La Cina resta un oggetto misterioso, specie per chi ha paura di guardare negli occhi – e provare a capire – una diversità di così enormi dimensioni. Come sempre accade, il riflesso condizionato conduce a ridurre l’ignoto al noto, perdendo di vista proprio l’elemento centrale che andrebbe indagato: la differenza tra quell’oggetto e gli altri.
C’è
chi si rifugia nelle definizioni prese a prestito dai media mainstream
(“dittatura”, “mancanza di libertà”, ecc), che non spiegano affatto il
successo cinese, ma cercano di dipingerlo in una luce negativa.
E c’è chi – specie nelle diverse espressioni della “sinistra radicale” – prova a buttarla
in ideologia di risulta, citando a vanvera i classici del marxismo
(singole frasi decontestualizzate, per lo più), per arrivare a
concludere frettolosamente che “è solo normale capitalismo” o
all’opposto “va tutto bene così, il socialismo è questo”.
A
noi interessa conoscere e capire, sapendo bene la limitatezza delle
fonti cui riusciamo ad accedere e la complessità del problema.
Per questo vi invitiamo a leggere – e a meditare – su questa intervista rilasciata a Jacobin Italia dall’ex ambasciatore italiano a Pechino, Alberto Bradanini.
Perché
non è soltanto una fonte di informazione, ma un punto di vista
assolutamente più elevato di quanto non sia possibile trovare nella
scarsa pubblicistica italiana sul tema.
Colpiscono
i giudizi sull’Unione Europea, la dissennata e feroce politica tedesca,
lo status di minorità dell’Italia, la funzione di rapina dell’euro,
l’indebolimento strategico degli Stati Uniti, la programmazione a
lunghissimo termine dei cinesi.
Ma
colpiscono ancora di più le considerazioni fatte sulla storia del
movimento comunista mondiale del ‘900, che denotano grande attenzione
allo studio degli interlocutori da parte di un “tecnico della
diplomazia” che, evidentemente, è stato obbligato a sapere e capire il
più possibile di quel che davvero la Cina è. Per storia, scelte,
analisi, conflitti, cultura.
Una
lezione di storia e di economia, di geopolitica e di teoria politica,
che può tornare utile a tutti. A chi si è fin qui abbeverato alle fonti
avvelenate dei media mainstream, ma anche a chi ha bisogno di esser
svegliato dal “sonno dogmatico”.
*****
La Nuova Era cinese tra declino Usa e debolezze Ue
Martino Avanti – Alberto Bradanini
9 Aprile 2019
Il
modello cinese, il dominio della politica sull’economia e la piena
sovranità politica spiegati dall’ex ambasciatore Alberto Bradanini
Abbiamo
fatto qualche domanda ad Alberto Bradanini, consigliere commerciale
all’ambasciata italiana a Pechino tra il 1991 e il 1996 e poi
ambasciatore a Pechino nel periodo 2013-2015. Parla del modello cinese,
del dominio della politica sull’economia e della piena sovranità sono
le condizioni per aspirare allo sviluppo mantenendo come obiettivo
finale l’affermarsi del socialismo, per quanto il termine sia oggi
mescolato a una forte apertura al capitalismo. «Un insegnamento utile
anche all’Italia e l’Unione europea», dice l’ambasciatore. Che invita a
cogliere l’opportunità di interloquire con la Cina e a un atteggiamento
meno subalterno tanto agli Usa quanto al dominio tedesco.
Quali
prospettive si aprono per l’Italia e per l’Europa con l’ascesa della
Cina come protagonista della politica (e dell’economia) internazionale?
L’Europa è un continente politicamente ed economicamente frammentato. Nell’Ue, dove prevalgono le priorità stabilite dal direttorio
franco-tedesco, vige la legge della giungla, e non certo quello spirito
di solidarietà che pervade le pagine dei Trattati. Sul piano
strategico, la Cina avrebbe interesse a dialogare con un’Europa come
soggetto politico non solo economico,
alla luce della concezione multipolare delle relazioni internazionali
che reputa di sua convenienza. Un percorso questo oggi assai improbabile
per ragioni endogene, e comunque indipendente dalle scelte cinesi.
