia). Una fretta, però, che non giova a condurre una campagna militare cittadina, dove l’alta densità abitativa rende i civili più a rischio che altrove.
Gli jihadisti potrebbero profittarne per tentare di aumentare al massimo le vittime civili, usando anche delle consuete strategie stragiste atte a incolpare gli avversari. Per mettere in seria difficoltà il nemico e macchiare di orrori indicibili, e per sempre, questa campagna militare.
Servirebbe una trattativa seria. Ma l’indignazione unilaterale della Merkel rischia di complicarla. Di fatto è una presa di posizione a favore di quanti hanno armato e finanziato le Agenzie del terrore, turchi e sauditi in testa, che, forti di tali appoggi, non hanno alcuna intenzione di abbandonare i propri pupilli (cosa che metterebbe subito fine al conflitto).
Non resta che sperare nella consueta ambiguità dell’Angela teutonica, usa a giravolte politiche e diplomatiche (come successo per i rifugiati, ai quali prima ha spalancato le porte e ora cerca finestre dalle quali buttarli di sotto).

mercoledì 17 febbraio 2016

Colonia Italia, i media pro-austerity controllati da Londra

Dietro il paravento di una libertà di stampa brandita a mo’ di slogan si cela sempre una realtà differente e puzzolente, fatta di corruzione, manipolazione e compromessi che nulla hanno a che vedere conl’informazione. Non si tratta, badate bene, di singole devianze ma di un sistema rodato e collaudato: solo chi è disposto a prostituirsi intellettualmente può sperare di entrare nell’empireo del giornalismo. Partendo dallo spaccato preciso e puntuale preparato da Fasanella, offrirò un affresco del panorama informativo italiano, dominato da dinastie di “venduti con la penna” che mentono di generazione in generazione per indole, sport, interesse, malvagità e pavidità. Ma, badate bene di nuovo, non si tratta di storie del passato raccontate solo ora a bocce ferme. Tutt’altro. I metodi svelati nel libro in argomento sono attualissimi e tutt’ora dominanti.
Ma per davvero c’è ancora in giro qualcuno che può credere alla buona fede di chi predica il “successo delle politiche di austerità” volute dalla Merkel? Fino a qualche anno fa, prima dello scempio assoluto che oggi è sotto gli occhi di tutti, qualche
Draghi e Montiallocco intimamente convinto del fatto che Monti e quelli come lui lavorassero al “risanamento dei conti nell’interesse dell’Italia e degli italiani” esisteva per davvero. Ora no. Nessuno è così stupido da non accorgersi che il fuoco brucia dopo avere visto per dieci volte di fila qualcuno ustionarsi maneggiando lo stesso braciere. I giornali italiani sono in malafede. Peggio: sono etero-diretti da centrali di intelligence occulte e deviate che tengono a libro paga la gran parte dei principali editorialisti nostrani, lautamente retribuiti in denaro o altre utilità in misura direttamente proporzionale alla mancanza di scrupoli, amore di verità e deontologia professionale ripetutamente dimostrata. I giornali italiani, da destra a sinistra, scrivono tutti le stesse cose.
Ricordate i fiumi di bava che accompagnarono nel 2011 l’ascesa al potere di Monti per volontà del divino Napolitano? Ci vuole molto a capire che il nostro sistema informativo, formalmente plurale, si abbevera in realtà nascostamente presso le stesse identiche e velenose fonti? Una volta sedimentata simile ovvietà sarà allora giusto e possibile riconoscere l’esistenza di due categorie principali che separano i maggiori “intellettuali” italiani. Da un lato esistono quelli che scrivono a pagamento sotto dettatura del sistema massonico dominante; dall’altro ci sono quelli che raccontano le stesse cose gratis, per mero servilismo o innata subalternità nei confronti del potere. Mi viene difficile capire quale delle due categorie faccia più schifo. E’ pur vero che è possibile manipolare solo gli ingenui e gli ignoranti. Un popolo colto e fiero non si farà facilmente impressionare dalle tante menzogne scritte solo perché ripetute all’infinito da un manipolo di giullari al servizio dell’oligarchia finanziaria di comando.
Paradossalmente, dopo avere aperto gli occhi ai troppi ciechi ancora in circolazione, le manipolazioni pacchiane cucinate nelle redazioni de “Il Corriere della Sera”, “La Stampa”, e “La Repubblica”– solo per citare i manganelli più grossi usati dai padroni – finiranno per agevolare il nostro compito. Quando tutti sapranno che simili quotidiani difendono costitutivamente interessi malvagi e privati, esperti nell’arte della bugia e del raggiro per meglio realizzare i sottesi obiettivi massonici perseguiti nell’ombra, la credibilità di ciascuno di loro finirà necessariamente sottoterra, rendendo automaticamente più forti e preganti le posizioni di tutti quelli che sostengono il contrario, divenuti adesso degni di attenzione e di rispetto per il solo fatto di non Napolitano con la regina Elisabettacondividere – neppure casualmente e sporadicamente – le linee di indirizzo sposate da note centrali di disinformazione finalmente smascherate e offerte al pubblico ludibrio e all’ignominia eterna.
La dittatura eurocratica imposta dai vari Merkel, Schaueble e Draghi – quest’ultimo così ridicolo da denunciare la presenza di complotti globali che ne ostacolerebbero l’operato – non potrebbe reggersi senza il sostegno indispensabile dell’informazione corrotta e prezzolata. Nulla viene lasciato al caso. E’ bello tuttavia constatare come oggettivamente aumenti il livello di consapevolezza di tanti cittadini non più disposti ad accettare acriticamente l’interessato punto di vista offerto dalle élite. Siamo dentro un passaggio storico decisivo. Troppi lestofanti cercano disperatamente di salvare uno schema che non regge più. E’ solo questione di tempo, ma la perfida piramide costruita dagli apprendisti stregoni che ancora (per poco) guidano l’Europa è destinata ad affondare. Ognuno di loro raccoglierà quanto seminato e a nulla varranno i cambi di casacca dell’ultima ora. I ripetuti attentati contro le democrazie dei diversi Stati europei costituiscono una prassi pericolosissima da sanzionare con la massima severità a scopo paradigmatico. Cosicché nessuno, nel prossimo futuro, immagini di poter a cuor leggero rispolverare le gesta di Merkel, Schaueble e Draghi, tristi epigoni del reich autentico, finiti anch’essi nella polvere e nel disonore nonostante le maggiori cautele adottate rispetto ai più truci predecessori.

