lunedì 29 aprile 2019

La “danza immobile” della Spagna. Nessuna maggioranza possibile

Siamo alle terze elezioni politiche in appena quattro anni, in Spagna, e neanche questa volta ci sarà una maggioranza politica chiara o almeno accettabilmente coesa.
La vittoria relativa va al Psoe (partito “socialista”) del premier uscente Pedro Sanchez, che cresce in misura notevole rispetto alla precedente legislatura, raggiungendo il 28,7% dei voti al momento e 123 seggi.
Seguono i “popolari” – destra ex franchista, guidata per anni dai corrotti Aznar e Rajoy – che subiscono un tracollo epocale, dimezzando i voti scendendo al 16,7%, che fruttano solo 66 seggi, nonostante si fossero affidati a un leader “ggiovane”, come Pablo Casado. Ne avevano 137, e questo dà la portata di quello che è comunque il peggior risultato di questo partito dalla fine della dittatura franchista: non era infatti mai sceso sotto i 100 deputati.
Segue la destra “movimentista” di Ciudadanos – un tentativo di mantenere il quadro “culturale” dei popolari, ma senza l’ingombrante presenza dei vecchi boss screditati – che ha raggiunto il 15,8% e 57 seggi. E sembra dunque, pur aumentando voti e seggi,  aver perso la “spinta propulsiva” che l’aveva identificata come risposta moderata alla crisi della destra classica.
Al quarto posto c’è Podemos, anch’essa in crisi di credibilità (ha appoggiato dall’esterno il governo di Sanchez dopo le dimissioni di Rajoy), che raccoglie solo il 14,3% e 42 seggi.
Il vero vincitore sembra dunque il movimento di ultradestra Vox, che entra per la prima volta ne parlamento nazionale con poco più del 10% e 24 seggi.
Seguono poi le formazioni indipendentiste di Euskadi e Catalogna. Dai Paesi Baschi il moderato Pnv manda a Madri 6 deputati, mentre Eh Bildu – coalizione delle formazioni di sinistra – ne raccoglie quattro.
In Catalogna, Esquerra Repubblicana coquista 15 seggi, mentre JxCat (la formazione dell’ex presidente Puigdemont, ancora esule in Belgio) ne prende altri sette.
Proprio i partiti catalani avevano determinato la caduta del governo Sanchez, rifiutandosi di dare il consenso alla “legge di stabilità”, scritta – come per l’Italia e tutti i paesi dell’Unione Europea – sotto il rigido controllo di Bruxelles.
In realtà, però, il vero terreno di scontro è stata la questione dell’indipendenza catalana, cui il governo “socialista” non ha dato alcuna risposta, nemmeno sul piano della liberazione dei prigionieri politici. E stiamo parlando di parlamentari regolarmente eletti, non di combattenti in clandestinità…
La questione dell’indipendenza catalana è, per contro, anche al centro della crescita della destra apertamente fascista, bigotta e vetero-cattolica di Vox, al cui leader Santiago Abascal ha dato il proprio entusiastico appoggio Matteo Salvini (che solo due anni fa fingeva di essere al fianco degli indipendentisti catalani!).
Comincia ora il solito rito alchemico delle possibili maggioranza per comporre un governo. Per raggiungere i 176 seggi indispensabili, infatti, nessuna delle combinazioni “logiche” (centrodestra e centrosinistra, per dirla con le parole della geografia parlamentare italiana) è infatti possibile. Né sul piano politico, né su quello numerico.
La destra, infatti, raggiunge al massimo i 143 imbarcando anche i fascisti di Vox (che però non hanno alcun interesse ad interrompere la propria ascesa accodandosi ai “moderati”). Mentre il “centrosinistra” si ferma a 165.
Determinanti, insomma, i voti “maledetti” delle diverse formazioni indipendentiste. Ma cosa possono offrire, in cambio, le vecchie concrezioni partitiche? Praticamente nulla.
La destra, infatti, riafferma insieme al re l’assoluta intangibilità della “patria”, ed esclude qualsiasi trattativa dopo essersi peraltro divisa sul grado di “fermezza” repressiva da contrapporre a baschi e catalani. Il centrismo “europeista” di Sanchez, al massimo, può proporre una mano più leggera daparte delle forze dell’ordine, ma non certo passi avanti verso una vera autonomia regionale. Perché questo farebbe al contrario crescere la destra nazionalista oltre che europeista.
Come si vede, le categorie usate dai media mainstream italiani non riescono neppure a cogliere la realtà dello scontro in Spagna. Ma non chiedetegli di fare ammenda. Non ne sono capaci.

