lunedì 30 settembre 2019

.Il conflitto di interessi di Casaleggio

La notizia riguarda la presenza di Davide Casaleggio nel palazzo di vetro dell’ONU a New York come relatore di un convegno sulla “cittadinanza digitale” organizzato dalla rappresentanza italiana presso le Nazioni Unite.
Molti commentatori hanno posto l’accento sul conflitto d’interessi che si sarebbe posto, in questo caso, tra la presenza del titolare della Casaleggio Associati ideatore della piattaforma Rousseau direttamente finanziata dai parlamentari 5 stelle 3 e l’esercizio di un ruolo all’interno di una iniziativa a quel livello organizzata direttamente dal governo italiano.
L’irrisolto conflitto d’interessi raccolto attorno a Silvio Berlusconi dominò per decenni la scena politica italiana ma questo caso che riguarda Casaleggio e il M5S è molto diverso.
Il caso della presenza di Casaleggio all’ONU pone però per intero la questione della concezione della politica e l’occupazione del potere ed è evidente l’importanza che assume l’aver permesso una ribalta di questo genere ad un imprenditore in conflitto d’interessi con la democrazia.
Appare evidente che sorti dal versante dell’antipolitica i 5 stelle si siano rapidamente convertiti ad una idea totalizzante del potere, esercitato con arroganza senza alcuna mediazione possibile, con grande disinvoltura sia rispetto alla politica delle alleanze sia rispetto all’esercizio della decisionalità all’interno del movimento oppure proiettata verso l’esterno (si ricorda il voto di ratifica della nuova formazione di governo con il PD).
A quanti a sinistra pensano al consolidamento di un “blocco politico” con il M5S anche a livello regionale e locale questo episodio della presenza di Casaleggio all’ONU e di esaltazione del conflitto d’interesse pone alcuni questioni .
Ciò che è avvenuto nell’agosto 2019 è apparso a prima vista catalogabile nella categoria dell’eterno trasformismo all’italiana.
Non bisogna però limitarci a quest’osservazione peraltro banale e scontata.
Alla categoria dell’antipolitica trasformata prima in governo e poi approdata alla “casta” infatti debbono essere dedicati alcuni maggiormente approfonditi punti di analisi.
Da diversi anni, infatti, proclamata l’obsolescenza dei concetti di destra e sinistra, era stata imposta un’agenda di discussione limitata al “politica versus antipolitica”.
Erano così emersi in misura massiccia orientamenti dell’opinione pubblica di pressoché totale sfiducia nelle istituzioni, nel Parlamento e nel governo: in questo modo si erano aggregate in tempi rapidissimi vaste aree di consenso.
Era così emerso un fenomeno assolutamente inedito di volatilità elettorale almeno per quel che aveva fino a quel punto riguardato le vicende italiane.

Ricordiamo come si era determinato quel fenomeno della volatità elettorale: la politica e l’antipolitica apparivano fino a qualche anno fadue termini quasi complementari, di cui era difficile fornire una definizione.
A quel tempo nella vulgata allora corrente i due termini parevano appoggiarsi entrambi l’uno all’altro per sopravvivere nel gran circo mediatico: perché questo appariva essere il punto, quello delle visibilità nel gran calderone dell’immagine.
All’altare dell’immagine furono sacrificati i principi di fondo sui quali si basava la politica, come concezione del governo della “res publica” nelle sue diverse forme.
Forme diverse per ideologie e schieramenti differenti: questo è stato lo schema definitivamente saltato con il “contratto” giallo verde e su questa base si realizzava l’indifferenza delle scelte elettorali.
Politica e antipolitica potevano essere votate di volta in volta perché si trovavano rinchiuse assieme nel circuito dell’autoreferenzialità dell’autonomia del politico: un ulteriore passo in avanti nell’indebolimento complessivo del sistema nell’anticamera di una risoluzione autoritaria della crisi della democrazia occidentale.

La formazione del governo PD- 5 stelle ha provvisoriamente (e apparentemente) allontanato il pericolo di un ulteriore scivolamento a destra, almeno per quel che riguarda il sistema politico italiano.
Questa vicenda riguardante la presenza di Casaleggio all’ONU pone in evidenza come si sia di fronte ad un ulteriore passaggio della crisi del sistema basato sulla divisione dei poteri e sulla democrazia rappresentativa.
La sinistra nel determinare le proprie scelte tenga conto che siamo a una crisi più profonda di quanto anche i politologi più accorti stiano avvertendo: una crisi di prospettiva, di valori, di concezione del futuro non certo affrontabile attraverso la formazione di un governo purchessia.
Il tema da porre è sicuramente quello del rapporto tra utilizzo della tecnologia e rappresentatività politica.
Un tema non risolvibile semplicisticamente attraverso la scorciatoia di una app come segno di una visione subalterna della modernità.
Se si pensa a una sinistra coerente e determinata sarà necessario, usando il massimo possibile di pessimismo dell’intelligenza, cercare di muoverci sul terreno della ricerca senza farci ingannare da scadenze apparentemente più vicine e invitanti, ma in realtà illusorie.

Non fermiamoci alla logica del potere seguendo semplicisticamente una modernità priva di valori e di capacità di educazione collettiva.

venerdì 27 settembre 2019

Gli Usa regalano 52 milioni di dollari a Guaidó e nuove sanzioni contro il Venezuela

L’autoproclamato “presidente ad interim” Juan Guaidó e l’opposizione venezuelana hanno ricevuto 52 milioni di dollari dall’amministrazione Trump. Secondo una dichiarazione di martedì dell’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID), il finanziamento sarà destinato ai media indipendenti, alla società civile, al settore sanitario e all’Assemblea Nazionale controllata dall’opposizione.
Inoltre, l’amministratore di USAID Mark Green ha annunciato mercoledì che gli Stati Uniti impegneranno 36 milioni di dollari in aiuti al Venezuela, come parte di un programma di soccorso guidato dalle Nazioni Unite. Al momento non è chiaro se questa somma faccia parte dei 52 milioni di dollari o di un’erogazione aggiuntiva.
L’amministrazione Trump aveva precedentemente indirizzato oltre 40 milioni di dollari in aiuti destinati all’America Centrale per finanziare l’opposizione venezuelana. Secondo una nota dell’USAID visto dal Los Angeles Times, il denaro era destinato a stipendi, biglietti aerei, addestramento, propaganda, tra le altre voci di bilancio.
Il nuovo pacchetto di aiuti si accompagna con un nuovo ciclo di sanzioni statunitensi contro il settore petrolifero venezuelano. Allo stesso modo dell’annuncio di martedì, le nuove restrizioni del Dipartimento del Tesoro mirano a quattro compagnie di navigazione petrolifera e le loro rispettive navi, che sarebbero coinvolte nel trasporto di petrolio dal Venezuela a Cuba.
Le misure bloccano i beni di Caroil Transport Marine Ltd., con sede a Cipro, nonché le imprese panamensi Trocana World Inc., Tovase Development Corp e Bluelane Overseas SA. Inoltre, vengono sanzionate la Carlota C, la Sandino, la Petion e la Giralt.
In una dichiarazione, il Segretario del Tesoro Steven Mnuchin ha protestato contro Cuba per aver continuato a importare greggio venezuelano nonostante l’amministrazione Trump abbia imposto un embargo petrolifero a gennaio. “Gli Stati Uniti continuano ad agire con forza contro l’ex regime illegittimo di Maduro e gli attori stranieri maligni che lo sostengono. I benefattori cubani di Maduro forniscono un’ancora di salvezza al regime e consentono il suo apparato repressivo di sicurezza e di intelligence”, ha dichiarato.
Il 3 luglio, il Dipartimento del Tesoro ha sanzionato la Cubametales, società statale cubana di importazione ed esportazione di petrolio, per aver continuato a importare petrolio dal Venezuela. Più recentemente, il 5 agosto, Trump ha firmato un ordine esecutivo che impone un ampio embargo al Venezuela, proibendo tutti i rapporti con lo stato venezuelano e autorizzando sanzioni secondarie contro entità terze.
Tuttavia, nonostante le sanzioni, le esportazioni di petrolio a Cuba sono continuate costantemente, con fonti industriali che hanno segnalato un aumento fino ad oggi in settembre a 119.000 barili al giorno (bpd), da 70.000 bpd in agosto.
Le ultime misure di Washington hanno fatto seguito alla reintegrazione dei legislatori filogovernativi nell’Assemblea Nazionale controllata dall’opposizione, avvenuta martedì scorso. Questo passo fa parte di un accordo raggiunto la scorsa settimana tra il governo Maduro e le sezioni minoritarie dell’opposizione.
Questo è un gesto politico, democratico e patriottico”, ha detto Tania Diaz, che guida la delegazione del PSUV al potere. “Le nostre forze hanno insistito su meccanismi di dialogo e comprensione come formula per garantire la pace nel paese”, ha aggiunto. Oltre al ritorno in parlamento dei deputati dei partiti al potere, l’accordo contiene anche disposizioni riguardanti un nuovo consiglio elettorale nazionale e garanzie elettorali, nonché sforzi congiunti per aggirare le sanzioni statunitensi.
Nonostante l’apprezzamento per il ritorno del blocco filogovernativo, i parlamentari dell’opposizione si sono chiesti se alcuni deputati del PSUV possano assumere legalmente le loro funzioni nell’Assemblea nazionale. Diaz e diversi altri deputati del PSUV sono anche membri dell’Assemblea Nazionale Costituente, che è stata eletta in mezzo a una violenta rivolta antigovernativa nel 2017. Da parte sua, il legislatore del PSUV Carreño ha risposto che spetta alla Corte Suprema pronunciarsi sulla questione.
La maggioranza dell’opposizione nell’Assemblea Nazionale si è resa responsabile di oltraggio alla corte dal 2016, dopo che una disputa crescente con la magistratura venezuelana ha visto le decisioni dell’organismo dichiarate “nulle e decadute”. A tutt’oggi non vi è stata alcuna dichiarazione della Corte Suprema in merito allo status giuridico dell’organo legislativo. Da parte sua, Washington ha escluso ogni negoziato con Caracas, promettendo di mantenere le sanzioni fino a quando il governo Maduro rimarrà al potere.

