Al Senato è in discussione un disegno di legge,
di iniziativa del Movimento 5 Stelle e a prima firma della senatrice
Nunzia Catalfo, che mira ad introdurre un salario minimo orario in
Italia, uno dei pochi paesi europei ancora sprovvisti di una legge che
fissi una soglia minima alle retribuzioni. Secondo i promotori, il
disegno di legge darebbe piena attuazione all’articolo 36 della
Costituzione, che stabilisce che ciascun lavoratore ha diritto a una
«retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in
ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza
libera e dignitosa».
Il
disegno di legge è suscettibile di essere modificato anche radicalmente
attraverso gli emendamenti che già sono stati o saranno proposti dai
parlamentari. Nonostante ciò, è interessante analizzare la discussione
nata attorno alla proposta Catalfo, i vantaggi che potrebbero derivare
dall’introduzione di un simile istituto nel nostro Paese e le eventuali
insidie per i lavoratori che questo disegno di legge nasconde.
Ma cosa prevede questa proposta? In estrema sintesi, in base al dettato del disegno di legge (articolo 2), affinché si possa parlare di retribuzione complessiva proporzionata e sufficiente, il trattamento economico complessivo,
proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato, non deve
essere inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale in
vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le
prestazioni, il cui ambito di applicazione sia maggiormente connesso e
obiettivamente vicino in senso qualitativo all’attività svolta dai
lavoratori anche in maniera prevalente e comunque non inferiore a 9 euro all’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali.
Questa
definizione, così come i rimanenti articoli del disegno di legge,
presenta dei punti discutibili. Da un lato, la proposta depositata al
Senato sembra offrire preziose sponde che potrebbero rivelarsi utili per
conquistare maggiori tutele per i lavoratori, in particolare con
riferimento ai cosiddetti ‘lavoratori poveri’, ossia quelli
caratterizzati dai salari più bassi.
Tuttavia,
la vaghezza di alcuni punti del disegno di legge, unitamente al fatto
che in esito al dibattito in corso al Senato la proposta attuale
potrebbe essere sostanzialmente modificata, ci porta a guardare con
attenzione anche alle possibili insidie del provvedimento: non ci si può
fidare ciecamente di un partito, il Movimento 5 Stelle, che ha
sistematicamente voltato le spalle ai lavorato risulle questioni fondamentali, dalla Legge Finanziaria, che doveva abolire la povertà e invece ha inflitto ulteriori dosi di austerità all’economia italiana, alle più piccole ma significative battaglie intorno al Decreto Dignità, che ha tradito i riders, esclusi da un provvedimento sorto a partire dalle loro rivendicazioni, e che sembra disegnato in modo tale da poter essere aggirato, come dimostra il recente contratto collettivo nazionale dei lavoratori del cemento.
Il salario minimo orario: un concetto che spaventa il capitale
È
interessante, però, in primo luogo, concentrarci sulle reazioni
scandalizzate che questo disegno di legge ha suscitato e continua a
suscitare tra economisti, giuslavoristi, politici e imprenditori.
Naturalmente, i soggetti elencati sostengono tutti di essere preoccupati
per le conseguenze negative che la legge sul salario minimo potrebbe
avere sul sistema produttivo italiano e per le ricadute che esso
comporterebbe sull’occupazione. La realtà, però, è ben diversa.
A
preoccuparsi per quel che potrebbe succedere se fosse approvata la
legge sul salario minimo è, in primo luogo, un economista del lavoro
dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico),
Andrea Garnero. Durante un’audizione alla Camera,
Garnero ha sottolineato che uno dei principali “problemi” del disegno
di legge Catalfo risiede nel fatto che il salario minimo orario lordo
complessivo fissato a 9 euro sarebbe troppo alto, addirittura «il più elevato tra i Paesi Ocse» e più alto «anche della maggioranza dei contratti collettivi esistenti».
Non poteva mancare, tra le voci critiche, l’economista ed ex presidente dell’INPS, Tito Boeri. Anche per lui, e non poteva essere altrimenti,
bisogna stare attenti a non imporre un livello troppo alto del salario
minimo. La ragione è presto spiegata: secondo Boeri, «l’elasticità della
domanda di lavoro al salario fissato dalla contrattazione è molto
elevata: […] con un 10% di aumento del salario, l’occupazione si riduce
del 10 per cento. E chi perde il lavoro in questi casi sono i giovani,
le donne e i lavoratori precari, le fasce meno protette. Bene quindi che
la politica smetta di sparare numeri a caso». In pratica Boeri ci dice
che un aumento del salario dei lavoratori più poveri costringerebbe le
imprese a licenziarne una parte: i lavoratori poveri, insomma, devono
restare tali perché altrimenti diventano troppo costosi per le aziende.