Nei
limiti menzionati, l’Europa potrà beneficiare dell’interazione con
l’economia cinese se riuscirà a essere leader nei settori industriali di
punta e nelle tecnologie del futuro. A tal fine però sarebbero
necessari massicci investimenti pubblici che sono oggi impediti dalle
assurde politiche di austerità di marca tedesca.
L’Italia
potrà a sua volta raccogliere qualche beneficio da un’interlocuzione
con la Cina se, dopo aver recuperato la propria sovranità monetaria,
saprà avviare una politica economica degna di questo nome, riavviando il
tessuto industriale ridottosi del 20% nell’ultimo decennio e investendo
massicciamente su innovazione e ricerca. In assenza di ciò, l’Italia è
destinata a raccogliere solo poche briciole dal dialogo con la Cina, sia
in seno che al di fuori del progetto Belt and Road. Nelle tecnologie di punta inoltre il dislivello tra i due paesi è già forte e non facilmente colmabile.
Nella
politica estera europea, competenza rimasta ai paesi membri, non si è
mai raggiunta alcuna posizione unitaria nei riguardi della Cina, così
come in quasi nessuno dei dossier caldi della scena internazionale. In
occasione della firma dell’MoU tra Italia e Cina, le critiche dell’Ue
(che riflettevano quelle di Francia e Germania) erano motivate
dall’esistenza di un governo euroscettico a Roma e dalla potenziale
concorrenza italiana ai paesi nordeuropei sul business con la Cina.
Nulla che avesse a che fare con le esigenze di definire una postura
unitaria.
Più
che l’Italia, del resto, sono altri i paesi Ue che hanno commercio e
investimenti con Pechino. Il primo partner cinese in Europa è la
Germania: nel 2017, 180 miliardi di euro di commercio bilaterale, la
metà di tutta l’Ue, seguita da Olanda, Regno Unito, Francia e solo
quinta Italia. La Gran Bretagna è il primo paese per investimenti
cinesi, con oltre 230 acquisizioni, seguita da Germania, Francia e solo
quarta l’Italia. Inoltre, la Commissione ignora da anni un disavanzo
Ue-Cina di oltre 175 miliardi (solo quello italiano supera i 20
miliardi) e la ragione è banale: le politiche Ue verso la Cina sono
pilotate dalla Germania, unico paese Ue (a parte le irrilevanti Irlanda e
Finlandia) a godere di un avanzo commerciale nei riguardi di Pechino
(oltre 18,5 miliardi) e che non ha alcun interesse a sollevare questo
dossier.
Quanto
agli investimenti cinesi in Europa, i primi posti sono occupati da
Regno Unito e Germania seguiti da Francia e Italia. Ciononostante, non
risulta che la Commissione si sia strappata le vesti quando nei mesi
scorsi altri 13 paesi membri hanno firmato simili MoU.
Sulle
industrie del futuro, infine, invece di combattere una battaglia
interdittiva destinata alla sconfitta, sarebbe interesse della
cosiddetta Unione Europea
far nascere un campione continentale che sia espressione di
un’industria integrata che distribuisse dividendi economici, industriali
e politici a tutte le nazioni Ue, in un settore strategico per il
nostro futuro, così da non dipendere né dai cinesi né dagli americani.
Di ciò tuttavia non v’è nemmeno l’ombra nell’Ue di oggi.
Quali
sono le preoccupazioni americane rispetto alla penetrazione tecnologica
e l’aumento degli investimenti cinesi in Europa? Quali sono i benefici
per gli europei e gli italiani? Perché la Belt and Road Initiative è stata al centro del dibattito politico nelle ultime settimane in Italia e in Europa?
Lanciata
dal presidente Xi nel 2013 la Bri è un progetto strategico con finalità
assai ambiziose. Si tratta di una proposta di sviluppo che la Cina
rivolge al mondo intero e che include investimenti, commercio, crediti,
meccanismi e standard non più incentrati sul Washington consensus, ma spostati sul Beijing consensus.
Pechino
intende imprimere una diversa traiettoria al sistema economico
internazionale, creando incentivi e una base alternativa a quella
occidentale per dare corpo a una nuova dottrina dello sviluppo e delle
relazioni economiche tra le nazioni del mondo. La Bri segna dunque la
volontà cinese di acquisire un forte protagonismo internazionale,
politico ed economico. La sua sola presenza, a prescindere
dall’effettiva viabilità di tale disegno, costituisce una sfida
insidiosa per l’impero americano. L’iniziativa prevede due percorsi: uno
terrestre, che interessa il continente euroasiatico, e uno marittimo, e
coinvolge idealmente 65 paesi, il 70 per cento della popolazione
mondiale, con un Pil pari al 30 per cento del totale mondiale. Oltre 50
paesi hanno già firmato i relativi accordi di cooperazione con la Cina.
