lunedì 21 dicembre 2020

Allarme per la mutazione del virus Covid 19. Voli bloccati dalla Gran Bretagna.

 

A partire da oggi (domenica) a mezzanotte, nessun volo dal Regno Unito sarà consentito in Italia e nei Paesi Bassi. Germania e Francia si apprestano a fare altrettanto a causa di un nuovo ceppo di COVID-19 scoperto in Gran Bretagna. Il ministro della Sanità britannico Matt Hancock ha detto oggi che la diffusione della nuova variante di coronavirus individuata in certe zone nel Regno Unito è “fuori controllo”.

Ma la nuova variante di Coronavirus scoperta in Gran Bretagna è stata individuata anche in Danimarca e Australia, oltre che in Olanda, ha reso noto l’Oms.

Il divieto sui voli nel Regno Unito durerà come minimo fino al 1 ° gennaio e potrebbe essere esteso. Il blocco è dovuto alla scoperta di un caso della nuova mutazione del coronavirus nel Paese.

Secondo The BMJ , la rivista pubblicata dalla British Medical Association , il 13 dicembre, 1.108 casi di un virus mutato, denominato VUI-202012/01, sono stati identificati nel Regno Unito. Sebbene la maggior parte dei casi sia stata riscontrata nel sud-est dell’Inghilterra, i casi sono stati segnalati in tutto il Regno Unito, inclusi Galles e Scozia. La BMJ afferma che VUI-202012/01 è stato scoperto per la prima volta alla fine di settembre e probabilmente non proveniva dall’estero, ma si era evoluto nel Regno Unito.

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Relativamente al nuovo virus di Covid 19 mutato che si va diffondendo in Gran Bretagna e sulle sue possibili conseguenze, già lunedi scorso il quotidiano britannico The Guardian ha pubblicato su questo un articolo molto interessante ed esaustivo che riproduciamo:

Da The Guardian del 14 dicembre

Si teme che una nuova variante del coronavirus possa accelerare la diffusione del Covid-19, in particolare nel sud-est dell’Inghilterra.

La Public Health England (PHE) ha affermato che, al 13 dicembre, sono stati identificati 1.108 casi con questa nuova variante, prevalentemente nel sud e nell’est dell’Inghilterra”.

È prematuro avanzare affermazioni sui potenziali impatti della mutazione del virus. Ma se il virus si diffonde più velocemente sarà più difficile controllarlo. Detto questo, ci sono già stati vari ceppi di Covid-19 senza conseguenze reali. Potrebbe essere potenzialmente grave, ma non se ne sa abbastanza e la sorveglianza e la ricerca continueranno.

Il mutato ceppo del virus, secondo il segretario alla salute britannico, Matt Hancock contiene una serie di mutazioni ed è stato rilevato in alcune parti del sud dove i casi del virus stanno aumentando più rapidamente,.

Sei giorni fa, per le autorità sanitarie britanniche non vi era alcuna indicazione che il virus fosse più pericoloso di altri coronavirus Sars-CoV-2. I virus acquisiscono mutazioni continuamente. La maggior parte ha un effetto scarso o nullo e alcuni ostacoleranno il virus, portando quelle mutazioni a morire. Ma ci sono possibili mutazioni che accelerano la trasmissione del virus.

La nuova variante ha molteplici mutazioni nella proteina spike del coronavirus, la più preoccupante delle quali sembra essere quella che gli scienziati chiamano delezione – in questo caso, la perdita di due amminoacidi dalla proteina spike – che potrebbe farla diffondere più facilmente. La stessa delezione è stata riscontrata nei coronavirus in diversi paesi fini dalla primavera scorsa, ma a livelli bassi. Ha cominciato invece ad aumentare nell’Inghilterra meridionale in agosto e settembre.

La stessa delezione è stata riscontrata quando sono stati raccolti campioni di virus da un paziente di Cambridge con un sistema immunitario indebolito. Il paziente è stato trattato con plasma convalescente – plasma sanguigno contenente anticorpi di un paziente guarito. Il virus ha acquisito la mutazione durante quel trattamento e potrebbe essere diventato più resistente agli anticorpi. Alla fine il paziente è morto a causa dell’infezione.

“Pensiamo che ci sia un meccanismo per il virus per iniziare a fuoriuscire”, ha detto Ravi Gupta, professore di microbiologia clinica presso il Cambridge Institute of Therapeutics Immunology and Infectious Disease presso l’Università di Cambridge. “Dobbiamo reprimerlo. Non sappiamo cosa farà a lungo termine ma non possiamo rischiare. È improbabile che possa far ammalare le persone, ma potrebbe renderlo più difficile da controllare “.

Poiché i virus mutano, c’è sempre la possibilità che emerga un nuovo ceppo resistente ai vaccini esistenti. La maggior parte dei vaccini Covid produce anticorpi che disabilitano il virus gommando le sue proteine ​​spike. Questi studiano la superficie del virus e lo aiutano a entrare nelle cellule umane. Se la proteina spike muta, come nella nuova variante, potrebbe potenzialmente eludere gli anticorpi generati dai vaccini utilizzando una versione precedente della proteina spike.

Ma due punti sono importanti. In primo luogo, i vaccini producono una serie di anticorpi che attaccano il virus da diverse angolazioni, quindi è difficile per lui eluderli tutti in una volta. In secondo luogo, le principali mutazioni influenzerebbero probabilmente la capacità del virus di infettare le cellule umane. I genetisti stanno già monitorando il virus per le forme mutanti che si producono e che chiamano “fuga dal vaccino”. La ricerca è ora in corso a Porton Down e in altri laboratori per verificare se il nuovo ceppo potrebbe porre problemi. Se il virus si trasforma in una forma resistente, i vaccini possono essere modificati per renderli nuovamente efficaci.


Il dottor Michael Ryan, direttore esecutivo del programma di emergenza dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), ha affermato di essere a conoscenza della variante. “Questo tipo di evoluzione e mutazioni sono in realtà abbastanza comuni”, ha detto. “La domanda, come abbiamo avuto di recente con le varianti di visone in Danimarca e le varianti precedenti, è: questo rende il virus più grave? Permette al virus di trasmettersi più facilmente? Interferisce in qualche modo con la diagnostica? Interferirebbe in qualche modo con l’efficacia del vaccino? Nessuna di queste domande è stata ancora risolta. ”

Ma perché la mutazione del virus si sarebbe prodotta nell’Inghilterra meridionale? Le cause si combinano in modi diversi nelle diverse aree e influenzano le epidemie locali. A Londra ad esempio, la pandemia ha spinto molte persone dagli uffici del centro città verso aree più residenziali. Di conseguenza sono diventati più trafficati, in particolare i quartieri con la maggiore densità abitativa. Poiché il secondo blocco nazionale era meno rigoroso del primo, con scuole e più negozi aperti, e Londra è uscita al livello 2 solo a dicembre, in alcuni distretti le condizioni erano mature perché i casi aumentassero. “Improvvisamente hai una situazione in cui, siccome così tante persone vivono lì, puoi potenziare la diffusione”, ha detto James Cheshire, professore di informazione geografica e cartografia all’University College di Londra .

A poche settimane dall’introduzione del sistema a tre livelli in ottobre da parte di Boris Johnson, gli scienziati avevano le prove che solo il livello 3 aveva un impatto sostanziale sulla trasmissione del virus. L’aumento dei casi a Londra conferma questa conclusione. Le restrizioni di livello 3 hanno contribuito a ridurre le infezioni a Bristol, invertendo quello che era stato un forte aumento .

