martedì 17 marzo 2020

Come l’austerità ha distrutto la sanità

Nel pieno dell’esplosione dell’epidemia legata al Coronavirus, tutti sembrano concordare sull’esistenza di un serio pericolo di insufficienza di strutture e macchinari, quali respiratori e posti letto in terapia intensiva, che prima o poi metterà gli operatori del sistema sanitario nella posizione di dover scegliere a chi somministrare i trattamenti o meno, innalzando in questo modo la mortalità della malattia per ragioni che nulla avrebbero a che vedere con l’aggressività specifica del Covid-19. È datata 14 marzo la dichiarazione dell’assessore al welfare della Lombardia, Giulio Gallera, su un numero ormai limitatissimo di posti di terapia intensiva nella regione, del tutto insufficienti a fronte dei nuovi malati registrati ogni giorno.
A tal riguardo si sta accendendo una polemica politica sui motivi di tale incapacità del sistema ospedaliero di assorbire il numero crescente di pazienti gravi. Su una cosa sembrano essere tutti d’accordo: il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) è evidentemente inadeguato per affrontare questa situazione. Tuttavia, due posizioni distinte emergono dal dibattito circa tale inadeguatezza.
Da più parti si è sottolineato che la causa principale di tali difficoltà siano i tagli alla sanità pubblica effettuati nel corso degli ultimi anni. Sul fronte opposto, invece, le cause sarebbero da ricercare nella cattiva gestione dei finanziamenti pubblici (la cui erogazione sarebbe addirittura cresciuta negli ultimi anni), attribuibile all’inadeguatezza dei dirigenti del settore sanitario e al malaffare. Proviamo a districarci in questo dibattito.
Partiamo, innanzitutto, da un dato incontestato: il SSN si sta rivelando, ad oggi, gravemente inadeguato ad affrontare questa situazione emergenziale. Il dato italiano sul numero dei posti letto è allarmante: nel 2017 (ultimo dato disponibile) c’erano 3.2  posti letto ogni mille abitanti (in discesa dai 3.9 del 2010). Si tratta di un dato impietoso se rapportato alla media OCSE (4.7), e soprattutto a Francia (6) e Germania (8). Dal 2010 al 2017 è crollato il numero delle strutture ospedaliere, passate da 1.165 a 1.000 (-14.2%), e il numero complessivo dei posti letto, passati da 244.310 a 210.907 (-13.7%, che diventa -30% se partissimo dal 2000).
Dal nostro punto di vista, questo declino è figlio di un disegno politico ed economico ben preciso, comunemente definito come austerità: si tratta di un processo di privatizzazioni e riduzione della spesa pubblica portato avanti dai governi di tutti i colori degli ultimi trent’anni, sotto la spinta del processo di integrazione europea, e la cui realizzazione ha subito una violenta accelerazione a partire dalla crisi scoppiata nel 2008.
Il sistema sanitario è inadeguato perché decenni di tagli hanno ridotto il personale medico e infermieristico, i posti letto, i macchinari e i servizi, all’interno di un più ampio progetto politico che sta disintegrando lo stato sociale per favorire l’accumulazione di profitti di pochi. Non ci stupisce che, in questi giorni, coloro che hanno favorito, messo in pratica e promosso l’austerità siano in evidente imbarazzo e provino a nascondere le loro responsabilità storiche e politiche.
In particolare, il responsabile economico di Italia Viva, Luigi Marattin, ha dichiarato che la storia dei tagli alla sanità sarebbe una bufala e che, al contrario, i finanziamenti pubblici al SSN sono quasi raddoppiati negli ultimi 20 anni. Luigi Marattin, così come il ministro delle politiche agricole alimentari e forestali Teresa Bellanova, basa le sue dichiarazioni sui dati della spesa sanitaria corrente (ossia, la spesa in costi per il personale e consumo di beni non durevoli) in termini nominali. Così computata, in effetti, la spesa per il SSN mostra una certa crescita che sembrerebbe protrarsi, sebbene a ritmi modesti, anche negli anni della più dura austerità, dopo il 2011. Su questi dati, Marattin conclude che la colpa dello stato emergenziale del SSN andrebbe quindi attribuita alla cattiva gestione delle risorse.
Il grafico a cui fanno riferimento Marattin e il ministro Bellanova si basa su dati forniti dal Ministero della Salute. I dati OCSE qui riportati in Figura 1 confermano il trend evidenziato da Marattin: in termini nominali la spesa corrente in sanità è aumentata piuttosto sensibilmente fino al 2008, e successivamente, sebbene a ritmi meno elevati, è continuata a crescere.

lunedì 16 marzo 2020

Vi ricordate Bertolaso?

Mentre gli italiani, segregati in casa, trattengono il fiato leggendo i numeri dei nuovi contagi, il presidente lombardo Fontana e il suo assessore al welfare Gallera continuano a prendersi a sputi e pernacchi con la Protezione civile. L’ultima polemica in ordine di tempo è quella sulle mascherine giunte in Lombardia che sarebbero “carta igienica” secondo Gallera.
La protezione civile s’arrabbia e risponde che ci sono diversi tipi di mascherine, con diversi gradi di protezione e che le ultime inviate sono per i compiti meno pericolosi. Ma nessuno dice che le mascherine, di tutti i tipi, non si trovano perché le produzione è stata abbandonata in Italia in quanto poco redditizia.
Tuttavia, la polemica più importante riguarda la costruzione del nuovo ospedale per i degenti da Covid-19 decisa autonomamente dalla Regione Lombardia. Tale decisione, difficile da tramutare in pratica, ha un chiaro senso politico. La giunta di destra della Lombardia è una delle fautrici, con Veneto ed Emilia Romagna, dell’autonomia regionale differenziata, proposta di cui, in questi giorni, di fronte alle difficoltà delle sanità regionalizzate, appare tutta la follia.
Evidente quindi che la giunta lombarda voglia tentare di riconquistare prestigio con un’opera tutta “sua”, un nuovo ospedale realizzato “alla cinese” in pochi giorni. Dapprima la Protezione civile si dice pronta a sostenere il progetto, poi si tira indietro sostenendo che la struttura, prevista all’interno della vecchia Fiera di Milano, si può realizzare, ma che non sono reperibili sul mercato attrezzature e arredi, quindi al momento sarebbe un contenitore inutile.
Fontana risponde che allora la Regione farà da sé, trovando tutto quanto serve sui “mercati europei” , ignoriamo con quali fondi e presso quali paesi, visto che in Europa non si trovano paesi disposti ad aiutarci, nemmeno a pagamento, tra l’altro preoccupati come sono dalle loro emergenze.
Di fronte a tutte queste difficoltà, Fontana ha allora il colpo di genio: ci vuole un consigliere di ferro, un uomo rotto a tutte le esperienze, e a trovarlo lo aiuta Berlusconi, con una semplice telefonata dalla Costa Azzurra, dove ha “rifugiato i suoi polmoni” nella tenuta della figlia, però tenendo “il cuore a Milano”.
Il consiglio Di Berlusconi è chiaro e forte: l’uomo giusto per tutte le emergenze è Guido Bertolaso, giunto alla Protezione civile con Prodi ma poi per molti anni fedelissimo di Berlusconi che lo avrebbe voluto anche candidato a sindaco di Roma se i sondaggi preelettorali non lo avessero relegato a percentuali irrisorie. Bertolaso ha gestito molte emergenze italiane, dai terremoti ai mondiali di ciclismo (!), ma è rimasto famoso soprattutto per la ricostruzione (mancata) in Abruzzo e per la vicenda dei rifiuti in Campania.
In Abruzzo fu la mano esecutiva della tragedia delle New Town e della desertificazione del centro storico dell’Aquila, mentre in Campania si rese noto per voler aprire una discarica a ridosso di un’oasi del WWF. Tutti gli interventi di Bertolaso sono stati caratterizzati da polemiche e strascichi giudiziari che hanno dimostrato la sua grande impronta mediatica quanto la sua subordinazione alla politica e agli affari e l’incapacità nella scelta e direzione dei collaboratori.
Si ricordi a questo proposito il coup de théâtre del trasferimento del G8 dalla Maddalena alla caserma di Coppito. Anche la decisione di Fontana di nominarlo suo consigliere risponde evidentemente a una logica spettacolare, giocata soprattutto in funzione antigovernativa e di rivendicazione autonomistica. Non dimentichiamo che il centro destra aveva candidato Bertolaso a commissario nazionale per l’emergenza Covid-19, ma il governo ha poi deciso di scegliere Arcuri. Quindi perché non riciclare Bertolaso come consigliere di Fontana, anche se ciò ha un significato solo per il teatrino della politica?
Impossibile sapere al momento cosa farà Bertolaso, ma alcune indiscrezioni stanno già circolando. Il progetto potrebbe essere proprio quello di realizzare autonomamente l’ospedale alla Fiera, ma circola anche l’ipotesi di un nosocomio provvisorio in una tensostruttura sull’area del campo sportivo dell’Ospedale-Università (privata) San Raffaele. Ciò utilizzando i fondi, sembra 3.8 milioni di euro, raccolti con la sottoscrizione promossa dalla coppia Ferragni-Fedez.
Tali fondi saranno destinati per la quasi totalità a potenziare il reparto di terapia intensiva del San Raffaele, ospedale privato in passato al centro di scandali e malaffare che ha costruito la sua notorietà sull’essere il luogo di cura preferito prima di Bettino Craxi e poi di Silvio Berlusconi, il cui medico personale, dott. Zangrillo, è primario della terapia intensiva dello stesso nosocomio. Di quella sottoscrizione tanto mediatizzata, solo alcune minuscole briciole saranno destinate agli ospedali pubblici, che hanno retto in solitudine l’impatto iniziale dell’epidemia e che ancora oggi sono la colonna vertebrale della lotta al Covid-19.
Come si può concludere, una vicenda che ripercorre strade privatistiche dimostratesi fallimentari e, in questo caso, propone anche progetti di difficile realizzazione, solo per evitare di adottare la soluzione più semplice che la Regione (ma anche il governo) avrebbe potuto attuare: la requisizione immediata delle strutture della sanità privata, che in gran parte, tra l’altro, sono parte del sistema sanitario come enti convenzionati e che solo grazie ai suoi finanziamenti possono esistere.
Non si vuole quindi intaccare un sistema sbagliato, nemmeno di fronte alla dimostrazione che sono le strutture pubbliche le uniche a volere e sapere reagire effettivamente alla pandemia, anche se esauste dai tagli di strutture e attrezzature e dalle riduzioni di personale imposti negli ultimi decenni dai governi di tutti gli orientamenti politici, soprattutto in ossequio alle politiche di austerità dell’Unione Europea.
Peraltro, le attuali polemiche politiche tra Regione Lombardia e Protezione civile non toccano mai una questione generale che ci pare invece importante, che riguarda chi dovrebbe gestire la crisi Covid-19. Infatti, siamo di fronte a un’emergenza sanitaria, non a un terremoto o a un’alluvione e di conseguenza deputato alla sua gestione dovrebbe essere il Ministero della Salute (e non più della Sanità, le parole ahimé hanno un senso…) e non la protezione civile.
Se si ricorre alla Protezione Civile è solo perché si è ridotto allo stremo la sanità pubblica.