venerdì 26 aprile 2019

10 fake news oggi diffuse sul fascismo. Viva il 25 aprile

Per colpa di Salvini, ma anche di altri che non si dichiarano salviniani, in Italia si sta sdoganando il fascismo. Uno dei mezzi di questa operazione è propalare fakenews, di cui la più scontata e banale è: “Mussolini ha anche fatto cose buone”.
Altre però sono più insidiose, anche perché spesso non vengono solo usate dai fascisti, ma anche da chi si dichiara antifascista, ma poi usa l’antifascismo solo per sostenere gli interessi delle élites del potere. Così tanti contribuiscono a diffondere la prima fakenews sul fascismo: che esso sia contro il potere ed il sistema.
Vediamo alcune di queste falsità.
1) Mussolini ed il fascismo sono andati al potere con il consenso elettorale della maggioranza degli italiani.
FALSO. Nelle elezioni del 1921 i fascisti ottennero 37 deputati su 535, presentandosi assieme ai liberali conservatori in una lista guidata da Giolitti, che complessivamente ottenne il 19% dei voti. Questa era la forza elettorale e parlamentare di Mussolini, quando il re Vittorio Emanuele III il 28 ottobre 1922 lo incaricò di formare il governo.
I fascisti dopo inaudite violenze e assassini contro il movimento operaio e i democratici, organizzarono la Marcia su Roma con la copertura di gran parte dell’apparato dello stato. L’esercito poteva disperderli, ma il GOLPE del re diede avvio alla dittatura. Va ricordato che anche Hitler non ottenne mai la maggioranza da libere elezioni , quando nel gennaio del 1933 il presidente tedesco Hindemburg lo nominò capo del governo aveva il 32%.
È vero che i fascisti han conquistato il potere con il consenso, ma quello delle classi dominanti, degli apparati dello stato, dei ricchi e dei poteri costituiti, che li hanno sostenuti e usati; e hanno permesso loro di instaurare la dittatura. Infatti il 25 luglio del 1943 quando il re, causa la guerra persa, destituì e fece arrestare Mussolini, il fascismo si sciolse come neve al sole..e ritornò solo come servo dell’occupazione militare tedesca.
2) Mussolini era contro il liberismo economico e per una sorta di socialismo nazionale.
FALSO. Queste le parole dello stesso Mussolini nel suo primo intervento alla Camera nel 1921:
Lo Stato ci dia una polizia, che salvi i galantuomini dai furfanti, una giustizia bene organizzata, un esercito pronto per tutte le eventualità, una politica estera intonata alle necessità nazionali. Tutto il resto, e non escludo nemmeno la scuola secondaria, deve rientrare nell’attività privata dell’individuo. Se voi volete salvare lo Stato, dovete abolire lo Stato collettivista, così come c’è stato trasmesso per necessità di cose dalla guerra, e ritornare allo Stato manchesteriano.