“Sospetto che quello che stiamo vedendo è che il livello 2 non è abbastanza efficace nel prevenire la trasmissione di Covid, quindi non appena il blocco nazionale è nuovamente terminato e le persone hanno iniziato a mescolarsi di più – specialmente in un’area ad alta densità come Londra – la malattia ha ripreso la sua diffusione “, ha detto Richard Harris, professore di geografia sociale quantitativa presso l’Università di Bristol.

“Londra è una grande città ad alta densità con una popolazione giovane e percorsi di pendolarismo che si estendono in tutto il sud-est”, ha aggiunto. “Sembra che sia uscita troppo presto da controlli più severi, senza dubbio per motivi di costi economici, e perchè sarebbero aumentati sia per Londra che per l’intero paese mettendoli a livello 3.”

Una teoria è che il primo blocco nazionale è stato alleviato quando i casi erano più bassi nel sud rispetto al nord. L’epidemia si è ripresa rapidamente in alcune parti dell’Inghilterra settentrionale e delle Midlands, ma ci è voluto più tempo per ristabilire una trasmissione diffusa a Londra e in altre parti del sud. Ma ci sono altri fattori in gioco. E qui entra il gioco anche il carattere “sindemico” e non solo pandemico del Covid 19.

Infatti molte delle aree più colpite a Liverpool, Manchester e Birmingham sono tra le più povere del Paese e il coronavirus si diffonde più rapidamente nelle aree più svantaggiate. L’occupazione gioca un ruolo importante. Nel sud, una percentuale maggiore della forza lavoro potrebbe lavorare da casa, evitando i trasporti pubblici e il contatto con gli altri. Quelli con un lavoro più sicuro erano meno costretti a lavorare quando si sentivano male ed erano più in grado di isolarsi da soli se prendevano l’infezione.

lunedì 16 novembre 2020

Serve un piano nazionale per la scuola

 

Il quadro che, giorno dopo giorno, si sta delineando nella scuola italiana è chiaro quanto desolante. La scuola sta scivolando inesorabilmente verso una totale ripresa della didattica a distanza.

Al momento è persino impossibile stabilire quante scuole e classi stiano lavorando in presenza e quante a distanza, poiché all’arlecchinata delle regioni si aggiungono quotidianamente situazioni locali di chiusure di singole scuole o di piccoli gruppi di istituti.

Ciò che è chiaro, invece, è che la ripresa scolastica nelle forme previste dal Ministero è fallita, avendo retto poche settimane all’impatto della nuova ondata della pandemia. Settimane in cui, peraltro, l’attività si è svolta in modo caotico, con la mancanza di migliaia d’insegnanti e di collaboratori ATA, in spazi costretti e senza indicazioni chiare.

L’impegno del personale della scuola per una ripresa della didattica in presenza è stato indiscutibile, ma alla fine è accaduto quanto si è verificato per la sanità, vale a dire che la buona volontà dei singoli non può supplire alla disorganizzazione istituzionale.

Così, ci si trova oggi di fronte a una constatazione che non avremmo mai voluto fare: le scuole non sono sicure o almeno non lo sono abbastanza. Questo per almeno due ragioni: la scuola non è una bolla isolata dal contesto sociale, ma interagisce con tutti gli altri settori d’attività e di servizi; inoltre il Ministero ha completamente sbagliato politica ignorando che la scuola necessita che vengano avviati interventi strutturali e non palliativi.

Anzitutto, la ripresa scolastica avrebbe dovuto essere sostenuta dall’interazione con i servizi sanitari, per un controllo preventivo e con un pronto intervento sulle situazioni di positività.

Il tragico stato della sanità territoriale è sotto gli occhi di tutti ed è una delle cause della perdita di controllo sulla pandemia; un servizio in questo stato non può essere buon partner della scuola. Inoltre, mettere in movimento ogni giorno dieci milioni di persone che vanno a scuola, spesso anche con situazioni di pendolarismo, avrebbe richiesto trasporti pubblici efficienti e sicuri.

I trasporti pubblici sono invece diventati una delle più pericolose cause di contagio. Non serve a nulla cercare di garantire la sicurezza nelle scuole se studenti e personale rischiano di ammalarsi sui mezzi con cui ci vanno. La realtà è quindi chiara: ciò che non ha funzionato, a causa delle inefficienze governative, è la triangolazione scuola-sanità-trasporti che sola avrebbe potuto consentire una ripresa e un anno scolastico regolare.

Dal punto di vista degli interventi specifici del Ministero dell’Istruzione sulla scuola è mancata, non casualmente, una visione politica di prospettiva capace di contemperare emergenza e rilancio dell’istituzione nel suo complesso.

Scriviamolo con chiarezza: dopo trent’anni di definanziamenti, di politiche di sussidiarietà pubblico-privato, di riduzione degli organici, di innovazione ridotta all’asservimento alle imprese, nemmeno se Lucia Azzolina fosse stata Superwoman avrebbe potuto mutare la situazione in pochi mesi.

Però ciò che si sarebbe potuto utilmente fare sarebbe stato prendere atto dell’idiozia suicida delle politiche degli ultimi trent’anni e avviare un serio piano d’interventi che invertisse la rotta.

Al contrario, la Ministra ha centrato tutto sull’emergenza a breve, prevedendo tra l’altro interventi che si sono rivelati inutili, simbolo dei quali è il tormentone estivo sui banchi a rotelle, sul destino dei quali è sceso un silenzio glaciale.

Il Ministero non ha fatto che riempire giornali e televisioni di chiacchiere e di rapporti inutili stilati dai diversi organi di volta in volta messi in piedi: la ”Commissione Bianchi” il “Comitato tecnico scientifico” e altri, come le “Conferenze regionali di servizio” che avrebbero dovuto stendere i “Patti educativi di comunità” che non hanno nemmeno visto la luce.

La linea guida del Ministero è sempre comunque stata quella di confermare le scelte verso la sussidiarietà, la presenza dei privati nella scuola e la famigerata autonomia scolastica, da anni cavallo di Troia dell’aziendalizzazione del sistema.

Il continuo ricorso alla delega alle regioni, ai Comuni (con l’attribuzione di inutili poteri commissariali ai sindaci) e persino alle singole istituzioni scolastiche, in mancanza di una chiara guida centralizzata e di precisi impegni politici e finanziari, ha portato a una situazione di caos gestionale che è diventata presto paralisi.

Scrivevamo che sarebbe servito dare avvio a un piano di impegni strutturali, per esempio nel campo dell’edilizia scolastica, ma si è preferito cianciare di lezioni nei musei, nei parchi, nei cinema senza fare nulla di concreto.

Quanto all’assunzione di nuovo personale, la Ministra Azzolina ha preteso di indire un pericoloso quanto inutile concorso per assumere in ruolo chi ne aveva già diritto per legge, che oggi si può solo sperare sia annullato verso una soluzione più ragionevole d’immediata immissione in ruolo dei precari.

Per quanto concerne la Didattica a Distanza, per la quale mi rifiuto di usare la locuzione Didattica Digitale Integrata, perché ciò presuppone appunto l’integrazione tra strumento digitale e insegnamento in presenza, che al momento è impossibile, è evidente che già da mesi il Ministero, in assenza di qualunque progetto valido, meditava un suo massiccio impiego almeno per le scuole medie superiori.

