Si
riparte come ci si era “fermati”, nel peggiore dei modi. Stamattina
oltre 4 milioni di lavoratori sono usciti di casa aggiungendosi agli
altri milioni (il 55,7% della forza lavoro, secondo l’Istat) che non hanno mai smesso di farlo, neanche nei giorni di lockdown stretto, quelli in cui tutto il resto della popolazione era obbligato a restare in casa.
Gli
occupati ufficiali in Italia erano a marzo 23,4 milioni. Significa che
13 milioni sono “rimasti in giro” per tutto questo periodo. Il che ha
certamente ha avuto un grosso peso sulla “lentezza” con cui la curva dei
contagi è scesa, specie nelle regioni a più alta industrializzazione
(Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte, in misura minore Veneto).
Non
possiamo saperlo con esattezza perché i dati diffusi ogni giorno dalla
Protezione civile, provenienti dalle Regioni, distinguono per fasce di
età, ma non per occupazione. Sembra comunque statisticamente probabile
che molti dei contagiati siano lavoratori rimasti in attività e le loro
famiglie.
A
questi milioni di lavoratori si aggiungono molti altri milioni di
“consumatori” (solo in parte coincidono con chi va al lavoro, fuori
dall’orario di sfruttamento), che andranno in giro quasi “come prima”.
Anche per il comprensibile, umanissimo desiderio di riassaggiare un po’
di vita all’aria aperta…
Il
governo fa appello al “senso di responsabilità” individuale, sapendo
benissimo che questa modalità folle avrà come conseguenza un aumento di
contagi, ricoverati, morti.
E’
un modo, vile come pochi, di scaricare la responsabilità di un
atteggiamento servile nei confronti delle imprese. Le quali, come
sempre, se ne fottono completamente delle conseguenze sanitarie del
proprio “funzionare”.
Ne abbiamo avuto un esempio lampante nel documentario de La7 dedicato al “buco nero” della Val Seriana – la più alta concentrazione di contagiati e morti al mondo
– in cui gli “imprenditori” locali non solo rivendicano di “aver fatto
pressione” per evitare che fosse dichiarata “zona rossa” quel
territorio, ma buttano la responsabilità addosso “alla politica” (“il
governo, al limite la Regione Lombardia”) per aver obbedito e non deciso
altrimenti.
Una
schizofrenia molto comoda, per cui da un lato “si pretende” una certa
politica e dall’altra se ne scaricano le conseguenze sugli esecutori.
Non c’è da stupirsi. E’ la stessa logica seguita dalla giunta leghista lumbard, che accusa l’Ats (Agenzia di tutela della salute) per la delibera firmata da Fontana e Gallera. E’ la stessa logica dell’Ats che prova a scaricare la responsabilità finale… sui medici mandati al massacro senza difese.
La
classe dirigente tutta, insomma, sia “imprenditoriale” che “politica”,
sta lì per fare affari e soldi, ma non ammette mai alcuna colpa per quel
che deriva dalle proprie decisioni. E non lo farà mai spontaneamente,
ma solo sotto una “pressione” fenomenale, ossia un popolo che si ribella
e pretende almeno il minimo: poter sopravvivere.
.
Si
riparte come ci si era “fermati”, nel peggiore dei modi. Tutta l’Italia
con le stesse modalità, senza guardare all’incidenza del contagio sul
territorio. Come se gli attuali 37.000 contagiati ufficiali in Lombardia
rappresentassero lo stesso livello di rischio dei 700 in Calabria o dei
180 in Molise. Come se lavorare nei campi o negli uffici e nei
capannoni industriali fosse la stessa cosa.
Si
riparte insomma alla spera-in-dio, con mascherine (non ancora sempre
reperibili a prezzi tollerabili e comunque dall’efficacia molto
differente a secondo i tipi) e “lavatevi spesso le mani”.
Si
riparte con comiche distinzioni tra affetti “stabili”, amicizie,
“congiunzioni”, autentici lapsus rivelatori di subculture arretrate, ma
soprattutto di consapevolezza del pericolo.
Lo ripetiamo dall’inizio: il “confinamento territoriale” non è più stato messo in opera, dopo Codogno e Vo Eurganeo, perché Assolombarda e in genere Confindustria (oggi coincidono, dopo la nomina di Carlo Bonomi)
hanno preteso di poter mantenere aperte quasi tutte le fabbriche,
persino quelle di armi (notoriamente utilissime per combattere i virus).
Il
virus si è dunque diffuso su tutto il territorio nazionale molto più di
quanto non sarebbe accaduto adottando davvero il “modello Wuhan” (chiusura
totale di alcune zone, rapida identificazione dei contagiati altrove,
Paese che continua a funzionare, sia pure a scartamento ridotto). Non paradossalmente, la
difesa a tutti i costi del Pil a scapito della salute si è tradotta in
maggiori perdite di Pil e in un massacro di dimensioni quasi belliche (siamo vicini ai 30.000 morti, per ora).
Non
c’è al momento un vaccino, né terapie farmacologiche certamente valide
in tutti i casi (si va avanti in tutto il mondo a forza di prove ed
errori, con “cocktail” in continua variazione).
Perciò,
fino a quando non sarà creato un vaccino efficace, il rischio di
contagio è esattamente uguale a prima del lockdown – anzi, ingigantito
dai numeri cresciuti nel tempo – appena temperato dalla consapevolezza
del problema e dei precari “mezzi di protezione individuale” adottati
dai singoli.