Alle critiche al salario minimo orario si associa anche il centrosinistra. A distinguersi è Cesare Damiano,
ex Ministro del lavoro ed ex deputato del PD. Anche per lui,
naturalmente, il problema principale sta nel fatto che il salario minimo
a 9 euro è decisamente troppo elevato.
Le conseguenze, dal suo punto di vista, potrebbero essere disastrose.
Non solo potrebbe essere minato il ruolo della contrattazione
collettiva, ma, addirittura, si rischia di «indurre i lavoratori delle
categorie più alte a rivendicare aumenti salariali tali da ripristinare
le distanze parametrali originali». Una corsa al rialzo dei salari:
l’apocalisse, in pratica.
Manco a dirlo, a fare eco a Damiano ci pensa Confindustria. L’organizzazione padronale si dice fortemente preoccupata per il «vulnusall’autonomia
negoziale collettiva». Certo, ci sarebbe una leggerissima
preoccupazione anche per l’aumento dei costi che ne deriverebbe, ma
naturalmente questo è un problema residuale. Che interesse avrebbe
Confindustria a osteggiare un aumento dei salari?
Ma a schierarsi contro la legge sul salario minimo, nonostante le recenti aperture,
che avevano fatto pensare a una rapida approvazione del disegno di
legge, è addirittura l’alleato di governo dei Cinque Stelle, ovvero la
Lega. E lo fa per bocca del viceministro dell’Economia Massimo Garavaglia, che si dice preoccupato in quanto «l’unica cosa che non si può fare in questo momento è aumentare i costi alleaziende»
e invita, in sostanza, a rinunciare a una misura che, ancora sue
testuali parole, «è stata bocciata da tutto il mondo economico».
Da
questa breve carrellata si trae, dunque, l’impressione che la proposta
Catalfo sia osteggiata da un variopinto carosello di personaggi
ragionevoli e rispettabili, per ragioni prettamente umanitarie. Eppure,
il sospetto che alcuni di questi venerabili pensatori e statisti abbiano
interessi diretti affinché i salari restino quelli che sono potrebbe
emergere.
È
il caso, ad esempio, di Confindustria. È chiaro che l’organizzazione
dei padroni ha tutto l’interesse a osteggiare un aumento dei salari
reali, per evitare una riduzione dei margini di profitto per i suoi
iscritti. Allo stesso modo, non ci può sorprende la posizione di
Garavaglia, il quale rappresenta un partito, la Lega, che ha come classe
di riferimento l’imprenditoria settentrionale, la quale, per le stesse
ragioni di Confindustria, non può non vedere come fumo negli occhi un
aumento dei salari reali.
Altrettanto
comprensibili diventano, dunque, le lagnanze dell’OCSE, che è una delle
tante organizzazioni internazionali che ha sempre raccomandato
l’adozione di quelle politiche neoliberiste che hanno comportato la
precarizzazione del lavoro, la progressiva riduzione delle tutele e un
deciso rallentamento nella crescita dei salari, a tutto vantaggio dei
profitti dei capitalisti. Come potremmo, inoltre, non notare la coerenza
del PD? Il partito al quale appartiene Cesare Damiano non fa altro che
continuare a svolgere il ruolo di solerte esecutore materiale dei
provvedimenti imposti dalle istituzioni finanziarie internazionali e
dall’Unione Europea.
Va,
peraltro, sottolineato che non solo i soggetti che abbiamo elencato
lavorano alacremente per garantire che lo sfruttamento dei lavoratori
continui senza soluzione di continuità, ma le argomentazioni che i
figuri in questione utilizzano sono tutt’altro che scientifiche. L’idea
che un aumento dei salari possa portare a una riduzione della quantità
di lavoratori che le imprese sono disposte ad assumere poggia sulla
credenza che il numero di lavoratori che le imprese assumono sia tanto
minore quanto maggiore è il salario reale.
In
altri termini, ogni aumento del salario reale comporterebbe una
riduzione del numero dei lavoratori impiegati dagli imprenditori, in
quanto questi ultimi, ad esempio, preferirebbero utilizzare tecniche di
produzione che utilizzano più macchine e meno lavoratori. Che il
comportamento delle imprese sia questo non è iscritto nelle tavole della
Legge. L’idea che vi sia un’elevata sostituibilità tra lavoratori e
macchine è ritenuta, da molti economisti, infondata teoricamente ed
empiricamente.
Non
viviamo, però, nel mondo degli unicorni. Ci sono certamente dei casi in
cui un aumento dei salari reali può provocare una riduzione nel numero
di occupati. Uno di questi casi è quello in cui gli imprenditori sono
liberi di spostare i capitali laddove i salari sono più bassi. È il caso
in cui, in breve, le imprese sono libere di delocalizzare:
nessuna sostituzione tra lavoratori costosi e macchine convenienti, ma
una semplice sostituzione tra lavoratori pagati degnamente e lavoratori
pagati indegnamente. In questo caso, è certamente vero che un aumento
dei salari può portare a una fuga di capitali. Esistono, però, diverse
alternative alla resa delle classi subalterne al ricatto occupazionale,
che impone ai lavoratori di accettare condizioni di lavoro sempre
peggiori se vogliono mantenere il proprio posto di lavoro.