Questo è testimoniato da mille dichiarazioni rilasciate durante l’estate da esponenti del ministero, dall’obbligo per le scuole di inserirla nei PTOF, infine dalla stipula di un pessimo contratto integrativo degli insegnanti per la didattica digitale, sinora firmato solo dalla CISL, dalla CGIL e dall’ANIEF (l’associazione professionale di cui era attivista la Ministra Azzolina).

La verità è che il ritorno alla didattica a distanza, per le scuole superiori, era dato per scontato dal Ministero, in mancanza di spazi e di personale alla cui carenza non si è voluto porre rimedio.

Tuttavia, se nelle stanze del Ministero si dava per certo il ritorno alla didattica a distanza, nemmeno su questo punto è esistita una regia centrale che avviasse almeno la realizzazione di un adeguato strumento di gestione, vale a dire una piattaforma pubblica nazionale di cui le scuole possano servirsi.

Le scuole continuano così a usare, in nome dell’autonomia, cioè nel più completo caos decisionale, le piattaforme proposte dalla GAFAM1, che lucrano su queste attività, s’impadroniscono di dati personali per utilizzarli ai propri fini commerciali e pubblicitari e impongono i propri software.

In pratica, la ministra Azzolina ha sprecato mesi preziosi e la scuola non ha fatto passi avanti da aprile a oggi. Non si è voluto avviare alcun progetto di riqualificazione della scuola pubblica e nessuna riflessione su decenni di obbrobri ormai palesi.

La pandemia richiama l’urgenza della fine della vergogna del precariato che costituisce non solo un oltraggio alla dignità dei docenti ma anche un limite alla qualità della didattica poiché ne riduce la continuità e fa perdere ogni anno settimane di scuola agli studenti. Inoltre è necessario avviare un grande progetto di edilizia scolastica in un paese in cui gli istituti sono alloggiati in edifici dalle condizioni troppo spesso precarie.

Ma ciò non è sufficiente poiché si deve anche riflettere sui guasti provocati dalla politica di aziendalizzazione delle istituzioni scolastiche seguita tra l’altro all’autonomia scolastica. Tale politica ha posto le scuole in competizione tra loro in una gara poco edificante per accaparrarsi studenti e finanziamenti, secondo criteri che hanno spesso poco a che vedere con la buona formazione del cittadino.

Tale politica ha anche scosso lo statuto professionale dei docenti, esposti ai ricatti commerciali e sottoposti a dirigenti-manager e non a coordinatori della didattica. Il rapporto con le imprese private ha condizionato, nelle scuole superiori, la didattica e la sperimentazione, con la riduzione del ruolo dei saperi a vantaggio dell’acquisizione di competenze immediatamente spendibili sul mercato del lavoro flessibile.

Tutto ciò ha indebolito il sistema formativo e aumentato le disuguaglianze tra regioni, città, scuole e infine tra i singoli studenti. Tali disparità non sono dovute solo alla didattica a distanza, ma quest’ultima le ha evidenziate e soprattutto accresciute.

Per questo, anche l’idea di un massiccio ritorno a questa modalità di didattica, che ormai è vista dal Ministero non solo come emergenza ma come prospettiva futura, non può non inquietare, perché è ben noto che essa tende ad aumentare il divario formativo e culturale dovuto alle differenze di classe.

Nella scuola si tratta quindi di riflettere su due piani. E’ evidente che siamo di fronte a un’emergenza immediata e che si prospetta una situazione drammatica, che potrebbe vedere gli studenti privati per mesi, forse per un intero anno scolastico, della vera scuola.

Però proprio per questo, è anche vero che i problemi posti dalla pandemia devono essere affrontati con una prospettiva di lungo termine, che restituisca centralità e impulso alla questione dell’educazione e della formazione nella nostra società, con il rilancio di un sistema nazionale unico e paritario di formazione che cancelli per sempre particolarismi ed egoismi regionali e locali.

lunedì 2 novembre 2020

Cina: verso il 14° Piano Quinquennale (2020-2025)

 

Lo scorso giovedì si è concluso il quinto Plenum del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese, che aveva il compito di dare gli indirizzi generali del quattordicesimo Piano Quinquennale.

Qualunque sia il risultato che uscirà dalle urne dopo il 3 novembre negli Stati Uniti, qualunque sia la strategia che verrà messa in campo dalla prossima amministrazione nord-americana – come ha dichiarato un funzionario del governo cinese al Financial Times –è certo che la strategia di de-connessione industriale tra gli USA e gli Stati Uniti continuerà il prossimo anno.

Come ha affermato al prestigioso quotidiano britannico Larry Hu, capo-economista  di Macquarie rispetto alla Cina: “oggi la più grande sfida per Pechino è la potenziale de-connessione economica con gli USA”.

Una separazione che passa attraverso una maggiore autonomia tecnologica da realizzarsi con massicci investimenti statali in “Ricerca e Sviluppo”, che si assesteranno per i prossimi 5 anni attorno al 3%, rispetto al 2,2% attuali.

Solo essendo tecnologicamente autosufficienti possiamo supportare uno sviluppo di alta qualità“, ha detto venerdì mattina Han Wenxiu, un alto funzionario finanziario del partito, in una conferenza stampa.

Quali saranno i settori in cui la Cina investirà maggiormente?

Qu Hongbin, capo economista cinese di HSBC, ha affermato al FT che “ci sarà più di una spinta politica per una maggiore spesa in ricerca e sviluppo nei prossimi anni, soprattutto in settori strategici come la biotecnologia, i semiconduttori e i nuovi veicoli energetici”.

Una delle priorità sarà quindi colmare il gap produttivo rispetto al settore dei semi-conduttori, di cui solo ¼ di quelli venduti in Cina è prodotto nella Repubblica Popolare.

La Cina è alla pari degli Stati Uniti come quota mondiale del settore, con poco più del 10% e 13 mila aziende, dietro rispettivamente la Corea del Sud – leader globale – che copre più di un quarto della produzione mondiale, Taiwan con circa il 20% (con cui la Repubblica Popolare trattiene però rapporti sempre più ostili), ed il Giappone, poco sopra il 15%, che ha più volte annunciato la propria volontà di sganciarsi dalle filiere produttive cinesi.

Un ruolo relativamente subordinato, quello della Cina, anche rispetto alle capacità che la Repubblica Popolare è in grado di mettere sul campo, nonostante i sussidi statali dati negli ultimi 20 anni ai produttori di chip, 100 volte in più di quelli dati dal governo di Taiwan nel settore. Un sostegno alle aziende che già che andava ben oltre la loro redditività economica immediata, ma considerato come strategico.

La “potenza di fuoco” di questi investimenti verrà potenziata – probabilmente 1.400 miliardi di dollari da qui al 2025 – anche se alcuni esperti affermano che questo non risolverà le difficoltà cinesi nel settore.

Secondo una recente inchiesta del FT: “Le priorità di Pechino ora includono il potenziamento della sua abilità tecnologica nell’automazione della progettazione elettronica (EDA) – il software utilizzato nella progettazione dei chip – e nella realizzazione delle macchine utilizzate negli impianti di fabbricazione dei chip.”

Ed è notizia recente che il colosso Huawei sta lavorando ai piani per un impianto  ai chip, a Shanghai, che non utilizzerebbe la tecnologia americana, consentendole di garantire le forniture per la sua attività di infrastruttura di telecomunicazioni principale nonostante le sanzioni statunitensi.