Il
principale veicolo di finanziamento sarà l’Aiib, la banca creata da
Pechino e operativa dal maggio 2016, che dispone di un capitale di 100
miliardi di dollari con 57 paesi membri, tra cui l’Italia. La Cina vi
ricopre un ruolo centrale e ne detiene il 29,8 per cento delle azioni
(la maggioranza di blocco è del 25 per cento). I paesi europei hanno
versato il 25 per cento del capitale totale e vi occupano qualche buona
posizione manageriale, specie Germania e Regno Unito. L’Ue come tale ha
espresso la volontà di non partecipare alla Bri. Ciascun paese membro si
muove dunque per suo conto.
In
Europa la Cina ha dato vita al Gruppo 16+1 con i paesi centro-orientali
del continente, undici dei quali sono membri dell’Ue. Il gruppo è
destinatario di un fondo di 10 miliardi di euro che la Cina ha destinato
allo sviluppo infrastrutturale in una regione in cui convergono le due
componenti della Bri, quella terrestre e quella marittima. Da una parte
la concorrenza tra paesi Ue occidentali e orientali gioca a favore della
penetrazione cinese, dall’altra un’interazione positiva tra la Cina e i
paesi Ue del gruppo potrebbe rivelarsi utile nei negoziati commerciali
tra Bruxelles e Pechino.
Con
la Bri la Cina intende allo stesso tempo ridurre le distanze tra i due
estremi del continente Euroasiatico, imporsi come nuovo protagonista
della scena mondiale (e qui occorre che essere guardinghi e
salvaguardare un sano equilibrio) e infine, gradualmente, modificare
l’ordine economico internazionale. Venendo a noi, dopo una visita di due
giorni, il Presidente cinese Xi Jinping ha lasciato l’Italia, ma i guai
italiani, che non dipendono dalla Cina e ancora meno dalla Bri, sono
rimasti: disoccupazione e sottoccupazione dilagano, la povertà penetra
nella classe media, i servizi sociali vengono smantellati, la
deindustrializzazione del Paese prosegue e il lavoro di una volta è
scomparso.
Le
ragioni di ciò sono legate alle politiche iper-liberiste, alla perdita
di competitività (utilizziamo una moneta straniera e troppo forte,
l’euro), a un’assurda austerità di marca tedesca, alla pessima gestione
della globalizzazione e beninteso alle nostre carenze endogene: una
classe politica inadeguata, un’amministrazione obsoleta, corruzione e
criminalità organizzata.
Non solo l’Italia soffre di un forte deficit di sovranità (da non confondersi con sovranismo),
ma anche gli spazi di manovra di un tempo si sono ridotti, mentre le
altre nazioni uscite sconfitte dal secondo conflitto mondiale dispongono
di un’agibilità politica a noi misteriosamente negata.
La
visita di Xi lascerà qualche frutto all’Italia? Forse. Il Ministro Di
Maio ha parlato di 2,5 miliardi e un potenziale di 20, sui primi
dobbiamo capire meglio, l’incertezza sui secondi è appesa alla capacità
dell’Italia – sarebbe cosa rara – di guardare alla stella polare dei
suoi legittimi interessi con coraggio ed efficienza, due sostantivi che
da 40 anni la Cina cura al grado superlativo.
A
tale riguardo, il lavoro da fare non sarà affatto facile, l’Italia
dovrà individuare imprese e banche in grado di partecipare – insieme a
partner cinesi adeguati – a commesse e gare d’appalto riguardanti i
piani infrastrutturali nei paesi della Via della Seta. Un percorso
tutt’altro che agevole per un paese diversamente organizzato ed
efficiente rispetto alla macchina cinese, o anche ai paesi concorrenti
del Nord Europa. A tale riguardo il Governo italiano dovrà curare il
rispetto degli accordi da parte di Pechino che ha una consolidata
attitudine di firmare accordi solo per raccogliere immediati benefici
politici.