Questo ultraliberismo, che oggi è il programma del fascista brasiliano Bolsonaro, non furono solo parole, ma la politica economica reale del fascismo fino alla grande crisi del 29. Solo dopo quella crisi devastante Mussolini fu costretto, come quasi tutti gli stati del mondo, all’intervento pubblico per impedire il collasso dell’economia. Ma il fascismo si affermò come violenta dittatura liberista, per il privato ed il mercato.
3) Il fascismo oggi sarebbe contro l’Euro e la moneta unica ed i sacrifici che essa comporta.
FALSO. Mussolini volle per pure ragioni di potenza la parità fissa della lira con la sterlina, la cosiddetta “quota 90”, cioè un cambio fisso di novanta lire per una sterlina, Questa rinuncia ad ogni manovra sulla moneta, anzi sopravvalutando quella italiana, produsse danni enormi al sistema industriale e una terribile politica di austerità , culminata nella riduzione dei salari.
“Quota 90” era insomma una sorta di anticipazione dell’Euro. Le motivazioni del fascismo erano quella di stare monetariamente alla pari con la superpotenza di allora, la Gran Bretagna. Le motivazioni dell’Euro sono apparentemente diverse, ma hanno sempre alla base una scelta di potenza, stare alla pari della Germania e dall’Europa che più conta. In ogni caso al di là di ogni motivazione, gli effetti di Quota 90 sulla economia italiana furono disastrosi.
4) Il fascismo stava dalla parte degli operai.
FALSO. Il fascismo andò al potere organizzando il crumiraggio contro gli scioperi, bastonando ed uccidendo lavoratori e sindacalisti, bruciando le Camere del Lavoro. Dopo il 1925 sciolse i sindacati indipendenti e obbligò i lavoratori ad iscriversi ad un solo sindacato, quello corporativo fascista del quale facevano parte anche i padroni. Il fascismo imponeva la collaborazione di classe nel nome dell’impresa e dello stato e con il codice penale Rocco comminava anni di carcere per lo sciopero e per ogni forma di protesta del lavoro. La lotta di classe era il male da estirpare per il fascismo, come lo è ancora oggi per la Confindustria e qualsiasi multinazionale.
Alla fine degli anni venti il fascismo impose la RIDUZIONE DEI SALARI dal 10 al al 20%. Sotto il fascismo nelle fabbriche fu introdotto il cottimo Bedaux, il capostipite dei sistemi di sfruttamento taylorista, con la galera per chi protestava.
È vero che il fascismo organizzò dopolavoro, colonie estive, servizi per gli operai, ma come compensazione per il feroce sfruttamento a cui essi erano sottoposti, che produceva enormi profitti per i padroni, a partire da Gianni Agnelli, senatore del regno, che accolse in camicia nera Mussolini nel 1939. Lo accolse a Torino per inaugurare la fabbrica Mirafiori, e Mussolini parlò davanti a 50000 operai che lo accolsero in silenzio, senza applausi, senza grida di viva il Duce.
Per questo il dittatore fascista abbandonò furioso il palco. Non aveva sufficientemente tenuto conto di un rapporto dei servizi segreti del 1937 che diceva: “Nella massa lavoratrice si riscontra sempre un ambiente decisamente avverso alle istituzioni del regime”…
5) Il fascismo era una dittatura all’acqua di rose.
FALSO. Il fascismo colpiva ogni piccolo dissenso e reprimeva ogni opposizione e resistenza. Era un regime poliziesco di massa che cominciava con la delazione anche per una sola battuta sul regime. Si veniva allora convocati dalla locale Casa del Fascio e sottoposti a intimidazioni, olio di ricino, bastonature. Chi lavorava poteva essere licenziato per inosservanza delle disposizioni del regime, come indossare la camicia nera il 28 ottobre.
Poi c’era il sistema poliziesco di stato che culminava nell’OVRA, la polizia politica che se necessario si trasformava in organizzazione terrorista per uccidere gli oppositori, e nel Tribunale Speciale. Questo organismo istituito nel 1927, instaurò migliaia di processi contro gli antifascisti, condannandone più di 4500 a enormi pene detentive, tra essi Antonio Gramsci e Sandro Pertini, e diverse decine alla pena di morte che il fascismo aveva reintrodotto. Il primo ucciso dal Tribunale fascista fu un muratore comunista.
6) Il fascismo non era razzista ed antisemita, lo divenne solo dopo l’alleanza con Hitler.
FALSO. il fascismo è sempre stato dichiaratamente razzista, verso gli slavi, contro i quali iniziò in Venezia Giulia e Istria una feroce pulizia etnica, e naturalmente verso gli africani. La canzone fascista Faccetta Nera, che celebrava la guerra di aggressione all’Etiopia, fu proibita dal regime perché accusata di favorire la commistione delle razze. Per il fascismo PRIMA GLI ITALIANI era la base fondante di ogni discriminazione razziale.
Le leggi razziali contro gli ebrei varate nel 1938 furono rivendicate dal fascismo come realizzazione dello spirito originario del partito. Mussolini dichiarò che il fascismo era antisemita fin dalla sua fondazione nel 1919.
7) Il fascismo era patriottico.
FALSO. Il fascismo era un regime aggressivo che usava il patriottismo per coprire i propri interessi e il proprio potere. Dalla metà degli anni 30 il fascismo iniziò una politica di guerra e aggressioni militari, Etiopia, Spagna, Albania, che culminò nella partecipazione al fianco di Hitler alla seconda guerra mondiale.
Il patriottismo copriva la guerra e la guerra serviva per affari, potere e consenso. E la guerra subordinava il fascismo alla potenza straniera.
Che la guerra e le servitù della guerra per il fascismo venissero prima della Patria lo dimostra la cosiddetta Repubblica Sociale, lo stato fantoccio che i nazisti imposero con l’occupazione militare dell’Italia centro settentrionale, dal 1943 al 1945. I fascisti, scomparsi, dopo il 25 luglio, ricomparvero come collaborazionisti con l’invasore.
Non erano patrioti, ma scherani della Germania, a cui Mussolini aveva venduto il paese, compresa la cessione di Trento e Trieste. Quando fu catturato dai partigiani Mussolini era travestito da soldato tedesco e stava fuggendo in Svizzera per consegnarsi agli Americani. Il fascismo è sempre stato servo di potenze estere. Matteotti fu ucciso perché stava per svelare i finanziamenti esteri del fascismo.
8) Il fascismo era duro, ma onesto.
FALSO. Il fascismo era un regime ad altissimo tasso di corruzione. I gerarchi fascisti erano i titolari, in ogni territorio o area di influenza, di affari, mazzette, tangenti. Un gigantesco flusso di danaro arricchiva la gerarchia fascista. Tutti i capi fascisti, nessuno escluso, si arricchirono enormemente durante il ventennio.
I capi fascisti erano quasi tutti poveri spiantati nel 1920 e tutti straricchi nel 1940. Si può anzi dire che il fascismo fu il primo regime in Italia ad organizzare scientificamente la corruzione politica. Ci si iscriveva al partito anche con la speranza di diventare ricchi. Questa corruzione alimentava le ruberie ai danni dello stato dei fornitori privati, che giunsero anche a colpire le truppe italiane in guerra.
Ad esempio i soldati mandati a combattere contro l’Unione Sovietica con scarpe di cartone per le ruberie dei fornitori e le mazzette ai fascisti. Lo stesso Prefetto Mori, il feroce prefetto di ferro mandato nel 1920 in Sicilia per combattere la mafia, fu destituito dal fascismo quando cominciò ad indagare sui legami tra cosche mafiose e gerarchi fascisti locali.
Il fascismo fu un regime di ladrocinio organizzato, perché sulla corruzione si fondavano il potere e il consenso. E Mussolini era il vertice ed il garante di questo regime. Se allora ci fosse stata una magistratura indipendente, il fascismo sarebbe stato travolto dalla TANGENTOPOLI NERA. Tutto questo oggi è ampiamente documentato.
9) I partigiani ed i fascisti in fondo avevano, pur da parti opposte, lo stesso amor di Patria.
FALSO. Questa è la mistificazione della memoria storica condivisa, della pacificazione ideale inventata da esponenti del PD più di venti anni fa e che oggi viene usata da ogni revisionismo storico. Fino a quello cialtrone di Salvini che parla di derby tra fascisti ed antifascisti.
Prima del 1943 chi resisteva al fascismo doveva operare in clandestinità a prezzi altissimi.
Dopo l’8 settembre 1943, quando i tedeschi occuparono l’Italia centro settentrionale, essere antifascisti significava combattere l’ occupazione militare nazista e il collaborazionismo fascista.