E non basterà neanche che un vaccino sia scoperto, perché bisognerà attendere che sia prodotto in miliardi di dosi, e che queste siano iniettate in altrettante persone su tutto il pianeta. Parecchi mesi, come minimo…
Solo
allora ci sarà un abbozzo di “immunità di gregge” diverso dal
malthusiano “chi muore, muore, e i sopravvissuti vanno avanti”.
Questa è la condizione oggettiva
di cui le imprese non vogliono neppure sentir parlare. Con lo sguardo
fisso sulle relazioni trimestrali di cassa (effettivamente disastrose),
la carenza di liquidità, il sapersi – ognuna di esse – al tempo stesso
cacciatore e preda di appetiti feroci, in una crisi senza precedenti.
Un assaggio corposissimo è arrivato in queste ore proprio da Bonomi,
che pretende di spazzar via qualsiasi interesse sociale non coincidente
con quello delle imprese e qualsiasi regola o legge che limiti le
prevaricazioni.
.
In
tutto l’Occidente neoliberista, dunque – in Italia come negli Usa, in
Francia come in Germania o in Gran Bretagna – si riparte nel peggiore
dei modi. O comunque ci si prova.
Quello che accadrà nei prossimi mesi è scritto. Lo si può leggere o far finta di non vedere, ma è scritto.
Possiamo
prendere le parole di un qualsiasi virologo, in queste ore. Dicono
tutti la stessa cosa. Antonio Crisanti, l’uomo che ha “salvato il
Veneto”, giudica pessima questa decisione: “Una riapertura differenziata per Regioni ci
avrebbe dato la possibilità di valutare la nostra capacità di reazione.
Non sappiamo se siamo in grado di spegnere nuovi focolai, se non con il
solito lockdown, il rischio dipende dal numero di casi e come sono
distribuiti. Una riapertura totale come questa dà una senso di insicurezza, gli effetti li vedremo tra 2-3 settimane”.
Massimo Galli, primario del reparto di Malattie Infettive dell’ospedale Sacco di Milano, ricorda che l’emergenza “Non
è affatto finita. Si sta cominciando a vedere la luce perché ci sono
stati i provvedimenti di distanziamento sociale. Tutti fuori senza le
debite precauzioni vorrebbe dire cercare guai e non capire che tutto può
ricominciare. Servono le precauzioni. altrimenti rimaniamo bloccati in
una situazione economicamente disastrosa in cui non si riesce a far
ripartire nulla. Attenzione perché se si riparte, non si sta attenti e si deve richiudere, sarebbe veramente il disastro”.
L’ondata
di ritorno dell’epidemia è una certezza, non un’eventualità sfortunata.
Lo sarebbe anche nel migliore dei sistemi possibile, ripetiamo, fin
quando non c’è un vaccino efficace. Ma è assolutamente impossibile
evitarla o ridurne l’impatto devastante in un sistema come quello in cui
viviamo – il capitalismo neoliberista occidentale – in cui è
l’interesse delle imprese private a prevalere nettamente sull’interesse
collettivo e dunque sul “potere pubblico”.
Tantomeno in un Paese con una classe politica ridicola, dove 20 nomenklature regionali trovate per caso con il casting
fanno a gara nel produrre “ordinanze” in competizione con il governo
centrale (già di suo parecchio sconquassato da ambizioni e obbedienze
diverse).
Ma è il dato economico, la crisi sistemica globale, la “cornice” dentro cui collocare avvenimenti altrimenti solo “curiosi”.
Per
avere un’idea non provinciale sulle “aspettative” economiche per i
prossimi mesi, le compagnie aeree asiatiche stanno mandando i loro
vettori intercontinentali (i Boeing 747, ecc) in deposito ad Alice
Springs, nel deserto al centro dell’Australia, che funge un po’ da
Arizona per l’Asia orientale. Ciò significa che non prevedono una ripresa, in quanto far giungere i velivoli ad Alice Springs è come metterli in naftalina per diverse stagioni.
Questo replay
iniziato oggi, più o meno in tutta Europa, ha una doppia valenza, come
tutto: approfondirà la crisi di sistema, vanificando i primi tentativi
di ricostruzione ed allontanando nel tempo l’agognato “ritorno alla
normalità”. Ma accentuerà la ferocia del potere economico (e politico,
in posizione servile e securitaria).
Abbiamo visto già nel periodo di lockdown
la sperimentazione di dispositivi di controllo di massa che – nel loro
insieme – puntano a ridisegnare gli spazi di mobilità e socialità in
funzione della sola circolazione ai fini produttivi, vietando tutto il resto.
E’
quindi possibile, anzi probabile, che questi dispositivi vengano
mantenuti, in varia forma e dimensione, per selezionare le forme di
socialità ammessa e quelle “vietate”.
Un
esempio concreto è venuto dal 25 Aprile, con la polizia a scortare
magre cerimonie ufficiali e pronta alla caccia all’uomo nei confronti
delle celebrazioni popolari.
A
questa realtà dobbiamo prendere intanto le misure. Non è più il mondo
in cui si possa “desiderare” senza interrogarsi su modi e strumenti per
cambiare il mondo, senza conoscere (o chiedersi) la struttura o la
gerarchia dei poteri reali. Il resto sono chiacchiere da boy scout.
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