Davanti alla parola crollo
i marxisti devono drizzare le orecchie e diffidare. Troppe volte
infatti una “crisi” dell’assetto capitalistico, più o meno grave, è
stata interpretata come anticamera del crollo
del modo di produzione capitalistico. Che avrebbe ovviamente consegnato
il mondo, quasi senza colpo ferire, ad ogni ipotesi di trasformazione.
Ma una rivoluzione – la nascita di un altro assetto nell’organizzazione
sociale – richiede travaglio, progetto, azione politica. Altrimenti non
si verifica.
Ma è anche vero che i crolli avvengono, e che una potenza egemonica collassi lasciando spazio o al successore o, temporaneamente, alla Rivoluzione (se le forze che la perseguono hanno massa critica e cervello strategico sufficiente).
Normale dialettica, insomma, che costringe sempre a guardare la realtà per coglierne la dinamica specifica e – solo dopo – azzardare un giudizio, ipotizzare modifiche più o meno sostanziali agli scenari utilizzati, suggerire iniziative sociali e/o politiche.
Fatta la doverosa premessa, bisogna cominciare a fare i conti con il sempre più possibile crollo del dollaro. Che non è una moneta qualsiasi, battuta da una potenza qualsiasi, distrattamente quotata e trattata sul mercato, ma il baricentro dei mercati globali da 75 anni. Il vero pilastro – insieme agli armamenti – dell’egemonia Usa.
Già diversi analisti – tra cui Gianfranco Bellini, La bolla del dollaro, Odradek 2013 – avevano colto i sinistri scricchiolii prodotti da una situazione pesantemente sbilanciata (un Paese che poteva permettersi di acquistare qualsiasi merce sul pianeta pagando con la propria moneta nazionale, “stampata” a volontà e dal valore sempre più incerto).
Ma Bellini, si diceva negli angoli bui, “è un vecchio comunista”; dimenticavano i decenni passati a lavorare per Barclays, a Londra, cioé a tenere mani e mente ben dentro il mercato finanziario reale.
Ora però l’annuncio arriva da tutt’altra sponda. Da Stephen Roach, senior fellow
all’università di Yale, ma soprattutto ex presidente di Morgan Stanley
Asia, ramo orientale della potentissima banca d’affari che fa e disfa
mercati e governi. Uno che si preoccupa per questa eventualità, non uno
che ne gode auspicandola…
Quella di Roach non è infatti una “previsione” fondata su presupposti teorici diversi da quelli in uso sui “mercati”: è un calcolo che prende in esame i fondamentali. Ossia tasso di risparmio privato e partita dei conti correnti di un Paese. Gli Usa.
Secondo quel calcolo, Washington è sideralmente fuori di qualsiasi parametro di sostenibilità, sommando un altissimo debito privato e, necessariamente (dopo due crisi finanziarie ravvicinate come quella dei mutui subprime e l’attuale da pandemia), uno stellare debito pubblico.
La Storia, e l’abitudine, dicono che finora gli Usa hanno rifinanziato il loro debito senza problemi, e a tassi bassi, grazie al dollaro. Ora il gioco non può più riuscire.
I possibili finanziatori – di fronte all’identica domanda proveniente da tutte le parti del mondo, tranne la Cina e pochi altri – saranno costretti a chiedere interessi più alti o una valutazione “più obbiettiva” del valore del dollaro. Una svalutazione radicale, insomma.
Anzi, visto che la Federal Reserve dice chiaramente che non toccherà i tassi (a zero) per molti anni, saranno i mercati stessi a svalutare la moneta Usa.
Perché, banalmente, il dollaro non è più l’unica moneta di riserva al mondo. Ci sono alternativa, alla faccia di TINA. Si chiamano euro e renmimbi (yuan, cinese), ma anche criptomonete private (che sono asset speculativi, ma paradossalmente svolgono alcune funzioni della moneta di riserva, sia pure con livelli spaventosi di volatilità).
La parola crollo la usa Roach. Le conseguenze economiche, sociali, politiche, geostrategiche, ecc, sarebbero – o saranno, se ha fatto bene i calcoli – ciclopiche. Perché il livello di sviluppo e di interconnessione del mondo non era mai stato così elevato.
Bisogna ragionarci molto e bene, senza prendere scorciatoie fantasiose.
Ma intanto allacciamo le cinture.
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