venerdì 13 marzo 2020

Parchi chiusi e fabbriche aperte, la sacrosanta rivolta operaia

Il comune di Brescia ha chiuso tutti i parchi. Anche in questi luoghi fino a pochi giorni fa ritenuti quasi un rifugio salubre, il minimo affollamento può risultare pericoloso. Nelle stesse ore il governo varava un decreto intitolato “restiamo a casa”, che manteneva al lavoro milioni di operai ed impiegati nelle fabbriche, nelle banche, in tante attività non essenziali.

Immaginate la rabbia che deve provare un operaio che sale su un mezzo pubblico affollato, entra in spogliatoi affollati, lavora in reparti ristretti dove spesso mancano le misure di sicurezza normali e infine mangia nella mensa, meno sicura dei ristoranti che sono stati tutti chiusi. E che sente in continuazione il messaggio ripetuto da tutti mass media, dai vip: restate a casa.

Solo un gradino sopra le carceri ci sono le fabbriche, e alla fine la rabbia è scoppiata, è diventata lotta e in tante fabbriche e centri di lavoro gli operai si sono fermati: non siamo carne da macello ha detto un un metalmeccanico di Brescia.

Il decreto del governo è stato dettato dalla Confindustria che ha così ancora una volta dimostrato di essere l’organizzazione più antisociale di questo paese. Naturalmente un governo dignitoso avrebbe potuto dire di no a queste indecenti pressioni degli industriali, ma la nostra classe politica e stata selezionata da decenni per obbedire ad essi.
Vi ricordate quante volte i politici proclamano che bisogna dare lavoro e concludono che bisogna finanziare le imprese? Quale politico ufficiale di questo paese non ha mai detto la frase liberista e falsa: “è l’impresa che crea il lavoro“? E l’impresa ha anche creato i suoi politici.

Abbiamo la peggiore classe politica nel momento peggiore del nostro paese. Così mentre in tv Fiorello spiega la bellezza dello di stare a casa, gli operai vanno al lavoro non per salvare il paese, ma per gli affari dei padroni.

In un solo giorno a Brescia, con tutto chiuso – compresi i parchi – tranne le fabbriche, ci sono stati 500 contagi in più. Perché nelle realtà industriali, le fabbriche sono oramai le principali fonti di contagio.
Come ha denunciato il Gazzettino di Venezia con un video, che mostra il trasporto indecente di operai ammassati criminalmente sul bus che li porta in Fincantieri. Il governo fa fare i controlli a chi cammina solo per strada, ma non manda ispezioni nei luoghi di lavoro per garantire il rispetto delle sue stesse norme. Il governo si affida alla autoregolazione delle imprese.

Così sono cominciati gli scioperi, in tutto il paese. Sono scioperi che sono totalmente coperti dalla legge, come indica il Testo Unico sulla sicurezza del lavoro (DLG 81/2008 , che garantisce l’esenzione da ogni danno per chi si assenta da lavoro per difendere la propria vita.

Ora a Brescia e in tutto il paese decine di fabbriche si stanno fermando con l’accordo tra la direzione aziendale e i rappresentanti dei lavoratori, nonostante la dichiarata opposizione della Confindustria.

È in atto una sacrosanta rivolta operaia che probabilmente porterà finalmente alla fermata degli impianti.

Conte ha convocato in video conferenza Confindustria e CgilCislUil, i cui dirigenti in questi giorni sembrano posti in quarantena, tanto sono assenti. Alla fine le fabbriche dovranno fermarsi perché non sono sicure, ma anche se così non fosse ci penseranno gli operai a farlo.
La USB ha proclamato 32 ore di sciopero nazionale, altri sindacati di base e anche settori del sindacalismo confederale hanno sostenuto le lotte . Questa volta gli operai hanno alzato la testa, certo per una epidemia drammatica, ma, sapete, quando si comincia a farlo…

giovedì 12 marzo 2020

E’ il neoliberismo l’alleato più efficace del coronavirus

Il coronavirus, o meglio la lotta al contagio, rischia di diventare una cartina di tornasole del modello di società che un paese si è scelto, perchè ci fa vedere se prevale la logica della solidarietà (che motiva i sacrifici enormi imposti all’intera cittadinanza con la limitazione dei movimenti) ovvero l’egoismo di che si sente superiore a tutto e a tutti, cioè dei padroni, di quella benedetta oligarchia che in America Latina detiene il 90 per cento delle ricchezze ma anche qui non scherza.
Una classe sociale che non è abituata a rispettare i poveri, quelli, ad esempio che ora che gli ordinano di restare a casa una casa dove restare non ce l’hanno, i clochard, certamente, ma anche tutti gli sfrattati.
Per discutere di questi temi e delle ricadute sociali della crisi, FarodiRoma ha intervistato l’economista e docente dell’Università di Roma La Sapienza, Luciano Vasapollo, grande esperto di America Latina, in particolare per aver collaborato con Fidel Castro e Hugo Chavez all’elaborazione di politiche sociali tese a riaffermare il principio dell’uguaglianza, che oggi certamente vige a Cuba e in Venezuela, pur tra mille difficoltà, mentre qui da noi è un mito davvero irraggiungibile, tanto che i nostri medici, davanti all’emergenza del coronavirus, si sono interrogati sul criterio dell’età che escluderebbe, se la situazione si aggravasse, gli ultrasessantacinquenni dalle cure specifiche.
L’emergenza coronavirus – sottolinea Vasapollo, che è delegato del rettore della Sapienza per i rapporti con le università dell’America Latina – sta mettendo infatti in discussione l’efficacia del sistema capitalistico e del cosiddetto libero mercato” nel regolare aspetti essenziali della società.
A fronte di uno sviluppo enorme delle forze produttive e delle capacità tecnologiche, vengono privilegiati la massimizzazione del profitto per pochi e l’incremento delle spese militari da parte degli stati imperialisti.
La diffusione del virus e la conseguente risposta delle istituzioni, hanno evidenziato l’esistenza di due modelli. Quello statunitense, basato sul settore privato, che lascia i propri cittadini alla mercé delle case farmaceutiche e della sanità privata. Un modello in cui non si riesce a sospendere la vita economica per far fronte all’emergenza e dove politici senza scrupoli negano la pericolosità dell’agente patogeno.
Un secondo modello è quello cinese. La Repubblica Popolare ha raccolto tutte le energie per far fronte alla crisi, appoggiandosi sulla superiorità del proprio sistema di pianificazione e drenando tutte le risorse necessarie per salvare il maggior numero di persone, senza far caso al venir meno dei profitti e dell’arricchimento privato.
Sembrerebbe che l’Italia abbia scelto un modello intermedio. Infatti, se da un lato il governo ha sospeso un certo numero di attività e ha messo delle limitazioni agli spostamenti, dall’altro non ha consentito a coloro i quali non effettuano lavori essenziali per la sopravvivenza della collettività di astenersi dal lavoro.
Lo Stato dovrebbe farsi carico dell’emergenza, concentrando tutti gli sforzi sulla produzione e distribuzione di beni di prima necessità.
Che cosa evidenzia questa crisi? Quali ricadute sociali dobbiamo aspettarci e soprattutto che risposte la politica dovrebbe dare? Gli aspetti economici e quelli sociali sono strettamente intrecciati?
Le radici di questa crisi, ovvero le risposte inadeguate della politica all’emergenza del coronavirus, sono da rintracciare nelle politiche neoliberiste che si sono imposte in occidente a partire dagli anni 80. La crisi ingenerata dal coronavirus, la quale è certamente una crisi sanitaria, evidenzia degli aspetti fortemente sociali, nel senso che questa crisi diviene prima economica e poi si trasforma in crisi sociale.
Quando parlo di crisi sociale, intendo, per l’appunto, una crisi di relazioni sociali, perché oggi siamo alle strette.
Oggi tutti i nodi vengano al pettine. Il neoliberismo, che è cominciato negli anni 80, con la scuola di Chicago, con il thatcherismo e con Reagan ed il cui unico obiettivo era quello di liberalizzare al massimo il mercato, deregolamentando tutto, escludendo lo stato da qualsiasi interventismo sul piano della spesa sociale, ha evidenziato come sia impossibile far fronte ad una crisi di questa scala senza una pianificazione razionale delle scelte economiche e sociali, ossia senza l’intervento della politica nella sfera, ad essa subordinata, dell’economia.
L’ideologia liberista, inoltre, ha generato una falsa coscienza, perché se da un lato ha consentito la liquidazione delle politiche sociali, dall’altro ha mantenuto uno stato forte nell’ambito della repressione e nell’ambito delle spese militari.