lunedì 15 febbraio 2016

L'accerchiamento Nato della Russia

Nel quadro della verifica di reattività delle forze aero-navali russe della Regione meridionale, una squadra navale della flotta del mar Nero sta conducendo esercitazioni tattiche per il rinvenimento di truppe d'assalto nemiche, che abbiano come obiettivo principale la Crimea. Manovre simili sono state condotte ieri, con l'ausilio di aerei antisommergibile, anche lungo le coste del Pacifico, per la scoperta di potenziali vascelli subacquei nemici.
La Russia ha di che stare all'erta. Il 10 febbraio scorso, al termine del vertice di Bruxelles dei Ministri della difesa dell'Alleanza atlantica, il segretario generale, Jens Stoltenberg, ha annunciato l'adozione della proposta di rafforzamento della presenza militare Nato in Europa dell'est, Mediterraneo orientale e mar Nero. E il candidato democratico (?) alle primarie degli Stati Uniti, Bernie Sanders, ha dichiarato ieri che “l'Amministrazione americana deve collaborare più attivamente con la Nato per difendere l'Europa dalle minacce di aggressione russe”.
La russa RT riportava ieri alcune dichiarazioni rilasciate al Times dal Ministro della difesa britannico Michael Fallon, al termine del vertice di Bruxelles, secondo il quale la flotta di sua maestà contribuirà alla lotta della Nato contro “l'aggressione russa”, inviando a est navi da guerra e personale militare. Secondo Fallon, “il dispiegamento di forze Nato lancerà ai nostri nemici un chiaro segnale, che siamo pronti a rispondere a qualunque minaccia e a difendere i nostri alleati”. Secondo il Times, non si tratta solo di dichiarazioni: cinque vascelli britannici e oltre 500 uomini stanno per essere trasferiti nelle acque circostanti le coste russe. Entro il prossimo luglio giungerà nel Baltico una fregata; un cacciatorpediniere la seguirà in ottobre-novembre. Tre dragamine saranno inviati per quattro mesi nel Baltico, Mediterraneo e Atlantico settentrionale. Le truppe, inoltre, andranno a unirsi ai seimila uomini Nato in sei paesi dell'Europa orientale, quale “mezzo di intimidazione" contro un "possibile attacco" russo a Polonia e paesi baltici.
Come scrive il Times, la NATO ha respinto la richiesta polacca della creazione di basi militari permanenti, temendo che ciò indurrebbe Mosca a rispondere con lo schieramento di proprie truppe ai confini occidentali. Si prevede perciò di creare una rete di piccoli punti di forza, con rotazione di truppe, periodiche esercitazioni militari e apertura di depositi per attrezzature militari da utilizzare da parte di task force che comprendano forze aeree e navali, oltre a truppe speciali fino a 40 mila uomini.
Per il 2016, gli USA prevedono di aumentare di 4 volte le proprie spese militari in Europa, esigendo dai paesi Nato stanziamenti per la difesa pari al 2% del PIL. Il tutto, naturalmente, commenta RT, viene condito dalla dichiarazione dell'ambasciatore USA presso la Nato secondo cui “la Nato è un'alleanza difensiva e nessuno deve temere che essa intraprenda operazioni d'attacco”.
A lato di tali dichiarazioni “difensive” degli alti rappresentanti dell'Alleanza atlantica, ancora RT riporta le affermazioni del direttore del National Intelligence USA, James Clapper, secondo cui la disgregazione dell'Urss e la conseguente fine della stabilità basata su un sistema mondiale bipolare, hanno reso il mondo più pericoloso. Evitando ovviamente di chiedersi chi, per settant'anni, abbia perseguito e alla fine raggiunto quella disgregazione, Clapper ammonisce che pesa oggi sugli USA una quantità di minacce senza precedenti.
Sarà dunque per questo che la strategia di Washington consiste nello stringere attorno alla Russia un anello sempre più fitto di “rivoluzioni colorate”. A questo proposito, l'agenzia Novorosinform scrive che nel bilancio 2017 il Dipartimento di stato USA pianifica di destinare 953 milioni di $ al “sostegno della democrazia” nei paesi vicini alla Russia. I fondi sarebbero destinati soprattutto a Ucraina, Georgia, Moldavia e paesi dell'Asia centrale, sotto l'eloquente voce "Azioni di contrasto all'aggressione russa attraverso la diplomazia sociale, programmi di aiuti esteri e creazione di un governo stabile in Europa", per cui si prevede una spesa complessiva di 4,3 miliardi di $. A fronte di tali cifre, Novorosinform rileva sarcasticamente come gli USA si siano al contrario rifiutati di farsi garanti per il debito di 3 miliardi di $ di Kiev nei confronti di Mosca, segno evidente di quanta fiducia nutrano oggi sul Potomac nell'economia ucraina, nonostante che alla vigilia del golpe del 2014 avessero foraggiato qualcosa come duemila organizzazioni antigovernative. Ad ogni modo, già per il 2016 Washington ha stanziato 117 milioni di $ per l'Ucraina e 51 per Moldavia e Georgia: paesi che hanno già avuto le loro rivoluzioni arancioni. Ecco che invece in Asia centrale, il contrasto alla “aggressione russa” passa per Kazakhstan e Kirghizia, da tempo orientate verso Mosca con l'Unione doganale e, insieme al Tadžikistan, inseriti nell'Organizzazione di Sicurezza Collettiva, di cui fanno parte anche Russia, Armenia e Bielorussia.
Il professore dell'Università di Mosca, Andrej Manojlo, a proposito dei regimi instaurati con le “rivoluzioni colorate”, ha dichiarato a Novorosinform come il metodo tradizionale USA sia quello di cominciare col creare sistematicamente, soprattutto tra gli strati giovanili, un clima anti-russo, che si trasforma poi, sotto le giuste direttive e con le necessarie intromissioni, nelle “rivoluzioni colorate". Una volta avvenute queste, l'intervento e la presenza sono poi più diretti; Manojlo ricorda come in Georgia, ad esempio, in ogni Ente e Ministero lavorasse a suo tempo un “tutore” statunitense; in Ucraina invece è direttamente l'ambasciata USA a occuparsi delle questioni e a impartire gli ordini. Oggi, il sostegno finanziario yankee è destinato alla traballante economia ucraina, mentre in Georgia va a spalleggiare le élite più “leali” a Washington, dopo la fuga del fedelissimo Saakašvili e il non completo allineamento dell'attuale potere.
Nel mirino yankee ci sarebbe poi l'Armenia, alleata della Russia nel Caucaso, ove l'estate scorsa è messo a punto lo scenario di un nuovo tipo di rivolta, definita “elettromajdan”, secondo il metodo della cosiddetta “transizione democratica”.
Stando a Manojlo, la probabilità di una nuova “rivoluzione colorata” è abbastanza alta in Tadžikistan e ancor più in Kirghizistan (qui, si tratterebbe della terza rivoluzione), mentre sembra particolarmente sgradito agli USA il presidente uzbeko Islam Karimov. Dato che però è difficile immaginare, nella regione, rivolte nel segno della “eurointegrazione”, come per l'Ucraina, ecco che nel Tadžikistan si punta su contrapposizioni regionali interne, mentre in Kirghizia sono le organizzazioni non governative statunitensi che fanno propaganda tra la popolazione essenzialmente rurale. E un fattore non certo secondario nella regione è quello islamico – dalle 5 di questa mattina è in corso un'operazione di sicurezza nella regione di Kasavjurt, in Daghestan, contro una delle non poche formazioni terroristiche infiltrate nell'area - finora tenuto a freno, forse, solo dalla presenza di basi militari russe.
In ogni caso, sulla questione della pressione sempre più forte della Nato attorno ai confini russi si è sentito in dovere di intervenire anche uno che alla disgregazione dell'Urss e alla conseguente avanzata USA e Nato in Europa orientale aveva dato un contributo non di poco conto: l'ultimo presidente dell'Unione Sovietica Mikhail Gorbaciov. Dopo le dichiarazioni di Stoltenberg, Gorbaciov ha detto ieri che la Russia deve reagire a tali propositi Nato, “una pappa cucinata dal loro capocuoco, gli Stati Uniti”.
Per dirla col Boccaccio, “piangasi il danno a cui di ciò mal piglia”.