Una
di queste alternative consiste nel lottare contro le politiche di
liberalizzazione dei movimenti di capitale e contro le politiche
neoliberiste che hanno reso i lavoratori sempre più ricattabili, in
quanto eternamente precari. Ancora, l’alternativa è quella di perseguire
la piena occupazione attraverso la spesa pubblica finanziata in
deficit. Per farlo, però, è necessario liberarsi dell’austerità e dei
vincoli iscritti in maniera indelebile nei trattati che regolano il
funzionamento dell’Unione Europea e della zona euro.
Non
è l’aumento del salario in sé, quindi, a causare una riduzione
dell’occupazione. Sono le regole istituzionali, alle quali molti stati
europei hanno felicemente aderito, a creare le condizioni affinché i
lavoratori debbano scegliere se essere lavoratori poveri o semplicemente
disoccupati. Se vogliamo davverorimettere
al centro la dignità e il miglioramento delle condizioni di vita dei
lavoratori, dobbiamo liberarci di queste regole per perseguire la piena
occupazione e l’aumento dei salari.
Verso una legge sul salario minimo: le possibili insidie
L’idea
di fissare un salario minimo, dunque, è tutt’altro che sbagliata. Sono
tante però le insidie che si nascondono nel lungo percorso che ci separa
dall’attuale formulazione della proposta Catalfo, vaga su molti punti
chiave, alla sua concreta realizzazione.
In
primo luogo, la legge non può limitarsi a fissare il salario minimo a 9
euro lordi. Se l’obiettivo è quello di migliorare le condizioni di vita
dei lavoratori non si può, ad esempio, non prevedere un meccanismo di indicizzazione del
salario minimo all’andamento dei prezzi. In altri termini, bisogna
prevedere che se ogni anno i prezzi aumentano (ad esempio) del 2 per
cento, anche il salario minimo deve aumentare del 2 per cento, per
mantenere costante il potere d’acquisto che con il salario minimo orario
si sostiene di voler garantire. Attualmente, il disegno di legge M5S
all’esame del Senato prevede una forma di indicizzazione soltanto nel
caso previsto dall’articolo 4, nel quale si regolamentano i casi in cui
manchino i contratti collettivi applicabili previsti nella definizione
di salario minimo dell’articolo 2.
Altro argomento delicato è quello dei cosiddetti minimi tabellari.
Il minimo tabellare (detto anche “paga base”) rappresenta il compenso
minimo spettante al lavoratore dipendente in base al contratto
collettivo di categoria applicabile e all’inquadramento del lavoratore. I
minimi tabellari sono aggiornati periodicamente e vengono riconosciuti a
tutti i lavoratori ai quali viene applicato un certo contratto
collettivo nazionale.
La
paga base, come suggerisce la locuzione, costituisce, però, soltanto
una parte della retribuzione del lavoratore. Vi sono altri elementi,
detti accessori ed integrativi, come i cosiddetti superminimi (una parte
ulteriore della retribuzione, che può essere stabilita dai contratti
collettivi aziendali oppure erogato alla singola persona, anche tramite i
contratti individuali, in considerazione di particolari meriti del
lavoratore) e gli scatti di anzianità (aumenti periodici della
retribuzione stabiliti nel contratto applicabile). Tra gli elementi
accessori vi sono anche gli straordinari, i bonus aziendali, le
gratifiche ordinarie (come la tredicesima) e straordinarie (come la
quattordicesima), le indennità (quali quella di rischio o di
reperibilità), il compenso previsto per le ferie e le festività non
godute. La retribuzione lorda base e quella accessoria formano la
retribuzione lorda complessiva.
Da
questa breve elencazione degli elementi del salario, emerge dunque che
una cosa è far riferimento a un minimo tabellare pari a 9 euro lordi
l’ora, un’altra cosa (ben diversa) è parlare di una retribuzione
complessiva lorda pari a 9 euro l’ora. Dev’essere dunque ben chiaro che i
9 euro lordi orari devono essere riferiti alla paga base. Se il salario
minimo orario fosse riferito alla retribuzione complessiva (come effettivamente è nella formulazione attuale),
in molti casi esso sarebbe quantomeno inefficace, perché sarebbe al di
sotto della retribuzione complessiva oraria lorda già percepita da molti
lavoratori.
