Scattano
i dazi Usa verso le merci cinesi, anzi no, quasi.. Dalla mezzanotte di
oggi 10 maggio la tariffa doganale sui prodotti di Pechino verso gli Usa
passa dal 10 al 25%, su un totale di merci pari a 200 miliardi. Se
l’accordo complessivo ancora in via di trattativa tra i due paesi non
andrà in porto, la stessa procedura dovrebbe scattare per altri 325
miliardi di merci. In pratica per tutto l’export cinese verso
Washington.
La
Cina, con la consueta flemma, ha detto che darà “le risposte
necessarie”, non meglio precisate, ma il capo negoziatore – Liu He – è
comunque arrivato nella capitale statunitense, portando anche un
messaggio del presidente Xi Jinping che Trump ha definito “una bella
lettera”.
Ma come stanno realmente le cose? I media meinstream italici politicamente più servili – Repubblica e Corriere della Sera –
raccontano la favoletta dell’America first e della potenza Usa che
costringerà i cinesi a capitolare davanti alle richieste di Trump. La
chiave di volta, in questa autentica fiction, starebbe nello
squilibrio esistente nell’export reciproco tra i due paesi: per Pechino
quel che viene venduto negli Usa vale il 3,2% del Pil, per Washington,
quel che parte cerso la Cina appena lo 0,6. Dunque – argomentano in
quelle redazioni – un accordo interessa soprattutto i cinesi, perché ci
rimetterebbero troppo.
E
certamente a Pechino non può far piacere perdere improvvisamente una
quota rilevante di quel mercato. Ma i rapporti economici Usa-Cina sono
un tantinello più complessi…
Intanto i nuovi dazi sono momentaneamente inefficaci per le merci già imbarcate
su aerei e navi. Dunque si tratta ancora di una minaccia – nel classico
stile della contrattazione alla texana – che però non si traduce in
fatti. Ci sono almeno altri quindici giorni per discutere e questo
spiega bene perché il caponegoziatore cinese sia partito lo stesso alla
volta di Washington.
In
secondo luogo, per la qualità dei reciproci export. Pechino vende in
Usa tecnologia, smartphone, ma anche – sempre meno – prodotti di bassa
qualità che vanno a finire nelle reti di distribuzione per i working poor americani.
Merci salario “adeguate” al potere d’acquisto dei lavoratori yankee
meno qualificati. All’inverso, Washington vende soia, carne di maiale,
gas, altri prodotti alimentari… Tra i due paesi, sembrano gli Usa quelli
rappresentanti il “terzo mondo”; ed è Pechino a potersi rivolgere
facilmente verso altri fornitori per le stesse cose.
Ma,
soprattutto, la Cina è da anni il principale acquirente di titoli di
Stato statunitensi. Ovvero è Pechino che consente a Trump (e prima ad
Obama) di rifinanziare il proprio debito e mettere in programma i
promessi 2.000 miliardi di dollari di investimenti infrastrutturali
indispensabili per un paese che vede strade, ponti e ferrovie
letteralmente cadere a pezzi dopo le tante “privatizzazioni”.
Ed è IlSole24Ore, organo di Confindustria – quindi il giornale obbligato a fornire informazioni utili perché vere
al business dei propri proprietari (gli imprenditori italiani) – a
raccontare tutta un’altra storia. L’articolo di Alessandro Plateroti
squaderna senza pietà la reale situazione dei rapporti di forza economici tra le due potenze:
“In
poco più di 48 ore, il presidente americano ha sostituito la minaccia
di nuovi dazi con l’apertura a un possibile accordo con Pechino entro la
prossima settimana, cogliendo di sorpresa sia la diplomazia
internazionale che l’intera comunità finanziaria americana e mondiale.
Trump
ha detto ieri ai giornalisti che è stata una lettera conciliante del
presidente cinese Xi ad aver riaperto la strada verso l’intesa, ma sui
mercati finanziari gira invece una spiegazione del tutto diversa: non la
lettera, ma un messaggio ben più chiaro e forte spedito da Pechino sul
mercato americano dei Titoli di Stato.
Prima dell’apertura fatta ieri a sorpresa da Trump, la Casa Bianca aveva seguito quasi con “terrore” l’esito disastroso di ben due aste consecutive di Titoli di Stato:
quella del 7 maggio (il giorno dopo l’annuncio di nuovi dazi da parte
di Trump) quando il Tesoro ha chiuso con un fiasco il collocamento di 38
miliardi di titoli a 3 anni, e quella dell’8 maggio su 27 miliardi di
dollari di bond decennali.
Secondo
gli operatori, entrambe le aste hanno segnato la peggiore perfomance
dei T-bond americani degli ultimi anni: il decennale è stato collocato
con un rendimento del 2,479% rispetto al previsto 2,46%, segnando il più
elevato balzo in punti base dall’agosto 2016, mentre il bond triennale
ha registrato non solo il peggior rapporto Bid-to-cover (2,17 rispetto
al 2,55 precedente), ma soprattutto un crollo verticale degli acquisti
sul mercato indiretto, dove il Governo cinese è da sempre il più grande
acquirente di bond sovrani americani.
Tensioni passeggere? Niente affatto: dal mercato, in entrambe le aste, era sparita non solo la Cina, ma tutte le autorità finanziarie dei paesi su cui la Cina esercita tradizionalmente un dominio politico. Basti pensare che i dealer sono stati costretti a detenere il 35,2% delle emissioni, quasi il doppio del 19,6% delle aste di aprile, e il più alto dall’aprile 2018.
Che
dire? I cinesi non parlano molto, ma quando vogliono si fanno capire
molto bene: se Pechino voleva inviare un messaggio di avviso agli Stati
Uniti sulle conseguenze finanziarie di una guerra commerciale a colpi di
dazi e insulti, è chiaramente riuscita nel suo obiettivo.
Donald
Trump ha abbassato ieri i toni contro i cinesi usando a pretesto la
lettera di Xi, e anche il mercato ha subito cambiato rotta: la Borsa ha
ripreso quota e il rendimento del titolo di riferimento del Tesoro degli
Stati Uniti a 10 anni è risceso al 2,460%.
Non
solo. Il differenziale di rendimento tra i titoli di stato statunitensi
a tre mesi e i bond a 10 anni si è ridotto a 3 punti base, rispetto ai
15 punti base di alcune settimane fa. Lo spread è diventato per la prima
volta negativo a fine marzo, spaventando gli investitori che lo hanno
interpretato come una recessione.
Sui
mercati, il commento è stato unanime: se la Cina è tornata a comprare
T-bond, vuol dire che l’accordo è nell’interesse di Trump. Altro che
volo verso la qualità…”
Non
ci sembra ci sia necessità di tradurre. Se un terzo dei titoli di Stato
della superpotenza rischiano di restare invenduti ad ogni asta, per
Washington è l’inizio ufficiale della fine. Perché nessun investitore
pubblico o privato, dalle petromonarchie ai leggendari Warren Buffett, è
in grado di sostituire quella liquidità che verrebbe a mancare. Anzi,
sarebbero i primi a fuggire verso altri lidi…
L’America
di Trump fa la voce grossa perché non gli è rimasto altro. E deve solo
sperare che a Pechino si continui – prudentemente – a ritenere
sconsigliabile una tempesta di proporzioni bibliche sui mercati in
conseguenza dell’affondamento della corazzata Usa.
Ma, come si comincia a vedere anche in Venezuela, quell’America non può più dettare in piena autonomia le proprie condizioni.
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