domenica 14 febbraio 2016

Il mondo dopo il mercato

La crescita non tornerà mai più (molto letto, condiviso e discusso in rete, ndr), e ne condivido tutte le considerazioni, in particolare che il tempo della crescita è finito e che di occupazione, intesa alla sua maniera, questo sistema non ne crescerà più. Nel contempo, però, dobbiamo stare attenti a non convalidare questo sistema né dare l'impressione che anche noi ci aggiungiamo all'esercito di Tina, There is no alternative. L'alternativa, invece c'è e la dobbiamo rivendicare cominciando a denunciare tutti i fallimenti e i rovesci di questo sistema. Un'operazione che deve necessariamente partire dal linguaggio.
Questo sistema è in crisi e questo tutti lo sanno. Il problema è capire perché. Per autoassolversi il sistema parla di eccesso di produzione, quasi si trattasse di in un errore di calcolo nella valutazione dei bisogni. Ed anche noi, senza chiederci se l'affermazione sia vera o falsa, ripetiamo a pappagallo la stessa spiegazione. Ora va detto chiaro e tondo che a questo sistema dei bisogni della gente non importa un fico secco. Gli interessano solo le vendite per i guadagni che può procurare ai mercanti. Per cui la realtà la interpreta solo con gli occhi dei mercanti che quando si accorgono di non riuscire a vendere tutto ciò che producono parlano di eccesso di merce. Poi magari andando a vedere come sta veramente la gente potremmo scoprire che molti vivono in una tale miseria da richiedere non solo ciò che è avanzato nei magazzini, ma molto di più. Una situazione non dissimile da quella che viviamo oggi: mentre il sistema dice di essere in crisi da sovrapproduzione, le Nazioni unite ci informano che un miliardo di persone soffre di denutrizione, che tre miliardi di persone non dispongono di servizi igienici, che ottocento milioni di persone non hanno accesso all'acqua potabile. E la lista potrebbe continuare con gli analfabeti, i senza tetto, i senza cure eccetera, eccetera.
Il termine giusto per descrivere la crisi del sistema, intesa come malfunzionamento, è mala distribuzione. Mentre il termine giusto per descrivere il suo fallimento, inteso come disastro sociale e ambientale, è mala impostazione. Da un punto di vista funzionale la crisi del sistema è dovuta a una distribuzione della ricchezza sempre più iniqua che ha ridotto a tal punto la massa salariale mondiale da aver avuto come effetto finale una riduzione dei consumi. Basti dire che fra il 1975 e il 2015 la quota di prodotto mondiale tolta ai salari a vantaggio dei profitti è stata dell'ordine del 10 per cento. Se aggiungiamo le risorse sottratte agli Stati sotto forma di evasione fiscale (tramite i paradisi fiscali) e sotto forma di interessi pagati sul debito pubblico, otteniamo uno spostamento enorme di ricchezza a vantaggio dei capitalisti, che non potendo espandere i propri consumi all'infinito, hanno provocato una caduta degli acquisti.
Potremmo proseguire dicendo che per tamponare la situazione il sistema ha cercato di garantirsi un'alta domanda incoraggiando il debito. Ma a forza di accumulare debiti, poi arriva il momento in cui non si possono più pagare e tutto viene giù provocando non solo l'arresto del sistema economico con conseguente caduta di tutti i prezzi compresi quelli di risorse scarse come petrolio e minerali, ma anche la caduta delle banche, delle borse e dei bilanci pubblici. Capitomboli che alimentano ulteriormente la crisi. Esattamente come sta succedendo ai nostri giorni, prima con una crisi che avuto come epicentro gli Stati, poi con una crisi che ha avuto come epicentro la Cina. In ambedue i casi per il tentativo di fare correre il cavallo economico sotto la frusta del debito, che poi si è avvolta attorno al collo del cavallo strozzandolo.
Ben più grave il fallimento del sistema da mala impostazione. Al di là delle fanfare, questo sistema è organizzato solo per garantire affari alle grandi imprese sempre più orientate alla produzione di beni ad alta tecnologia. Una scelta di per se escludente perché coinvolge solo la parte di umanità con redditi medio alti, lasciando tutti gli altri alla deriva. Così abbiamo prodotto un pianeta con una minoranza che gozzoviglia e una maggioranza che non ha ancora conosciuto il gusto della dignità umana. Preso complessivamente questo pianeta non ha più spazi di crescita, anzi deve diminuire come mostrano i dati sull'impronta ecologica e sull'accumulo di anidride carbonica. Ma analizzando le singole situazioni, scopriamo che l'obbligo di decrescere vale solo per la parte di umanità in sovrappeso.
Quanto agli scheletrici hanno diritto ad avere di più, ma potranno farlo solo se i grassoni accettano di sottoporsi a cura dimagrante e solo se tutti insieme cambiamo impostazione economica. Non più produzione per il mercato lasciato al libero arbitrio delle imprese, ma produzione per i bisogni primari di tutti da parte di una comunità che programma. In una condizione di risorse scarse e di ambiente fortemente compromesso, la nostra pretesa libertà di produrre di tutto di più lasciando al portafoglio di ognuno di stabilire cosa comprare non funziona più. Nell'economia del limite la giustizia si garantisce fissando le priorità, che vuol dire programmazione, e predisponendo forme di produzione e distribuzione che garantiscono i bisogni fondamentali a tutti, che significa produzione di comunità con godimento gratuito da parte di tutti.
Un numero crescente di persone comincia a capire che per garantirci un futuro dobbiamo ripensare cosa produrre, per chi produrre, come produrre. Ma pochi hanno messo a fuoco che la vera scelta è fra mercato individualista e comunità solidale. Su questo, però, è bene saperlo, si gioca il nostro avvenire e la nostra civiltà.

venerdì 12 febbraio 2016

Perché i mercati stanno crollando: "la fiducia nelle banche centrali è finita"

Con Bloomberg che scrive che i segnali da parte delle banche centrali dall'Europa al Giappone non riescono a allievare le preoccupazioni degli investitori e che la crescita globale continuerà a rallentare, le borse sono in picchiata - con quella di Milano che oggi registra un meno 4%.
Il presidente della Fed Yellen ha suggerito che la banca centrale potrebbe ritardare, ma non abbandonare, gli aumenti dei tassi di interesse previsti in risposta alle recenti turbolenze nei mercati finanziari. Mohit Kumar, responsabile della strategia di tassi in Credit Agricole SA a Londra, ha puntualizzato come “gli investitori sono preoccupati per le opzioni politiche delle banche centrali dato che il mercato è guidato da fattori sui quali hanno poco o nessun controllo. "
E sempre Bloomberg: “I mercati finanziari stanno segnalando che gli investitori hanno perso fiducia nella capacità delle banche centrali per sostenere l'economia globale”.

"I mercati si chiedono, bene, abbiamo avuto questi esperimenti di politica monetaria non convenzionali per gli ultimi sei o sette anni e non hanno causato una spinta sostenibile alla crescita globale", ha detto Shane Oliver, responsabile della strategia di investimento a Sydney a base di AMP Capital Investors Ltd, lasciando intendere che nessuno crede più ormai ai banchieri centrali.
Per quel che riguarda la zona euro, la Bce ha utilizzato tutto e oltre quello che era lecito per tenere in vita artificialmente un esperimento fallito e fallientare come quello della zona euro, drogando l'economia per anni. In estrema sintesi, alla prossima influenza, Draghi non avrà più la cura, non ha più nessun bazooka. Inizia a dare la colpa a forze esterne che complottano contro la Bce per avere una scusa il giorno che dovrà abbandonare il dogma sull'irreversibilità della moneta unica.