mercoledì 25 settembre 2019

Aumentano di nuovo luce e gas. Riparte il carovita, ma i salari restano al palo. Niente da dire?

Tariffe di nuovo in aumento per la luce e il gas nell’ultimo trimestre dell’anno. Dal primo ottobre, comunica l’Authority per l’Energia, per le famiglie ci sarà un aumento del 2,6% per la bolletta dell’elettricità e del 3,9% per il gas. Si tratta del terzo aumento in 14 mesi.
Chi ha la memoria corta (eppure il costo delle tariffe del gas e della luce non dovrebbe sfuggirgli) dovrebbe ricordarsi che la stessa cosa era avvenuta esattamente un anno fa.
Dopo gli aumenti già scattati a luglio del 2018, dal primo ottobre dello stesso anno, secondo quanto stabilito anche in quel caso dall’Arera (Autorità per l’energia), la luce era aumentata del 7,6%  (pari a 32 euro in più nell’anno ‘scorrevole’ 2018), mentre il metano del 6,1% (+61 euro).
Secondo le autorità a causare questo aumento delle tariffe di gas e luce lo scorso anno erano stati, in particolare, l’aumento delle materie prime energetiche, la crescita del prezzo dei permessi di emissione di Co2 e lo stop dei reattori nucleari in Francia.
Le cause che invece l’Autority invoca quest’anno sono, testualmente, le seguenti: “Andamento stagionale, riduzione della produzione di gas olandese, alcune restrizioni all’accesso ai gasdotti di transito europei sono tra i fenomeni che spingono verso l’alto il prezzo del gas, ancora predominante anche nella produzione elettrica. Sempre in materia di produzione elettrica pesano i timori per un possibile calo della produzione francese nei prossimi mesi, a causa dei problemi in alcune centrali nucleari. A questo si aggiungono le recenti tensioni geopolitiche, legate agli attacchi alle piattaforme petrolifere saudite, che hanno influenzato le quotazioni delle principali commodity energetiche”.

A luglio 2018 erano così scattati gli aumenti del 6,5% per la luce e dell’8,2% per il gas e poi c’erano stati quelli di ottobre 2018. Facendo la somma solo nel 2018 stiamo parlando del 14,1% di aumento sull’elettricità e del 14,3% sul gas. E adesso si parla di nuovi aumenti del 2,6% sulla luce e del 3,9% sulle bollette del gas. Fatevi le somme e guardate in poco più di un anno di quanto sono aumentate le tariffe di due beni ormai essenziali come gas e luce. I salari non sono affatto aumentati proporzionalmente.
Il meccanismo della scala mobile (per i più giovani; non si trattava delle scale mobili delle metropolitane o nei centri commerciali, ma di un meccanismo automatico che adeguava i salari all’aumento dei prezzi e che era stato conquistato con durissime battaglie dei lavoratori, ndr), come noto è stato abolito definitivamente nel 1993 nell’orgia dell’applicazione del Trattato di Maastricht e della concertazione tra CgilCislUil, governo e Confindustria. Dicevano che era la causa dell’inflazione.
Adesso con i vincoli di bilancio, l’austerity, i diktat dell’Unione Europea, hanno abbattuto talmente l’inflazione da aver portato il paese in deflazione. E allora che fanno? Aumentano i salari dei lavoratori e delle lavoratrici? No aumentano i prezzi e le tariffe per farla ripartire.
Ci sarebbe da bloccare il paese, fermare le fabbriche e gli uffici, andare con la gente sotto la sede dell’Autority, ma per ora stanno tutti zitti. Non disturbate il nuovo governo, lasciatelo lavorare e poi l’Autority dicono che è “una autorità indipendente”. Da chi??!!

martedì 24 settembre 2019

La guerra finanziaria del “capitalismo verde”

Siamo entrati da molto tempo nell’era del “capitalismo assistito”, ma nessuno dei guardiani dell’ideologia neoliberista ha fin qui azzardato una critica, o almeno una fotografia asettica del fenomeno.
Anche la durata di questo periodo è avvolta nell’incertezza. Si potrebbe datarla a partire da Keynes, quindi dagli anni ‘30 (sia in versione nazifascista che in versione democratico-rooseveltiana, comunque su scala rigidamente nazionale e in chiave nazionalistica), anche se l’ondata neoliberista degli anni ‘80 ne decretò la (temporanea?) morte.
O forse si potrebbe fissare l’anno del “recupero vergognoso” al 2008, quando il crollo di Lehmann Brothers e del mercato dei “prodotti derivati” costrinse tutte le banche centrali del mondo a riversare nel sistema finanziario quantità gigantesche di moneta letteralmente “stampata di notte”. In barba cioè a tutte le teorie e le raccomandazioni che ne derivano, e definita “socialismo per ricchi” persino da Joseph Stiglitz (ex presidente della Baca Mondiale).
Il risultato di questa fase di “iniezioni di liquidità” è noto: il sistema è rimasto in vita, non è esploso, ma neanche ha ripreso a funzionare “normalmente” (per quel che può significare questo termine in sistemi teorici che ipotizzano come “normale” l’equilibrio economico e vedono nelle crisi il frutto di “errori”, anziché la fisiologia del capitalismo). Stagnazione più che decennale, che non pochi interpretano come avvio di quella “secolare”.
Il tentativo di ritorno alla normalità – stop ai quantitative easing, rialzo prudente dei tassi di interesse – c’è stato, ma è risultato subito intollerabile sia per il sistema finanziario occidentale che per l’industria propriamente detta. Dunque, la necessità di riprendere a “stampare moneta” si riaffaccia prepotente.
Lo pretende Trump dalla Federal Reserve, che obbedisce frenando. Ma intanto la banca centrale Usa è intervenuta per iniettare liquidità nel sistema interbancario statunitense, oltre ad aver abbassato i tassi di interesse. Quasi 300 miliardi di dollari fin qui, ma già da oggi e fino al 10 ottobre dovrebbe iniettare liquidità per almeno 75 miliardi al giorno (al giorno!). Il totale, alla fine dell’intervento, potrebbe superare i 1.300 miliardi di dollari.
Lo fa autonomamente la Bce con l’ultima decisione di Mario Draghi, suscitando proteste dai criminali del “Grande Nord” (Germania, Olanda, Finlandia, baltici colonizzati da Berlino).
Ma anche questa “flebo monetaria” continua, di per sé segnale di fallimento sistemico, non basta più. “Il cavallo non beve” (gli investimenti sono fermi), ed è inutile fornirgli acqua supplementare. Tocca letteralmente inventarsi qualcosa di diverso.
E l’occasione c’è. La “transizione ecologica ed energetica” è un bisogno immediato, anzi il mondo è a rischio per l’estremo ritardo con cui i governi – tutti sotto ricatto dei grandi gruppi multinazionali – stanno prendendo atto che il tempo per fare qualcosa è quasi scaduto. Dunque, le prossime mosse delle banche centrali, le uniche a disporre di qualche capacità operativa just in time, dovranno avere motivazioni green e obbiettivi conservatori sul piano economico.
Si tratta di salvare il capitalismo dicendo di voler salvare il pianeta.
Il discorso è quasi esplicito in un articolo dell’insospettabile Sole24Ore, quotidiano di Confindustria, dedicato all’ormai prossimo inizio dell’era Lagarde alla testa della Bce. Non si tratta di “pentirsi” del già combinato, né di convertirsi ad un credo cui nessun “investitore professionale” ha mai creduto. Si tratta di fare i conti con freddezza: le perdite provocate da disastri ambientali e climatici aumentano di continuo, e i profitti – anche per questo motivo (non chiedete a dei capitalisti di comprendere la “caduta tendenziale”…) – sono in calo.
Dunque si tratta di rendere la transizione ecologica un business profittevole, trovando per un verso le risorse monetarie necessarie (senza chiedere alle imprese di investire un dollaro proprio), creando un sistema finanziario ad hoc, utilizzando e sostenendo una versione innocua della “sensibilità ambientale”. In pratica, colpevolizzando i singoli esseri umani costretti a vivere in un sistema di produzione che non permette loro scelte libere sulle merci e blaterando di una “difesa dell’ambiente” che non metta mai in discussione quel sistema di produzione. In sintesi: un capitalismo finanziario spietato, ma verde.
Siamo troppo cattivi? “Prevenuti”? “Ideologici”?
Leggetevi IlSole, almeno… Anche solo il finale dell’articolo: il vento sta cambiando un po’ troppo in fretta: la stessa Bce ha sottolineato che una violenta “decarbonizzazione” dei portafogli mondiali rischia di destabilizzare il sistema finanziario internazionale. Quindi sì agli investimenti green, ma con regole chiare su cosa significhi essere “verde” e senza creare scossoni troppo forti nell’abbandono degli asset legati ai combustibili fossili.”
Traduciamo per i profani: “decarbonizzare i portafogli” significa vendere le azioni delle multinazionali petrolifere e similari (tutte quelle impegnate nelle energie fossili). Se le vendite sono massicce e continue, perché gli “investitori” hanno capito che il futuro di queste imprese non è roseo, i prezzi crollano e molti registreranno perdite cospicue “in portafoglio”. Quindi bisogna procede lentamente (“senza creare scossoni troppo forti”), dando il tempo alla “grande alleanza” delle banche centrali di creare un sistema finanziario specializzato ma non alternativo (“ il principio della ‘market neutrality’ obbliga l’istituzione comunitaria a non discriminare un settore rispetto ad altri”).
I tempi di questa “transizione finanziaria” possono essere troppo lenti rispetto a quelli fisico-ambientali, con la scienza a dare ormai meno di dieci anni prima del “punto di non ritorno”?
E che mai gliene può fregare, a questi signori che hanno creato il problema ambientale? Loro sono interessati unicamente al mantenimento del sistema (di produzione e finanziario). Il resto non conta. In fondo loro troveranno sempre un’isoletta abbastanza alta, rispetto al livello del mare in aumento…
Dunque dobbiamo prendere atto della situazione e non lasciarci abbindolare dalle frasi ad effetto, dal “buonismo” o “cattivismo” ambientale; dobbiamo “seguire il denaro” (follow the money), non le dichiarazioni ufficiali, per capire cosa sta accadendo.
Dobbiamo sapere che il progetto del ministro dell’economia tedesco Altmaier – poi ampliato nel mega-piano di investimenti deciso dal governo Merkel – prevede un “fondo per il clima” con rendimento al 2%, in modo da fare di Francoforte un polo dei “green bond”.
E che dal canto suo Macron ha riunito a Parigi i big del risparmio gestito. assieme a sei fondi sovrani (c’era Singapore, ma non i cinesi). In totale questi soggetti controllano 18 mila miliardi di dollari (dieci volte il Pil italiano). Anche Macron vuole fare di Parigi la “capitale finanziaria del verde”.
Molti pretendenti, tanta competizione (alla faccia dell’”unità europea”). Tutti a nascondersi dietro Greta e i sacrosanti movimenti ambientalisti, ma solo per condurre al meglio una vera e propria guerra finanziaria. In entrambi i casi, con la motivazione green si riapre il cordone della spesa in deficit. ;a. ovviamente, secono i trattati europei, non per tutti; solo perchi ha i conti pubblici in un determinato stato.
Claudio Lolli ci canterebbe del “nemico che marcia alla tua testa“. Dario Fo del “tutti uniti, tutti insieme.. ma scusa, quello non è il padrone?” Chico Medes, ambientalista brasiliano ucciso proprio per questo, ci ricorderebbe che “L’ambientalismo senza lotta di classe è semplicemente giardinaggio”.
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Bce, il nuovo «bazooka» di Lagarde è contro il climate change