Si sta inoltre discutendo del perimetro di applicazione del
salario minimo orario, ed in particolare dell’ipotesi di escludere
dall’applicazione di quella soglia determinate categorie di lavoratori,
dai collaboratori domestici ai lavoratori agricoli, da giovani under 30
ai dipendenti degli artigiani. È evidente che maggiori sono le
categorie escluse dall’applicazione del salario minimo, minore sarà
l’effetto positivo che questa misura ha sulla condizione di vita dei
lavoratori poveri, una condizione che caratterizza in particolare
proprio il settore agricolo e i lavoratori più giovani.
In difesa di un argine contro lo sfruttamento
Gli
ultimi quarant’anni hanno visto il potere contrattuale dei lavoratori
ridursi sempre di più. A demolirlo pezzo per pezzo ci hanno pensato,
negli anni ’80, i governi dei Paesi occidentali che hanno applicato alla
lettera quelle politiche neoliberiste particolarmente gradite al
capitale, come la neutralizzazione dei sindacati, la precarizzazione del
mercato del lavoro, la riduzione della spesa pubblica, la demolizione
del welfare: tutti elementi che hanno reso i lavoratori sempre più
ricattabili dagli imprenditori e, dunque, sempre meno forti in sede di
contrattazione delle condizioni di lavoro.
Ad
accelerare il progressivo sgretolamento delle politiche keynesiane a
sostegno della piena occupazione e a sancire l’istituzionalizzazione
della visione economica neoliberista è intervenuto, nel Vecchio
Continente, il processo di integrazione europea. Libertà di movimento dei capitali, tagli alla spesa pubblica, cessione della politica monetaria a un’autorità ‘indipendente’, rinuncia allo strumento di politica economica rappresentato dalla fissazione del tasso di cambioe deregolamentazione del
mercato del lavoro sono entrate non solo nei trattati costitutivi delle
istituzioni europee, ma, in alcuni Paesi e sotto alcuni aspetti, anche
nelle stesse costituzioni dei Paesi membri.
Accade,
però, che in un processo storico apparentemente inesorabile ci siano
dei momenti in cui, per le ragioni più varie, si insinuino degli
elementi che vanno in direzione contraria. Il disegno di legge sul
salario minimo, pur caratterizzato, l’abbiamo visto, da molte possibili
insidie, costituisce un esempio di quanto appena detto. Le ragioni per
le quali, in questo periodo storico, un partito per molti aspetti
complice delle politiche di austerità spinge per un salario minimo sono
svariate: una su tutte consiste nel tentativo di alimentare lo scontro
con gli alleati di governo per recuperare terreno dopo le ultime batoste
elettorali. Quali che siano le cause, però, il nostro compito è quello
di insinuarci nello scontro politico in atto con l’obiettivo di far
emergere quei punti della proposta Catalfo che, se ulteriormente
migliorati, potrebbero produrre un miglioramento nelle condizioni di
vita di milioni di lavoratori.
In
questo senso, una volta che si siano evidenziate tutte le insidie
nascoste nel percorso verso una seria legge sul salario minimo, dobbiamo
chiaramente affermare che un salario minimo orario base (e non complessivo) pari
almeno a 9 euro lordi, applicabile a tutti coloro che attualmente
guadagnano di meno, è una misura che va difesa con le unghie e con i
denti, perché costituisce una crepa, anche se piccola, momentanea e per
certi aspetti probabilmente strumentale, nell’altrimenti monolitica
difesa a oltranza dell’austerità. Una crepa nella quale abbiamo il
dovere di scavare con tutte le nostre forze.
Questo
ragionamento avrebbe dovuto unire tutte le forze sindacali, messe
all’angolo da oltre trent’anni di sconfitte e arretramenti, che
potrebbero trovare nell’introduzione di un salario minimo dignitoso
nuova linfa per difendere la condizioni di vita di milioni di
lavoratori, a partire dai più svantaggiati. Purtroppo, le principali
forze sindacali si sono schierate in blocco contro il disegno di legge Catalfo,
cioè dalla stessa parte della Confidustria e di tutte le forze
politiche e istituzionali che sono espressione degli interessi del
profitto, contro il lavoro.
Questa ostilità dei sindacati confederali, in primis della
CGIL, verso una legge che finalmente potrebbe porre un piccolo argine
allo sfruttamento nel nostro Paese è solo l’ultimo capitolo di una lunga storia di tradimenti delle organizzazioni dei lavoratori nei confronti del loro popolo, tradimenti che giustificano la crescente sfiducia dei lavoratori nei sindacati e, più in generale, nelle forze della sinistra.
In
difesa di un salario minimo dignitoso, contro il lavoro povero e lo
sfruttamento, aderiamo alla campagna lanciata dall’unico sindacato che
si è schierato dalla parte giusta della barricata, l’Unione Sindacale di
Base (USB), a partire dalla giornata di protesta nazionale “Chi ha paura del salario minimo” prevista per il 28 giugno.
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