«I
lavoratori europei sono esclusi dalla distribuzione della ricchezza.
Neanche la recente crescita occupazionale ha permesso di interrompere la
straordinaria redistribuzione del reddito dai salari ai profitti che è
in atto da diversi decenni. Per questo, è necessario favorire la
dinamica dei salari reali».
Sembrerà
strano, ma queste non sono le parole del leader di un temutissimo
sindacato estremista. Si tratta invece del contenuto di un articolo
apparso qualche giorno fa sul Financial Times.
Direttamente dalla City di Londra, il quotidiano della finanza
internazionale sciorina una serie di dati e riflessioni che mostrano,
inequivocabilmente, in quali condizioni di disuguaglianza e precarietà
versi il mercato del lavoro europeo.
Guardando
in maniera neutra i dati, ci viene detto nell’articolo, salta agli
occhi un presunto paradosso. Nel nostro continente, il tasso di
occupazione avrebbe ormai superato i livelli pre-crisi. Ciò, tuttavia,
non è stato accompagnato da una crescita dei salari, la cui dinamica
rimane avviluppata in una stagnazione che dura ormai da decenni.
Andando
nel dettaglio, viene sottolineato come, a fronte di 15 milioni di nuovi
occupati nei 28 Paesi dell’Unione Europea, i salari nominali tra il
2010 e il 2017 siano cresciuti in media ad un tasso annuo del 1,7%,
decisamente inferiore al 2,5% che aveva caratterizzato il periodo
2000-2007 (Figura 1).
Questo
fenomeno viene confermato anche dall’andamento della quota salari sul
PIL, che rappresenta la parte del reddito nazionale che è attribuito ai
lavoratori. Infatti, sostiene a ragione l’articolo mostrando i dati
della Commissione Europea, i profitti si sono impossessati di una quota
sempre maggiore del reddito, a scapito dei salari. Questa tendenza è
generalizzata e continua dalla prima metà degli anni Settanta ad oggi.
Tuttavia, il paese che più degli altri spicca per l’entità di questa
redistribuzione dal lavoro al capitale è proprio il nostro. La quota
salari italiana, pari a più del 65% nel 1975, è oggi di poco superiore
al 55% e le proiezioni per il 2020 riportate nell’articolo la danno
ancora in diminuzione
Per
rendere il quadro ancora più fosco, l’articolo ci ricorda anche che
l’aumento del tasso di occupazione, di per sé, non è sufficiente a
descrivere accuratamente la situazione occupazionale del continente.
Esiste infatti, in Europa, un enorme problema di sotto-occupazione. Per
sotto-occupato si intende quel lavoratore che sarebbe disposto a
lavorare a tempo pieno ma, per carenza di domanda di lavoro, è costretto
a lavorare ad orario ridotto. In Europa almeno un lavoratore part-time
su quattro lo è suo malgrado. In paesi come l’Italia e la Spagna la
situazione è ancora peggiore, poiché addirittura il 60% dei lavoratori
part-time desidererebbe lavorare (e guadagnare) di più.
Spesso, come lo stesso articolo sottolinea citando l’OCSE, questi part-time assumono la forma di contratti a chiamata “zero hours contracts”,
vale a dire contratti di lavoro in virtù dei quali si è ufficialmente
occupati, ma che ciononostante non implicano la certezza di lavorare
neanche un’ora settimanale, dando vita al paradosso per il quale un
lavoratore potrebbe essere considerato dalle statistiche ufficiali
‘occupato’ e al contempo ricevere una retribuzione di zero euro.
Questa
condizione di precarietà e povertà, conclude l’articolo, è spesso
aggravata da difficoltà in termini di accesso al welfare, ai sussidi di
disoccupazione e alle pensioni. Difficoltà che, apparentemente,
avrebbero una natura impersonale, astratta e sarebbero il frutto di
qualche sfortunata coincidenza.
Passando a noi e parafrasando il noto cantautore, potremmo chiosare con un “se non del tutto giusto, quasi niente sbagliato”.
il quadro tracciato è drammatico, descrive bene la fragilità che
affligge i mercati del lavoro europei ed è, per altro, ciò che più e più
volte abbiamo sottolineato. Lo spaccato offerto dall’articolo del Financial Times, però, è anche parziale e ipocrita.
Come
dicevamo, l’apertura del pezzo è dedicata all’analisi dei trend
occupazionali in Europa. Quello che viene omesso, però, è che la
dinamica così fortemente positiva, in termini di riduzione della
disoccupazione, che ha caratterizzato gli ultimi anni è pressoché del
tutto imputabile ai Paesi dell’Est Europa. In Estonia, ad esempio, il
tasso di occupazione è cresciuto dal 2010 al 2018 del 22%; in Lituania
del 26%, in Polonia del 14,4%. In altri Paesi, invece, la situazione è
ben meno rosea: in Francia è cresciuto del 2%; in Italia del 3%; del 6%
in Spagna.