Le due parti non erano eguali. Chi sceglieva la Resistenza rischiava tutto, per sé e per i familiari, doveva vivere sui monti o nelle cantine delle città. Chi stava coi nazisti era al caldo, protetto e al sicuro. Tanti pur non essendo fascisti decisero di aspettare, di non rischiare, i partigiani scelsero di opporsi. I partigiani facevano la guerra agli occupanti ed ai loro servi, i fascisti collaboravano alle stragi per rappresaglia verso la popolazione civile.
Certo potevano esserci un partigiano manigoldo ed un fascista onesto, ma comunque il primo lottava contro i criminali di Auschvitz, il secondo stava con loro. Antifascismo e fascismo non sono solo una contrapposizione politica, ma un insanabile contrasto morale. Il fascismo non è una semplice idea politica sbagliata, è un crimine materiale e morale.
La Resistenza e stata la sola vera rivoluzione popolare italiana, il momento nel quale il popolo italiano è insorto in massa contro il potere, il momento nel quale il popolo ha fatto giustizia della tirannia e ha conquistato la democrazia con le proprie mani.
10) Non ha più senso oggi di parlare di fascismo e antifascismo.
FALSO. Anche se una certa retorica antifascista è servita a coprire le malefatte del potere, i valori autentici dell’antifascismo ed il rifiuto delle basi di fondo del fascismo sono sempre attuali.
Dal 1945 ad oggi in Italia il neofascismo si è periodicamente affacciato sulla scena politica. Come strumento di ricatto verso la DC se avesse voluto spostarsi troppo verso il PCI. Come terreno di coltura della strategia della tensione e delle bombe contro le lotte degli anni 70. Come ideologia dell’ordine, dell’autoritarismo e della sopraffazione.

Siccome il fascismo in quanto tale è ancora screditato, il neofascismo oggi si veste diversamente, non indossa la camicia nera. Anche il potere lo aiuta attribuendo a questo neofascismo altri nomi, più neutri ed accattivanti, come sovranismo e populismo. In questo modo il potere ottiene due risultati: non chiama i fascisti con il loro nome nobilitandoli nella eventualità di servirsene, attribuisce ad ogni opposizione alle ingiustizie sociali un carattere reazionario ed eversivo.
Per questo è giusto squarciare il mascheramento fascista ed usare questo termine per chiunque oggi innalzi il vessillo reazionario intitolato a DIO PATRIA FAMIGLIA. I fascisti si offendono se dai loro dei fascisti, ma poi in ogni loro parola riaffermano l’ideologia fascista. Non sono razzista ma.. non sono fascista ma.. Ecco, ciò che viene dopo quei ma è moderno fascismo e non bisogna avere paura di chiamarlo come tale, se lo si vuole ancora una volta sconfiggere.