Un passo significativo per una delle sfide più impegnative per Pechino.

mercoledì 28 ottobre 2020

Con la cultura non si mangia

 

L’ennesimo DPCM quello del 25 ottobre – meglio precisare perché ormai ce ne cade addosso uno a settimana, spesso contraddittorio con quello precedente – conferma lo stato confusionale del governo, peraltro ben spiegabile con la Caporetto sanitaria del paese di fronte alla seconda ondata.

Un decreto che è esito dei compromessi seguiti alle risse e polemiche tra ministri e tra i ministri e le regioni, ma soprattutto tra i diversi “portatori di interessi” economici, che conferma tuttavia una realtà ben chiara: il governo non ha fatto nulla per fronteggiare la seconda ondata e continuerà a non fare nulla.

Tutte le misure di prevenzione sono affidate ai singoli cittadini, che devono seguire una lunga serie di prescrizioni riguardanti soprattutto le loro attività non lavorative. Nessun aumento dell’impegno è previsto da parte dello Stato.

Nella sua irruzione radiotelevisiva nelle case degli italiani, all’ora di pranzo, Conte ha ribadito che “l’Italia non può permettersi un altro confinamento generalizzato”. Ci chiediamo di quale Italia parli Conte e troviamo una sola risposta: è la Confindustria che non può permetterselo per non mettere a repentaglio i profitti dei padroni.

Luoghi di lavoro mai ispezionati, trasporti pubblici sporchi e sovraffollati, ospedali nel caos, a tutto questo il governo non darà risposte. L’esatta ripetizione di quanto portò alla strage nella bergamasca che rischia di espandersi su scala nazionale.

I cittadini invece dovranno limitare la loro vita sociale, arrivando persino a non ricevere in casa persone non conviventi. Ma, soprattutto, saranno annullate le attività culturali e associative. Che la cultura in Italia sia considerata un orpello “improduttivo”, che i lavoratori del teatro e della musica non siano valutati come dei professionisti è una storia vecchia.

Tuttavia, il problema sta diventando enorme e insostenibile, a fronte della chiusura totale di cinema, teatri e sale da concerto. Chiunque abbia partecipato a un concerto o a una rappresentazione teatrale negli ultimi mesi, e io sono tra questi, ha verificato la cura che gli organizzatori hanno avuto nel rispetto stretto delle misure di sicurezza.

Fatica buttata al vento, visto il disprezzo che questo governo dimostra per la cultura, che è sempre il primo settore a essere colpito. In questo modo, si gettano sul lastrico le gestioni dei teatri, dei festival, delle stagioni concertistiche e le migliaia di attori, musicisti e tecnici che li animano.

Ciò che interessa è la “produzione”, intesa come industriale (con i suoi annessi finanziari), l’unica considerata da Conte e soci. Che anche il teatro, il cinema, la musica siano produzione, ma di idee, di cultura, di socialità, di progettualità, e non di beni materiali, questo non interessa.Anzi, forse preoccupa…

Purtroppo, il settore dei lavoratori dello spettacolo è tra l’altro caratterizzato da una situazione contrattuale particolarmente difficile, dove sono molto frequenti contratti a prestazione, stagionali, temporanei. Si tratta quindi di una fascia di lavoratori che subiranno in modo drammatico le conseguenze di un altro fermo. Inoltre, molte sale e rassegne rischiano la chiusura.

Insomma, che con la cultura non si mangia – come sfuggì di dire a un altro ministro dell’economia di nome Tremonti – rischia di diventare tristemente vero. Sarà un grave danno per tutti che pagheremo nei decenni a venire con un sensibile impoverimento della vita culturale.

Mi sia anche consentito citare la chiusura dei centri sociali, culturali e ricreativi. Forse al governo non è nota l’importanza che questi luoghi associativi hanno avuto e hanno per la creazione di reti di socialità, di educazione dei minori e degli adulti, di solidarietà e di mutualismo, anche in situazione d’emergenza e in sostituzione, a volte, di funzioni che dovrebbero essere assolte dagli enti pubblici. La grande maggioranza di questi centri si erano peraltro perfettamente attrezzati per il rispetto delle norme sanitarie.

Nell’ambito dello sport, ciò che viene salvato dal governo sono i settori dove più forti sono gli interessi economici. Gli impianti sciistici sono, in linea di principio, chiusi, ma saranno possibili delle deroghe e viene salvaguardato solo il settore dell’attività professionistica, cioè quello dove girano soldi e i cittadini sono spettatori.

Tra questi, l’immarcescibile “Serie A” e i suoi diritti televisivi. Il CT della nazionale di calcio, Roberto Mancini, ha scritto che lo sport è un diritto come la scuola. Probabilmente ha ragione, ma solo se si fa riferimento al diritto di praticare uno sport, come cultura della salute e della natura, non a quello di guardare milionari in calzoncini stando seduti sul divano con la famosa frittatona alle cipolle e la Peroni familiare.

Quello non è un diritto, è abbrutimento.

martedì 20 ottobre 2020

Chi vincerà le elezioni negli Stati Uniti?

 

Gli Stati Uniti entrano nel vivo del processo elettorale e nulla fa pensare che l’oliata macchina della democrazia “a stelle e a strisce” possa funzionare come un tempo.

Lunedì 19 aprile è stata la Florida ad iniziare la possibilità di votare direttamente ai seggi in anticipo e sarà seguita da altri Stati.

Le precedenti elezioni statunitensi erano state vinte da Donald Trump sebbene Hilary Clinton avesse ottenuto più voti.

Trump aveva perso il voto popolare con quasi 63 milioni di voti, contro i quasi 66 di Hilary, cioè il 45% dell’attuale presidente contro il 48% della sfidante democratica uscita vincitrice dalle primarie del partito su Bernie Sanders.

Con 2,7 milioni in voti in meno, Donald Trump è diventato l’inquilino della Casa Bianca.

Un apparente paradosso che mostra la prima “stortura” del sistema di rappresentanza negli USA che garantisce ad ogni Stato – qualsiasi sia il numero dei suoi abitanti – due “grandi elettori” per il Senato più un numero di eletti proporzionale agli abitanti alla Camera.

La soglia per vincere le elezioni è quella di 270 eletti su 538 alla Camera.

È una eredità – come la Corte Suprema – di un sistema basato sull’equilibrio dei poteri, con una architettura frutto del compromesso costituzionale tra Stati possessori di schiavi e non, avvenuto più di 230 anni fa.

Un sistema di check and balance che al Senato, nell’attuale congiuntura, favorisce i repubblicani tradizionalmente radicati negli Stati meno popolati, rurali e conservatori.

La California, con i suoi 39,5 milioni di abitanti, al Senato conta quanto il Wyoming che ne ha 580 mila.

Il processo elettorale, già di per sé complicato, è reso ancora più difficile dalla situazione pandemica.

Questa ha costretto a spostare la campagna elettorale dai comizi veri e propri al piano della comunicazione televisiva, in cui a farla da padrone è la capacità di acquistare spazi pubblicitari.

L’emergenza sanitaria – 47.601 nuovi contagi il 18 ottobre, cioè il 30% in più di due settimane fa – amplierà senz’altro il voto per corrispondenza in anticipo, su cui vigono regole differenti per singolo Stato in un quadro parecchio frammentato.

Vista l’importanza che assumerà in questa tornata elettorale, e la sua complessità – si tratta di un vero “rompicapo” per i non-addetti ai lavori –, occorre spiegare come avviene il voto per corrispondenza nei singoli Stati.