Come si pone adesso il nostro paese dinnanzi a questa crisi, che a quanto dice ha delle radici profonde? Come è stato possibile trovarci impreparati di fronte ad un’epidemia, che sta ponendo sotto stress il nostro sistema sanitario, smantellato dalle politiche liberiste?
Come ho detto, adesso i nodi sono venuti al pettine: dopo quarant’anni di queste politiche liberiste, infatti, la maggior parte dei paesi, a cominciare dall’Italia, in cui esisteva un’economia mista estremamente forte, che aveva invero un settore privato, ma che disponeva tuttavia di settori pubblici importanti, ha smantellato il proprio sistema di tutele che consentivano l’implementazione di politiche sociali forti.
Vorrei ricordare, a questo proposito, “l’irizzazione” , il passaggio di un’azienda sotto il controllo del’IRI e dunque dello stato. Ricordiamo il ruolo dell’Eni, ricordiamo un contesto in cui esisteva una sanità pubblica estremamente sviluppata che funzionava, una scuola pubblica di primissimo livello e dove anche tutto il sistema bancario era controllato dal capitale pubblico . Pensiamo, inoltre, all’energetico, pensiamo alle telecomunicazioni, pensiamo ovviamente ai trasporti. Oggi tutto questo contesto è stato degradato e l’interesse privato domina la vita economica e, dunque, sociale.
E con quali ripercussioni a livello sociale?
Questo attacco neoliberista ci ha lasciato i guai che ci ritroviamo adesso: la sanità è stata completamente tagliata, sono stati fatti processi di privatizzazione della sanità, di privatizzazione dell’università e di tagli alla ricerca. I nostri migliori ricercatori se ne vanno all’estero, i nostri giovani che lavorano negli ospedali e che sono degli eroi, questo dobbiamo dirlo perché di questo si tratta, e che assistono le persone contagiate dal coronavirus, prendendo sette ottocento euro al mese rischiando la vita, stanno pagando un prezzo altissimo per l’asservimento del nostro paese alle politiche imposte dalle multinazionali e dal capitale privato.
Dentro gli ospedali, a causa di trent’anni di massacro neoliberista, e su questo vorrei concentrare l’attenzione, non mancano solo le terapie intensive, ma non ci sono le flebo, non ci sono addirittura i cerotti e mancano le medicine prioritarie. Non disponiamo di un numero adeguato di infermieri, di portantini, di medici e di ricercatori. In questo paese e in tutti paesi che hanno recepito gli indirizzi neoliberisti abbiamo assistito ad un massacro a favore delle cliniche private e a favore della privatizzazione della sanità. La stessa cosa è successa nella scuola; la stessa cosa è successa nell’università.
Ovviamente i tagli al settore sanitario rientrano in contesto ben preciso.
Infatti, abbiamo assistito a continui tagli della spesa pubblica e, quindi ovviamente, ad una sempre minore ridistribuzione del PIL al settore della ricerca, della sanità e dell’università. Noi stiamo pagando oggi gli effetti di non poter far fronte adeguatamente a questa grossa emergenza perché è stato consentito che il ruolo interventista e occupatore dello stato fosse completamente abbandonato. Non stiamo parlando dell’Unione Sovietica, ma anche di uno Stato, come quello italiano, dove il welfare e la mediazione sociale, voluta anche dai governi democristiani, consentiva che l’economia fosse assoggettata alle esigenze della collettività.
Oggi ne vediamo gli effetti. Abbiamo pochissimi posti letti e tanti ospedali sono stati chiusi. In Cina sono riusciti a curare migliaia di persone costruendo in pochissimo tempo enormi strutture sanitarie.
Tornando alla Cina. Lei crede che possa rappresentare un modello anche per noi? Quali sono i vantaggi del sistema cinese? In che cosa differisce dal modello anglosassone, che è stato il punto di riferimento per anni delle nostre classi dirigenti?
In paesi come gli Stati Uniti, dove prevale l’economia privata, la situazione è ancora più drammatica che da noi. Tutti, è storia di questi giorni, hanno saputo che un tampone costa tre, quattro mila dollari. Se qualcuno negli Stati Uniti ha la necessità di andare in terapia intensiva, deve avere l’assicurazione. Questo è dove ci volevano portare. Questo è quello che volevano fare. Un modello dove le tutele sociali sono assenti e tutto è lasciato alle decisioni egoistiche di pochi.
La Cina ci dimostra che un’alternativa è possibile. Ma non solo la Repubblica Popolare, ma anche stati come Cuba ed il Venezuela, dove la spesa sociale consente di governare le crisi. Sappiamo che esiste un pregiudizio piuttosto interessato nei confronti di questi paesi. In Cina, dove l’economia è sottoposta alle scelte della politica, dimostra, che là dove esiste una prevalenza assoluta del sistema socialista, si può far fronte alle emergenza, come quella del coronavirus.
Stiamo assistendo al trionfo di un paese di oltre un miliardo e mezzo di abitanti, la Cina, che è stata violentemente aggredita da questo virus e che è riuscita, con grandi sacrifici consentiti proprio dal modello socialista, ad uscirne. Il modello di pianificazione economica è senz’altro superiore al modello del cosiddetto “libero mercato”.
Ce ne può parlare meglio? I media spesso nascondo le notizie positive sulla Cina, con cui comunque ora devono cominciare a fare i conti, avendo questo paese dato risposte concrete all’emergenza del coronavirus e su Cuba e altri paesi non allineati ai voleri delle multinazionali e di Washington.
Vorrei rimarcare come la cooperazione fra paesi socialisti sia sta essenziale. La Repubblica Popolare cinese, infatti, è uscita dalla crisi del coronavirus in due maniere. Innanzitutto, con la cooperazione, la collaborazione e la complementarità con Cuba. Di questo, nel “libero” occidente non si parla, ma è necessario metterlo in evidenza. La maggior parte dei casi di coronavirus sono stati curati grazie alla perizia dei medici cubani.
Cuba, dove il settore medico è stato particolarmente sviluppato grazie alle intuizioni del Che e di Fidel, ha sviluppato un interferone, una medicina a base di proteine, la quale era stata precedentemente utilizzata per curare malattie come l’aids e l’epatite c. Quindi, la cooperazione con uno stato, che viene considerato “canaglia” dall’occidente, ha consentito non solo di salvare vite umane, ma ci ha anche dato tempo, ritardando la diffusione del virus qui da noi.
Spesso la preclusione nei confronti del sistema socialista, non ci permette di renderci conto del livello che la medicina cubana esprime. Cuba sta lavorando anche ad un vaccino e speriamo che arrivino presto alla soluzione. E speriamo che l’OMS lo prendi seriamente in considerazione, perché spesso ci acceca questo pregiudizio nei confronti di Cuba
La seconda maniera, che tante critiche ha inizialmente causato in occidente, ma oggi anche qui da noi in tanti si sentono di caldeggiare, è la seguente. La possibilità per lo stato di sospendere ogni attività non necessaria, mettendo in quarantena intere regioni del paese. La stampa ed i media occidentali hanno da subito parlato di repressione e dittatura; qualcuno inopinatamente continua. Nella stampa europea, per non dire di quella statunitense, veniva affermato che con “misure militarizzate” non ne usciranno mai.
La realtà è, come sempre, ben diversa da come ce la raccontano i media. La Cina ha semplicemente applicato la pianificazione, ossia, dinanzi ad un’emergenza è riuscita a prendere dei provvedimenti economici, sanitari e produttivi per limitare i danni. Dunque, grazie ad un’economia pianificata è riuscita a coordinare le misure sanitarie, distribuendo le medicine. È riuscita ad implementare la quarantena, pianificando gli spostamenti e imponendo delle regole ben precise per anticipare e prevenire lo sviluppo enorme del coronavirus.
La Cina ha potuto bloccare la produzione, uscendo da meri e cechi paradigmi economicisti, e ha fatto entrare lo stato nelle vite delle persone. A differenza di quello che accade qui da noi, la Cina ha distribuito redditi di sussidio dove non si poteva lavorare. Nonostante tutto e grazie ad enormi sacrifici, la Cina ce l’ha fatta, indicandoci un modello per combattere il virus.
Vedere che, in città enormi, come quelle della provincia dell’Hubei, si riprende la metropolitana, si riprendono gli autobus e si riprende la produzione, è stato emozionante. L’altroieri il Presidente Xi Jinping ha dato un grande segnale al paese andando a Wuhan, epicentro della crisi del coronavirus, mostrando che la Cina sta ripartendo alla grande. In quello che veniva chiamato il modello totalitario e repressivo, stiamo assistendo ad un abbassamento del tasso di mortalità e del tasso di infezione. In Cina abbiamo avuto prova della superiorità del modello di pianificazione nei confronti dell’ideologia del libero mercato, ovvero il sistema dello sfruttamento.
Come mai in Italia si è aspettato per prendere misure così drastiche, ma risolutive, e comunque ancora adesso si esita a fare come in Cina?
Qui in Italia e nei paesi capitalistici, e questa è l’altra questione che vorrei mettere in evidenza, non si possono adottare le grandi misure di contenimento adottate dalla Cina e questo perché siamo ostaggio dei voleri di Confindustria, dobbiamo tenere conto dei pareri della Confcommercio e di tutto il settore del capitale privato. Si sono fatti prevalere sugli interessi della salute, gli interessi del profitto. È trascorso del tempo prima che si prendesse la sacrosanta decisione di chiudere alcune attività e non è stata possibile sospendere la produzione di beni effimeri e sospendere i trasporti.
Ancora oggi, quando la minaccia del virus è evidente ed il grado di consapevolezza è aumentato, nonostante si sia implementa la zona rossa in tutta Italia, dobbiamo rilevare che nei posti di lavoro ad alta intensità di manodopera, parliamo della logistica, della classe operaia, parliamo della Fiat, parliamo di Taranto e di posti di lavoro nella manodopera manuale, non si è bloccata la produzione. Non si è voluto dire, non si ha avuto il coraggio di dire, “salario pieno, lavoro zero”, così come hanno fatto in Cina, dove la gente rimane a casa, non lavora e lo stato interviene, implementando le misure idonee per la quarantena.
Noi dobbiamo fare i conti, in questa situazione emergenziale, con i parametri dell’Unione Europea e con i profitti privati rappresentati dalla Confindustria. Si sarebbe dovuto e si deve fare come in Cina, consentendo a tanti di non lavorare dando un salario di sussistenza e concentrando tutti gli sforzi nella produzione dei beni essenziali. Ma questo non lo stiamo facendo e non lo si è fatto minimamente.