Lagarde, che dal 1° novembre guiderà la Banca centrale europea, ha preso posizione contro il mutamento climatico. E non è sola: su iniziativa di Mark Carney, numero uno della Banca d’Inghilterra , è nato un colossale network finanziario a difesa dell’ambiente con trenta tra banche centrali e istituti di regolamentazione, forte di un portafoglio complessivo di 100mila miliardi di dollari.
Enrico Marro – IlSole24Ore
Christine ha in testa un “whatever it takes” diverso da quello di Mario: mentre allora ci fu la difesa dell’euro, oggi in primo piano c’è (anche) la lotta al cambiamento climatico, che «dev’essere al centro della missione della Bce e di ogni altra istituzione». Parola appunto di Christine Lagardel’ex ministro delle Finanze francese e attuale numero uno del Fondo monetario internazionale che dal primo novembre siederà sulla poltrona di Mario Draghi nel nuovo palazzo della Banca centrale europea a Francoforte. «Siamo solo agli inizi, ma dobbiamo farne una priorità”, ha scandito in una recente audizione al Parlamento Ue, aggiungendo che «ogni istituzione dovrebbe avere come missione la protezione dell’ambiente».
Certo, la Bce non può investire all’improvviso tutto il suo bilancio di 2600 miliardi di euro in green bond, anche perché non esiste un mercato di “obbligazioni verdi “così vasto. Ma la Lagarde ha chiaramente indicato che la strada su cui bisogna muoversi è quella degli investimenti sostenibili. Almeno per quanto riguarda l’istituzione che presto guiderà.
Sulla strada della lotta della Bce al global warming c’è un unico problema: il principio della “market neutrality”, che obbliga l’istituzione comunitaria a non discriminare un settore rispetto ad altri. La soluzione però è a portata di mano, e a indicarla è stata la stessa Lagarde. Si tratterebbe di accelerare il via libera alla normativa comunitaria, attualmente in discussione presso il Parlamento europeo, che classifica con precisione il profilo di sostenibilità dei vari asset finanziari. Provvedimento opportuno, anche perché classificazioni puntuali e dettagliate sugli investimenti sostenibili tendono a latitare, con la conseguenza che alcuni green bond si sono rivelati ben poco “verdi”, come ha rivelato un recente studio di Insight, società di asset management del gruppo Bny Mellon.
Christine in realtà potrebbe rivelarsi solo la punta dell’iceberg di un’inedita sensibilità ambientale del mondo finanziario, molto preoccupato delle ricadute economici di un climate change che secondo un recente studio di Moody’s Analytics potrebberoro toccare i 69mila miliardi di dollari. Oltre trenta tra banche centrali e autorità di regolamentazione hanno unito le proprie forze nel nuovo “Network for Greening and Financial System”, fondato dal Governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney (ex di Goldman Sachs e della Banca centrale canadese), che per primo nel settembre 2015 sollevò in ambito finanziario il problema del mutamento climatico. Il network può contare su asset gestiti colossali: qualcosa come 100mila miliardi di dollari, quaranta volte il debito pubblico italiano.
Intanto tutte le grandi multinazionali mondiali, inclusi i colossi della Silicon Valley e naturalmente le banche europee già colpite dai tassi sottozero, si stanno preparando a far fronte a un crollo della profittabilità legato al riscaldamento globale. Ma c’è già chi ha iniziato a soffrire: i l climate change sta colpendo con durezza alcuni settori del mondo della finanza e dell’economia. Un paio di esempi? Mentre le grandi società assicurative stanno già da anni leccandosi le ferite del mutamento climatico, con picchi di catastrofi naturali molto costosi da gestire, le major petrolifere sono alle prese con performance borsistiche assai deludenti, per usare un chiaro eufemismo, probabilmente legate a loro volta al vento che cambia nei portafogli degli investitori.
Forse, anzi, il vento sta cambiando un po’ troppo in fretta: la stessa Bce ha sottolineato che una violenta “decarbonizzazione” dei portafogli mondiali rischia di destabilizzare il sistema finanziario internazionale. Quindi sì agli investimenti green, ma con regole chiare su cosa significhi essere “verde” e senza creare scossoni troppo forti nell’abbandono degli asset legati ai combustibili fossili.