mercoledì 24 aprile 2019

Su Roma e decreto-crescita tra Lega e M5S volano sberle, anzi ancora buffetti

Oggi il Consiglio dei ministri si riunisce per dare il via libera al decreto sulla crescita. Ma sul decreto nel governo si è materializzato lo scontro tra l’uomo della Lega (che si riscopre “padano”) e il M5S che amministra la Capitale dal 2016.
Il vicepremier Matteo Salvini ha affermato infatti che non è disposto a dare semaforo verde al fondo per Roma Capitale, una sorta di finanziamento speciale, attivo da anni, per il sostegno alle spese nella città che, purtroppo e per fortuna, ospita la sede dello Stato Italiano, del governo, dello Stato del Vaticano etc. etc. “Regali a qualcuno non ne facciamo. Non ci può essere un intervento salva-Raggi quando ci sono tanti comuni italiani in difficoltà e che hanno bisogno. O si aiutano tutti oppure non ci sono cittadini di serie A o di serie B, così come non ci sono sindaci di Serie A e di Serie B. Non mi pare che a Roma ci sia un sindaco che abbia il controllo della città”, sottolinea Salvini riproponendo un refrain usato molte volte in passato dalla Lega.
Per il M5S, finito sui carboni ardenti per la pessima performance al governo di Roma, quello sul finanziamento alla Capitale è un atto dovuto e già contemplato. “Non c’è sempre bisogno di un nemico, i Comuni vanno salvati tutti ma i problemi sono diversi e a ciascuno serve la sua cura”, è la replica del viceministro dell’Economia Laura Castelli (M5S).
Ma Salvini insiste nel volere un accordo in Consiglio dei ministri, su tutti i Comuni, o “non voteremo la norma Salva-Raggi” ma, secondo rumor dal mondo leghista, il provvedimento salva Roma non sarà inserito nel decreto ma solo in sede di conversione assieme alle norme per gli altri Comuni.
Il cosiddetto Salva Roma è una norma, contenuta nel testo del provvedimento in discussione, che riguarda il debito storico di Roma. Prevede la chiusura nel 2021 della struttura commissariale (introdotta ai tempi del governo Berlusconi) dipendente da Palazzo Chigi, che gestisce da anni tutti i debiti accumulati dalla Capitale fino al 2008 (giunti al momento a quota 12 miliardi). Il M5S sostiene che “questa operazione non comporta oneri maggiori per lo Stato, anzi produrrebbe dei risparmi e risorse in più a disposizione”.
Ma il decreto in discussione, non riguarda solo la Capitale. Dentro c’è un po’ di tutto. In primo luogo soldi per le imprese con il ripristino del superammortamento del 30% per acquisti di beni strumentali nuovi effettuati da imprese e professionisti dal 1° aprile e fino al 31 dicembre 2019, l’aumento della deducibilità Imu sui capannoni mentre, l’estensione a tempo indeterminato del prestito «ponte» concesso ad Alitalia nel 2017 e la trasformazione degli interessi in capitale della compagnia, i rimborsi per i truffati dalle banche che hanno subito un danno a seguito dell’acquisto di strumenti finanziari emessi dalle banche sottoposte ad azione di risoluzione.