Come si può uscire da questa situazione? Lei è anche un dirigente sindacale, può fornirci qualche esempio?
Sono iniziate delle lotte estremamente dure e c’è stato un blocco dei lavoratori della logistica, rappresentati dall’Unione Sindacale di Base, in cui la parola d’ordine non è “non lavorare”, sapendo quanto sia indispensabile continuare a garantire la distribuzione dei beni essenziali, ma lavorare in completa sicurezza, garantendo che le norme emergenziali per il coronavirus siano rispettate. Servono le mascherine, è necessario che siano rispettate le distanze di sicurezza fra gli operai. Lo USB ha lanciato proprio ieri una campagna molto bella che si chiama “SOS”, un acronimo che significa “Salute, Occupazione e Salario”. Si tratta di una campagna di protezione dei lavoratori, e dunque, della salute di tutti.
Chiediamo un reddito di sostegno a chi può rimanere a casa, non svolgendo servizi insostituibili per la collettività e, mettendo in questo modo un freno al contagio. Ma per far ciò, Il salario deve essere nella maniera più assoluta garantito. Si tratta di una misura estremamente importante, pertanto, dobbiamo avere la forza di dire basta, basta con la logica dei profitti, basta con gli scempi delle multinazionali. La vita umana è e deve essere al di sopra di ogni calcolo e parametro economicista. Occorre mettere un limite immediato agli scempi che le multinazionali compiono sull’uomo e sulla natura.
Questa crisi del coronavirus, mette in discussione il nostro modello di sviluppo. Il Global Times, l’organo del Partito Comunista Cinese, ha messo in guardia dal pericolo che in occidente si possano diffondere sia la sinofobia sia politiche reazionarie, in grado di ancorarci ancor di più al sistema del profitto.
Proprio per questo, è indispensabile elaborare un programma di base, ma ben definito, sulle compatibilità socio-ambientali, perché soltanto così sarà possibile superare l’emergenza del coronavirus. Così come è stato fatto in Cina, che ha sfruttato la superiorità del suo sistema di piano per combattere questo virus. Ma soprattutto, in prospettiva, questo programma di base avrà il valore di un modello che ci consentirà di portare avanti uno sviluppo equilibrato, sostenibile, compatibile e che non metta a repentaglio la vita delle persone e dell’ambiente alla prima emergenza.
Pertanto, sono necessarie delle battaglie di controtendenza, che oggi sono portate avanti soltanto da movimenti e sindacati conflittuali, come l’USB, che riescono finalmente a rifiutare quella contrapposizione fittizia fra questioni sanitarie, questioni ambientali, questioni del lavoro e la redistribuzione della ricchezza sociale. Si possono garantire i salari, distribuendo i profitti sottratti alla ricchezza sociale, adesso appannaggio di pochi. Tutto questo si può e si deve fare adesso, anche senza lavorare. Si devono proteggere al massimo i lavoratori, non i profitti delle imprese.
Quindi crede che il modello cinese possa essere esportato anche qui da noi? Non è troppo distante dal nostro?
Quello che ci sembra un modello alieno, come quello cinese, in realtà, e ci terrei a sottolinearlo, è stato implementato anche dai paesi capitalistici. Quello che nei paesi socialisti, come Cuba ed il Venezuela, si chiama pianificazione, in Italia, ai tempi di Amintore Fanfani, si chiamava governo dell’economia oppure regolamentazione o programmazione dell’economia. Lo stesso capitalismo, sotto la spinta delle lotte dei lavoratori, ha dovuto implementare forme di pianificazione.
Oggi, in Norvegia o in Svezia per fare degli esempi, esistono forme del genere e questo evidenzia la superiorità del sistema di pianificazione su quello in auge nei paesi capitalistici. Questo lo abbiamo visto nei primi decenni del secondo dopoguerra, quando era avvertita l’esigenza di pianificare lo sviluppo economico con il keynesismo.
Alcuni storici e taluni giornalisti hanno parlato, soprattutto a partire dagli anni 80, di crisi irreversibile del modello economico keynesiano. Che cosa gli risponde?
Ancora oggi, questo per sfatare la favola del “libero mercato”, esiste il keynesismo, ma si tratta, in paesi come gli Stati Uniti, di un keynesismo militare e di guerra. Lo stato si comporta come datore di lavoro per prepararsi alla guerra e fomentare politiche imperialiste. I soldi spesi per la fabbricazione di armi, e oggi più che mai lo vediamo con tragica evidenza, sono sottratti alla sanità e alle politiche di utilità sociale. Per dirla breve, il keynesismo militare, camuffato da libero mercato, non ha il valore sociale che l’intervento pubblico nell’economia aveva in precedenza.
Dunque, siamo di fronte ad un conflitto irrisolvibile. Il capitalismo oltre a creare una crisi sistemica, naturale ed economica, sta creando una crisi sociale, una crisi di valori e una crisi etica. Stiamo parlando del conflitto irrisolvibile fra capitale ed armonia dello sviluppo, armonia della ricchezza umana e della natura. Anche studiosi non marxisti, e ci tengo a sottolinearlo, evidenziano questo. Ho in mente la parola continua del Papa. Ho letto il bellissimo lavoro che ha presentato Papa Francesco, Querida Amazonia, dove vengono affrontati i temi della salute e dell’ambiente, superando qualsiasi compatibilità capitalistica.
Questo perché, al centro del problema rimane il conflitto fra il profitto e la ragione dell’umanità e della natura. Tutto questo avviene perché manca una visione che metta al centro l’uomo e che metta al centro, dunque, la natura. Cuba, la Cina, ma anche il Venezuela ed altri paesi socialisti, attraverso la pianificazione economica riescono a superare questo conflitto, ponendo al centro le ragioni dell’essere umano. Lo fanno, grazie alla la pianificazione economica e sociale che gli consente di raggiungere quegli obiettivi, non rinunciando a sottoporre l’economia alle ragioni della politica, dominandone la variabili.
Pertanto, è necessario un piano di sviluppo, a lungo termine, compatibile con la democrazia di base, in cui anche le istituzioni riescano a controllare e a fare la loro parte per guidare i destini dell’umanità. La Cina ha raggiunto questi obiettivi perché ha costruito un corpo sociale sano, in cui esistono gli anticorpi, le misure idonee, a combattere questi virus quando insorgono.
Che cosa intende per corpo sano? Chi lo crea?
La politica economica certamente. A patto che questa sia una forma complessiva della gestione del corpo sociale piuttosto che uno strumento per temperare gli squilibri di un sistema economico, quello del profitto, che è lasciato all’iniziativa privata. Lo sviluppo deve distinguere assolutamente fra la modalità del mantenimento dell’interesse sociale, economico e, quindi, dell’occupazione, del salario, e quelle che sono le formule matematiche, la famigerata econometria del modo di produzione capitalistico, che parla di cifre, di rapporto debito-PIL, dimenticando non solo la complessità sociale ma mettendone costantemente a rischio la coesione.
Dobbiamo renderci come questa globalizzazione non governi più il mondo. La globalizzazione neoliberista, la finanziarizzazione dell’economia non solo non governa più il mondo, ma ne mette a serio repentaglio gli equilibri.
Serve una centralizzazione politica e non l’avventurismo che stanno dimostrando l’opposizione o anche il nostro governo che non si rendono conto che la produzione deve avere una razionalità pianificata sulle singole unità produttive. Si tratta di elementi fondamentali per la coesione sociale. In questo si inquadra anche il discorso sull’innovazione tecnologica. Esiste, pertanto, un forte squilibrio fra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione, cioè abbiamo delle forze produttive estremamente sviluppate, ma sono state messe al servizio dell’interesse privato.
Alcuni osservatori hanno evidenziato che l’insorgenza del coronavirus abbia ampliato la frattura fra l’occidente e la Cina. Altri, come questo virus sia stato strumentalizzato per questioni geopolitiche: qual è la sua opinione?
Io non mi voglio addentrare o fare dietrologia su come si è sviluppato questo coronavirus. Tuttavia, esistono delle fonti, anche piuttosto attendibili, che mettono in relazione questo coronavirus con la guerra batteriologica. Ossia, non escluderei del tutto, senza cedere all’immaginazione, che il coronavirus sia una deviazione da laboratorio di quell’infezione che, già nel 2004, si chiamava Sars. Era stata studiata nei laboratori inglesi e americani concentrati sulla guerra biologica. La Cina sta mettendo in discussione la guida monetaria del dollaro e il primato globale dei paesi imperialisti. Non solo la Cina, ma anche paesi come la Russia o il Venezuela rappresentano un pericolo per gli assetti imperialistici. In questa chiave, non escluderei che a qualcuno la situazione sia sfuggita di mano. Ma questi sono scenari in cui non vale la pena nemmeno addentrarsi. Il problema è quello di uscire dalle compatibilità capitalistiche.
Un’ultima riflessione. Sono di questi giorni le notizie sulle rivolte nelle carceri. Che cosa ne pensa?
Quanto è successo nelle carceri mi ha colpito molto. Nessuno o pochi stanno dicendo che i detenuti avevano ragione. Lasciamo perdere gli episodi di evasione o quanto è potuto avvenire di disdicevole. I detenuti, che sono una componente sociale e, dobbiamo ricordare che nel nostro paese la maggior parte dei detenuti sono in attesa di giudizio e che, quindi, molti di loro escono assolti durante i processi, vivono delle condizioni di sovraffollamento molto pericolose.
La contaminazione può essere molto facile. Le proteste sono partite, infatti, da parte di detenuti che dicevano di volere le mascherine e di volere condizioni di sicurezza. Un paese serio e democratico, invece di sospendere i colloqui, dovrebbe prendere un provvedimento che non metta a repentaglio la vita di queste persone. Si potrebbero concedere misure alternative al carcere a chi non ha commesso reati gravi. Inoltre, bisogna fare chiarezza sui dieci morti che ci sono stati. È il dovere di uno stato che vuole essere democratico e progressista.
Sono stati affrontati molti temi, alcuni dei quali riguardano i nodi principali del nostro presente. Grazie per l’intervista.