giovedì 11 febbraio 2016

La politica che non ci può più essere

Tra i più grandi successi del capitale contemporaneo va certamente annoverata la distruzione della politica. Non della “classe politica”, considerata “purtroppo” sempre necessaria anche se quotidianamente bastonata in pubblico, ma proprio della politica come sfera della decisione discrezionale, non automatica, progettuale, improntata a interessi collettivi di lungo periodo. Insomma della libertà di scegliere, anziché subire.
La ragione principale di questa vittoria dovrebbe esser chiara: le forze economiche che gravano sugli ambiti decisionali raggiungibili dalla politica sono di gran lunga maggiori di quelle che la politica stessa può mobilitare a livello di singolo Stato. E là dove una costruzione sovranazionale – come l'Unione Europea – avrebbe pur potuto nutrire l'ambizione di giocare quasi alla pari col capitale multinazionale, quest'ultimo ha agito per tempo vincolando a sé tanto le singole istituzioni che il sistema politico nel suo complesso, innervando fin dal'inizio il processo di selezione tanto della classe politica sovranazionale quanto la tecno-burocrazia dei funzionari. Il sistema delle lobby, a Bruxelles, è enormemente più forte di qualsiasi sovranità popolare o criterio razionale. Lo si è visto, per esempio, con la decisione di raddoppiare i limiti di tolleranza per le emissioni di ossido d'azoto delle automobili, dopo che lo scandalo Volkswagen aveva mostrato l'incapacità delle tecnologie attuali di rispettare i limiti sanciti per legge (a tutela della salute collettiva, non certo per un arbitrario capriccio).
La politica come limite alla forza dei “mercati”, o almeno come contrappeso riequilibrante, è dunque morta e sepolta, con gran tripudio dei suicidi che ancora stanno a maledire “la kasta” senza neppure accorgersi che quella definizione ormai non coglie ormai più la realtà vera dei “decisori politici” oggi in campo: prestanome temporanei di interessi contingenti, particolari, a-sistemici. Ogni riferimento ai Renzi o alle Boschi è casuale ma pertinente.
Ma anche le Angela Merkel e i Barack Obama si stanno rivelando grigi impiegati, piuttosto che leader e statisti. Proprio mentre – dagli stessi “mercati” - aumenta la domanda di leader capaci di visione di lungo periodo, attenzione agli interessi sistemici (più che a quelli solo “nazionali” o aziendali), capaci di impostare a soluzione di problemi epocali come l'esodo dai paesi in guerra (o in miseria) e la recrudescenza esplosiva della crisi economica.
Le stesse forze che hanno ucciso la politica chiedono più lungimiranza politica. Le possibilità che la trovino sono inversamente proporzionali alla forza che hanno dimostrato di avere.
Anche questa è una dimostrazione indiretta del fatto storico principale: il capitalismo non funziona più. Da otto anni il sistema internazionale sopravvive grazie a un'espansione illimitata della liquidità e del debito, il cui costo è appena attenuato da un periodo pressoché infinito di tassi di interesse a zero o negativi. Ma neanche questa soluzione “non convenzionale” ha smosso di un millimetro il problema: l'economia reale non riparte perché la produzione possibile eccede di gran lunga la domanda solvibile (non i “bisogni” dell'umanità, ma la quantità di reddito disponibile per i consumi); le banche soffrono per i prestiti che non rientrano, per la sovrabbondanza di titoli tossici in cassaforte e per i tassi a zero (che limitano fortemente la redditività dei loro “investimenti”); la finanza internazionale non sa più dve “rifugiarsi” davanti alla prospettiva – quasi annullata, dopo i primi tragici 40 giorni del nuovo anno – di un rialzo dei passi di interesse e dell'interruzione dei “quantitative easing”.
Di fronte a questo quadro, sia pur sommario, qualsiasi visione politica all'altezza del problema dovrebbe prescindere da qualunque interesse contingente (tipo di capitale, nazione, classe sociale, ecc) e muovere leve che impediscono a molti soggetti di agire come prima e permettono la nascita di processi in drastica, radicale, discontinuità col passato. Una rivoluzione, insomma, che però nessuno vuole. Soprattutto a bordo delle portaerei finanziarie che scorazzano per il pianeta affondando oggi un paese, domani un continente.
Per questo, tra una settimana o poco più, i leader nazionali dell'Unione Europea si troveranno davanti alla più grave incertezza della loro breve storia personale: riscrivere indirettamente i trattati comunitari in direzione di una più ferrea integrazione o verso quella del “liberi tutti”, implicito nelle quattro richieste inglesi che sono state per ora accolte a livello di principio? In ogni caso si tratterà di una riscrittura e di un trauma. La maggiore integrazione pretenderebbe la condivisione delle risorse, ovvero la mutualizzazione del debito pubblico e delle conseguenti politiche fiscali, oltre che una condivisione delle garanzie bancarie – e dei conseguenti rischi. Il “liberi tutti” sulle regole di Shengen e l'accoglienza dei migranti renderebbe anacronistico anche il “vincolo comunitario” sulle leggi di bilancio e le politiche economiche nazionali. Di fatto, svuoterebbe il terreno su cui poggia la moneta unica, rendendo l'euro poco più che una unità di conto per cui non è possibile chiedere né sacrifici né impegni onerosi o duraturi.
La sensazione è che il prevedibile compromesso che uscirà dalle sale ovattate di Bruxelles sarà stavolta una toppa peggiore del buco. In primo luogo perché fallirà persino il primo obiettivo dichiarato: impedire la Brexit, ossia la vittoria di Cameron e del “sì” alla permanenza della Gran Bretagna nell'Unione, nel referendum che si terrà a breve in quel paese.
La politica come risoluzione/superamento dei problemi è morta. Non saranno i suoi assassini, tanto meno quelli che tardivamente la rimpiangono, a farla resuscitare.
La parola sta infatti passando alla guerra.