Innanzitutto – secondo un sondaggio pubblicato dal Washington Post e la catena ABC – sono per lo più repubblicani coloro che sceglieranno di recarsi alle urne il 3 novembre (il 64% contro il 32% di coloro che hanno dichiarato che voteranno Biden), mentre chi ha votato o voterà per posta o in anticipo ha affermato in maggioranza che sceglierà lo sfidante democratico (70% contro il 26%).

Nel 2020, 9 Stati più il distretto della Columbia (la capitale Washington) hanno fatto la scelta di inviare automaticamente i bollettini di voto per posta a tutti gli iscritti alle liste elettorali. Solo 5 Stati l’avevano fatto in precedenza. Tranne lo Utah sono tutti “Blue State”, cioè tradizionalmente democratici.

In 36 Stati gli elettori devono fare richiesta senza fornire spiegazioni, mentre in 5 viene richiesto di fornire un motivo accettabile per giustificare il fatto di non recarsi alle urne.

Questi ultimi 5 Stati che di fatto disincentivano la partecipazione al voto sono tutti “Red State”, cioè tradizionalmente repubblicani: Indiana, Louisiana, Mississippi, Tennessee e Texas.

Metà degli Stati considereranno validi i bollettini di voto arrivati entro e non oltre il 3 novembre, mentre per l’altra metà farà fede il timbro dell’United States Postal Service – il servizio postale nord-americano – considerando validi e quindi conteggiati i bollettini che arriveranno anche dopo l’Election Day.

Un ritardo che in alcuni casi può raggiungere le tre settimane.

Questi Stati costituiscono i 2/3 dei “grandi elettori”, cioè il 66% degli eletti.

Ma i conteggi differiscono ulteriormente ed in 20 Stati potranno iniziare prima del 3 novembre, tra questi alcuni Stati-chiave, fondamentali nel 2016 per l’elezione di Trump: Florida, Arizona, Carolina del Nord, Ohio. Mentre nei tre “Swinging State” – Michigan, Pennsylvania, Wisconsin – lo sfoglio non potrà che iniziare dopo la chiusura dei seggi.

Tutto questo fa supporre che la chiusura delle urne non coinciderà affatto con la conoscenza del responso elettorale. Visto e considerato questo ginepraio di regole, non proprio concepito per incentivare la partecipazione, non è peregrino pensare che possano esserci contenziosi che aumentano il livello di insicurezza sull’esito del voto.

Vent’anni fa George W.Bush venne eletto dopo che la Corte Suprema – uno dei tre perni del potere politico statunitense – interruppe l’interminabile conta dei voti.

La media dei sondaggi monitorati dal New York Times”dà Biden avanti di 10 punti – il più prudente, e britannico, Financial Times, che si affida a “RealClear Politics”, 9 punti – con lo sfidante democratico in grado di minacciare potenzialmente addirittura alcuni Stati che sono in genere punti di forza dei repubblicani.

Ma l’incertezza regna sovrana anche perché Trump non ha mai dichiarato esplicitamente che accetterà l’esito delle urne e le undici settimane che separano l’Election Day dalla presa in carica ufficiale non aiutano. Non è detto che ci debba essere una transizione pacifica o quanto meno non traumatica dei poteri.

Le milizie dell’alt-right potrebbero intervenire in una situazione di incertezza, come lo stanno facendo sempre più spesso su input di Trump, che infatti non si sogna di prenderne le distanze, neanche quando sono stati scoperti i piani avanzati per il sequestro di una governatrice – Gretchen Whitmer, del Michigan – colpevole di avere imposto misure troppo strette per contenere il contagio!

Un altre elemento rilevante è la Corte Suprema, a maggioranza conservatrice, con tre membri su 9 nominati da Trump durante la sua amministrazione, tra cui l’ultima in ordine di tempo l’ultra-religiosa Amy Coney Barret, membro di People for Praise: 6 membri su 9 (il numero non è fissato da alcun codice legislativo) sono cattolici.

Bisogna ricordare che la Corte Suprema è stata determinante in passato nei casi di incertezza sull’esito del voto. Al , là della possibile sconfitta di Trump, essendo composta di membri incaricati “a vita”, deciderà su una serie rilevante di questioni per i tempi a venire, ipotecando non di poco le possibili scelte di Biden.

Ultimo ma non meno importante: il criterio di selezione del presidente, se non emergesse un verdetto chiaro, potrebbe favorire i repubblicani.

In quel caso – lo ha ricordato l’Associated Press – la Camera voterebbe per Stato e non per rappresentanti, con 26 Stati che sarebbero determinanti per il voto: nessuna autorità indipendente o federale convalida infatti i risultati nelle ore che seguono la chiusura delle urne elettorale!

Lo scorso anno la docente di diritto a Georgetown, Rosa Brooks, ha costituito un gruppo chiamato Transition Integrity Group per dare vita a simulazioni sullo stile dei “war games” sui possibili esiti di una ipotetica contesa sui risultati elettorali. In tutti gli scenari prefigurati, solo in un caso non porta alla conflagrazione degli Stati Uniti: un crollo di Joe Biden.

In questo quadro di imprevedibilità, la campagna elettorale si è concentrata sugli “Swinging State”; quelli dove l’esito del voto è più incerto ed il numero degli eletti è elevato, per la propaganda politica televisiva è stato spesa finora una cifra già tre volte superiore rispetto alle elezioni precedenti – 1,5 miliardi di dollari – con Biden che distanzia di parecchie lunghezze l’attuale presidente, in particolare proprio in questi Stati.

La Florida è lo Stato in cui i due sfidanti hanno speso di più, ma anche Michigan, Pennsylvania e Wisconsin, dove Trump si aggiudicò la vittoria per una manciata di voti.

La differenza tra lui e la candidata democratica in quegli Stati, nel 2016, era irrisoria: rispettivamente 0,3% (cioè meno di 10 mila voti di differenza), 0,7% (meno di 45 mila) e ancora 0,7% (poco più di 20 mila voti).

In Florida, il successo dell’attuale presidente era stato un poco più netto, con il 48,6% contro il 47,4%, con più di 110 mila voti di differenza.

In sintesi, meno di 200 mila voti, concentrati negli Stati “giusti”, avevano deciso la partita.

Anche Texas ed Arizona rappresentano dei fattori d’incertezza, nonostante siano tradizionalmente “red State”, per il cambiamento nella composizione etnica dei votanti. Qui i latinos – prima “minoranza etnica” per abitanti e votanti, avendo superato gli afro-americani – hanno assunto un peso maggiore.

I latinos nel complesso sono un raggruppamento non omogeneo, sia per collocazione (urbana o rurale), sia per orientamento elettorale e vivono per 2/3 in 5 stati: California, Texas, Florida, New York, e Arizona.

Ma i loro voti sono importanti anche nei tre Swinging State dove le elezioni presidenziali si decisero per 77.744 voti; la Pennsylvania ha 521 mila potenziali elettori latinos, 261 mila il Michigan e 183 mila il Wisconsin.

Durante le primarie, in alcuni Stati Bernie Sanders aveva fatto il pieno di voti tra di loro, in specie tra i più giovani, mentre in Florida un terzo degli ispano-americani è di origini cubane e tradizionalmente filo-repubblicana.

Secondo le statistiche, lo scorso anno erano diventati 60 milioni – di cui poco meno di un terzo con meno di 18 anni – cioè 24 milioni in più che nel 2000.

Secondo i sondaggi, le tre principali preoccupazioni dei latinos sono la pandemia, l’assicurazione sanitaria e, ben distanziata, l’immigrazione.