Sorprende
che nell’occasione il Ministro Salvini abbia scoperto che la Cina, con
cui l’Italia ha un commercio di 44 miliardi , non è un paese di libero mercato, senza riflettere che i liberi mercati
esistono solo sui libri e che quel mercato ha fatto della Cina la
seconda economia al mondo, mentre il SottoSegretario Giorgetti si
stupisce della spietata concorrenza cinese alle ceramiche italiane. È
facile tuttavia prevedere che il Governo tornerà presto nel letargo
dell’improvvisazione.
Nel
merito, la Via della Seta c’entra poco con la tipologia degli accordi
firmati (tranne quello della Danieli in Azerbajian, che tuttavia si
sarebbe verosimilmente concluso a prescindere dalla Bri). Quasi tutte le
intese poi fanno parte di un dialogo fisiologico tra Italia e Cina:
l’accordo sulle doppie imposizioni, i protocolli sugli agrumi e sui
reperti archeologici, l’esplorazione spaziale e i gemellaggi tra città e
regioni sono solo un contorno.
Le
intese tra aziende poi hanno un valore potenziale, salvo le due di
Ansaldo-Energia, la quale non a caso appartiene per il 40% a Shanghai
Electric. I porti di Genova e Trieste infine attireranno forse qualche
milione di euro d’investimenti cinesi, ma il grande hub
nel Mediterraneo la Cina l’ha già acquisito, investendo 700 milioni ad
Atene Pireo: quel treno l’Italia l’ha perso per sempre. Trieste però
potrebbe parzialmente smentire questa prospettiva, tenendo conto
dell’interesse cinese a raggiungere i mercati dell’Europa orientale.
Infine,
se risponde al vero che gli accordi sono poi stati ridotti a meno della
metà per via delle pressioni Usa, v’è allora da chiedersi che vale
essere un paese del G7 se è sempre il Grande Fratello a decidere al
nostro posto, mentre lui e i cosiddetti partner europei fanno con la
Cina tutti gli affari che vogliono, senza nemmeno firmare alcun Memorandum d’intesa.
L’ascesa della Cina potrà portare a un’emancipazione dell’Italia e dell’Europa dall’egemonia Usa (e della Nato, la sua longa manus)?
Dopo
74 anni dalla sconfitta della guerra e dalla conseguente perdita della
sua sovranità politica, l’Italia resta un paese gregario, subordinato
alle priorità di altri, in particolare Washington e Bruxelles. La storia
insegna che anche le alleanze più solide possono essere rimesse in
discussione quando cambiano le circostanze che le hanno generate. Nei
rapporti internazionali infatti, sosteneva W. Churchill, non vi sono nemici eterni, ma solo interessi eterni.
Ad
esempio, la firma del Memorandum tra Italia e Cina in occasione della
visita del Presidente cinese a Roma a marzo, secondo i nostri alleati
non andava fatta, sebbene si trattasse solo di un elenco di buone
intenzioni, senza valore vincolante. Ma il tentativo di interferire nel decision making italiano (impensabile in Germania, Francia o Svezia) ha preso corpo perché l’Italia è percepita come un paese subalterno.
Gli
americani, che guardano alla Cina come al principale rivale strategico,
hanno accusato Roma di una (inesistente) violazione della lealtà
atlantica, mentre la Commissione Europea (al servizio del direttorio franco-tedesco) ha fatto appello a una mai esistita, tantomeno nei confronti della Cina, politica estera comune dell’Ue.
È
esistito un tempo in cui il riverbero degli Stati Uniti d’America, per
il bene e per il male, si distendeva sul mondo intero. Oggi la scena
internazionale è mutata, è cresciuto il numero dei concorrenti, ciascuno
con sue caratteristiche. La potenza militare non riesce più a contenere
la vitalità dei nuovi contendenti, sul piano economico, industriale,
tecnologico e dunque politico. L’impero americano, di fronte al suo
crepuscolo (seppur relativo), invece di cooperare con i nuovi arrivati
per ridisegnare in termini inclusivi i destini del mondo, è preso dal
panico, e tantomeno si cura di quelle nazioni che aspettano il loro
turno per godere, come l’Occidente, dei generosi frutti del progresso.