martedì 23 aprile 2019

Francia, una fase politica densa di conflitti

A circa un mese dall’elezioni politiche europee, la fase politica in Francia è ad un suo snodo fondamentale.
L’ennesimo tentativo di strumentalizzazione politica per chiamare all’Unione Sacrée – in questo caso l’Incendio del tetto di Notre-Dame e la priorità della sua ricostruzione – non ha sortito alcun effetto di smobilitazione, né aumentato la popolarità di Macron.
“Non sarà un incendio a fermarci”, ha dichiarato J. Rodriguez, una delle figure di spicco del movimento.
“Non si ascolta il popolo, e all’improvviso, si tirano fuori milioni per delle pietre”, ha dichiarato un manifestante ai giornalisti di “Mediapart”, sintetizzando il sentimento di una buona parte dei cittadini francesi o, come recitava lo striscione del DAL – che si occupa del diritto all’abitare – “Notre-Dame è senza tetto, anche noi”. Espressioni dure e apparentemente ciniche, ma che colgono il senso politico del tentativo macroniano di coprire con una “emergenza” il conflitto sociale che si è aperto.
L’appeal per l’azione politica di Macron, secondo un sondaggio Opinionway diffuso lo scorso sabato, si attesterebbe a circa un quarto degli intervistati – il 27% per l’esattezza – addirittura un 5% in meno rispetto a marzo.
Un dato significativo, per quanto possa valere un sondaggio, è il fatto che mentre un 30% si è detto scontento del Presidente, ben un 40% si è detto molto scontento!
La marea gialla giunta al suo XXIII Atto di mobilitazione consecutiva dal 17 novembre, non sembra aver esaurito la sua spinta propulsiva.
Dopo il riuscito appuntamento nazionale del XXII Atto a Tolosa, il XXIII a Parigi è stata una mobilitazione riuscita, nonostante il dispositivo usuale messo in piedi per impedire la partecipazione: fermate della metrò chiuse, perquisizioni a tappeto, fermi “preventivi” e la solita repressione che coinvolge sempre più anche gli operatori dell’informazione. Il tutto preceduto da una campagna di terrorismo psicologico che prefigurava il ripetersi di uno scenario di scontro simile a quello svoltosi il 16 marzo scorso ai Campi Elisi, e l’impiego in tutto l’Esagono di ben 60.000 agenti.
Più di 14.000 controlli preventivi e 137 fermi preventivi con interrogatorio solo a Parigi danno il senso della restrizione del diritto di manifestare in Francia, così come l’impossibilità di dar vita a due concentramenti previsti nella capitale, come a Châtelet e Madeleine.
A Tolosa il sabato precedente, era stata di fatto impedita la formazione di un corteo unitario ed il concentramento nella piazza abituale della “marea gialla” della città occitana.
Anche questa volta, come hanno denunciato alcune associazioni di giornalisti – tra cui l’Associazione Nazionale dei Giornalisti (SNJ) e Reporters Senza Frontiere (RSF) – il diritto di cronaca è stato leso, tra l’altro con l’arresto del noto giornalista indipendente Gaspard Glanz (di “Tanaris News”) e Alexis Kraland e l’intimidazione di numerosi giornalisti, come hanno loro stesso testimoniato.
Un tentativo palese di fornire una informazione corretta, attraverso in particolare la circolazione di foto e filmati che “smentiscono” la narrazione governativa, per cui non ci sarebbero state violenze poliziesche indiscriminate e si dovrebbe invece parlare ipotetici cali della protesta.
La capitale sarà teatro anche il prossimo sabato di una iniziativa assolutamente rilevante, promossa da CGT, France Insoumise ed alcune figure di spicco dei GJ come Priscilla Ludosky, ossia la convergenza in un “Fronte Popolare” dei vari settori che in questi mesi – ma anche in precedenza – si sono mobilitati contro la Macronie.
Una idea-forza, quella di un “Fronte Popolare”, che affonda le sue radici nella storia francese, in uno dei suoi momenti più alti di protagonismo delle classi subalterne e della convergenza delle varie rappresentanze sindacali e politiche negli Anni Trenta del secolo scorso.
L’appello all’unità d’azione esplicita che il 27 aprile non sia “un fine in sé, ma la costruzione di un processo di mobilitazione che deve essere in crescendo”.
Questa azione ha il sostegno anche del PCF e del NPA, tra gli altri.
Come ha dichiarato Olivier Mateu (dell’Unione Dipartimentale della CGT delle Bouches-du-Rhône) “è l’essere tutti insieme per ingaggiare la battaglia contro il governo”.
Un altro importante appuntamento nell’agenda delle mobilitazioni sarà il Primo Maggio – come già era percepibili dalla discussione della seconda Assemblea delle Assemblee di Saint Nazaire – in cui le “giacche rosse” del sindacato e quelle gialle si ritroveranno insieme nei cortei che si svolgeranno nell’Esagono.
François Ruffin – giornalista “d’assalto” e deputato della FI, nonché co-autore del documentario J’veux du Soleil, che sta avendo un enorme successo di pubblico – ha chiamato per l’anniversario dell’entrata in carica del governo Macron il 4 maggio a “riappropriarsi delle rotatorie”.
Come mostra il video montato dalla pagina FB “Cerveaux non disponibles”, con i filmati girati dalle varie mobilitazioni, ci sono state partecipitate manifestazioni a Avesnes, Becançon, Bordeaux, Caen, Cahors, Dijon, Gramat, Grenoble, Lille, Lyon, Marseille, Montpellier, Nantes, Narbonne, Nizza, Pau, Rouen, Saint-Étienne, Tolone, Tolosa, Tous…
La pagine FB “Le Nombre Jaune”, che si occupa di dare stime attendibili delle mobilitazioni, fornisce la cifra di 98.182 manifestanti “come minimo” su 115 località recensite – rivedendo leggermente al ribasso di qualche migliaio quelle fornite nel tardo pomeriggio, ma molto lontano dalle cifre ridicole fornite dal ministero dell’interno: 28.000.
Christophe Castaner, primo ministro dell’esecutivo, colpito da tempo da una strana coazione a ripetersi, ha parlato nel suo discorso di sabato di “sgonfiamento” del movimento, nonostante l’Atto XXII – sempre per la pagina FB NJ – avesse visto la partecipazione di 91.276 persone, in 261 azioni.
Così, ad un mese dalle elezioni europee, al centro dell’attenzione pubblica rimangono le questioni inerenti a precise rivendicazioni sociali e politiche poste da cinque mesi dalla “marea gialla”, cui si sono aggiunte nel corso delle settimane quelle di un ampio spettro di soggetti: dal sindacato al mondo degli studenti, passando per gli insegnanti, fino ai movimenti per la transizione ecologica e sociale che – venerdì – hanno realizzato alla Defense, a Parigi, un’azione di disobbedienza civile di massa tra le più riuscite.
Si annuncia un periodaccio per le oligarchie che hanno scommesso su Macron.