mercoledì 11 marzo 2020

L’Italia diventa zona rossa. Ma in gioco non c’è solo il contrasto al coronavirus

La proclamazione da parte del Governo della cosiddetta Zona Rossa in tutto il paese è una misura eccezionale che certifica la gravità della situazione sanitaria ed il pericolo immanente per la salute delle persone.
Come comunisti che hanno a cuore – prima di tutto – la salvaguardia e la tutela generale della nostra gente prendiamo atto di questo provvedimento e per ciò che possiamo fare nella situazione attuale – direttamente ed attraverso le strutture politiche, sindacali e sociali in cui operiamo – siamo impegnati a sostenere ogni esigenza di difesa collettiva della salute, di salvaguardia del diritto al salario e del complesso delle questioni che attengono alle nostre condizioni di vita e di lavoro.
E’ drammaticamente evidente, però, che anche questa ultima decisione del Governo è intervenuta a posteriori dei pesanti dati che emergono quotidianamente sulla diffusione dell’infezione e che – come dimostrato, anche goffamente, nelle settimane precedenti – l’Esecutivo sta agendo sotto pressione della Confindustria e dei vari centri di potere con un andamento oscillante, disorientante e marcatamente avventurista.
Il tutto in un contesto dove si mostrano, platealmente, i disastri compiuti dalle politiche economiche e sociali degli ultimi decenni – fondate sull’Austerity e la “filosofia della privatizzazione” – le quali hanno distrutto il servizio sanitario e tutto il comparto di prevenzione e tutela della salute.
Certo il non blocco della produzione (ai fini del profitto immediato e della “sacralità del mercato”) e, quindi, la permanenza di molti fattori di rischio di contagio sono una palese contraddizione delle scelte operate per bloccare la diffusione del virus e lo specchio di una società in cui la sostanziale assenza di ogni idea di pianificazione dell’economia e di programmazione a larga scala dimostrano il suo carattere schizofrenico e antisociale che – in contesti eccezionali come quelli che stiamo vivendo – possono rivelarsi come ulteriori complicanze per tutti.
Per cui – pur dentro una condizione inedita di fermo obbligato/necessario dell’attività politica – non dismettiamo neanche per un attimo non solo la denuncia dei disservizi, dei guasti e del disastro che è stato determinato contro la dignità e la vita delle persone ma lanciamo un allarme circa lo stringente autoritarismo antisociale che accompagna, anche mediaticamente, l’intero arco di provvedimenti che il Governo sta assumendo.
Del resto la criminale gestione militare della drammatica situazione dell’emergenza/carceri (su cui vige una scandalosa censura informativa) è la prova provata di come la strada della repressione resta quella preferita dalla borghesia nei momenti di crisi e di acutizzazione delle contraddizioni.
Ma la vicenda del Coronavirus, ben oltre le cronache italiane e degli altri paesi, squaderna la crisi conclamata di un modello sociale – il Capitalismo – il quale mostra tutti i suoi limiti e, soprattutto, le modalità di regressione umana, culturale e materiale che oramai attanagliano questa formazione sociale.
Ritorneremo, su questi aspetti, nei prossimi giorni con un ragionamento più ampio ed argomentato in cui le questioni della battaglia ideologica, dell’alternativa di società e della necessità – storica ed immediata – del Socialismo trovino una ulteriore conferma ed attuale validità particolarmente a fronte di un fenomeno globale come il Coronavirus.
Oggi – intanto – è il tempo della salvaguardia delle nostre vite, del nostro popolo e delle nostre comunità.