Oggi,
l’élite finanziaria anglosassone, con le sue propaggine nordeuropee,
non riesce a garantire nemmeno ai paesi amici il benessere del passato:
le classi medie scompaiono, si diffondono povertà e disoccupazione,
mentre i paesi in perenne via di sviluppo acquisiscono coscienza che la promessa del Washington Consensus
di poter uscire un giorno dalla morsa del sottosviluppo, in cambio di
sottomissione politica ed economica, non è altro che una chimera. Ormai
disillusi, molti di questi paesi guardano al modello cinese, che in
appena 40 anni ha traghettato una nazione di 1,4 miliardi di individui
dal medioevo alla post-modernità. Il paradigma sino-popolare infatti –
centrato su sovranità nazionale, controllo politico, un governo forte in
economia, tutela dei beni pubblici e dei settori strategici (con
qualche spazio vigilato alla proprietà privata) – possiede il fascino autentico di chi mantiene le promesse.
Per
ora il muscolo cardiaco della finanza mondiale su cui si reggono gli
altri segmenti del potere si colloca ancora in Occidente, ma esso è
insidiato da dinamiche non più controllabili come un tempo, e che
spostano ogni giorno di più verso Oriente il baricentro del pianeta.
Davanti alla proposta strategica della Belt and Road,
la potenza americana è presa dall’angoscia che si tratti davvero
dell’inizio del crepuscolo, poiché il successo di questo progetto
sottrarrebbe all’America spazi vitali sulla scena economica e politica
mondiale.
Il
capitalismo neoliberale sta mostrando il suo volto più feroce:
disoccupazione e povertà in crescita, forte restringimento della
democrazia (soprattutto nell’Ue) e una politica estera sempre più
aggressiva. Il modello cinese può rappresentare un’alternativa?
La
Cina spariglia le carte del potere mondiale politico e finanziario,
oggi concentrato nelle mani di poche nazioni, sebbene sembri farsi largo
con le stesse armi del liberismo economico e delle corporazioni
industriali-finanziarie occidentali.
Il
potere cinese è infatti una piramide strutturalmente diversa. Esso,
nonostante i suoi limiti dottrinali e di coerenza, è idealmente al
servizio della costruzione di una società nuova (sebbene indefinita), oltre a porsi in termini dialettici rispetto al dominio politico-finanziario di genesi anglosassone che domina in Occidente.
Il Pcc è cosciente del rischio che il socialismo con caratteristiche cinesi possa essere assorbito tout court
dal capitalismo da cui è circondato, e cerca a suo modo di erigere
qualche barricata, consapevole che potrebbe essere proprio la classe dei
nuovi ricchi ad aprire le porte della Cina al Capitalismo occidentale,
di cui negli anni recenti ha imparato a condividere valori, stili di
vita e il gusto per il potere.
In
Cina il primato del potere politico su quello economico rimane tuttavia
indiscusso. Il pragmatismo riformista di Deng aveva mobilitato le
risorse economiche del paese, ma lasciato intatta la sfera politica, in
una profetica anticipazione di quello che sarebbe accaduto in Unione
Sovietica nel decennio successivo, e dei disastri in cui sarebbe incorsa
la Cina in caso di analogo destino.
L’esperienza storica ha insegnato alla Cina che l’indipendenza economica e prima ancora la sovranità politica sono condizioni imprescindibili per aspirare allo sviluppo.
Con la sua politica di apertura e riforme Deng aveva a mente l’esperienza della Nep, la Nuova Economia Politica
con cui Lenin nel 1921 intendeva mobilitare le forze produttive per
migliorare in fretta la vita di operai e contadini, dopo secoli di
miseria aggravata dalle privazioni della guerra. Lenin riteneva che
alcuni aspetti dell’economia capitalista dovessero essere mantenuti, ed
era disposto a rinunciare alla rigida applicazione del principio di
uguaglianza. Alla scomparsa di Lenin, il timore dell’aggressione esterna
induce Stalin ad abbandonare la Nep a favore dei piani quinquennali che
imbrigliano le dinamiche produttive e pongono così le premesse – già
allora, secondo Deng – dell’implosione dell’Urss che sarebbe
sopraggiunta molti decenni dopo. Stalin, secondo il Pcc, interpretava il
marxismo in forma dogmatica, separando radicalmente capitalismo e
socialismo, senza comprendere che il primo andava utilizzato come
strumento per giungere al secondo. In buona sostanza il Pcc sembra
riconoscere, come Lenin a suo tempo, i meriti di un certo capitalismo quale tappa intermedia sulla strada del socialismo, sebbene non manchi chi da sinistra mette in guardia da un’eccessiva deriva capitalista dalla quale sarebbe poi difficile riprendersi.