lunedì 23 settembre 2019

Il Nord sbuffa, sotto il peso della crisi tedesca

Il dibattito politico è pesantemente viziato dalla ricerca del consenso facile. “Vincono” quasi sempre i falsari di bassa lega, perché è difficile controbattere le stronzate propagandistiche discutendo di dati, strutture produttive, scelte strategiche (anche di collocamento internazionale). Ci vorrebbero molte lauree a testa per esprimere pareri non campati in aria.
Quindi le “emergenze” che riescono ad assumere centralità sono quelle che non esistono, o vengono create ad arte, per solleticare il pensiero corto, le reazioni da Napalm51. Gli immigrati, ma solo quelli di pelle scura, sono il bersaglio preferito, perché facile da indicare. Se questi inviti arrivano da forze rappresentate in Parlamento, automaticamente si promuove l’instupidimento di massa, in una corsa sempre più veloce verso il fondo.
Naturalmente, non si può pensare di contrastare questa deriva nazi-imbecille con il finto “buonismo” rivestito in slogan altrettanto semplici ma di presa infinitamente minore. Bisogna sapere come sta messo questo paese, quali comparti reggono e quali no, quali regioni soffronto di più la crisi, quali figure sociali ne sono investite inmisura maggiore e quali se ne rendono conto meglio.
Bisogna studiare la situazione, altrimenti si dicono fesserie. Magari di buona volontà e piene di comprensione umana, ma efficaci come preghiere in tempo di guerra.
Dietro gli slogan ci sono organizzazioni politiche labili, fatte soprattutto di “contoterzisti” senza alcuna progettualità di lungo periodo. A muovere queste organizzazioni sono interessi strutturati, molto diversi tra loro e, in parte, indifferenti anche agli slogan che i “propri campioni” usano quotidianamente.
Interessi che “badano al sodo”, ovvero alle politiche economiche possibili (con grande competizione sulle poche risorse disponibili all’arbitrio politico nazionale), all’occupazione delle postazioni politiche che possono determinarle (governo, autorithy, regioni, comuni metropolitani e non).
Questi interessi, nel corso dell’ultimo anno, hanno subito sollecitazioni molto forti. E “l’immigrazione clandestina” non c’entra nulla. La chiave di volta è la notevole crisi tedesca, in specifico della manifattura di quel paese, che – avendo riscritto le filiere produttive del Vecchio Continente sotto il proprio “comando” – ora rilascia ordinativi in calo là dove prima faceva da traino selettivo per imprese medio-piccole, distretti produttivi, aree locali. Il Nordest italiano in testa, o perlomeno alla pari con Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Ungheria (il “gruppo di Visegrad” ha una ragione unificante che non è l’ideologia…). Per averne un’analisi, basta guardare le Statistiche flash dell’Istat sulle “esportazioni delle regioni italiane” (Esportazioni-regioni).

L’espressione politica fin qui “vincente” di quel mondo territorialmente limitato – la Lega – aveva sfruttato la crescita per proporsi come “partito nazionale”, supplendo con gli slogan “populisti” all’assenza di programma reale per le altre regioni italiane. E dove gli slogan non bastavano, come nel Mezzogiorno, con l’ennesimo sdoganamento delle clientele peggiori, fino a quelle in odor di mafie (del resto già incistate abbondantemente anche nel Nordest, Lombardia in testa).
La caduta di Salvini ha dimostrato la pochezza politica di quel gruppo dirigente, ma gli interessi che ha fin qui rappresentato non scompaiono con il suo confinamento all’opposizione. E dunque non consentono di “snobbare” spinte che continuano ad attivarsi anche quando le leve del governo non sono più in “mani amiche”; o meglio, teleguidate.
Una tentazione che sembra attraversare il BisConte, dove si riversano senza limiti interessi sociali differenti ma con eguale forza competitiva che preme sulle poche risorse a disposizione. Gli ululati “nordisti” di fogliacci come Libero, La Verità, Il Giornale, ecc, sono la formulazione isterica – forse addirittura controproducente – di interessi imprenditoriali che si sentono improvvisamente sottovalutati dalla “politica” e morsi al sedere dalla crisi di Berlino.

L’editoriale di Guido Salerno Aletta, su Milano Finanza, fotografa abbastanza bene la strutturazione sociale e territoriale di questi interessi. Forse in modo troppo bonario nei confronti del Pd – cui viene attribuita ancora la volontà di promuovere una “azione pubblica perequatrice attraverso i servizi sociali ad accesso universale”, che proprio i governi D’Alema-Versani-Prodi-Letta-Renzi ha delegittimato smantellato in misura feroce – ma comunque utile a leggere il “sottostante” di un chiacchiericcio pubblico altrimenti senza capo né coda.
Buona lettura.
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Il Nord sbuffa, sotto il peso della crisi tedesca

Guido Salerno Aletta – Milano Finanza
La Lega è fuori dal governo a Roma, ma è il partito più forte nell’Italia settentrionale, là dove si concentra la gran parte della produzione. Se la nuova alleanza di governo tra M5S e Pd, da cui la componente renziana si è ora resa autonoma, vuole esorcizzare ad ogni costo il sovranismo salvinista, occorre comunque evitare un pericolo: “non si può accelerare la crescita andando in contrasto con chi è detentore della crescita del Paese. Il 35% del pil viene da Lombardia e Veneto. Se si aggiunge il Piemonte si arriva oltre il 40% e se mettete anche l`Emilia-Romagna fate un altro 10%”. L’ammonimento di Carlo Messina, amministratore delegato e ceo di Intesa SanPaolo non poteva essere più chiaro.
Questa frattura di rappresentanza, ad un tempo politica e territoriale, ha implicazioni sociali ed economiche profonde soprattutto per via della recessione della economia tedesca, esito di un rallentamento iniziato oltre un anno fa.
Non solo si ripercuote già in modo diretto sulla struttura produttiva dell’Italia per via delle strette interdipendenze, ma ne condizionerà in modo determinante il futuro: se la crisi tedesca non è congiunturale, anche l’Italia dovrà assumere scelte strategiche per il futuro della sua collocazione nell’ambito della catena internazionale della produzione.
C’è un dato recentissimo dell’Istat, sulle esportazioni delle Regioni italiane, che rende indispensabile questa riflessione: “Nel periodo gennaio-giugno 2019, si rileva un sostenuto incremento tendenziale delle vendite sui mercati esteri per il Centro (+17,4%), molto più contenuto per il Sud (+2,5%) e il Nord-est (+1,5%), mentre il Nordovest mostra una contenuta diminuzione (-1,1%) e le Isole una marcata contrazione dell’export (-11,9%).
La conferma viene dall’analisi del commercio con l’estero: “Nei primi sette mesi del 2019, l’aumento su base annua dell’export (+3,2%) è determinato principalmente dalle vendite di articoli farmaceutici, chimico-medicinali e botanici (+27,9%), prodotti tessili e dell’abbigliamento, pelli e accessori (+7,9%) e prodotti alimentari, bevande e tabacco (+8,0%)”. Il Nord manifatturiero è in panne.
Il fatto è che, ad una Lega che nasce storicamente con l’aspirazione di rappresentare il Nord dei produttori, ora al governo si sono insediati due partiti che hanno entrambi come asse portante la funzione della distribuzione: il Pd, oltre a sostenere la azione pubblica perequatrice attraverso i servizi sociali ad accesso universale, agevola una corposa struttura di cooperative e di associazioni che operano principalmente a livello locale nel settore della assistenza, dalle carceri agli ospedali, ai consultori, e nei comuni con i lavori socialmente utili.
Il M5S, che nasce con una violenta pulsione anti-casta, sostiene a sua volta le ragioni di chi ha bisogno di reddito: ha rivolto la sua attenzione ai giovani, innanzitutto, con il Reddito di cittadinanza, la sua bandiera elettorale. Una volta approvatolo, aboliti i vitalizi e penalizzate le pensioni d’oro, ha perso inevitabilmente quota.
Mentre i recentissimi incontri tra gli esponenti del nuovo governo ed i sindacati, per affrontare il tema della rappresentanza e del salario minimo, testimoniano ancora una volta la volontà si sostenere i diritti dei lavoratori, si tace dei problemi del mondo della produzione: il taglio del cuneo fiscale si risolverà, sembra, solo in una riduzione su proiezione triennale, della tassazione a totale vantaggio dei redditi da lavoro.
Anche sulla autonomia differenziata è stata messa la sordina: pur reclamata a gran voce dai Governatori delle Regioni settentrionali e della Emilia Romagna durante il precedente governo, era stata bloccata per la resistenza della stessa Presidenza del Consiglio e del M5S: fu insuperabile il timore che desse l’avvio ad una secessione silenziosa. Di fatto, le Regioni del Nord chiedono a Roma poteri amministrativi, di pianificazione e gestione, e non solo la riduzione del residuo fiscale. La sanità e la formazione professionale non possono più essere gli unici ambiti concreti di azione regionale: non giustificano un apparato politico ed amministrativo ormai consolidato, che ambisce ad una funzione di rappresentanza generale, tanto più necessaria quanto meno è forte la capacità progettuale a livello nazionale. D’altra parte, è l’intero modello di area vasta che rimane disfunzionale, aggravato dalla soppressione delle provincie e dal proliferare di entità di scopo a livello sovracomunale.
Chi spera in un ribaltone all’interno della Lega, per disfarsi del salvinismo, in realtà milita per un rafforzamento della componente storica che ha prevalentemente aspirazioni territoriali, quelle che un tempo sostenevano la secessione da “Roma ladrona” e la creazione di una Repubblica del Nord che non a caso aveva come confini quelli della Linea Gotica.
Un Nord forte giova soprattutto al Mezzogiorno, perché sente meno il peso della solidarietà territoriale. E la mappatura attenta del registrato rinvigorirsi della capacità delle Regioni dell’Italia centrale e meridionale di essere protagoniste dell’incremento dell’export è la premessa per una migliore comprensione delle vocazioni e delle specializzazioni produttive. C’è vitalità, voglia e dimostrata capacità di fare. C’è bisogno di sostenere la produzione, ovunque sia localizzata, ma soprattutto di delineare il posizionamento dell’industria non solo manifatturiera dell’Italia settentrionale nel quadro delle nuove relazioni industriali globali.
Noi, invece, ci attardiamo sulla questione dei migranti, facendone addirittura il tema assorbente delle relazioni internazionali. Anche i colloqui con i Presidenti di Francia e Germania, che si sono infatti precipitati in questi giorni a Roma per prendere riannodare i rapporti con il nuovo governo, si sarebbero concentrati sulla questione degli sbarchi e dei ricollocamenti. L’emergenza securitaria proclamata dalla Lega si è trasformata così nel suo opposto; l’accoglienza obbligata ai migranti economici cui nessun Paese europeo darà mai accesso.
Nel frattempo, in Europa si ipotizza di istituire un Future Wealth Fund, con 100 miliardi di dotazione e capacità di intervento a leva di dieci volte superiore, per costituire campioni globali nei settori di punta, dall’auto a guida autonoma alla intelligenza artificiale. Per favorire la transizione ecologica, il governo tedesco pensa ad un fondo obbligazionario privato da 50 miliardi, con una cedola di interessi del 2% a carico dello Stato. Non meravigliamoci, dunque, se al Nord sbuffano. E non solo.