mercoledì 10 febbraio 2016

Un mondo sempre più ineguale

L'organizzazione non governativa (Ong) Oxfam ha pubblicato questa settimana un rapporto sullo stato della disuguaglianza nel mondo. Tanto vale dire subito che i ricchi non sono mai stati così bene come oggi. Le cifre sono da capogiro. In effetti, l'Ong prevede che nel 2016, il famoso 1% più ricco possiederà più della metà della ricchezza mondiale. Il restante 99% dovrà condividere il resto della torta. Gli 80 maggiori patrimoni del pianeta detengono tanta ricchezza quanta posseduta da 3,5 miliardi dei più poveri. Ogni individuo di questa élite possiede personalmente oltre $ 2,7 milioni. Disuguaglianze che nel corso degli anni continuano ad allargarsi. Nel 2010, l'1% possedeva il 44% della ricchezza globale contro il 56% del resto; nel 2020, si stima che la quota di ricchezza dell'1% raggiungerà il 52,5%.
Inoltre, secondo uno studio della banca svizzera UBS, in collaborazione con la società di ricerca di Singapore Wealth X, il numero dei miliardari nel mondo è aumentato nel 2014 a 2.235, vale a dire con un incremento del 7% rispetto al 2013. La crisi economica del 2008 non ha colpito l'elite mondiale, anzi. Mentre milioni di persone sono state messe sul lastrico, licenziate dal lavoro dopo anni di servizio, mentre milioni di europei e statunitensi sono improvvisamente affondati nella povertà e nell'insicurezza e i paesi del Sud soffrivano carestie sempre più devastanti, l'élite capitalista globale gonfiava i suoi conti bancari. Questa ennesima crisi del capitalismo ha ancora una volta messo a nudo questo sistema ingiusto e crudele. E nessun paese OCSE è stato risparmiato da questa deriva disegualitaria.
In Francia, ad esempio, mentre i grandi padroni e gli azionisti si ingozzavano di dividendi, stock option e pensioni d'oro, la massa della popolazione riceveva e continua a ricevere le sferzate di questo sistema basato sull'iper-profitto di alcuni e sullo sfruttamento di molti. Le statistiche sono lì a dimostrarlo. Mentre, in tutta la sua storia, la Francia non è mai stata così ricca, si contano più di 140.000 persone senza casa. Secondo l'Insee [Institut national de la statistique et des études économiques], il tasso di povertà che nel 2004 era del 12,6%, ha superato nel 2012 il 14%. Inoltre, ci sono più di 3,5 milioni di persone che ricorrono ad aiuti alimentari e 3,8 milioni di persone che ricevono minimi sociali. E i ricchi in tutto questo? Non preoccupiamoci per loro: se la cavano molto bene! L'Europa è in recessione, ma per contro la crescita dei miliardari, è sconvolgente. In effetti secondo la rivista Challenges erano 55 nel 2013 e 12 in più nel 2014. Anche i loro patrimoni se la cavano egregiamente con una crescita annua del 15%, raggiungendo i 390 miliardi di euro. Poi vengono a raccontarci che lo Stato è in rovina e non ha più soldi per i servizi pubblici.
Negli Stati Uniti, paese del re denaro, la situazione è ancora più inquietante: il 22% della quota di ricchezza nazionale è detenuta da appena lo 0,1% della popolazione, mentre nel 1970 questa oligarchia possedeva "solo" il 7%.
I 75.000 individui più ricchi posseggono, tenetevi, 10.265 miliardi di dollari, cioè oltre i due terzi del PIL del paese. Negli ultimi mesi, tutti i media incensano l'economia degli Stati Uniti che segna un tasso di crescita del 3-4%. Ma la crescita economica non fa rima con la riduzione delle disuguaglianze. Questa crescita è infatti accaparrata dai più ricchi. Inoltre, le classi lavoratrici non raccolgono i frutti di questa crescita. Lo stipendio medio ristagna o regredisce e ha recuperato un livello solo appena superiore a quello del… 1964. Il salario minimo rimane fermo a un misero 7,25 dollari l'ora nonostante le numerose proteste da parte dei lavoratori, in particolare quelli delle catene dei fast-food che chiedono aumenti salariali.
Un problema eminentemente strutturale: lo Stato al servizio dei ricchi
Dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati hanno svolto un ruolo di primo piano nel condurre l'economia permettendo alle potenze occidentali di registrare tassi di crescita annui prossimi al 10%. Lo Stato si poneva allora come arbitro dei conflitti di classe tra capitale e lavoro e vigilava affinché le disuguaglianze non esplodessero. Questi tassi di crescita hanno consentito lo sviluppo di servizi pubblici efficienti in materia di sanità, istruzione, trasporti, energia. Tuttavia, nonostante i progressi sociali dovuti in particolare al favorevole equilibrio di forze intrattenuto da sindacati e partiti comunisti con le borghesie nazionali, i rapporti economici, sociali, politici e culturali non sono stati modificati. E il dominio capitalista si è statalizzato. È per questo che si parla di "capitalismo di Stato" per definire questo periodo dei " gloriosi trent'anni". Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che la prosperità che hanno conosciuto i paesi capitalisti occidentali dopo la seconda guerra mondiale è stata condotta sulle spalle dei popoli del Sud del mondo. Il colonialismo, l'imperialismo, il saccheggio delle risorse naturali, l'imposizione da parte del "Nord" di "odiosi" debiti...
La ricchezza di alcuni ha provocato la miseria degli altri, proprio come oggi. Poi tutto cominciò a tremare con la svolta neoliberista introdotta negli Stati Uniti da Ronald Reagan e in Inghilterra da Margaret Thatcher, prima di diffondersi nel resto del mondo occidentale e infine, in tutto il mondo. Il neoliberalismo si caratterizza per l'apertura di nuovi settori alla legge del mercato, aumentando la finanziarizzazione dell'economia e soprattutto per un ritiro significativo dello Stato dalla gestione dell'economia. Questo disimpegno è una delle principali cause di questo aumento della disuguaglianza. Prendiamo alcuni esempi molto concreti: per quasi 30 anni, un tormentone ha assillato le orecchie dei cittadini europei. La famosa musica del "debito": "Il debito sta esplodendo!"; "Lo stato non ha più i mezzi"; "Bisogna far dimagrire l'elefante"; lo "Stato è obeso". I principali leader politici, economisti ed "esperti", giornalisti, editorialisti... hanno imparato il ritornello a memoria e lo cantano splendidamente. Così ci viene ripetuto continuamente che lo "stato ha speso troppo" (per i servizi pubblici), che lo "stato vive al di sopra dei propri mezzi" e dovrebbe quindi ridurre le spese sociali per salute, educazione, ammortizzatori sociali... Poi ci viene detto che bisogna privatizzare le imprese statali e dare più profitti alle imprese, ridurre le tasse ai più ricchi... In breve, dobbiamo liberalizzare radicalmente la nostra economia. Per inciso, la parola "radicale" non è connotata allo stesso modo quando si tratta di sostenere un radicalismo di "sinistra" o un radicalismo di "destra".
Nel vocabolario del nobile pensiero, il primo ha una connotazione negativa mentre il secondo positiva. Quindi, dobbiamo "stringere la cinghia". Ma quando si guardano le cifre più da vicino, a sorpresa, la realtà si rivela diversa. Secondo un rapporto Collettivo Cittadino del debito (CAC), il 59% del debito francese è semplicemente illegittimo. Perché? Perché questo debito non è il risultato di un prestito contratto dal governo francese per finanziare l'economia e così servire l'interesse pubblico. No! Questo debito è dovuto a una politica estremamente vantaggiosa per i ricchi. In altre parole, lo Stato si è volontariamente privato di entrate fiscali per andare incontro alla classe più agiata. Scappatoie fiscali, "scudi fiscali" (600 milioni di euro regalati ai più ricchi), esenzioni e sgravi fiscali per le famiglie più ricche e le grandi imprese come Total (che non pagano un centesimo di imposta in Francia)... Tante di quelle concessioni fiscali che hanno svuotato le casse dello Stato.
Così, la quota del PIL relativa al gettito si è ridotta di 5 punti, dal 22% degli anni 1980, è passata al 17% negli ultimi tre anni. E la spesa pubblica, è veramente esplosa come piace ripetere ai predicatori neoliberisti? Bene, ancora una volta, il sistema dei media ha mentito. La spesa pubblica è diminuita in percentuale sul prodotto interno lordo (PIL) da una media del 22,7% nel 1980 al 20,7%. Abbiamo qui un tipico esempio di politiche economiche che hanno favorito l'aumento delle disuguaglianze. Lo Stato ha creato artificiosamente le condizioni per la nascita di una forte disuguaglianza tra i più ricchi e il resto della società. Eppure i messaggeri del sacro verbo liberale ci avevano assicurato che la politica a favore dei ricchi avrebbe beneficiato la popolazione. Risultato? La Francia sperimenta una disoccupazione di massa che colpisce più di 5 milioni di persone e il numero di lavoratori poveri è in aumento. Nonostante questo amaro fallimento, i servitori politici al servizio della classe dominante, perseverano.
C'è un altro esempio molto concreto che mostra come lo Stato contribuisca ad aumentare le disuguaglianze. E' il caso dell'Inghilterra. Il patronato, sia francese, tedesco, spagnolo, appoggiato dai media e dai dirigenti politici non perde mai l'occasione per denunciare l'"assistenzialismo" e gli "assistiti" altrimenti noti come disoccupati, beneficiari di prestazioni, a volte studenti o pensionati. Quelle persone, ci viene detto, "approfittano del sistema", vivono sulle "spalle della società"... Davvero, queste persone sono realmente assistite dal sistema? Non sono forse al contrario le prime vittime di questa società ingiusta e diseguale? Mettiamo le cose a posto e facciamo ordine in tutta questa confusione gestita dall'oligarchia al potere. Gli "assistiti" veri, sono i ricchi, le grandi imprese, le grandi fortune, quelli che vivono grazie allo Stato, lo Stato "predatore" che denunciano se interviene nell'economia e che adorano se salva le banche. In Inghilterra, dunque, lo stato investe in infrastrutture che non avvantaggiano le persone, ma il settore privato. Inedita la situazione del settore ferroviario: dacché la rete è stata privatizzata nel 1993, la spesa pubblica è aumentata di sei volte! La rete è privatizzata, ma lo Stato continua a pagare le spese di manutenzione perché le aziende private non vi investono a sufficienza. Tra il 2007 e il 2011, le cinque principali ferrovie hanno ricevuto 3 miliardi di sterline dallo Stato. Questo è quello che viene comunemente chiamato essere "tosati".
Un ultimo esempio: lo Stato esenta ogni anno di 88 milioni di lire sterline le famiglie che mandano i loro figli nelle scuole private. Siccome queste scuole sono riservate ai più ricchi, sono le famiglie benestanti che beneficiano della generosità dello Stato inglese. Nel contempo, il governo ultra-liberale di David Cameron ha deciso di ridurre gli ammortizzatori sociali concessi ai disoccupati e ai lavoratori. Superano i 3,4 milioni, le persone che vivono con un salario di sussistenza di 7,20 all'ora. Le risorse stanziate per gli alloggi, la salute sono diminuite sensibilmente. Questa situazione in cui lo Stato garantisce la prosperità per i ricchi e dimentica il resto della società è, per dirla con le parole di Owen Jones: "Socialismo per i ricchi, capitalismo per gli altri".
Cosa dire poi del grave fenomeno dell'evasione fiscale? Anche in questo caso, gli Stati fanno finta di non vedere. Eppure sarebbero in grado di individuare e punire quelli che portano i loro soldi nei paradisi fiscali. La Francia stima che l'evasione fiscale rappresenta un costo di circa $ 60 miliardi all'anno. Sarebbero tra gli 80 e i 100 miliardi di euro in Spagna, senza contare i 40 miliardi deviati nella corruzione. In totale, oltre 1.000 miliardi di euro s'involano verso paesi esterni all'UE.
I governi occidentali hanno trovato la soluzione per aiutare i poveri, con lo sviluppo della filantropia e della beneficenza. Eludendo il compito di servire l'interesse generale, lo Stato delega queste funzioni ai miliardari come Bill Gates, per esempio. Salute, scuola, alimentazione: questi benefattori dell'umanità si prendono cura dei poveri. I capi di Stato si riservano le funzioni di amministrare la sicurezza e la giustizia e lasciano che la "mano invisibile" del mercato a regoli l'economia.
Chiediamo allo Stato di intervenire sempre meno nella sfera economica, contandoci solo nel caso in cui si tratti di salvare banche dal fallimento o sguinzagliare l'apparato repressivo per uccidere giovani manifestanti pacifici... L'esordio della carità, mira anche a legittimare la ricchezza dei ricchi, rendendoli indispensabili. Ecco come la società in cui viviamo si allontana dalla sue responsabilità sociali ed economiche per far emergere la figura del ricco-salvatore mentre è il vero responsabile dei mali delle nostre economie.