Cosa significa socialismo dalla caratteristiche cinesi, come viene descritto dal Partito comunista cinese il modello adottato da Pechino?
La costruzione del socialismo è il traguardo ultimo perseguito dal Partito Comunista Cinese (Pcc), un socialismo dalle caratteristiche cinesi
la cui nozione tuttavia non ha mai ricevuto dalla dirigenza un’adeguata
illustrazione: la prassi – ragiona il Partito – si incaricherà di
metterne a punto i contorni, a posteriori.
Per il momento occorre liberarsi di quel dogmatismo ideologico che ai
tempi di Mao aveva bloccato lo sviluppo del paese. L’ermeneutica della
dottrina marxista viene dunque posta al servizio della crescita
economica (catturare i topi), vera priorità del paese da quattro decenni, senza guardare al colore del gatto.
Con il termine socialismo/comunismo
la dirigenza intende un quadro politico-economico che produce ricchezza
e modernizzazione, in attesa che maturino le condizioni per passare
alle tappe successive della strada verso il socialismo. Mentre il maoismo aveva una forte impronta autarchica, nazionalista, pauperista e persino antimoderna, il socialismo di Deng, mercantile e di stato, e ancor più quello post-denghiano
libero da ogni baluardo ideologico, è pienamente allineato ai processi
di globalizzazione, economici, culturali, etici. In un quadro
frammentato, la dirigenza mantiene aperte tutte le opzioni.
In
verità, la Cina avrebbe in dotazione un patrimonio straordinario, se
riuscisse a coniugare il pensiero classico con quello recente di genesi
socialista, aggiornandolo alla luce delle moderne sensibilità: la libertà dell’individuo, che il socialismo nella sua attuazione storica ha trascurato, e l’equità distributiva della ricchezza. Tale sinergia etico-politica aprirebbe sentieri nuovi alle idealità del mondo.
Mentre i bolscevichi avevano sovietizzato il marxismo, i cinesi lo hanno sinizzato,
anche se i due percorsi sono stati diversi. Il Partito Comunista
Sovietico, all’indomani della conquista del potere, aveva puntato sulla
rivoluzione universale, perdendo poi tra contraddizioni e ambiguità – e
per necessità di sopravvivenza (secondo il punto di vista sovietico) –
la sua iniziale dimensione internazionalista.
La
maggior preoccupazione dei comunisti cinesi fu all’inizio la fragilità
della nazione e la sostenibilità del processo rivoluzionario in un paese
sterminato e arretrato, per di più in assenza di una classe operaia
degna di questo nome. Il Pcc ritenne che in quelle condizioni, non si
poteva chiedere al comunismo cinese di occuparsi della palingenesi
proletaria universale. E tale attitudine nazionalista è tuttora la
stella polare del Partito.
I capisaldi del socialismo con caratteristiche cinesi
sono costituti dal dogma della sovranità nazionale, un ferreo controllo
della società, la forte presenza dello Stato in economia, il controllo
della finanza, delle grandi aziende/corporazioni e dei settori
fondamentali del paese (proprietà e iniziativa private, giudicate utile
a generare ricchezza in questo frangente storico, sono de facto attenuate e attentamente monitorate) e la proprietà pubblica della terra (sebbene talvolta il suo possesso sia gestito con metodi capitalisti).
Quanto
all’iniqua distribuzione della ricchezza, il Partito afferma che si
tratta di una fase transitoria che verrà corretta strada facendo,
sebbene i rischi di deriva capitalista oltre una soglia di sicurezza
vengano giudicati da sinistra quanto mai concreti. Un deficit
di attenzione ha riguardato l’ambiente, pesantemente sacrificato negli
ultimi 40 anni dalle necessità della crescita, e il mondo del lavoro, le
cui condizioni sono in Cina subordinate alle esigenze della produzione.
Che
giudizio si può dare dell’esperienza del comunismo cinese, a 70 anni
dalla fondazione della Repubblica Popolare? Si tratta di un modello che
può essere preso a riferimento da parte delle altre forze socialiste nel
mondo?