La Pandemia non a caso è stato l’argomento principale della campagna pubblicitaria di Biden, che ipoteticamente può contare sul loro voto, specie fra i più giovani e le donne, ed è in generale certo di fare incetta di voti afro-americani.

I repubblicani al potere hanno cercato in tutti i modi quest’anno di annullare il voto afro-americano – nel 2016 solo l’8% votarono per Trump -, cancellandoli dalle liste elettorali, sopprimendo seggi, imponendo criteri restrittivi nei confronti degli ex-detenuti, come in Florida, di fatto invertendo – grazie ad una decisione della Corte Suprema – una delle maggiori conquiste del periodo dei diritti civili, il Voting Rights Act del 1965, che aveva dato piena cittadinanza politica ai “Neri” sopprimendo le pratiche elettorali degli Stati segregazionisti ex-Confederati.

Sullo sfondo di una tripla crisi: sanitaria, economico-sociale e di legittimità politica, si stanno svolgendo le elezioni di quella che era la prima potenza mondiale ormai al tramonto.

Forse solo un periodo può sembrare più cupo, per il sogno americano: quando ad un anno dall’elezione di Franklin Delano Roosevelt, che traghetterà poi gli USA dalla Grande Crisi del ’29 al New Deal e poi alla partecipazione e la vittoria della Seconda Guerra Mondiale, circa 100 mila cittadini nord-americani fecero richiesta per lavorare nell’URSS.

Per tornare alla metafora iniziale dell’oliata macchina che sembra in panne: occorre ricordare che come dice l’adagio: se le cose non si possono aggiustare, probabilmente si romperanno

martedì 6 ottobre 2020

La fine dell’esorbitante privilegio del dollaro

 

Davanti alla parola crollo i marxisti devono drizzare le orecchie e diffidare. Troppe volte infatti una “crisi” dell’assetto capitalistico, più o meno grave, è stata interpretata come anticamera del crollo del modo di produzione capitalistico. Che avrebbe ovviamente consegnato il mondo, quasi senza colpo ferire, ad ogni ipotesi di trasformazione. Ma una rivoluzione – la nascita di un altro assetto nell’organizzazione sociale –  richiede travaglio, progetto, azione politica. Altrimenti non si verifica.

Ma è anche vero che i crolli avvengono, e che una potenza egemonica collassi lasciando spazio o al successore o, temporaneamente, alla Rivoluzione (se le forze che la perseguono hanno massa critica e cervello strategico sufficiente).

Normale dialettica, insomma, che costringe sempre a guardare la realtà per coglierne la dinamica specifica e – solo dopo – azzardare un giudizio, ipotizzare modifiche più o meno sostanziali agli scenari utilizzati, suggerire iniziative sociali e/o politiche.

Fatta la doverosa premessa, bisogna cominciare a fare i conti con il sempre più possibile crollo del dollaro. Che non è una moneta qualsiasi, battuta da una potenza qualsiasi, distrattamente quotata e trattata sul mercato, ma il baricentro dei mercati globali da 75 anni. Il vero pilastro – insieme agli armamenti – dell’egemonia Usa.

Già diversi analisti – tra cui Gianfranco Bellini, La bolla del dollaro, Odradek 2013 – avevano colto i sinistri scricchiolii prodotti da una situazione pesantemente sbilanciata (un Paese che poteva permettersi di acquistare qualsiasi merce sul pianeta pagando con la propria moneta nazionale, “stampata” a volontà e dal valore sempre più incerto).

Ma Bellini, si diceva negli angoli bui, “è un vecchio comunista”; dimenticavano i decenni passati a lavorare per Barclays, a Londra, cioé a tenere mani e mente ben dentro il mercato finanziario reale.

Ora però l’annuncio arriva da tutt’altra sponda. Da Stephen Roach, senior fellow all’università di Yale, ma soprattutto ex presidente di Morgan Stanley Asia, ramo orientale della potentissima banca d’affari che fa e disfa mercati e governi. Uno che si preoccupa per questa eventualità, non uno che ne gode auspicandola…

Quella di Roach non è infatti una “previsione” fondata su presupposti teorici diversi da quelli in uso sui “mercati”: è un calcolo che prende in esame i fondamentali. Ossia tasso di risparmio privato e partita dei conti correnti di un Paese. Gli Usa.

Secondo quel calcolo, Washington è sideralmente fuori di qualsiasi parametro di sostenibilità, sommando un altissimo debito privato e, necessariamente (dopo due crisi finanziarie ravvicinate come quella dei mutui subprime e l’attuale da pandemia), uno stellare debito pubblico.

La Storia, e l’abitudine, dicono che finora gli Usa hanno rifinanziato il loro debito senza problemi, e a tassi bassi, grazie al dollaro. Ora il gioco non può più riuscire.

I possibili finanziatori – di fronte all’identica domanda proveniente da tutte le parti del mondo, tranne la Cina e pochi altri – saranno costretti a chiedere interessi più alti o una valutazione “più obbiettiva” del valore del dollaro. Una svalutazione radicale, insomma.

Anzi, visto che la Federal Reserve dice chiaramente che non toccherà i tassi (a zero) per molti anni, saranno i mercati stessi a svalutare la moneta Usa.

Perché, banalmente, il dollaro non è più l’unica moneta di riserva al mondo. Ci sono alternativa, alla faccia di TINA. Si chiamano euro e renmimbi (yuan, cinese), ma anche criptomonete private (che sono asset speculativi, ma paradossalmente svolgono alcune funzioni della moneta di riserva, sia pure con livelli spaventosi di volatilità).

La parola crollo la usa Roach. Le conseguenze economiche, sociali, politiche, geostrategiche, ecc, sarebbero – o saranno, se ha fatto bene i calcoli – ciclopiche. Perché il livello di sviluppo e di interconnessione del mondo non era mai stato così elevato.

Bisogna ragionarci molto e bene, senza prendere scorciatoie fantasiose.

Ma intanto allacciamo le cinture.

venerdì 2 ottobre 2020

Il seme della guerra civile

 

La fine della politica, nell’Occidente capitalista, è ormai un dato di fatto generale. E sarebbe ora di capire perché.

In questi giorni, grande è lo scandalo per la miseria del dibattito tra Trump e Biden, che segna il punto più basso nella storia degli Stati Uniti. Ma nessuno – perlomeno nel mainstream – si chiede come sia possibile che ciò accada nella superpotenza fin qui egemone sul pianeta, senza concorrenti a far data dal 1989-91, quando crollò lo storico antagonista del ‘900, l’Unione Sovietica e il “socialismo reale”.

Sarebbe da idioti concentrare l’attenzione sui due squallidi protagonisti di uno scambio di insulti degno di un saloon stile Hateful Eight. Quelli, infatti, sono la risultante di una selezione interna alla “classe politica”.

Quindi bisogna guardare a cosa sia ridotta “la politica” in quel Paese, dopo un trentennio di “pensiero unico”, in cui nessun leader o partito aveva più bisogno di interrogarsi davvero su come gestire la complessità dello sviluppo contemporaneo.

Tutto era stato infatti risolto con il crollo dell’antagonista. Bastava assecondare il sistema delle imprese, in primo luogo quelle multinazionali che dominavano la “globalizzazione”, ridurre al minimo lo “stato sociale” e i salari, bombardare qualche vecchio complice che si montava la testa (Noriega, Saddam, Osama, ecc), smembrare Stati d’ostacolo a qualche progetto di sfruttamento locale (Libia, Somalia, ecc) e accaparrarsi tutte le risorse utili possibili, al bisogno.