Globalizzazione e disuguaglianze crescenti
Non si può evocare il tema della disuguaglianza senza puntare il dito contro la globalizzazione, questa globalizzazione selvaggia che crea un divario sempre più abissale tra i paesi altamente sviluppati e i paesi più poveri. Prendiamo due esempi che evidenziano la fabbricazione economica, sociale e geografica delle disuguaglianze. In primo luogo, le delocalizzazioni. Servono per trasferire le attività produttive in paesi in cui il prezzo della manodopera è più basso e dove le materie prime sono più economiche... Queste delocalizzazioni hanno certamente portato lavoro nei paesi coinvolti, ma per quale salario? Salari miserabili: ecco la verità. Nel frattempo, le multinazionali hanno moltiplicato i profitti... L'esempio più famoso è quello delle maquiladoras in Messico.
Queste fabbriche vicino al confine degli Stati Uniti producono giorno e notte jeans per i marchi Levis, GAP... Un pantalone può costare alla fabbrica $ 10,4, per pagare il lavoratore e per le materie prime. Appena fuori dalla fabbrica, verrà esportato negli Stati Uniti per essere venduto nei negozi di New York o Miami a 70, 80, 90 dollari. Lo sfruttamento delle lavoratrici (in queste fabbriche lavorano quasi solo donne. ndt) permette al padrone di ricavare un margine sostanziale e quindi di accrescere rapidamente la sua ricchezza, mentre la lavoratrice, non avrà abbastanza soldi per soddisfare i bisogni più elementari. Ecco come si crea la disuguaglianza tra il padrone e il lavoratore. L'esaurimento del secondo determina l'arricchimento del primo. E non dobbiamo dimenticare i lavoratori licenziati nel paese d'origine quando l'impianto è stato spostato all'estero. Si trovano disoccupati, mentre il loro ex datore di lavoro si è arricchito. Quest'ultimo si unisce dolcemente all'1% mentre gli altri scivola sicuramente scorrevole verso il 99%.
Secondo esempio, le politiche agricole messe in atto negli Stati Uniti e in Europa, come ad esempio la politica agricola comune in vigore in Europa. Quest'ultima sovvenziona la produzione agricola, ma non solo. Sovvenziona anche le esportazioni. Una politica che non manca di creare disastri economici e umani. Infatti, prendiamo un contadino spagnolo che riceve sussidi per esportare i suoi polli in Senegal. Dato che riceve aiuti da parte dell'Unione europea, può permettersi di abbassare il prezzo del pollo per essere più competitivo sul mercato locale. Tuttavia, il contadino senegalese, che non ha ricevuto alcuna sovvenzione, non può permettersi di abbassare il prezzo del suo prodotto. Ma per i consumatori con scarsa capacità di acquisto, è più economico comprare il pollo europeo, più conveniente. Conseguenza: il contadino africano non vende più, è fuggito in città per trovare lavoro e come nella maggior parte dei casi non lo trova, ha quindi deciso di prendere la via dell'emigrazione per venire, qualche volta, a morire nel Mediterraneo. Questo è un altro esempio di come il Nord cerca di mantenere alcuni paesi del Sud sottomessi e dominati. Politiche ingiuste e inique provocano gravi conseguenze e sono responsabili delle crescenti disuguaglianze tra Nord e Sud.
Guai al Sud se osa crescere in modo indipendente…
Nel suo famoso libro, Imperialismo, fase suprema del capitalismo, Lenin dimostra come il capitalismo, desideroso di nuovi territori, nuovi spazi, nuove risorse per svilupparsi e vendere le sue merci tende, attraverso l'esportazione di capitali, a conquistare nuove terre e nuovi mercati. La storia del capitalismo è strettamente legata al colonialismo e all'imperialismo. In effetti, sono le risorse naturali dell'America, dell'Africa e dell'Asia che hanno permesso al capitalismo di emergere, quella che Marx chiamava "accumulazione originaria". Sono passati secoli, le colonie hanno ottenuto l'indipendenza, ma l'imperialismo è ben lungi dall'essere scomparso. Le disparità, le disuguaglianze tra Nord e Sud sono la conseguenza di secoli di sfruttamento e saccheggio.
Le disuguaglianze rimangono notevoli a causa dell'eredità del passato, ma anche perché alcuni paesi sono ormai diventati neo-colonie. Certamente non sono occupati militarmente ma l'economia beneficia la borghesia del paese specifico e la borghesia del Nord. Queste disuguaglianze sono il frutto del saccheggio delle risorse naturali e di accordi di libero scambio estremamente sfavorevoli ai paesi del Sud, come il NAFTA tra Canada, Stati Uniti e Messico. Questa ricerca di risorse naturali ed energetiche sono essenziali per garantire la sopravvivenza delle grandi potenze. È per questo che i governi capitalisti occidentali si sforzano di impedire ai paesi in via di sviluppo di svilupparsi in modo indipendente e autonomo. Le potenze occidentali sono talmente consuete a saccheggiare i paesi del terzo mondo che quando presidenti progressisti o addirittura rivoluzionari arrivano al potere, con l'obiettivo di migliorare la vita del loro popolo, fanno di tutto per rovesciarli. L'indipendenza economica è vista come un crimine da parte dell'1%. Per questo motivo hanno cercato di far cadere Chavez, Fidel Castro, Evo Morales, Thomas Sankara, Patrice Lumumba, Nasser con vari gradi di successo. Il senso è chiaro: o il Sud si sviluppa in modo sovrano e indipendente e così le disparità Nord-Sud diminuiscono o le potenze imperialiste continuano a mettere le mani sulle risorse naturali dei paesi in via di sviluppo e quindi, il divario non può che crescere.
Non c'è niente da sapere
E' interessante analizzare il trattamento o meglio il non-trattamento da parte dei media rispetto al rapporto sulla disuguaglianza. In effetti, questo rapporto è stato trattato in modo molto timido o silente da parte dei media mainstream. Alcuni titoli e articoli nei Tg, alla radio e sui quotidiani e poi più nulla. Eppure il tema è particolarmente grave e meriterebbe un'attenzione a più lungo termine. Ma niente da fare, l'elite giornalistica, corollario e complice dell'elite economica e finanziaria, non ha l'aria molto interessata a questo argomento, anche se di fondamentale importanza per il futuro dell'umanità. Nessun vero dibattito in senso democratico, ossia dibattiti in cui si scontrino pensieri, ideologie e progetti (realmente) contraddittori. In effetti il nostro sistema di mezzi di comunicazione ci ha abituati a simulacri di "dibattiti", in cui ogni parlante ripete pressoché quello che ha detto il suo "avversario". Nessuna edizione speciale. Nessuna ricerca approfondita per individuare le vere ragioni alla base del crescente divario tra i super-ricchi e il resto della società.
In sostanza, il messaggio dei media è piuttosto chiaro: perché soffermarsi su fenomeni che sono sostanzialmente non modificabili? In effetti, i liberali considerano l'economia una scienza quasi esatta e il problema delle "disuguaglianze" sono considerati fatti di ordine "naturale" contro i quali non c'è rimedio. Pertanto, è inutile discuterne. Questa è in sostanza la visione dei media, degni portavoce della classe dominante. La ragione del colpevole silenzio dei media risulta evidente se guardiamo a chi appartengono i maggiori organi di propaganda. Una spiegazione c'è.
La maggior parte dei mezzi di comunicazione sono di proprietà di potenti industriali, banchieri e uomini d'affari. Tra loro, guarda caso, alcuni multimilionari: Dassault, Pinault, Lagardère, Arnault. Non stupisce quindi che i media, agli ordini dei loro capi, si soffermino appena furtivamente sulla disuguaglianza. E' importante non dare una cattiva immagine dei miliardari. Non è opportuno mostrare come si siano arricchiti sfruttando i lavoratori, licenziandoli per aumentare i loro profitti, ingerendosi nella politica estera di altri paesi, lanciando guerre per destabilizzare un paese e spogliarlo delle sue risorse naturali.
E, infine, soprattutto non mostrare che queste disuguaglianze non sono il frutto del caso, ma che sono strutturali e inerenti al sistema capitalista. Dire questo probabilmente spingerebbe più cittadini a porsi delle domande sul tema e quindi, eventualmente, spingerli alla sollevazione. "Ci sono sempre stati ricchi, sempre poveri, la guerra è sempre esistita, la fame è sempre esistita, è così, questa è la vita non ci si può fare nulla". Per riassumere, "soffrite e basta".
Far fronte alla rassegnazione
Naturalmente, questa situazione è tutt'altro che inevitabile. L'Ong Oxfam che ha condotto l'indagine ha avanzato diverse piste al fine di lottare contro queste disuguaglianze. Tra queste: il ritorno al welfare state, un reddito garantito per i più poveri, una lotta feroce contro l'evasione fiscale, servizi pubblici gratuiti o maggiore tassazione dei redditi da capitale. Misure che vanno evidentemente nella direzione giusta e che potrebbero dare una boccata di aria fresca all'economia oltre a ridurre le disuguaglianze. Tuttavia, queste soluzioni non sono di gradimento. Per esempio Nicolas Doze, capo redattore economico della catena di informazione liberale BFMTV francese, giudica "dogmatiche" le soluzioni proposte dall'Oxfam. Un altro modo per spingere la gente alla rassegnazione, inculcando che soluzioni progressiste o radicali sono spazzatura.
Ma chi dimostra dogmatismo? Le proposte avanzate dalla Ong sono davvero "dogmatiche" o semplicemente realistiche e adeguate alla gravità della situazione? Tassare i capitali, è dogmatico? Fornire servizi pubblici per tutti, è irresponsabile? Beh, i veri dogmatici sono proprio questi fanatici liberali che non conoscono altra predica che il disimpegno dello Stato, l'abolizione della giornata di 35 ore e l'autorizzazione del lavoro domenicale. E anche gli evidenti fallimenti delle loro politiche non li inducono a cambiare idea. Promettono la piena occupazione e la crescita. Risultato, i paesi sono in recessione e la disoccupazione continua a crescere di giorno in giorno. Se questo non è dogmatismo, mi devono spiegare che cos'è. Una cosa è certa: in questa storia i cittadini non hanno assolutamente nulla da aspettarsi dai partiti tradizionali e più in generale dallo Stato, almeno da questo Stato. I politici non sono la soluzione, sono il problema. Lo Stato è lì solo per servire gli interessi della classe dominante. La classe politica non è che il garante istituzionale e politico della classe possidente.
Le soluzioni proposte dalla Ong vanno nella giusta direzione, ma non dovremmo essere più radicali? Sta qui il nocciolo della questione. L'uscita dal modello neoliberale è un'urgenza assoluta, condivisa da milioni di cittadini europei. Ma dopo? Dobbiamo lasciare al capitale il ruolo di guidare l'economia? Dobbiamo continuare a subire la dittatura di una piccola élite parassitaria che non rappresenta nessun'altro se non sé stessa?
Dopo la crisi del 2008, Nicolas Sarkozy aveva auspicato una "moralizzazione del capitalismo". Ma è possibile rendere morale ciò che è immorale? Il capitalismo è nella sua essenza, un sistema estremamente violento. Crisi, sconvolgimenti, i disastri che provoca ne fanno la principale minaccia per la sopravvivenza della specie umana. Regolare il capitalismo è un'idea condivisa da molte persone, ma questa resta un'idea, largamente inoffensiva. Non dovremmo piuttosto affidare al lavoro, vale a dire ai lavoratori, i creatori della ricchezza, anche la gestione dell'economia? E non dimentichiamo la questione centrale della democrazia. La democrazia è del tutto avulsa al capitalismo. Non esiste. Se esistesse, la ricchezza sarebbe condivisa.
E così ora il mondo attraversa un momento critico della sua storia. Gli stravolgimenti politici, economici e geopolitici compromettono il mondo. Mentre le grandi potenze sono in declino, altre guadagnano slancio. Nuovi attori, nuovi paesi bussano alla porta. Abbiamo la possibilità di vivere la fine di un mondo, la fine di un'epoca, la fine dell'egemonia (occidentale). Resta da vedere quale cammino sceglieremo per creare un nuovo modello di civiltà. Continueremo a seguire questo stesso sistema di società spietata, disumana o vorremo una società più egualitaria e definitivamente libera dal giogo del danaro?
Le disuguaglianze possono essere un fattore di indebolimento della coesione sociale. Possono anche dare l'innesco a una lotta tra le diverse componenti della società, stanche di un sistema ingiusto e che non le rappresenta.