Sette
o ottocento milioni di individui strappati alla morsa della povertà
sono l’evidenza storica del successo del modello cinese. Se la
rivoluzione non è un pranzo di gala, come predicava Mao, ebbene non lo è
nemmeno l’uscita dal sottosviluppo. E dunque dal lato dei costi dobbiamo collocare le deviazioni della dottrina e della prassi del
Partito dai canoni del pensiero classico marxiano, una debole tutela
dell’individuo davanti allo Stato, sfruttamento del lavoro, servizi
sociali insufficienti (ma in costante ampliamento), inquinamento
ambientale e iniqua distribuzione della ricchezza.
Nell’insieme,
sebbene in forma non paritaria, le condizioni del popolo cinese sono
enormemente migliorate negli ultimi decenni (il Pil pro-capite è passato
da 165 dollari nel 1976 a oltre 9000 nel 2018), mentre i veri poveri
(anche per gli standard cinesi) non superano oggi qualche decina di
milioni su 1,4 miliardi di abitanti e sono in costante diminuzione. Per
di più tale straordinario successo ha avuto luogo senza sostenere i
costi dei paesi capitalisti
che tentano di uscire dal sottosviluppo (inurbamento di massa, degrado
umano, criminalità endemica, promiscuità), senza peraltro riuscirci.
Sorprende
molto che il modello cinese non venga adeguatamente apprezzato e
divulgato sulla scena internazionale (a partire dalle N.U.). Nel merito,
gli ingredienti che hanno portato al successo della Repubblica Popolare
sono i seguenti: la pace, una sovranità politica piena, una solida
guida politica, una stabile presenza dello stato in economia, un buon
apparato amministrativo d’esecuzione.
Quanto alle forze socialiste–progressiste
occidentali, esse dovrebbero guardare all’esperienza cinese con le
lenti del tempo lungo, tenendo conto delle diversità e della relatività
di errori od omissioni. Dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, quando
sembrava che il modello comunista fosse destinato alla spazzatura della storia
e le teorie di Francis Fukuyama avevano decretato la confluenza
universale di tutte le esperienze politiche verso la democrazia
mercantile occidentale, la Cina aveva reagito rafforzando il primato
della politica sull’economia, e riprendendo la strada verso il modello
socialista sulla scorta delle lezioni della storia dopo aver digerito sbandamenti e incongruenze.
Diversamente
dagli auspici di Fukuyama tuttavia, il Pcc non ha mai preso in esame
che la Cina, nemmeno in un orizzonte lontano, possa intraprendere la
strada di una democrazia di stampo occidentale.
Alla
fine degli anni Cinquanta Mao aveva affermato: “Ciò di cui
l’imperialismo ha paura è il risveglio dei popoli africani, asiatici e
latinoamericani … Dovremmo unirci e cacciare l’imperialismo americano
dall’Asia, dall’Africa e dall’America Latina”. Tuttavia, nonostante il
lessico universalista, da Mao a Xi sia la costruzione del socialismo
(dalla fondazione della Repubblica Popolare alla scomparsa di Mao) che
la crescita economica (da Deng in avanti) si sono concentrate solo sui
bisogni della nazione cinese: il compito di fissare tempi e modi di
un’eventuale rivoluzione mondiale è stato sempre rinviato a un futuro
imprecisato, dopo aver cancellato dall’orizzonte ogni possibile terza
via rivoluzionaria, o anche solo profondamente riformatrice, che la Cina avrebbe potuto capeggiare su scala mondiale.
Al
centro della sua politica estera, Pechino non ha mai davvero posto
l’internazionalismo proletario, nemmeno in forma erratica o strumentale
come il Pcus. La politica estera cinese è rimasta fedele al principio di
deideologizzazione delle alleanze, avendo a mente soprattutto
l’interesse nazionale. Persino nella fase di forte ideologizzazione
maoista, la Cina si è limitata a elargire il valore di una
testimonianza, senza esporsi nell’elaborazione di un’agenda – come,
almeno sulla carta, quelle del Comintern e del Cominform – nella quale i
popoli oppressi potessero investire nella speranza di una possibile
mobilitazione proletaria universale. E alla luce dei traguardi
raggiunti, non si può dire che la scelta del Pcc sia stata sbagliata:
l’esperimento cinese prova che la via nazionale all’emancipazione è stata la più efficace.
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