venerdì 20 settembre 2019

Nessuno lo dice, ma finanziariamente l’Italia sta in una botte di ferro

O meglio, lo disse ad agosto il vice presidente della Bce – de Guindos – al Corriere della Sera, quando affermò che la posizione finanziaria netta estera, vale a dire differenza di merci, servizi, redditi primari e altri investimenti era pari al 3,3%.
Oggi è uscita la Bilancia dei Pagamenti di luglio, pubblicata dalla Banca d’Italia. Ebbene, nonostante il fortissimo flusso di investimenti finanziari da parte di operatori esteri – ma potrebbero essere benissimo italiani “esterovestiti” – per circa 31 miliardi di euro, di cui 19 in titoli di stato, vi è stata una riduzione della passività della posizione finanziaria netta estera di 7 miliardi.
Ora il passivo è pari a 40 miliardi il 2,7% del pil. Tenete conto che in Usa il passivo è pari al 40%, in Francia al 32% in Spagna all’82% e non è un caso che da quattro anni non riescono a fare un governo, finanziariamente dipendenti come sono dal capitale estero.
Un altro dato è il boom dei redditi primari, che arriva ad un surplus di circa 20 miliardi. Sono dividendi, capital gain e affitti di residenze di italiani all’estero, che hanno queste rendite e che presentano un surplus pari all’1,3% del pil. Il dato finale della bilancia dei pagamenti presenta un surplus pari al 2,7%.
Gli italiani stanno dunque vivendo al di sotto delle loro possibilità e risparmiano moltissimo, specie le imprese che non investono e portano i capitali all’estero.
I rendimenti sono negativi, per cui forse a partire da agosto si assisterà ad un rientro dei capitali sotto forma di acquisto dei titoli di stato nazionali.
Infine, oggi IlSole24Ore ci informa che la riduzione dello spread in agosto, se confermata, potrebbe portare nelle casse delle banche 2,4 miliardi. Sono le stesse banche che non ricorrono al mercato monetario estero proprio perché sono pieni di liquidità da parte dei correntisti.
Ci vorrebbe qualcuno che mobilitasse questo enorme risparmio a fini interni, magari sotto forma di fondo per il debito e/o per l’edilizia. Sarebbero motori potenti.
Guido Salerno Aletta. anni fa, propose uno schema simile. Sarebbe il caso che qualcuno lo studiasse. Occorre convincere gli italiani a sottoscrivere titoli di stato “nostri” per non dipendere dalla speculazione internazionale.
A parte gli Usa, in Europa i rendimenti sono negativi, mentre da noi, almeno il Btp, è ancora positivo. Ci guadagnerebbero il risparmiatore e lo Stato italiano. Per far questo occorre smetterla con l'”autorazzismo”. Finanziariamente “siamo” solidi. E il dato di oggi lo dimostra.

giovedì 19 settembre 2019

L’eccezione tedesca e la regola dell’austerità

Ormai i numeri hanno sostituito le previsioni: la Germania è in recessione. L’indebolita locomotiva europea, che si è recentemente assestata su tassi di crescita prossimi allo zero, ha fatto registrare addirittura una riduzione dello 0,1% di PIL nel secondo trimestre del 2019, e di conseguenza si prevede un aumento della disoccupazione che, secondo le stime, passerà dall’attuale 5% al 5,2% nel 2020. Certo, nulla a che vedere con il nostro Paese, in cui crescita zero o negativa sono all’ordine del giorno da ormai un decennio, e dove la disoccupazione si attesta stabilmente attorno al 10%. Tuttavia, questa frenata dell’economia tedesca deve essere vista come il segnale ultimo, sebbene il più lampante, di un modello di politica economica – quello incarnato ed imposto dell’Unione Europea – in cui non c’è spazio alcuno per la crescita unita al progresso sociale.
Da ormai vent’anni la Germania – quel Paese che ci viene sistematicamente proposto come emblema di efficienza, produttività, stabilità, rigore, cultura, eccellenza tecnologica, ed altre mille e una meraviglia – ha scelto di adottare uno specifico schema economico. Il dinamismo tedesco è principalmente dipeso dal ritmo sostenuto delle esportazioni, garantito da una elevata competitività delle proprie merci sui mercati internazionali che si basa, oltre che su vantaggi qualitativi dei beni prodotti, anche e soprattutto sul contenimento dei costi di produzione. In particolare, le imprese tedesche riescono a contenere i costi del lavoro, potendo contare su precarietà e su delocalizzazioni. Questo nefasto modello di crescita, che è integralmente compatibile e connaturato all’attuale architettura dell’Unione Europea, sta avendo delle conseguenze funeste sulle classi subalterne che in Germania – così come in altri Paesi della periferia europea più falcidiati dalla crisi – vedono sempre più assottigliarsi la fetta di prodotto sociale destinata ai redditi da lavoro.
Ribadiamolo: per adottare questo specifico modello di crescita diventa centrale il contenimento dei salari, elemento che permette di moderare la dinamica dei prezzi e quindi di sostenere le esportazioni. Questa strategia, però, ha due evidenti criticità.
La prima è di immediata comprensione: non è possibile estendere questo modello di crescita a tutti i Paesi, specialmente a quelli di un’area fortemente integrata quale l’Eurozona. Non occorre particolare acume per comprendere che non tutti i Paesi del mondo possono vivere simultaneamente di export, dal momento che le esportazioni di qualcuno sono le importazioni di qualcun altro. Tuttavia, questa ricetta è ormai il suggerimento standard dall’Unione Europea, che vede nella svalutazione salariale il miglior meccanismo di aggiustamento degli squilibri commerciali e, in ultimo, il modo più efficace per uscire dalla crisi.
La seconda concerne il disfacimento della domanda interna, che in un contesto di diminuzione dei salari viene erosa dalla caduta dei consumi della classe lavoratrice. Alla compressione salariale la Germania, similmente a tutti i paesi europei, ha abbinato delle politiche fiscali restrittive: nel 2012 Berlino ha raggiunto il pareggio di bilancio, e nei cinque anni successivi ha addirittura accumulato un avanzo, dove con questo si intende che lo Stato ha consistentemente speso meno di quanto ha drenato dall’economia attraverso la tassazione. In altre parole, anche il settore pubblico ha contribuito a frenare la domanda interna, sottraendo risorse all’economia, alimentando la disoccupazione ed esacerbando ulteriormente le pressioni al ribasso sui salari. Tuttavia, fino a che la strategia esportatrice riusciva, il paese poteva contenere i potenziali effetti deleteri sulla crescita di questo mix recessivo. Quando l’export frena, però, come sta accadendo in questo periodo anche a seguito del crollo della domanda estera o delle recenti scorribande commerciali, il contenimento della spesa pubblica rappresenta il corollario di una strategia suicida. Rendendo, tra l’altro, lampante come la questione in gioco non sia tanto una ‘guerra commerciale’ tra Germania ed altri Paesi esportatori, quanto piuttosto uno scontro di classe senza confini geografici.
Questo secondo elemento ci porta al punto più interessante dell’attualità di politica economica. Sta rimbalzando da qualche giorno la notizia per cui Angela Merkel stia valutando un pacchetto di stimolo dell’economia di 50 miliardi di euro. Sì, abbiamo capito bene: l’austera Germania, la rigorosa Cancelliera, quel Governo che si è posto in perfetta continuità con i precedenti esecutivi che hanno introdotto le più feroci riforme del mercato del lavoro, starebbe vagliando l’ipotesi di sostenere l’economia reale attraverso un importante manovra di spesa pubblica. Quanto di più normale e sano suggerirebbe il semplice buon senso: lo Stato che interviene nell’economia (specialmente se questa è in difficoltà e pertanto dilagano povertà e disoccupazione) per garantire crescita e lavoro. Un tentativo, quello che pare stia per fare la Germania, di riattivare, seppur minimamente, una domanda interna falcidiata da decadi di austerità fiscale e salariale. Il tutto, in barba agli spauracchi dello spread e del debito.
Ed è qui che emergono tuttavia i due elementi cruciali che rendono l’apparente giravolta tedesca non solo effimera ma del tutto compatibile con l’ordine gerarchico e classista europeo. In primo luogo, è evidente come il governo tedesco non stia elaborando un ripensamento della politica economica in chiave espansiva di carattere strutturale ma un intervento emergenziale orientato a sostenere i volumi di vendita delle imprese, in una fase di calo della domanda estera. Non appena quest’ultima dovesse risalire e la strategia di crescita trainata dalle esportazioni tornare a funzionare, tornerà anche l’austerità e il contenimento della domanda interna e dei salari, a tutto beneficio dei capitalisti tedeschi. In secondo luogo, mentre questo barlume di temporaneo “buon senso keynesiano” viene annunciato con disinvoltura in Germania, nei paesi della periferia europea si discute al massimo sugli zero virgola di deficit, contrattando il peso più o meno recessivo che le imminenti manovre fiscali devono avere in ossequioso rispetto dell’austerità.
A nulla vale, del resto, l’argomentazione per cui la Germania potrebbe permettersi un po’ di cuccagna in deficit in quanto paese virtuoso, con un basso livello del rapporto debito/PIL e politiche di avanzo conseguite negli anni più recenti. Il ragionamento è del tutto fallace per almeno due motivi. Anzitutto, la Germania non è il solo paese ad avere un debito contenuto. Ad altri paesi con livelli di debito/PIL relativamente bassi, come la Spagna, non è stata certo accordata la stessa libertà di bilancio. Ma, al di là di questo, il vero punto rilevante è che sono proprio quelle presunte politiche “virtuose” di contenimento della spesa e del debito, prerequisito retorico per poter di tanto in tanto aspirare a rompere le regole di bilancio per un po’, la causa della recessione economica, la stessa crisi che si afferma poi di voler combattere con un ricorso straordinario al deficit. Che senso logico avrebbe concedere uno strappo alla regola dell’austerità ai cosiddetti virtuosi se proprio quelle virtù sono la causa madre della crisi economica? Oppure, vista in termini opposti: che senso logico avrebbe imporre austerità di bilancio ad oltranza ai paesi considerati viziosi promettendo flessibilità solo a seguito del rispetto di una condotta di politica economica che è alla base della continua recessione? Insomma: si impone la recessione come prerequisito per dotarsi degli strumenti per risolverla. Se non fosse tragico, sembrerebbe il copione di una straordinaria commedia dell’arte degli equivoci.
La verità, purtroppo, è un’altra e risiede, oltre ogni tecnicismo, nel fine eminentemente politico degli strumenti di politica economica che il quadro istituzionale e politico europeo permette o non permette di usare. Oltre ogni apparente ideologia o teoria di supporto, ciò che davvero emerge è che una politica di bilancio espansiva può essere annunciata e consentita ad un paese forte e che tiene le redini del processo di integrazione europea, senza che ciò susciti alcuno scandalo, solo e soltanto nella misura in cui ciò consente un rafforzamento della classe capitalistica in una fase di recessione economica. Con buona pace della furia ideologica anti-keynesiana ed antistatalista della commissione europea. La prova ennesima di come gli spazi di flessibilità politica da poter davvero usare a vantaggio delle classi subalterne sono solo e soltanto il risultato dei rapporti di forza e di potere. Rapporti che possono divenire più favorevoli solo come esito del riaccendersi del conflitto politico e sociale.