martedì 9 febbraio 2016

Il cimitero delle auto di lusso: migliaia di supercar abbandonate a Dubai

Più di 4.300 veicoli sono stati abbandonati per le strade e nei parchi della capitale degli Emirati Arabi Uniti (EAU), Abu Dhabi, lo scorso anno, riporta il quotidiano locale 'The National '.
A Dubai, invece, si contano tra le 2mila e le 3mila auto abbandonate. Così, la Ferrari Enzo (nella prima foto qui sotto) è solo uno dei gioielli abbandonati dai proprietari per motivi diversi. Alcuni hanno lasciato il paese a causa di problemi con la legge, altri sono stati colpiti dalla crisi economica e non potevano più continuare a pagare le tasse.
Negli Emirati Arabi Uniti non c'è il fallimento e il mancato pagamento dei debiti è considerato un crimine. Come risultato, i proprietari abbandonano le oro auto di lusso, a volte per evitare procedimenti.
Così, secondo la polizia di Dubai, la Ferrari Enzo, prodotta in poche copie, è stata trovata abbandonata nel 2012. Da allora, ha attirato notevole interesse. La polizia spesso mette all'asta i veicoli abbandonati o sequestrati e a prezzi a volte ridicoli per l'Occidente, a partire da 2700 dollari a veicolo. Tuttavia, purtroppo per i collezionisti, la Ferrari non può essere venduta perché è oggetto di un complicato caso legale, come spiega "7 days".
Nel frattempo, le autorità della capitale stanno già prendendo provvedimenti per rimuovere le auto abbandonate. I proprietari saranno multati e andranno incontro alla confisca dei veicoli, se ignoreranno gli avvertimenti della polizia.
Oltre alla leggendaria Ferrari, per le strade degli Emirati Arabi Uniti, uno dei paesi più ricchi del mondo, si possono trovare Aston Martin, BMW, Porsche, Lamborghini, Mercedes Benz ...tutte coperte di polvere.

lunedì 8 febbraio 2016

Venghino signori! La Buona Scuola è servita!