Si
tratta naturalmente di situazioni e strutture economiche ben diverse,
ma ciò che ci preme sottolineare qui è che questi dati verosimilmente
celano in sé il frutto avvelenato delle delocalizzazioni verso
economie ad uno stadio di sviluppo capitalistico meno avanzato, in cui
condizioni lavorative e salari sono decisamente peggiori. La libera
circolazione dei capitali, architrave su cui si regge l’Unione Europea,
mette i lavoratori gli uni contro gli altri su scala continentale ed
esercita una formidabile pressione al ribasso sui salari, evidentemente
all’insaputa del Financial Times che non coglie in questo processo una delle spiegazioni per l’apparente paradosso su cui si interroga.
Ma
ciò che, ancora di più, risulta indigeribile dell’articolo, è lo
stupore con cui sia la giornalista sia il più volte citato Stefano
Scarpetta dell’OCSE guardano alla fotografia che essi stessi hanno
scattato.
La drammatica situazione in cui versano milioni di lavoratori europei, infatti, non è un risultato casuale e imprevedibile di fantasmagoriche leggi economiche. Esso è, al contrario, il risultato deliberato
di una precisa stagione di politiche economiche e delle cosiddette
riforme strutturali che sono state imposte, a più tornate, dalle
Istituzioni internazionali alla classe lavoratrice dei Paesi europei.
L’obiettivo
di queste cosiddette riforme era quello di rimuovere le ‘rigidità’ dal
mercato del lavoro, sulla base dei dettami della teoria economica
dominante per la quale, nonostante numerose smentite empiriche e teoriche, la flessibilità del lavoro è la panacea per risolvere tutti i mali di un’economia.
Da
un lato, infatti, la flessibilità favorirebbe la competitività delle
merci prodotte nel paese, rendendole più appetibili sui mercati
internazionali e stimolando quindi le esportazioni. Dall’altro,
incentiverebbe gli imprenditori ad aumentare le assunzioni.
Il
meccanismo magico che dovrebbe garantire questi risultati è, se si
vuole usare uno degli eufemismi tanto cari a liberisti di varia
estrazione, il contenimento del costo del lavoro. Guardando alla realtà, stiamo parlando esattamente della violenta compressione salariale che turba oggi i sogni del Financial Times.
La stessa Banca Centrale Europea, che ultimamente ha lamentato la stagnazione dei salari, non più tardi di qualche anno fa auspicava un maggiore sforzo
nel perseguire quelle riforme volte a ridurre ulteriormente i livelli
salariali e il potere contrattuale della classe lavoratrice. Tradotto in
termini concreti, ciò di cui la BCE si faceva e si fa promotrice, è lo
sforzo imposto ai lavoratori di dover accettare sacrifici su sacrifici,
in nome di un benessere futuro che, in maniera non sorprendente, non si è
ancora manifestato e mai si manifesterà.
Le
politiche di deflazione salariale, che hanno contribuito in maniera
decisiva alla riduzione della quota salari, sono state dunque una chiara
e precisa scelta e indicazione delle Istituzioni europee e
internazionali. È forse inutile aggiungere che questa indicazione è
stata solertemente accettata dai governi dei Paesi europei, da ormai
venti anni. Le riforme del mercato del lavoro si sono abbattute ovunque
come una clava, si pensi alla Spagna (1994, 2006, 2010, 2012) o alle
riforme Hartz in Germania (2002-2005), senza dimenticare il ventennale e
mai pago ciclo di flessibilizzazione in Italia.
Oltre
a facilitare l’accesso a forme contrattuali più precarie e ai contratti
atipici a tempo indeterminato, una parte importante di queste riforme
ha riguardato anche i sussidi di disoccupazione e i modelli di welfare.
In particolare, con la scusa di allargare la platea dei beneficiari –
nella falsa logica dei lavoratori privilegiati a cui si deve la
disoccupazione dei lavoratori non tutelati – si sono di fatto ridotte,
sia nei trasferimenti che nella durata, le prestazioni di cui i
disoccupati beneficiavano.
L’intento
è sempre lo stesso: smorzare la conflittualità dei lavoratori, renderli
ricattabili e costringerli ad accettare una riduzione dei salari. Il
metodico lavoro di erosione del potere contrattuale dei lavoratori,
operato a colpi di ‘raccomandazioni’ delle Istituzioni europee e
felicemente eseguito da governi nazionali al servizio del capitale, ha
lasciato un campo di macerie, fatto di salari da fame e condizioni
lavorative sempre più precarie.
Ecco quindi che quello che pareva un inspiegabile paradosso, almeno per il Financial Times,
si mostra per quello che realmente è: il risultato deliberato di una
lotta di classe esercitata dai privilegiati contro l’enorme maggioranza
della popolazione. Un risultato talmente sbilanciato a favore del
capitale che quest’ultimo può adesso raccoglierne a piene mani i frutti,
fatti di una produzione che torna ad aumentare e che garantisce enormi
margini di profitto, grazie ai miserabili salari pagati.
Nessun commento:
Posta un commento