Anche sul piano economico e finanziario i problemi non esistevano più. “I mercati” avevano raggiunto una potenza di fuoco tale che nessuno Stato – nemmeno gli Stati Uniti, in definitiva – poteva coltivare ambizioni differenti.

Specie negli Usa, la “classe politica” veniva velocemente sostituita da manager di multinazionali o finanziarie (Condoleeza Rice da Chevron, Dick Cheney da Halliburton, gli stessi petrolieri Bush padre e figlio, Lawrence Summers dalla Banca Mondiale, ecc), che passavano velocemente da cariche private a quelle pubbliche e viceversa.

Restava qualche spazio, nell’establishment, per avvocati di grido capaci di emergere come capacità retorica (i Clinton, Obama), ma ovviamente senza alcuna autonomia possibile rispetto al “potere centrale” (quello dei “mercati”).

A tenere insieme il tutto, anche nei momenti critici, c’era il dollaro, autentica moneta dell’impero, l’unica a poter ricoprire tutte le funzioni: unità di misura del valore di tutte le merci, moneta di riserva internazionale, mezzo di pagamento interno e internazionale. Basta stamparne le quantità necessarie, e nessuno si porrà il problema se accettarlo o no. Un privilegio unico, senza rivali.

In quel mondo, ormai alle nostre spalle, “pensare le alternative” era una fatica inutile. La mediazione tra interessi diversi era l’unica possibilità purché avvenisse all’interno dei margini sistemici concessi.

Tutto era già dato. Bastava seguire i percorsi prefissati.

La decadenza della politica, e dei “funzionari della politica”, è stata una conseguenza inevitabile. Non servivano più “statisti”, bastavano attori capaci di recitare qualsiasi parte (si era già cominciato con Ronald Reagan, ricordiamo), furbi in grado di districarsi nelle budella del potere, attenti solo a non combinare guai e pestare i piedi sbagliati.

Nel frattempo la società si polarizzava, le disuguaglianze si moltiplicavano, la guerra tra poveri – ultima risorsa quando si smette di “distribuire briciole” – seminava o rinfocolava contrasti mal ricoperti da una patina politically correct.

Conquistare consensi e voti, in questo mood, significa abbassare al minimo la complessità dei messaggi, “parlare alla pancia”, promettere l’impossibile, alimentare l’irrazionalità, inventare nemici ad hoc.

Ne sappiamo qualcosa in Italia, dall’irruzione di Berlusconi in poi, che ha sdoganato l’indicibile e l’impensabile come “nuova normalità popolare”. E se ci sembra folle che in piena pandemia ci sia la rissa continua tra governo centrale, regioni e sindaci sulle misure da adottare, ognuno interessato solo al suo spazio di visibilità, basta volgere lo sguardo altrove per vedere le stesse cose.

In Spagna, per esempio, l’assessore alla Sanità della regione di Madrid, Enrique Ruiz Escudero,  e la sindaca della capitale, Isabel Diaz Ayuso (entrambi “popolari”, mentre il governo è “socialista”), si oppongono alle nuove limitazioni perché l’epidemia nell’area sarebbe entrata in una fase “stabile” e ci sono “primi segnali di miglioramento”. Solo ieri, a Madrid, sono stati registrati 4.000 contagi, il doppio che in tutta Italia…

Così, non sembra neanche strano che negli Usa un isterico Donald Trump si rifiuti di prendere le distanze dal Ku Klux Klan e minacci di non accettare il risultato delle elezioni.

Sono saltati i parametri che davano stabilità alla “democrazia parlamentare”, a cominciare dalla comune accettazione delle regole del gioco e dell’alternanza. Ovvero quel “gioco truccato” da decenni, in Occidente, stritola le alternative di sistema riconducendole sempre al “meno peggio”, in una corsa al centro senza fine.

E’ stato in definitiva ri-piantato e ben innaffiato il seme della guerra civile, nel cuore dell’imperialismo stesso.

Se dovesse aver ragione Stephen Roach, economista statunitense che da tempo vede possibile una “brutale crisi del dollaro”, quel seme avrebbe un grande terreno su cui germogliare…

mercoledì 23 settembre 2020

La neverending lotta di classe di Confindustria

 

La lettera che il neopresidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha inviato ai presidenti delle associazioni confederate ha fatto capolino sulle pagine dei giornali, attirando l’attenzione anche dei sindacati, per il provocatorio riferimento ai “nuovi contratti rivoluzionari” che gli industriali vorrebbero firmare.

L’espressione ha fatto giustamente scalpore, ma una lettura complessiva della lettera fa emergere, in maniera ancora più limpida, la visione di Confindustria nella sua interezza, e ci suggerisce quali saranno i temi su cui lottare nel prossimo futuro e quali i fortini da difendere.

L’armamentario retorico padronale, infatti, emerge in tutta la sua limpidezza – condito dalle parole d’ordine dell’antistatalismo e del parassitismo, che da sempre contraddistinguono il capitalismo italiano – ma è sulle relazioni sociali e sulla struttura istituzionale del mercato del lavoro che Bonomi indugia con particolare interesse.

Cogliendo l’occasione di criticare il blocco dei licenziamenti e l’estensione della Cassa Integrazione, strumenti di tutela dei lavoratori invisi ai capitalisti e ai loro portavoce politici, Bonomi richiede un’accelerazione della riforma degli ammortizzatori sociali.

Richiede dunque, il completo passaggio – in buona parte, a dire il vero, già compiuto dal governo Renzi – da un sistema di ammortizzatori sociali cosiddetto in costanza di rapporto di lavoro ad un sistema basato interamente sulle politiche attive e sulla ricerca di un nuovo lavoro da parte del disoccupato.

Fare un po’ di ordine ci servirà non solo a scopo esplicativo, ma anche al fine di segnalare quali sono gli interessi che si vogliono intaccare dietro la retorica edulcorata del “riformismo” del mercato del lavoro.

Prima del Jobs Act, infatti, il sistema di assicurazione sociale contro la disoccupazione in Italia era sostanzialmente basato su forme di trasferimento – cassa integrazione guadagni (CIG) e indennità di mobilità – non condizionate alla ricerca del lavoro, e che mantenevano comunque il lavoratore in prossimità del proprio posto di lavoro.

Questa logica è stata superata quasi definitivamente dal Jobs Act che, con la NASPI, ha introdotto clausole stringenti per cui si perde il diritto al sussidio e ha spezzato il legame tra lavoratore e posto di lavoro. Prima del Jobs Act, infatti, il sistema di assicurazione sociale contro la disoccupazione in Italia era sostanzialmente basato, oltre che sulla cassa integrazione guadagni, sull’indennità di mobilità per i lavoratori licenziati.

L’indennità di mobilità non era condizionata alla ricerca di un’occupazione e manteneva comunque in vita la possibilità del reintegro nel rapporto di lavoro, in quanto per i primi sei mesi dalla cessazione i lavoratori avevano una sorta di “diritto di prelazione”, avendo l’azienda l’obbligo, in caso di nuove assunzioni, di assumere prima i lavoratori in mobilità.

Questa logica è stata superata quasi definitivamente dal Jobs Act, che con la NASPI, oltre ad aver eliminato il diritto di prelazione, ha introdotto clausole stringenti, in base alle quali se il lavoratore non accetta determinate offerte di lavoro, perde il diritto al sussidio. In tal modo, la riforma ha contribuito a rendere più labile il legame tra lavoratore e posto di lavoro.