Signore e signori venghino!!! La Scuola va in scena, la Scuola vale una cena, la Scuola vale tanti premi e più panini mangiate. Ecchisenefrega se avrete come Spurlock nel film documentario“Super Size Me” casi di tachicardia. Non importa se il vostro fegato si trasformerà in paté, l’importante è che andiate a mangiare da McDonald’s dove ci sono tante iniziative per gli studenti e premi esclusivi per le scuole. Non importa se al processo contro McDonald’s e dopo la denuncia di Morgan Spurlock, i legali della difesa hanno dichiarato che è di pubblico dominio il fatto che i procedimenti usati per la preparazione del suo cibo lo rendono più nocivo del cibo non trattato. Tutti allegri dai, perché in origine venivano usati i polli troppo vecchi per deporre uova, ora dobbiamo festeggiare con un bel frullato al burro di arachide e pancetta dolce, quando i nostri studenti intendono finanziare la loro Scuola condizionati da messaggi pubblicitari occultati da intenzioni repellenti. Vengono usati come Pinocchio nel Campo dei Miracoli, attratti da enormi panini untuosi da cui calano grassi che solo a vederli il fegato si nasconde dietro ai reni che a sua volta si nascondono dietro lo stomaco che a sua volta loro padre comprò mangiando i McNuggets provenienti da polli dal petto insolitamente sviluppato. Infatti la polpa disossata diventa una specie di tritato di pollo, dopodiché viene mischiata con stabilizzanti e conservanti, pressata nella forma che conosciamo, impanata, fritta, surgelata e distribuita nei vari punti McDonald's. Il "cibo di McFrankenstein", preparato con ingredienti assolutamente sconosciuti in cucina. L’importante come diceva qualcuno è partecipare e diverse scuole italiane, consce di diseducare a livello alimentare i propri allievi, hanno partecipato all’iniziativa PUNTI CHE CONTANO. Tutto si svolge così. Tu vai a mangiare in questi roccheforti del colesterolo che a lungo andare ti rendono dipendente dall’immondizia che ingurgiti, porti la mamma, la nonna, la zia, i cugini, lo zio i pronipoti, la vicina di casa, l’amica del cuore e l’amante, li costringi a spalmarsi il viso di maionese, ketchup, mostarda patatine fritte e Coca- Cola, metti loro un bavaglino e imbuto li fai deglutire con la benda sugli occhi il super megagelato alla panna, vaniglia, crema cioccolata, pistacchio e fragola, li porti rantolanti e rotolanti verso casa assicurandoti che il loro telefono funzioni in caso di malore, metti in uso per le persone anziane, il cellulare con il pulsante SOS per allertare il più vicino Pronto Soccorso e sottrai loro i punti degli scontrini. Li assegni alla Scuola di tuo figlio che nel frattempo è ingrassato 15 kg, è diventato depresso e tende a non masturbarsi più (cosa sana e salutare ma tutto ciò non te ne frega), perché la sua Scuola riceverà un premio per rinnovarsi e riceveranno tanti materiali per crescere meglio…. E tu, in un delirio di onnipotenza, ti senti il Ministro dell’Istruzione Giannini e grande come il premier Renzi: “Finalmente avete cambiato il verso alla Scuola Pubblica. L’ avete resa migliore!” Si sa che fra i capisaldi finanziari della Legge n. 107 del 13/07/2015 (c.d. "Buona scuola") spiccano i seguenti punti, come evidenzia lo stesso legislatore: "Le risorse pubbliche non saranno mai sufficienti a colmare le esigenze di investimenti nella nostra scuola" e ancora, per rincarare la dose: "Sommare risorse pubbliche a interventi dei privati è l'unico modo per tornare a competere", e, come non bastasse: "... per le scuole deve essere facile, facilissimo ricevere risorse". E prendendo una pillola digestiva mi chiedo:” E se invece di finanziare in maniera forse maggiore le Scuole private le quali godono già di privilegi inattuabili nelle Scuole pubbliche, rendessero meno mortificante questa giostra di sponsor che rendono privata l’Istituzione pubblica? Io mi vedo già in una Scuola 3.0: insegnanti, collaboratori ATA, segreteria, team della Presidenza e il Preside in persona, con grembiulino e cappellino che acclamano le magnificenze dei tortellini Eataly l’azienda fondata da Oscar Farinetti, oppure reclamizzare i prodotti del Mulino Bianco con una famiglia che si sveglia al cucù del gallo, una madre già perfettamente truccata, sorridente e spaventosamente serena mentre nutre la sua famiglia e parla con la gallina Rosita. Il papà palestrato e incravattato con un sorriso a 32 denti sbiancati dal dentifricio che attrae uomini e donne, con lo yogurt denso di “bifidus actiregularis” che aiuterà la sua flora intestinale a defecare in fretta, per poi andare a lavoro a reclamizzare la bontà delle azioni Banca pop Etruria. Il Comitato di valutazione fonderà i suoi criteri sulla crescita di peso e foruncoli degli studenti, i neoassunti in fase C, i cosiddetti “potenziatori”, saranno giudicati in base a quanti bollini riusciranno a raccogliere di classe in classe e i “docenti contrastivi”, saranno usati come ragazze e ragazzi pon pon felici di organizzare balletti ogni fine ora per ricordare il marchio della carta igienica più delicata ai frequenti incontri con le nostre esternazioni naturali. Se non faranno ciò potranno andare in aspettativa per motivi di salute, non godere della pausa pasto e soprattutto del salario minimo garantito E’ così da alcuni anni diverse catene di supermercati hanno siglato con le scuole progetti di fund raising che è una espressione inglese traducibile semplicemente in raccolta fondi senza finalità di lucro. Ma il lucro è sicuramente di migliaia di specialisti di ogni genere che dovranno curare famiglie al completo per disintossicarli dal logorio della vita moderna. Ma intanto la Scuola pubblica ogni anno di più disossata dai finanziamenti statali come un coniglio ripieno, riceverà quanto le spetta di diritto, da supermercati o catene alimentari riempiendo carrelli di tre per due o acque della salute che fanno fare plin, plin. Insomma diventeremo con questa ottima trovata del Governo depurati nell’anima e puliti dentro e belli fuori. Prendo dal sito www.infoaut.org: ” Non si tratta più dell’iniziativa spontanea di sparuti genitori che si prodigano nella raccolta e offrono alla scuola il frutto di tanto impegno. Oggi sono le stesse scuole, i Dirigenti, che invitano i genitori a fare la spesa in alcuni supermercati e a consegnare i bollini e i buoni ai referenti di plesso o ad inserirli nei contenitori predisposti all’ingresso delle scuole. Con o senza l’approvazione del Consiglio di Istituto. Quegli stessi Dirigenti che negli ultimi dieci anni non hanno osato proferire parola quando venivano sottratti alle scuola sette miliardi di euro, che hanno assistito passivamente alla distruzione del tempo pieno, che non hanno osato indignarsi, leali impiegati ministeriali, quando il Ministero non erogava le necessarie ore di sostegno, quegli stessi Dirigenti ora invocano impegno e devozione delle famiglie nella raccolta dei bollini. Ci chiedono di abbandonare il mercato di zona, la panetteria sotto casa, il salumiere della via accanto e di recarci a fare la spesa nei loro supermercati di “fiducia”. Con i loro bollini la scuola potrà finalmente dotarsi di quegli strumenti che l’Amministrazione lesina, impegnata ad applicare, nel diffuso silenzio ed disinteresse di una parte non trascurabile del mondo della Scuola, delle famiglie, della politica, i tagli previsti dalla spending review. Le famiglie degli studenti diventano oggetto di campagne pubblicitarie e di fidelizzazione. Il diritto costituzionalmente garantito all’istruzione diventa il veicolo per la trasformazione delle famiglie in fedeli consumatrici. Il ricatto del contributo “volontario” non è più sufficiente per soddisfare le esigenze primarie. E in effetti i cataloghi delle due catene sono ricchissimi. Non manca nulla, dalla “confezione di forbicine creative” alla “chitarra acustica base per principianti”, dalla “Tv a led a 48 pollici” alla “multifunzione a colori che permette di stampare, fotocopiare, fare scansioni ed inviare fax”, dal “set di cuffie con microfono” allo “scheletro umano su piedistallo con ruote”. Insomma, tutto quello che occorre per allestire un’aula informatica, per dotare di cancelleria la scuola, per attrezzare l’aula “intrattenimento”, di scienze, di lingue straniere. Ma quanti bollini servono per richiedere un bene in catalogo? Quanta spesa occorre fare per elemosinare un computer per la nostra Scuola? La replica del sottosegretario all'Istruzione, Davide Faraone non si fa aspettare:” Abbiamo fiducia nelle scuole. È finita l'era del centralismo ministeriale, # labuonascuola ha inaugurato una nuova era dell'autonomia. Un'autonomia reale, non più soltanto sulla carta ma rafforzata da soldi e persone”. Praticamente chissenefrega e le bustine per il mal di stomaco procuratevele nel kit “Adotta un insegnante” sponsorizzato dalla A.A.A Insegnanti alla ricerca dell’identità perduta.