giovedì 5 marzo 2020

L’Italia in quarantena, anzi no…

Alla fine, dopo oltre 15 giorni, il governo ha scoperto che quella da coronavirus è un’epidemia seria. Ma non sa bene cosa fare, a leggere le misure che ha preso…
Separiamo le cose, in modo da renderle un po’ più chiare.
Sul piano dell’”emergenza sanitaria”, e quindi del contenimento del contagio, ha preso le indicazioni del comitato tecnico-scientifico, diramando una serie di “consigli” a tutta la popolazione nazionale. E quindi:
– gli anziani farebbero meglio a rimanere a casa, se over 75 anni, mentre gli over 65 – molti dei quali obbligati ad andare al lavoro, causa legge Fornero – possono anche uscire, ma solo se sono senza febbre o altri malanni di una certa gravità;
– negli incontri sarebbe meglio salutarsi mantenendo almeno un metro di distanza da tutti gli altri (la prima indicazione diceva “2 metri”, ma a quel punto si sarebbe dovuta ordinare subito la chiusura di tutte le scuole, uffici, ecc), evitando quindi tutti i contatti fisici non necessari;
– chi ha la febbre deve rimanere in casa, evitando quindi il rischio di seminare in giro l’eventuale infezione, attendendo le analisi specialistiche;
– evitare i luoghi affollati;
– manifestazioni sportive solo a porte chiuse, senza spettatori, ma «Sarà la Lega calcio a decidere se giocare a porte chiuse o rinviare le partite»;
– rinvio di convegni, congressi, ecc, che si dovevano svolgere in luoghi chiusi, proprio perché non si potrebbe rispattare la distanza di almeno un metro;
– vietato accompagnare persone nei Pronto soccorso e si limiteranno gli accessi nelle cliniche private e negli ospizi;
Per il momento queste disposizioni, certamente restrittive della vita relazionale, saranno applicate per 30 giorni. L’obbiettivo dichiarato è evitare la saturazione degli ospedali pubblici, visto che le strutture indispensabili per i casi gravi di infezione polmonare (respirazione artificiale, rianimazione, ecc) sono molto limitate in seguito alla drastica riduzione dei posti letto, dopo oltre venti anni di tagli alla spesa sanitaria. Ma non si prevede affatto di invertire la tendenza alla privatizzazione, anche se proprio l’epidemia ne dimostra la follia suicida…
Lampante l’incongruenza principale: queste disposizioni non valgono per i luoghi di lavoro, indipendentemente dal fatto che si possa, al loro interno, mantenere o no la “distanza minima di sicurezza”. Quarantena sì, però…
Il che ci porta subito sul secondo aspetto dei provvedimenti governativi: l’economia reale.
Il terrore è che l’impatto sul Pil sia talmente negativo da mandare all’aria non solo i parametri di Maastricht (queso è scontato…), ma ogni prospettiva di “ripresa” per diversi anni.
Ed è su questo fronte che le prime misure appaiono manifestamente insufficienti. Sul piano della logica prima ancora che per le dimensioni delle risorse messe immediatamente in campo.
Di fronte a un crollo generalizzato delle attività anche più piccole (dal turismo alla ristorazione, ecc), di fonte ai primi allarmi per la difficoltà a mantenere le forniture necessarie a lavorare (nel mondo globale le “catene del valore” sono molto più interconnesse, e ogni interruzione in un singolo punto si ripercuote su tutta la filiera), il governo Conte mette in campo “robetta”. Come se si trattasse solo di “stimolare” un po’ di più un mercato momentaneamente “pigro”.
Vediamole.
Ecobonus dal 65% al 100%, potenziamento del piano Impresa 4.0 e nuova rottamazione auto”. Al di là della dimensione delle risorse, ripetiamo, il 90% dei settori economici non avrà alcun beneficio da questa roba. Che riproduce la logica degli “incentivi”, ossia di strumenti che puntano ad aumentare l’appetibilità di alcune scelte di investimento o di spesa.
Ma a che servono, in una situazione che si va invece bloccando? Se, per esempio, non esco più di casa, anche disponendo di cifre rilevanti, perché mai dovrei mettermi a ristrutturare casa per sfruttare l’ecobonus? E una società italiana che opera all’estero, perché mai dovrebbe spostare qui i suoi impianti e uffici in questa situazione? Solo per aver qualche incentivo in più dai fondi di Impresa 4.0? Eccetera.
Ancora più ridicolo: ma se posso uscire di casa solo per necessità impellenti o per lavorare, perché mai dovrei pensare a cambiare l’automobile?
Una classe politica indecente e impresentabile si vede da queste cose. E non c’è alcuna differenza qualitativa con la Lega o in genere la destra, che chiede misure ancora meno incisive sull’economia reale, come la “sospensione delle tasse per due mesi” (Salvini, quello che prima voleva “chiudere tutto” e poi ha strepitato per “riaprire tutto”).
Sappiamo solo criticare ma non abbiamo proposte? Non proprio.
Sul piano sanitario anche noi sappiamo di doverci affidare alla scienza, non alle suggestioni. E facciamo notare che nel primo paese dove il virus si è manifestato le restrizioni sono state anche più severe, e scontavano un fortissimo impatto negativo sull’economia. Ma in quel caso è evidente l’operare di una logica inoppugnabile: prima stronchiamo il virus, poi pensiamo a rilanciare l’economia.
Qui invece si cerca una mezza via (non una via di mezzo), per cui si continua a produrre (e ad esporsi al contagio lavorando), mentre su tutta un’altra serie di occasioni sociali si lancia l’allarme.
In questo modo – è una previsione facile – non si limita più di tanto la diffusione del virus e non si impedisce la frenata drastica delle attività economiche.
Per il primo obbiettivo bisognerebbe probabilmente essere più restrittivi, anche a costo di scontare perdite economiche immediate più pesanti ma limitate nel tempo. Non è difficile capire che se questa situazione si aggrava e va avanti per molti mesi il danno sarà catastrofico per buona parte dell’economia italiana, altamente dipendente ora da esportazioni e turismo.
Ma essere più restrittivi sul piano sanitario significa prepararsi a investire (non a spendere) molto di più una volta superata la crisi da coronavirus. E su questo è bene essere molto chiari. Investire in settori produttivi di ricchezza, industriali e non, a cominciare dalla nazionalizzazione delle imprese già in crisi o in chiusura (le multinazionali vanno e vengono, come i capitali finanziari), e soprattutto nei settori strategici.

All’interno delle attuali regole europee e “di mercato” questa possibilità non esiste. Ce lo ricordano ogni giorno, da tutte le tv, i Cottarelli, le Fornero o i Giannini. Anche se si sforano ora i limiti del deficit (su questo l’Unione Europea, con tutti gli Stati di fronte allo stesso problema, non farà difficoltà), a crisi sanitaria conclusa ci sarà di nuovo e come sempre l’indicazione di “rientrare nei parametri”, tagliando tutto ciò che si può, dalle pensioni all’istruzione e – non paradossalmente – la stessa sanità.
E non sarebbero più gentili “i mercati finanziari”, disponibili ora a prestare i fondi necessari all’emergenza ma pronti poi a chiederli indietro con forti interessi…
Il vero punto chiave sta infatti nell’impossibilità, a regole attuali, di emettere liquidità come singolo Paese. Questo vincolo, inizialmente autoimposto fin dal 1981 – quando Nino Andreatta separò la Banca d’Italia dal ministero del Tesoro, impedendo per sempre a via XX Settembre di partecipare alle aste dei titoli di stato (in cui, comprando, faceva azare il prezzo di vendita dei titoli e diminuendo di conseguenza gli interessi sul debito) – è il primo cappio al collo che impedisce qualsiasi iniziativa di investimento pubblico.
Così, mentre la Cina e altri Paesi liberi di programmare e investire potranno provare a recuperare il tempo che stanno perdendo sul fronte del coronavirus, all’Italia e agli altri membri della UE toccherà subire gli effetti di un virus assai più invalidante: quello dell’austerità.

mercoledì 4 marzo 2020

Usa nel panico, La Fed taglia i tassi di interesse

Ognuno reagisce all’epidemia come sa. In Italia si mobilita l’esercito e la Protezione Civile (la sanità pubblica fa miracoli da vent’anni, a dispetto dei tagli feroci subiti, ma rischia seriamente il collasso). Negli Usa si tagliano i tassi di interesse e si cerca di tener su “i mercati” con l’unica medicina conosciuta da quelle parti: denaro poco costoso e liquidità in eccesso. Una medicina, sia detto tra noi e senza agitarsi troppo, che la Bce ha esaurito da tempo, visto che i tassi stanno praticamente a zero dal 2014…
La Federal Reserve ha deciso martedì mattina di abbassare i tassi dello 0,5%, portandoli in una “forchetta” compresa tra l’1 e l’1,25%. Motivazione ufficiale: “il coronavirus pone rischi in evoluzione per l’attività economica“.
La decisione ha rilievo globale per diversi ordini di motivi, come sempre, ma i principali mettono in evidenza una preoccupazione che preesisteva all’esplodere dell’epidemia anche negli Usa e che ora si misura – senza dirlo – con la certezza di una recessione alle porte. Che rima stava nel campo delle ipotesi da scongiurare.
Cosa spinge a dire questo? Beh, la decisione della Fed è stata presa fuori dal normale calendario di incontri al vertice del Fomc (il comitato che riunisce i principali capi della Fed a livello di singoli Stati). Una riunione d’emergenza, quindi, assolutamente rara nella soria della banca centrale Usa. Per capirci: non accadeva dal 2008, dal “big bang” del fallimento di Lehmann Brothers e dunque dall’avvio ufficiale della crisi che ancora non è stata superata.
In secondo luogo, la misura del taglio. La Fed si muove generalmente in modo più prudente, scegliendo di operare su scatti (in alto o in basso) dello 0,25%. Mezzo punto o più vengono buttati sul tavolo solo in situazioni abbastanza eccezionali.
Unendo le due “stranezze”, dunque, abbiamo un quadro abbastanza serio. Se non pre-panico
Il presidente della Fed Jerome Powell – per compito istituzionale – deve ovviamente tranquillizzare. E questo ha cercato di fare nella improvvisa conferenza stampa mattutina.
Abbiamo visto il rischio per le prospettive per l’economia e abbiamo scelto di agire“, ha detto, aggiungendo che i mercati finanziari funzionano normalmente, l’economia continua a funzionare bene e si aspetta che gli Stati Uniti si riprendano completamente dopo la fine dell’epidemia.
Il taglio d’emergenza potrebbe aiutare a stimolare l’economia americana, ma ha anche segnalato che le prospettive per l’America potrebbero essere state più a rischio di quanto si pensasse in precedenza. Il mercato azionario americano è infatti crollato, con il Dow che ha perso immediatamente oltre 550 punti, per poi iniziare una schizofrenica ondata di rialzi e ribassi, ma quasi sempre in “zona negativa” .
Non credo che nessuno sappia quanto tempo durerà” la crisi da virus, né quale sarà l’impatto sull’’economia Usa (ancora oggi la prima del mondo, anche se ormai tallonata da vicino dalla Cina). “So che l’economia americana è forte e arriveremo dall’altra parte e torneremo a una solida crescita e anche a un solido mercato del lavoro“.
Naturalmente non poteva anche assicurare che il taglio dei tassi averebbe avuto effetto anche nel contrastare la diffusione del virus; un taglio dei tassi non curerà le infezioni né riparerà le catene di approvvigionamento interrotte, ma “aiuterà a rafforzare la fiducia delle famiglie e delle imprese“.
Le scena che stanno avvenendo in queste ore negli Stati Uniti, in effetti, dimostrano che “la fiducia” è scesa parecchio, anche se qui in Italia non se ne parla (il provincialismo dei nostri media è quasi osceno, ormai).
La Cnn, per esempio scrive che “Gli americani di tutto il paese stanno facendo scorta di disinfettante per le mani, salviette detergenti, carta igienica e altri prodotti per prepararsi alla diffusione del coronavirus.
Le lunghe code nei negozi e gli acquisti di panico sui prodotti per la pulizia in tutto il paese stanno aumentando la capacità dei rivenditori americani di tenere il passo con la domanda. Gli acquirenti pubblicano sui social media foto di lunghe file che serpeggiano intorno a Costco (una delle grandi catene di distribuzione Usa, ndr)e scaffali vuoti di disinfettanti presso CVS, Walgreens e altri negozi di farmacia”.
Trattandosi di economia, seguono come sempre i numeri: “le vendite di disinfettante per le mani sono aumentate del 73%, i termometri sono aumentati del 47% e le maschere mediche sono aumentate del 319% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, secondo Nielsen”.
Uno scenario da film horror, specie per il presidente in carica che sta correndo verso le elezioni di novembre. Alle quali pensava di potersi presentare forte della “pace in Afghanistan” – l’accordo con i talebani dimostra come siano stati inutili 19 anni di guerra, praticamente una disfatta Usa come quall in Vietnam, con avversari decisamente diversi – e di una economia drogata ma formalmente in buona salute, grazie anche all’accordo commerciale con la Cina.
Ora però crisi cinese e crisi Usa si danno la mano (senza amuchina!) in un modo totalmente imprevisto. E se le prime reazioni al virus di Wuhan, oltre un mese fa, erano irridenti come quelle dei leghisti qui da noi, ora si scopre di stare molto peggio. Perché la sanità Usa, quasi totalmente privatizzata, non è in grado di seguire nessun piano organico e centralizzato di prevenzione, cura e confinamento del contagio.
Insomma, nella decisione della Fed – comunque assia meno “indipendente” dal potere politico di quanto non sia la Bce – deve aver pesato non poco la preoccupazione personale di Donal Trump, che già premeva da mesi per una misura del genere e che immediatamente ha rivendicato a sé il “merito”.
Troppo presto per quantificare i danni all’economia Usa e globale (ogni paese, ricordiamo, sta “frenando” contemporaneamente a tutti gli altri, con effetti a catena che si moltiplicano, dal turismo ai commerci). Ma per un mondo capitalistico che già non sapeva cosa fare nell’eventualità di una nuova recessione la situazione appare decisamente grave.
E noi ci siamo dentro fin oltre il collo.