venerdì 19 aprile 2019

L’Antimafia mette in crisi la Lega e il governo

Un sottosegretario indagato per sospetta corruzione da parte di imprese di copertura della mafia, non è una novità. Che il sottosegretario in questione si occupi di infrastrutture, nemmeno. Come ricordano sempre i No Tav, dietro ogni grande opera infrastrutturale ci sono sempre anche interessi della grande malavita organizzata.
Che un sottosegretario sospettato di cotanta vergogna sia difeso a spada tratta dal ministro dell’Interno – magari da uno che va in giro spesso travestito da poliziotto – invece è proprio una novità.
Ancor più “innovativa” è la tecnica investigativa usata dal suddetto ministro di polizia: “Ho sentito Siri (Armando, il sottosegretario sotto inchesta, ndr) oggi, non sapeva nulla“. Se un qualsiasi accusato se la potesse cavare così, probabilmente, avremmo galere vuote e aule di tribunale deserte, con grave crisi occupazionale tra guardie ed avvocati. E dire che il ministro di polizia ha qualche strumento di informazione riservata in più, rispetto all’autocertificazione dell’accusato…
In fondo aveva già patteggiato una condanna per bancarotta fraudolenta, risulta titolare di un paio di società con sede in paradisi fiscali, e quel socio in odor di mafia è storia non proprio nuova…

Ironia a parte, la vicenda del sottosegretario leghista indagato dall’Antimafia sta dando gli ultimi colpi di maglio a una maggioranza di governo – e a una classe politica di risulta – che l’establishment non ha mai apprezzato troppo. Neanche quando rinunciava, una dopo l’altra, a tutte le promesse fatte in campagna elettorale, sotto la pressione dei “mercati” e della Ue.
Per i Cinque Stelle, pur parecchio “secolarizzati” rispetto ai tempi in cui chiedevano “ogni indagato si deve dimettere”, si tratta del classico problema che può tramutarsi in un’occasione. Il problema è rappresentato dal fatto che un sospetto di corruzione/collusione con la mafia proprio non può rientrare tra le numerose “eccezioni” fin qui fatte sui sacri princìpi; dunque sono obbligati a chiedere le dimissioni di Siri. L’occasione, palpabile, è quella di arrestare l’ascesa nei sondaggi dell’invadente alleato leghista.
Ma qui il rischio deragliamento per il governo diventa altissimo. Siri non è un sottosegretario qualsiasi. E’ il principale consigliere economico del poliziotto en-travesti, nonché estensore della proposta-simbolo della Lega in vista delle Europee: la flat tax.
Dunque la sua caduta si tradurrebbe in una piccola valanga dentro il Carroccio (nessuno può credere che sia davvero un “partito coeso”, vista la marea di interessi strutturati che hanno fin qui sostenuto il corso salviniano), perché se non riesce a difenderti un vice-premier ministro di polizia vuol dire che devi proprio sparire dalla circolazione. Tu e tutti quelli che rappresenti.
Come si vede, per quanto riguarda “la politica” italiana siamo sempre lì. All’incrocio tra interesse pubblico, interessi mafiosi, “statisti” di spessore zero, politicanti furbetti abbagliati dalla potenza della “comunicazione” trasformata in “autopromozione”, imprenditori nelle anticamere di Palazzo con la mazzetta nella 24ore… Mancano solo le olgettine, ma attendiamo fiduciosi.
Nel frattempo i paparazzi ci ammanniscono un Mario Draghi “dal volto umano”, che va a messa la domenica con la moglie. Sia mai detto che un candidato premier per un governo di “salvezza nazionale” possa esser sospetto di laicità…