Inoltre, sono state introdotte condizionalità anche per i beneficiari di CIG con una sospensione o riduzione superiore dell’orario di lavoro superiore al 50%.

Ammortizzatori sociali e sussidi di disoccupazione, così come le tutele contro il licenziamento e i contratti a tempo indeterminato, sono da anni sotto costante attacco da parte delle Istituzioni internazionali ed europee e dunque dei governi nazionali.

Unitamente alla riduzione delle tutele sul licenziamento, sussidi e ammortizzatori hanno subìto uno drastico ridimensionamento (nelle eligibilità e nelle prestazioni) poiché si ritiene, in accordo con la teoria economica dominante, che sussidi troppo generosi possano indurre il lavoratore a permanere nello stato di disoccupazione.

Emerge quell’odioso approccio al problema della disoccupazione la cui “colpa” ricadrebbe interamente sul lavoratore. Secondo questa logica, dunque, ridurre la durata del sussidio, accompagnarlo a clausole di condizionalità e alla ricerca ‘attiva’ di una nuova occupazione ridurrebbe l’azzardo morale del lavoratore e lo incentiverebbe a trovare un nuovo lavoro – indipendentemente dal fatto che tale lavoro ci sia o meno.

Proprio le clausole di condizionalità, vale a dire l’obbligo di partecipare alla formazione professionale e di non rifiutare un’offerta di lavoro ‘congrua’ (che spesso e volentieri non è affatto adeguata al percorso professionale e alle legittime aspirazioni dei lavoratori), rappresentano un vero e potente strumento di indebolimento del potere contrattuale del lavoratore.

Il rischio di perdere il sussidio, infatti, impedirà di continuare la ricerca di un impiego meglio retribuito costringendolo ad accettare un lavoro indipendentemente dalle proprie aspirazioni.

Il corollario di tali misure – e qui entriamo nel campo dell’inganno semantico – sono le famigerate politiche attive del lavoro a gran voce richieste da Bonomi. Esse, lungi dall’essere la panacea per i mercati del lavoro saturi di disoccupati, rappresentano il modo in cui la fiscalità generale si fa carico della formazione professionale dei lavoratori secondo l’interesse delle imprese, nella vana speranza che ciò serva a creare posti di lavoro, quando invece non si fa altro che fornire manodopera formata con soldi pubblici al servizio dei profitti privati.

Su di esse fa particolare affidamento proprio chi dà una spiegazione della disoccupazione dal lato dell’offerta, vale a dire chi ritiene che la disoccupazione dipenda dalle caratteristiche proprie del disoccupato, e che basterebbe dunque avere caratteristiche in linea con la domanda di lavoro per essere occupati.

Ma quando la domanda di lavoro stagna a causa di una domanda aggregata azzoppata dalle rigide regole di bilancio e dal contenimento dei salari, langue, non vi è speranza di aumentare l’occupazione.

Il mondo padronale naturalmente stravede per queste misure e, per voce di Bonomi, ne richiede addirittura un’ulteriore modifica affinché, si legge, venga nettamente distinta una parte del suo importo di natura assicurativa e una parte strettamente condizionata all’attività formativa.

Non solo superare completamente quel “retaggio novecentesco” rappresentato dalla CIG ma aggravare le condizionalità che gravano sulle spalle dei lavoratori.

Come gran parte della letteratura accademica di stampo liberista e del suo corollario politico, Bonomi chiede esplicitamente di rifarsi alle riforme Hartz, che tra il 2002 e il 2005 misero prepotentemente mano al mercato del lavoro tedesco.

Oltre a favorire la diffusione dei mini-job (lavori ultraprecari, mal pagati e privi di qualsiasi tutela previdenziale), l’obiettivo di tali riforme è stato quello di ridurre il costo del lavoro tedesco per favorire la competitività delle merci: uno dei metodi attraverso cui ciò è stato perseguito è stato la riduzione delle prestazioni dei sussidi e l’aggravamento delle clausole di condizionalità, logica pedissequamente seguita nel 2014 dal governo Renzi.

Mentre l’evidenza ha ormai smentito l’utilità di tali riforme nel determinare un miglioramento delle dinamiche occupazionali, è ben chiaro cosa esse abbiano prodotto in termini di distribuzione del reddito e di dinamica salariale. La quota salari tedesca, vale a dire la parte del prodotto nazionale che va al lavoro, è diminuita nei primi anni successivi alla riforma, tra il 2002 e il 2008, di ben 4 punti percentuali e ha recuperato il livello del 2001 solo nel 2018, segnando da allora un nuovo trend di decrescita.

Una dinamica speculare è stata seguita dal costo del lavoro per unità di prodotto (Il rapporto tra il costo e la produttività del lavoro) diminuito di 6 punti percentuali fino al 2008 e tornato ai livelli precedenti soltanto nel 2018.

È la logica della deflazione salariale che le politiche europee vogliono estendere a tutta Europa, che il Jobs Act ha decisamente implementato in Italia e che Bonomi invoca prepotentemente. Invocazione che viene condita dalle lagnanze di chi si lamenta per un Paese bloccato poiché i padroni non sono liberi di implementare la “riorganizzazione industriale” (tradotto, licenziare) né di effettuare investimenti.

È il ben noto scambio tra riduzione delle tutele e aumento degli investimenti, da sempre promesso, ma, come è logico aspettarsi, verificatosi solo in una direzione: quella della precarizzazione del lavoro.

Tutto al contrario, il volano della crescita economica e occupazionale del Paese è una vigorosa ripresa della spesa pubblica, al di fuori della logica dei vincoli europei, e la ripresa di una grande stagione di contrattazione salariale che restituisca ai lavoratori il potere di acquisto e i diritti perduti e rimetta in discussione la distribuzione del reddito tra salari e profitti.

A ricordarci quanto ciò sia cruciale del resto è proprio Bonomi. Quella sua roboante, ma in fondo laconica richiesta di contratti rivoluzionari slegati dalla logica novecentesca salario-orario di lavoro, suona come un avvertimento ai lavoratori e ai sindacati: dopo più di un decennio di blocco sostanziale della contrattazione, per cui tra il 2005 e il 2018 le retribuzioni reali sono cresciute di circa il 2%, non illudetevi di vedere aumenti significativi nei vostri salari. Confindustria è pronta e decisa a non consentirlo, e anzi, continua a chiedere al Governo sgravi e sussidi, oltreché il famigerato taglio del cuneo fiscale.

Una posizione emersa con ancora più chiarezza nell’incontro con i sindacati confederali della settimana scorsa in cui il presidente di Confindustria ha chiuso a qualsiasi ipotesi di riduzione dell’orario di lavoro e ha rilanciato una vecchia battaglia: coniugare aumenti salariali e produttività. Come se quest’ultima dipendesse dai lavoratori e non dalla dinamica economica del Paese e dunque dagli investimenti delle imprese.

La lettera di Bonomi, dunque, ci indica a suo modo la via, ricordandoci che i padroni non hanno mai deposto le armi della lotta di classe e indicandoci quali siano i nostri interessi da difendere: tutela contro i licenziamenti, contrattazione salariale e tutela del reddito dei disoccupati.

Allo stesso modo ci chiarisce anche il quadro economico istituzionale in cui queste battaglie troveranno terreno più fertile: un quadro in cui lo Stato riprenda in mano le fila dell’azione economica e si impegni in politiche pubbliche per la piena occupazione. Un quadro senza dubbio inconciliabile con quello attuale.