lunedì 2 marzo 2020

Fight The Power: l’irresistibile ascesa di Bernie Sanders

Joe Biden stravince le primarie democratiche in Sud Carolina, dopo la schiacciante vittoria di Bernie Sanders in Nevada ed i suoi successi in New Hampshire ed ancora prima in Iowa.
Siamo a pochi giorni dal “super-martedì” del 3 marzo, quando si voterà in ben 14 Stati che eleggeranno circa un terzo dei delegati per la convention democratica di luglio, a Milwaukee, che deciderà lo sfidante di Donald Trump alle elezioni presidenziali del 3 novembre.
L’ex numero due di Obama ottiene quasi la metà dei consensi (48,4%), con 255.660 voti e 33 delegati conquistati. Il senatore del Vermont sfiora il 20% (19,9), ottenuto e poco più di 100 mila preferenze e si aggiudica 11 delegati. Il miliardario della finanza Tom Steyer ottiene poco più dell’11% dei voti, senza avere alcun delegato, così come il giovane centrista Pete Buttigieg, poco sopra l’8%.

Il ruolo della comunità nera

In questo Stato è stato decisivo il voto afro-americano, che compone il 55% dell’elettorato che ha votato in maggioranza per Biden, tranne la fascia d’età sotto i 24 anni che ha preferito Sanders.
La Carolina del Sud è il primo Stato in cui si svolgono le primarie con una consistente porzione di elettorato afro-americano ed è quindi indicativa per i comportamenti elettorali della comunità nel voto a venire, così come il Nevada lo era stato per i latinos.
La conquista del voto giovanile degli afro-americani da parte del senatore del Vermont, e lo scarsissimo appeal di Pete Buttigieg (solo il 3%), confermano la presa di Sanders sui giovani, anche di una “minoranza etnica” tradizionalmente attaccata al centrismo democratico, e l’inconsistenza dei candidati democratici più quotati, a parte Biden, nell’attrarre fasce consistenti di voto nella loro direzione.
L’altra esponente della sinistra del Partito Democratico in Sud Carolina è andata poco oltre il 7%, nonostante l’endorsement di alcune figure di spicco femminili della comunità afro-americana.
Certamente la situazione è in continua evoluzione ed è difficile fare previsioni, soprattutto tenendo conto che martedì scenderà in campo uno degli uomini più ricchi del mondo e che sta spendendo più di un qualsiasi altro politico nella storia nord-americana per una competizione elettorale: Michael Bloomberg, ex repubblicano per tre volte sindaco di New York.
Infatti, un importante sondaggio Reuters/Ipsos pubblicato martedì scorso sembrava mostrare due cose.
Il primo dato era il “sorpasso” di Sanders su Joe Biden tra gli elettori afro-americani; una specie di terremoto politico interno, soprattutto in vista della quarta tappa delle primarie in Carolina del Sud, dove circa la metà degli elettori democratici sono neri.
Il secondo, sempre relativo al primo Stato del Sud a svolgere le primarie, è la previsione di voto che vedeva proprio il socialista del Vermont saldamente in testa con il 26% mentre al secondo posto sarebbero l’ex numero due di Obama. Altri sondaggi citati da “Newsweek” lunedì – FiveThirtyEight e Real Clear Politis – davano fortemente in vantaggio Biden; FTE lo dava avanti di 8 punti rispetto a Sanders, con il sostegno del 30% dei democratici.
Ma come abbiamo visto in Sud Carolina il “sorpasso” di Sanders non c’è stato e la vittoria dell’ex numero due di Obama è stata ben più consistente di 8 punti.
Le due co-fondatrici di “Black Lives Matter”, l’importante organizzazione afro-americana emersa alla ribalta con l’ultimo ciclo di proteste contro le violenze poliziesche, durante l’ultima parte dell’ “Era Obama”, hanno dato il proprio appoggio ai candidati della “sinistra” del partito democratico. Mentre Alicia Garza di “Black to the Future Action Fund Group” – ed ex co-fondatrice di BLM – ha dato il suo endorsement alla Warren, partecipando alla sua campagna elettorale, Patrisse Cullors ha espresso la propria preferenza sia a Sanders che alla Warren, invitando Joe Biden letteralmente a farsi da parte.
È chiaro, come è stato evidente dal voto in Sud Carolina e con la presa di parola di diversi importanti esponenti, che la comunità afro-americana sia “spaccata” tra una fascia più giovane ed i relativi attivisti che guardano “a sinistra” per oltrepassare le vecchie logiche centriste del Partito, cui resta ancora  agganciata una parte rilevante.

Ciclone Bernie

L’ultimo discorso di Bernie Sanders nella campagna elettorale per le primarie democratiche in Sud Carolina  è stata una sintesi esaustiva della sua proposta. In circa mezz’ora di comizio non ha usato mezzi termini rispetto a Donald Trump, così come non lesina critiche all’establishment economico in tutte le sue componenti.
Da un lato vi è l’1% e dall’altro il 99%, secondo categorie “sdoganate” da Occupy Wall Street e dalle varie esperienze sorte sull’onda dell’esperienza newyorkese di quasi dieci anni fa, divenute ormai egemoni nel discorso politico dell’elettorato democratico, almeno stando ai numerosi sondaggi che registrano l’appeal di Sanders.
Fa un discorso di classe chiarissimo. Il suo riferimento è la working class ed i relativi bisogni, su cui è costruita una proposta politica articolata: dal salario minimo orario, al potenziamento dei sindacati, dall’assistenza medica gratuita e universale all’istruzione scolastica fino all’università, dall’edilizia sociale alla cura gratuita di qualità per l’infanzia.
Un’attenzione particolare è rivolta alle minoranze etniche, tra cui la comunità ispano-americana e quella afro-americana, nelle quali sembra essere in testa certamente tra le fasce giovanili, con la critica forte alle politiche che ne hanno penalizzato l’esistenza: dalla “war on drugs” – Sanders è per la legalizzazione della marijuana in tutti gli Stati dell’Unione – all’iniquo sistema giudiziario e al complesso carcerario, da riformare strutturalmente, fino alla politica migratoria, tutta da rivedere.
Sono battaglie politiche su cui da tempo fa campagna e che gli hanno permesso di rilanciare la sua sfida dopo l’elezione di Trump.
La stessa sensibilità è posta nei confronti dei diritti delle donne, che vivono una condizione di discriminazione salariale da annullare e le cui garanzie vengono attaccate dall’attuale amministrazione repubblicana.
In generale, nella lista dell’agenda politica di Sanders, i primi sono i soggetti più “vulnerabili”, quella parte del 99% che maggiormente ha sofferto delle politiche che hanno avvantaggiato solo l’1%.
L’emergenza climatica ed il “green new deal” sono del resto al centro del suo discorso, ponendo la necessità della transizione ecologica come una priorità per cui deve iniziare a pagare dazio l’industria dei combustibili fossili.
Alla fine, se il quasi ottantenne socialista sarà nominato dalla convention democratica di luglio, sconfiggendo tutte le variabili del “centrismo” democratico, l’establishment non potrà che puntare tutto su Trump.
L’ostacolo più grosso non sono i sondaggi – è in testa nei 14 Stati che eleggeranno circa un terzo dei delegati, questo martedì – ma i vari ostacoli anti-democratici dell’apparato democratico, a cominciare dal potere dei “super-delegati” eletti tra le file dei rappresentanti istituzionali democratici e non dal voto popolare.
Sanders è stato l’unico candidato democratico che si è espresso contro questa figure, affermando semplicemente che chi ottiene più voti in totale durante le primarie deve essere il candidato prescelto.