mercoledì 18 settembre 2019

Israele. Netanyahu avanti, ma a decidere il nuovo governo sarà il falco Lieberman

Nelle elezioni israeliane si conferma il testa a testa fra Nethanyau, leader del Likud e Benny Gantz, fondatore del nuovo partito Blu-Bianco. Ma sarà il partito di destra dell’ex ministro della Difesa Avigdor Lieberman accreditato di una decina di seggi a fare l’ ago della bilancia.
Al momento il Likud di Nethanyau è intorno al 29% mentre il Blu-Bianco di Gantz al 24%. Complessivamente però le attuali opposizioni di a Nethanyau avrebbero  59 seggi contro i  53 di Likud e i suoi potenziali alleati di destra, tra cui  gli oltranzisti partiti religiosi. Da qui la centralità della scelta di Lieberman e dei suoi eletti.
Il leader del partito centrista Blu- Bianco Benny Gantz si è dichiarato pronto a raccogliere l’invito al confronto per un governo di coalizione in Israele lanciato dall’ex ministro Avigdor Lieberman, fondatore e leader del partito di destra Israel Beytenu, la cui decina di seggi alla Knesset accreditati dagli exit pool appaiono determinanti per la formazione di un governo a fronte della sostanziale parità fra il Likud del premier uscente Benjamin Netanyahu e il partito del generale Gantz.
La Lista unita araba ottiene un notevole successo, con 11-13 seggi. Crollano invece i laburisti di Amir Peretz ai quali vengono attribuiti 5-6 seggi. La lista di estrema destra Otzmà Yehudit non è riuscita ad entrare alla Knesset,
E’ impressionante verificare come in Israele l’offerta politica sia ormai quasi completamente in mano alla destra ed a formazioni oltranziste nel rapporto con i palestinesi.
Netanyahu ha puntato tutto sul rinnovo del suo incarico come premier perchè questo gli assicurerebbe l’immunità a fronte delle inchieste giudiziarie per corruzione che pendono sulla sua testa.
Alla vigilia delle elezioni in molti si erano detti preoccupati dell’escalation annessionista annunciata da Netanyahu sulla Cisgiordania, ma l’aria che tira in giro non è molto dissimile. Si attendono i risultati definitivi e le scelte che verranno fatte sulla formazione del nuovo governo che comunque non annuncia niente di buono

martedì 17 settembre 2019

Italia. Paradiso degli industriali, inferno dei lavoratori

Oggi l’Istat comunica il dato dell’inflazione in Italia ad agosto. A livello annuale era previsto a 0.5%, il dato reale è 0.4%. L’inflazione in Germania è pari all’1,7%. A partire da questi dati possiamo fare delle considerazioni.
Come scritto dall’economista Salerno Aletta su Milano Finanza on line, e pubblicato dal nostro sito ieri, i salari in Germania sono cresciuti del 4.8%.
L’ultimo dato Istat sulle retribuzioni in Italia è di giugno e lo colloca allo 0.7%. Abbiamo già informato che nel periodo 2015.2018, secondo l’economista Marco Fortis, la produttività del lavoro in Germania è cresciuta del 7.1%, in Italia del 9.1%.
Possiamo trarre delle conclusioni  in questi dati. In pochi anni gli industriali italiani hanno recuperato sugli industriali tedeschi, dunque sul mercato europeo e mondiale, 7.4 di punti percentuali in competitività. Tant’è che a differenza della Germania, l’export, seppur di poco, 3.1%, sta crescendo in questo anno.
Ciò si traduce in uno spettacolare aumento degli utili per le aziende export oriented mentre, data la deflazione salariale sottostante, le imprese del mercato interno soffrono molto.
E’ il modello tedesco che abbiamo adottato, in particolare con il governo Renzi, attraverso lo Jobs Act (e le precedenti “riforme del marcato del lavoro”).
Ci sono da aggiungere altre due questioni. Il differenziale inflazionistico è positivo dal 2013 per l’Italia in confronto alla Germania; dunque in 6 anni vi è stato un recupero della competitività di prezzo, almeno nel manifatturiero, di circa 10.12 punti percentuali. Tutto a guadagno degli industriali.
Non solo. Con il governo Renzi ci fu un regalo di circa 20 miliardi agli industriali che assumevano mentre, con Industria 4.0, lo Stato ha versato 22 miliardi per l’ammodernamento degli impianti – visto come innovazione di processo, e non di prodotto – di cui gli industriali italiani fanno volentieri a meno, basando tutto sulla deflazione salariale.
L’innovazione tecnologica che si sta facendo in Asia e in Usa, spiazza però in futuro gli industriali italiani.
E qui veniamo a Salvini. Autonomia differenziata, decreto sicurezza, flat tax, presidenzialismo e ode a Margaret Thatcher, nemica giurata dei lavoratori inglesi, fanno capire che la Lega ha intenzione nei prossimi anni non solo di svuotare il sud favorendo l’emigrazione per rimpiazzare i lavoratori che vanno in pensione, ma vuole il controllo assoluto della forza lavoro nelle fabbriche del Nord, molte delle quali composte da operai meridionali (negli ultimi 15 anni sono emigrati dal sud 2 milioni di persone) e gli immigrati.
Puntano. dopo decenni, ancora sulla deflazione salariale e sul pluslavoro assoluto, mediante la corrosione della competitività di prezzo nei confronti della concorrente Germania, con gli strumenti del  differenziale inflazionistico, la maggiore produttività e la deflazione salariale.
Paradiso degli industriali italiani, inferno dei salariati.

