Le
misure per contenere la diffusione dell’epidemia da Covid-19 in Cina –
maggiore consumatore mondiale – hanno causato da gennaio una notevole
contrazione della domanda petrolifera. Questo ha portato alla
precipitazione delle relazioni tra i maggiori produttori mondiali che
siedono nel cartello allargato OPEC PLUS su come affrontare tale
situazione.
In particolare lo scontro tra Arabia Saudita e Russia ha provocato in un primo momento la fine della governance del mercato petrolifero che teneva dal 2016. La guerra dei prezzi
è iniziata proprio quando la pandemia cominciava a mietere le sue
vittime al di fuori della Cina, diventando un ennesimo fattore di
criticità e facendo precipitare il confronto geo-politico.
Si è venuta a creare una situazione che non si ripeteva dagli anni Trenta del secolo scorso: una straordinaria eccedenza di produzione
rispetto alla domanda e prezzi quindi al ribasso, con l’Arabia saudita
disposta ad inondare il mercato con il proprio greggio a prezzi
stracciati, mentre il petrolio di scisto veniva quotato molto al di
sotto del suo valore di produzione.
Di
questo conflitto ne hanno fatto le spese in particolare gli Stati uniti
(da poco tornati primo produttore mondiale) e gli Stati membri del
cartello petrolifero allargato – come Algeria, Angola e Nigeria per
l’Africa alle prese loro stessi con la pandemia – così come anche i
paesi membri dell’OPEC Plus al centro della politica di sanzioni
statunitense, tra cui Iran e Venezuela, oltre a Messico e Iraq per cui
la rendita petrolifera è una parte rilevante della propria economia.
Questa corsa verso il baratro sembrava si fosse arrestata, della prima metà d’aprile, con il più consistente accordo di tagli alla produzione
petrolifera nella storia mondiale. Questo era stato raggiunto prima in
sede OPEC Plus (a parte il Messico) e poi “suggellato” nel G20
dell’Energia. Era stato deciso un taglio per i mesi successivi di un
decimo della produzione globale “a scalare” per gli anni successivi a
fronte di una diminuzione della domanda di un terzo, con tutti i global player si erano “diplomaticamente” resi disponibili ad ulteriori misure.
Ma
i prezzi delle due qualità di riferimento – Brent e WTI – non si sono
affatto rialzati, con il primo ben sotto i 30 dollari al barile ed il
secondo sotto i venti, alla fine della scorsa settimana.
Quello
che sembrava quindi un successo diplomatico delle pressioni
statunitensi e che aveva fatto esclamare allo stesso Donald Trump «un grande accordo per tutti», non ha sortito alcun effetto sulle quotazioni petrolifere.
Anzi, questo lunedì il mercato in cui è quotato il greggio texano ha avuto una seduta caratterizzata per lungo tempo da “prezzi negativi” e nei giorni successivi questa dinamica ribassista ha riguardato in parte anche il Brent.
Ma la volatilità del prezzo è dovuta anche alla finanziarizzazione
dell’industria petrolifera, un fenomeno con cui la stessa OPEC, alcuni
anni fa, aveva tentato di fare i conti, passando dalle dure critiche
agli speculatori degli anni precedenti agli incontri in pompa magna con i
vertici degli Hedge fund del settore.
Infatti
ai nostri giorni il petrolio è soprattutto un prodotto finanziario, e
come tale è soggetto alle oscillazioni derivanti dalla speculazione. È
proprio per lo scollamento dalla realtà economica degli strumenti
finanziari utilizzati che ci siamo trovati di fronte all’assurdo
economico dei “prezzi negativi”.
Insomma,
il combinato disposto delle tensioni derivanti dalla sempre più aspra
competizione internazionale fra macro-blocchi e dalla contraddizione fra
finanziarizzazione e fondamentali economici, unito all’innesto del
“cigno nero” del coronavirus, sta generando scombussolamenti senza
precedenti in un mercato dal forte valore simbolico.
Questo
avrà certamente pesanti ripercussioni, pur con magnitudini diverse,
sulle economie di tutti gli attori internazionali in gioco: un ulteriore
elemento della profonda crisi sistemica che stiamo attraversando.
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