Il Super-martedì

Sabato più di 10 mila persone hanno assistito al rally di Boston, nel Massachusetts, il secondo della campagna in questa città, mentre il giorno prima – a Sprinfield – circa 5 mila persone avevano partecipato ad un altro comizio.
A Boston erano presenti Mike Connolly (eletto nello Stato) e Varshini Prakash, co-fondatore del movimento ecologista Sunrise Movement, da cui Sanders ha ricevuto l’appoggio.
Il Massachussets è uno dei 14 stati in cui si voterà nel “super-martedì” del 3 marzo.
Stando ai sondaggi pubblicati venerdì,  in questo Stato Sanders è in testa di 8 punti rispetto alla senatrice Elizabeth Warren, altra esponente della sinistra del partito democratico che qui peraltro gioca in casa.
Recentemente la senatrice del Massachussets, ed ex consigliera di Obama, ha abbandonato la contrarietà alla ricezione di donazioni da parte dell’establishment economico, accettando – per la sua campagna in diversi Stati del “Super Martedì” – diversi milioni di dollari  da un organismo legato al business degli idrocarburi: il “Persist Pac”.
Una netta inversione di rotta rispetto agli attacchi per cui si era caratterizzata, contro questa modalità di conduzione delle campagne politiche.
Rimane perciò su questa linea solo Sanders che, nonostante continui a rifiutare donazioni dall’establishment economico, ha raccolto – grazie a una marea di piccoli donatori, con una media di circa 20 dollari a testa – più soldi di tutta la storia delle presidenziali negli States, come ha annunciato nel suo ultimo comizio nella Carolina del Sud.
Texas e California sono due dei più importanti Stati del “super-martedì”, ed eleggeranno rispettivamente 228 e 416 delegati, quasi un quinto dei quasi 2.000 – 1991 per l’esattezza – che parteciperanno alla nomination.
Per questi due Stati Bloomberg sta spendendo una cifra mostruosa in annunci pubblicitari, in apertura di uffici elettorali e assunzione di staff dedicati alla campagna “porta a porta”, oltre ad avere assunto esponenti di alto livello dell’establishment del partito – come i due vice-presidenti democratici dei rispettivi Stati, per esempio – oltre ad avere ricevuto l’endorsement “interessato” di alcuni eletti locali, tra cui il sindaco di Houston, la città più grande del Texas, Sylvester Turner, uno dei cento mayor che in tutta l’Unione appoggiano ufficialmente il miliardario.
È chiaro che il miliardario può “comprare” il consenso degli esponenti di punta della macchina democratica, alcuni dei quali saranno decisivi nella convention, cercando di far si che le sue clientele fungano da cinghia di trasmissione per assicurargli voti.
Ma, nonostante questo, anche i sondaggi della SSRS per la nota emittente televisiva CNN danno in testa Sanders in Texas (con il 29%, davanti a Joe Biden con il 20%, Bloomberg con il 18% e la Warren al 15%).
Uno strepitoso più 14% per il senatore del Vermont rispetto agli stessi sondaggi di dicembre!
In California Sanders ha invece il 35% – secondo questi sondaggi -, doppiando di fatto i suoi sfidanti, tutti poco al di sopra del 10% e a poca distanza l’uno dall’altro: 14% Warren, 13% Biden e 12% Bloomberg.
Anche in Colorado, dove aveva già vinto 4 anni fa, Sanders è largamente in testa nei sondaggi, riscuotendo il 25% delle preferenze davanti alla Warren con il 15%, mentre Buttigieg e Biden sono rispettivamente a 12 e all’11 per cento.

Gli Stati-chiave

In questo “Super Martedì” è fondamentale la battaglia per conquistare California, Texas e Colorado.
Abbiamo già visto, commentando le elezioni in Nevada, il ruolo centrale del voto ispano-americano, specie di quello giovanile.
In California, a fine anno, oltre i 2/3 degli ispano-americani – il 74% – si era registrato per votare, un dato che conferma come la partecipazione di quella che è la più cospicua minoranza etnica sia fondamentale per determinare lo sfidante di Trump e la possibile sconfitta dell’attuale presidente.
La campagna di “Tió Bernie”, come viene benevolmente chiamato Sanders dagli ispano-americani, è cominciata prima di tutto in California, appoggiandosi ad una rete di attivisti locali, con uno stile di lavoro incentrato sull’assunzione di uno staff già radicato nella comunità, specie nelle zone più povere e periferiche, che non erano mai state interessate ad una campagna presidenziale, parlando direttamente ai residenti nella loro lingua e sposando integralmente i progetti portati avanti dagli attivisti di base della comunità, che non hanno avuto perciò difficoltà a dare il loro appoggio al senatore del Vermont.
In una inchiesta della storica testata della sinistra radicale statunitense, The Nation, si indaga sui motivi del successo di Sanders.
Why is Bernie Sanders so Far Ahead in The California Primary? Organizing”, di Sasha Abramsky, mette al centro il ruolo dell’organizzazione nella strategia di Bernie, ed anche in quella della Warren, e soprattutto la differenza rispetto agli altri candidati, sia nel dispendio di denaro che nell’appoggiarsi (o meno) a parti consistenti dell’establishment del partito democratico.
Questo ha permesso al “socialista del Vermont” di guadagnare sempre più consensi, partendo da una situazione di iniziale svantaggio, visto il precedente negativo della sconfitta patita quattro anni per mano di Hillary Clinton.
Il 21 dicembre Sanders, in un primo rally a Venice Beach, appoggia il Peoples Action’s “Homes Guarantee” plan. Un progetto portato avanti dall’organizzazione di base “Ground Game LA”, attiva in tutto lo Stato, per risolvere la questione della vulnerabilità abitativa. “Vogliamo farne un Medicare for all rispetto alla casa” dichiara un suo attivista.
A Fine dell’anno si contano 20 uffici ed un centinaio di attivisti full-time pagati, più migliaia di volontari che hanno concentrato la loro campagna non solo sulle città costiere, ma anche nell’interno e nelle parti meno “visibili” dello Stato.
Lo stile di lavoro viene illustrato da un attivista in questo modo: “abbiamo bussato a porte cui nessuno a mai bussato prima (…) Incontrato le persone li dove vivono e parlato la loro lingua. Abbiamo fatto conferenze stampa in Cantonese e così via”.
Wall street Pete” Buttigieg, invece, ha assunto Cecilia Cabello, l’ex direttrice della campagna per le primarie di Hillary Clinton; che la fece vincere allora, ma senza registrare significativi risultati ora.
Il miliardario Bloomberg ha aperto 23 uffici e assunto 800 membri dello staff stipendiati,  e soprattutto organizzato una campagna pubblicitaria a tappeto che la giornalista di “The Nation” definisce correttamente “media blitz”.
Ma la vera cifra della campagna di Sanders sta in queste parole di Kendall Mayhew, attivista di Ground Game: “per le persone che stanno lavorando da tempo nell’organizzazione delle comunità. Abbiamo un candidato che ascolta le nostre strategie e ciò che stiamo portando avanti, investendo in attivisti con una strategia di lungo corso, e non catapultati durante le elezioni. La campagna di base che Sanders ha costruito qui è enorme – e le persone che ha assunto sono persone in queste comunità; questo è incredibilmente importante.”
Una altra inchiesta del Philadelphia Inquirer, fatta seguendo la campagna di due attivsiti comunitari latinos di lungo corso, mostra come la comunità ispano-americana sia divenuta l’arma segreta di Sanders e di come il fattore organizzativo sia stato l’elemento decisivo: “lo scorso anno, il team di Sanders è riuscito a creare una rete di attivisti latinos, inclusi molti  solitamente non coinvolti nelle elezioni. I volontari più entusiasti sono coloro che non possono votare – sia perché sono ancora alle medie superiori o perché non sono cittadini degli Stati Uniti”.
E’ sugli esclusi dal “sogno americano”, insomma, che in parte si giocano sia le primarie democratiche che la possibilità di battere Trump.