lunedì 16 settembre 2019

Il “Grande Nord” cala la maschera: qui comandiamo noi

Cambiare l’Unione Europea” è impossibile, parola di Jens Weidmann e di tutti i paesi del Grande Nord…
Di solito, i contrasti di vedute tra i vari governatori delle banche cengrali sono sapientemente occultati sotto una melassa di considerazioni prudenziali svolte in linguaggio “tecnico”. Di modo che gli addetti ai lavori capiscano l’antifona, ma non abbiano appigli per trasformare una “considerazione tecnica” in un “attacco politico”.
Questa consuetudine è morta ieri, all’indomani della scontata decisione di Mario Draghi, presidente della Bce in uscita, di riaprire i rubinetti del denaro, nel disperato tentativo di usare ancora una volta la politica monetaria in sostituzione di quelle fiscali, economiche ed industriali (bloccate dalle “regole europee”, ovvero dagli interessi dei gruppi industriali multinazionali di matrice tedesca, olandese e in parte anche francese).
Si sapeva ad esempio che Jens Weidmann, governatore di Bundesbank, non avesse mai apprezzato l’azzeramento dei tassi di interesse, gli acquisti di titoli di Stato e i tassi negativi sui depositi, in atto da anni per volere della Bce “draghiana”. Ma le parole usate stavolta sono veramente off topic per un consumato diplomatico del denaro: “Draghi ha oltrepassato il limite, un pacchetto di tale portata non era necessario”. Di più, ha ritenuto indispensabile “scomunicare” tutta la lunga gestione “accomodante” dell’italiano ex vicepresidente di Goldman Sachs ed ex Governatore della Banca d’Italia: “la decisione di acquistare ancora più titoli di Stato renderà sempre piu’ difficile per la Bce uscire da questa politica. E più a lungo dura, più aumentano gli effetti collaterali e i rischi per la stabilità finanziaria“.
Abbiamo parlato di “Europa schizofrenica”, che da un lato persegue l’austerità (con le decisioni della Commissione e dei vari organismi politici comunitari) e dall’altro “regala denaro a costo zero” (con quelle della Bce). Ed anche la sortita di Weidmann – subito spalleggiato dal suo collega-cagnolino olandese, Klaas Knot, e dalla “stampa popolare di Berlino – apparentemente è da bipolarismo psichiatrico. I tassi zero della Bce, oltre che il quantitative easing (acquisto di titoli di Stato, soprattutto di quelli “sicuri” come i Bund tedeschi e olandesi) permettono ormai da anni ad alcuni paesi – Berlino e Amsterdam in prima fila – di rifinanziare a costo zero il proprio debito pubblico. Anzi, visto che i tassi sono diventati negativi, addirittura guadagnandoci qualcosina.
Di che si lamenta, insomma, mister Weidmann?
Quello che va bene agli Stati, però, non va bene per le banche private (tutte con solida base nazionale, o addirittura regionale come il sistema delle Landesbanken tedesche). Se il rifinanziamento del debito pubblico avviene con vantaggio del debitore (lo Stato), ci rimette il creditore (le banche private, che sono i primi acquirenti dei titoli di Stato). Ed è di queste che Weidmann si preoccupa. A partire da quella Deutsche Bank che ormai è un cadavere che cammina e di cui nessuno osa dichiarare la morte perché “troppo grande per fallire”.
Eppure anche Weidmann sa, certamente meglio di noi, che banche come DB sono in quelle condizioni per aver speculato troppo sui “prodotti derivati” e altri “titoli tossici”, ritrovandosi con la cassaforte piena di carta straccia invendibile, i bilanci in profondo rosso e il valore azionario sceso da 100 a uno.
Lo sa, ma vorrebbe aiutarle a risollevare quei bilanci (privati tedeschi) a scapito degli altri Stati (tenendo alto lo spread, che invece ora è precipitato), ma anche risucchiando il risparmio privato depositato presso altre banche di altri paesi, magari allungando le mani anche su un vasto patrimonio immobiliare opportunamente svalorizzato e reso perciò appetibile a prezzi bassi, se non proprio stracciati.
Non che Weidmann e Knot abbiano del tutto torto, però (sul piano delle teorie macroeconomiche neoliberiste, almeno). Quando il secondo critica le scelte di Draghi (“Questo ampio pacchetto di misure, e in particolare il riavvio del programma di acquisti è sproporzionato in relazione alla situazione economica attuale e ci sono buone ragioni per dubitare della sua efficacia“) mette il dito su un fatto reale: anni di politiche monetarie accomodanti non hanno comunque fatto ripartire l’economia reale del Vecchio Continente. Dunque insistere su questa strada è inutile, nel migliore dei casi; dannoso, se – come avviene da tempo – i tassi negativi rendono il denaro “qualcosa che non rende” e che anzi si svaluta nel tempo.
Schizofrenia, o meglio contraddizione tra affermazioni egualmente vere (le politiche accomodanti hanno evitato l’esplosione del sistema finanziario, dunque anche dell’economia reale; ma non servono a far ripartire l’accumulazione e creano problemi altrettanto gravi sul lungo periodo).
Il punto di possibile “soluzione” viene indicato ovviamente fuori dalle politiche monetarie, e precisamente negli investimenti, da tempo fermi a livelli da depressione. Ma chi è che può fare investimenti se il principale soggetto – le imprese private – non sono disposte a farli?
Non è una situazione nuova, anzi sfiora il secolo: se “il cavallo non beve” (se le imprese non investono, pur avendo a disposizione liquidità in eccesso e ampia offerta denaro a costo zero) è inutile offrirgli ancora acqua. Deve intervenire qualcun altro, ossia la spesa pubblica (è lo schema classicamente keynesiano, non marxista!).
Ma è proprio questo intervento che viene da almeno tre decenni vietato dalle “regole europee”. O meglio: che viene vietato ai paesi con debito e deficit pubblico “eccessivo”, secondo i parametri di Maastricht che persino Prodi definì “stupidi” (perché stabiliti senza alcuna base seria scientifica o almeno empirica).
Ci sono paesi, nell’Unione Europea, che invece hanno basso debito e deficit pubblico e qundi potrebbe investire? Certamente: ce ne sono che hanno stabilmente da oltre venti anni un surplus, anzicheè un deficit. Come è ovvio che sia in un mercato comune: se qualcuno perde, qualcun altro guadagna.
Sono proprio Germania e Olanda, oltre a Finlandia e qualche micro-area baltica (come la Lituania del super-falco nonché vicepresidente della Commissione con delega all’economia, Valdis Dombrovskis).
Il cerchio si chiude e la “schizofrenia” si rivela per quel che è: conflitto di interessi tra paesi e aree economiche differenti, alcune depresse dai trattati europei ed altre invece avvantaggiate. Le sparate contro Draghi preparano l'”ambiente” in cui agirà la successora, Christine Lagarde, di cui è ampiamente nota la “sensibilità” se non addirittura il servilismo verso chi è più forte (celebre una sua lettera in cui si dichiarava “a disposizione” di Nocolas Sarkozy), e quindi la fine delle “politiche monetarie non convenzionali”, ristabilendo l’ordine teutonico e l’austerità integralista. In cui, ma solo per contrastare la propria recessione, soltanto “chi ha margini di bilancio” potrà “fare investimenti pubblici”.
Si possono “cambiare le regole” con reciproco vantaggio, stando così le cose?
Fatevi una domanda e datevi una risposta. Ma prima, se proprio non vi va di fare ragionamenti economici e ravvisare gli interessi di classe nascosti sotto quelli “nazionali” o “razionali”, almeno guardate in faccia mr. Jens Weidmann…

venerdì 13 settembre 2019

L’Unione Europea degli schizofrenici

Una malattia grave si vede dai sintomi contraddittori, che rendono aleatoria qualsiasi terapia. L’Unione Europea, in questi primi giorni della nuova Commissione (il “governo”) presieduta da Ursula Von der Leyen, presenta il solito volto “rigorista” e “austero”. Mentre, tutti i soggetti che contano (“i mercati”) sperano che domani la Banca centrale europea – agli ultimi giorni di Mario Draghi – tiri un colpo di bazooka “ultra-accomodante”, varando una nuova stagione di quantitative easing, taglio ulteriore dei tassi sui depositi, ecc.
Se il paziente fosse furbo, si farebbe qualche domanda perché, se un medico consiglia il digiuno e un altro un po’ di bulimia, vuol dire stai messo proprio male e ti danno ricette a vanvera.
Partiamo dalle cose certe. Agli affari economici europei, com’è noto, è stato messo l’ultimo presidente del consiglio piddino, Paolo Gentiloni, in sostituzione del francese Pierre Moscovici, che tante volte ci ha bacchettato per non aver rispettato questo o quel parametro. Ma siccome quel ruolo permette di valutare se le manovre di aggiustamento dei vari paesi, i “rigoristi” del nord Europa hanno preteso ed ottenuto che questo Commissario fosse a sua volta commissariato. In particolare dal fisico lituano Valdis Dombrovskis, dalle competenze economiche sconosciute, noto per la assoluta indisponibilità a concedere “flessibilità” sulle leggi di stabilità nazionali, nominato vice-presidente con competenza sull’economia.
L’intento politico è insomma chiaro, ed esplicitato anche dalla neo presidente Von de Leyen: “Abbiamo un Patto di stabilità e crescita che è stato sviluppato con un largo consenso. Vogliamo un’economia forte e un’Unione europea forte: le regole sono chiare, i limiti sono chiari e la flessibilità è chiara. All’interno di queste regole affronteremo le diverse opzioni e i diversi problemi“. Insomma, a Gentiloni non sarà concesso di fare sconti particolari, in specifico riguardo all’Italia, visto che “dovrà collaborare moltissimo con Valdis Dombrovskis e tutte le decisioni saranno prese dal collegio dei commissari“. Ancora un passo e quella carica sarebbe da considerarsi puramente onorifica…
Anzi la stessa Von der Leyen ha voluto precisare che al ministero dell’economia italiano è stato messo non per caso Roberto Gualtieri (del Pd, ma con una carriera a Bruxelles): “viene dal Parlamento europeo, conosce perfettamente il patto di stabilità e sa esattamente quali sono le regole che abbiamo stabilito in Europa. Gualtieri sa cosa ci aspettiamo nella prossima legge di stabilita’“. Insomma, siamo stati “commissariati” a tutti I livelli, con un “europeo” al ministero nazionale più importante e un “ostaggio” in quello continentale.
Una blindatura che non lascia molto spazio ai sogni e ai bisogni urgenti, come quello di “modificare i trattati” sul patto di stabilità, come ribadito dal premier Conte e dal presidente Mattarella. Il bisogno è ormai avvertito anche dalla Germania, che si ritrova con un modello in crisi, quello export oriented, fondato sui bassi salari e la precarietà contrattuale. Ma cambiare i trattati è più difficile che firmarne di nuovi, non solo perché occorre l’unanimità, ma soprattutto perché quelli in essere sono fortemente asimmetrici rispetto ai singoli paesi. C’è chi ci perde e vorrebbe perciò riscriverli, e chi guadagna, e non ci pensa proprio.
Il massimo cui puntano gli osservatori è non considerare più il deficit strutturale come l’unico o principale parametro per valutare eventuali procedure di infrazione. Un modo insomma per allargare le maglie della “flessibilità” concedibile ai vari governi, senza però toccare la struttura dei trattati. Un modo democristiano, se volete, che distingue tra intangibilità delle regole di austerità e gestione “aumma aumma”, sulla base delle opportunità politiche.
Tutto l’opposto si pretende dalla Bce, teoricamente istituzione tecnica sganciata dalla politica. Le attese per domani sono sono così elevate che in molti, a partire dal vicepresidente De Guindos, appaiono preoccupati per una possibile “delusione dei mercati” davanti a misure meno audaci di quelle immaginate.
E di immaginazione ne gira parecchia, se persino l’austero Sole24Ore è obbligato a citare investitori che si attendono “il denaro dagli elicotteri”, addirittura nella forma di “soldi della Bce direttamente nei conti correnti dei cittadini europei”, per almeno 200 euro a testa. Una sorta di “reddito di cittadinanza” fondato sulla possibilità di “stampare soldi”, ma di difficile realizzazione pratica (e paradossalmente non vietato dalle regole statutarie!) e immense difficoltà politiche (a quale titolo i governi dovrebbero invece tagliare la spesa sociale per stare dentro I trattati?).
La schizofrenia è ancora più evidente se si tiene conto che tutti sono consapevoli del fatto che “la politica monetaria ha dei limiti”, che sono stati anche abbondantemente raggiunti. Anche Gentiloni, nel suo discorso di accettazione della carica di Commissario, lo ha ricordato.
Del resto, dopo anni di tassi di interesse a zero e di quantitative easing illimitato, l’unico effetto positivo è che la situazione non è precipitata. Ma di “ripresa” neanche l’ombra. Oltretutto, una simile politica monetaria ha creato “paradossi” assurdi per una economia capitalistica (e non), tipo i tassi negativi su titoli di Stato e addirittura mutui immobiliari, e quindi una situazione in cui “il denaro non rende”.
L’uscente Draghi, e ancora peggio l’impresentabile Christine Lagarde, designata sua successore, non può dunque fare molto di più che prolungare l’agonia di un “cavallo che non beve” (quando I soldi per gli investimenti produttivi ci sarebbero, ma nessuno si prende il rischio di usarli).
E, paradosso per paradosso, gli stessi che chiedono “soldi dagli elicotteri” per far crescere una domanda interna che compensi il crollo delle esportazioni, si guardano bene dall’indicare la via maestra: aumentare i salari.
E’ un problema di interessi di classe, non di “scienza economica”.

giovedì 12 settembre 2019

.Il fascista che si appella alla democrazia

Spettacolari, i fascisti italiani. Nel senso che lo spettacolo è impareggiabile: salti mortali, carpiati e piroette. Testacoda e salti di corsia, capottamenti, inversioni a U e altre mirabolanti gesta, come per esempio urlare in piazza Montecitorio col braccio teso nel saluto romano, indifferentemente “Duce-Duce” e subito dopo “Elezioni!-Elezioni!”. Il fascista che si appella alla democrazia fa molto ridere, è come il rapinatore che chiama il 113.
Poi, nella bolgia della piazza boia-chi-molla è calata la notizia che a mollarli è stato Facebook, oscurando le pagine di alcuni gerarchetti di Forza Nuova e Casa Pound, e lì è scattato il pandemonio. Lo spettacolo dei fascisti che urlano “fascista” a qualcun altro è delizioso, un contrappasso esilarante, la storiella del bue che dà del cornuto all’asino, in confronto, era roba da dilettanti. Così, eccoli precipitarsi su un social network che non li ha (ancora?) oscurati, Twitter, e lì fioccano le perle, come quella di Simone Di Stefano, Obergruppenführer di Casa Pound che sostiene che Facebook “si configura come un servizio pubblico” visto che ci sono moltissimi italiani iscritti. Un po’ come dire che siccome negli anni Sessanta tutti avevano una Fiat, allora la Fiat era di tutti. Invece no: Facebook è un’azienda privata, ha un suo regolamento, quando vi si accede si accettano le sue regole, e ogni tanto le applica pure.
Diciamolo: è un peccato.
E’ un peccato che un azienda privata faccia quello che lo Stato avrebbe dovuto fare da anni, da decenni. Perché sembrerà strano, ma anche la Repubblica Italiana, come Facebook, ha le sue regole, che sono scritte nella Costituzione (XII disposizione finale: “E’ vietata la ricostituzione del partito fascista in ogni sua forma”) e in qualche legge scarsamente applicata (la legge Scelba, la legge Mancino). Insomma, duole constatare che un’azienda privata è arrivata prima dello Stato, che è stata più efficiente e meno timorosa.
Detto questo, cioè che la Repubblica Italiana doveva fare da tempo quello che la ditta di Zuckerberg ha fatto l’altro ieri, rimane sospeso nell’aria un certo sentore di corto circuito. Riassumiamo a grandi linee: i nostri nonni, dopo l’immane disastro e i milioni di morti regalatici dal puzzone mascelluto, hanno cacciato il fascismo a colpi di schioppo. Poi hanno fondato una Repubblica. Poi hanno scritto una Costituzione. Poi hanno fatto delle leggi perché i fascisti non potessero fare apologia di quel disastroso crimine. E poi però, per cacciare i fascisti dal dibattito pubblico e impedirgli la diffusione di odio etnico e razziale, è dovuto intervenire un multimiliardario americano inventore dei “like”.
Difficile non sentire la nota stonata, la campana fessa.
Infatti l’azienda, in un comunicato, ha spiegato la sua decisione appellandosi alle regole che gli utenti dovrebbero conoscere, e ha sottolineato che alla base della decisione “non ci sono motivi ideologici”. E questo è un altro peccato, è come dire che se un fascista inneggiasse alla dittatura, al boia-chi-molla, al me-ne-frego, con parole gentili andrebbe tutto bene. Invece no. Si dimostra che le regole dello Stato sono migliori e più rigide di quelle di Facebook (bene), ma che lo Stato non le applica e invece Facebook sì (male), e questo mette un po’ di tristezza. Del resto, si sa (leggere il prospetto illustrativo) che quando metti qualcosa sul più grande social network del mondo, la proprietà intellettuale di quello che pubblichi diventa sua, che siano gattini, foto di nipotini o virili appelli a otto milioni di baionette. Forse qualcuno dovrebbe spiegarlo ai nazionalisti, sovranisti, suprematisti, che i loro frementi prima-gli-italiani sono stati regalati a un algoritmo made in Usa il quale, come da regolamento, può farne ciò che vuole, anche mandarli al confino quando gli pare.