giovedì 18 aprile 2019

Il vero cambiamento in Europa verrà dal popolo

L’Unione europea si trova a un bivio. Sarà parte della soluzione alla crisi climatica o del problema? Rimarrà attaccata a politiche fallimentari orientate esclusivamente alla logica di mercato o sceglierà una direzione differente? L’estrema destra utilizzerà l’UE per diffondere l’intolleranza? Oppure saremo in grado di trasformare la cooperazione europea in una cooperazione basata sulla solidarietà? Una cosa è certa: per affrontare le sfide che ci attendono, dobbiamo uscire dagli attuali Trattati europei.
Dai socialdemocratici ai conservatori, l’élite politica dell’Unione Europea ha accettato di attuare politiche economiche che aumentano le disuguaglianze, salvare le banche e tagliare prima di tutto i bilanci per le politiche sociali. Le grandi imprese e i lobbisti sono i protagonisti dell’agenda politica europea, quando i diritti dei lavoratori e le questioni ambientali vengono a malapena affrontate. I socialdemocratici europei e la destra europea si sono fusi per mettere al timone una élite che considera le privatizzazioni e sempre più mercato come la soluzione a tutti i mali.
Nel frattempo, la gente comune soffre di insicurezza e precarietà economica. Mentre l’oligarchia sorseggia champagne negli alberghi di Bruxelles, le disuguaglianze economiche in Europa si stanno aggravando. Non sorprende quindi che le persone stiano perdendo fiducia nel sistema. E che alcuni guardano all’estrema destra per avere delle risposte.
Le elezioni europee del 2019 potrebbero essere un successo per i partiti di estrema destra. Eppure questi sono partiti che collegano il razzismo con la misoginia e gli attacchi alla comunità LGBTQ. Partiti che attaccano il diritto del lavoro introducendo una settimana lavorativa di 60 ore, come in Austria, e vogliono limitare la libertà di stampa. Affermano di difendere la libertà di espressione, ma in realtà ne costituiscono la più grande minaccia.
I fascisti si organizzano e cercano di impadronirsi del potere nell’Unione Europea. Siamo noi che li combattiamo più risolutamente per evitare che ciò accada. Dicono di essere coloro che sfidano le élite e le politiche liberali dell’Unione Europea, ma in realtà sono l’assicurazione sulla vita del sistema. I liberisti e l’estrema destra sono due facce della stessa medaglia. Dove diffondono odio e razzismo, seminiamo solidarietà e sosteniamo coloro che soffrono per gli effetti delle loro politiche.
I nostri movimenti sono la vera alternativa in queste elezioni, e stiamo diventando sempre più grandi. Vogliamo che emergano politiche globali per salvare il clima. Vogliamo porre fine alle devastanti politiche ordo-liberiste e costruire sistemi sociali più solidi. L’esito delle elezioni europee di maggio potrebbe essere un momento decisivo per l’Unione Europea e il nostro messaggio è chiaro. Siamo disposti a fare qualcosa che l’élite europea non può e non vuole fare: proporre soluzioni concrete ai problemi delle politiche liberiste contro i popoli.
Non è un segreto che la crisi climatica è davanti a noi. E la politica climatica che l’Europa attuerà nei prossimi anni avrà un impatto globale. Sono i nostri movimenti a guidare le politiche climatiche più coerenti, perché sarà impossibile superare l’impasse climatica in cui ci troviamo senza infrangere gli attuali Trattati europei.
Non ci accontentiamo di cambiare soltanto la nostra politica di investimento. Vogliamo porre fine alla nostra dipendenza dai combustibili fossili e rompere i legami con i potenti interessi economici che generano enormi profitti distruggendo il pianeta. Per noi, la questione del clima è legata sia all’uguaglianza che alla democrazia. Proponiamo di migliorare il trasporto ferroviario, l’eliminazione dei combustibili fossili e il potenziamento degli investimenti ecologici. Ma vogliamo andare ancora oltre.
La minaccia climatica si differenzia da altre questioni politiche in quanto il tempo a disposizione si sta esaurendo. Non abbiamo il lusso di aspettare. Ogni anno che passa, ulteriori emissioni di CO2 si accumulano nell’atmosfera e incideranno sul nostro pianeta per secoli, anche millenni. Ogni anno che passa senza azione limita le nostre possibilità. Secondo l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), i prossimi dieci anni sono cruciali per l’umanità. Il Parlamento europeo viene eletto per un mandato quinquennale, il che significa che i politici eletti a maggio guideranno l’Unione Europea per metà di questi dieci anni e avranno un ruolo determinante al riguardo.
L’ascesa dell’estrema destra e la crisi climatica sono entrambe collegate in quanto sono nate dall’economia e dall’élite a favore del mercato. La minaccia della disoccupazione diffonde l’angoscia economica e le disuguaglianze stanno lacerando le nostre società. Coloro che credono che le persone accetteranno discretamente la crescente ingiustizia sociale si sbagliano.
La logica del capitalismo è il carburante che alimenta il continuo aumento delle emissioni di CO2. L’oligarchia lascia fare alle forze di mercato quando sappiamo che il mercato non può risolvere la crisi climatica. Mettono i loro profitti prima del pianeta, anche se il nostro pianeta sta morendo.
Dobbiamo chiederci tutti: a cosa servono i politici che pensano dell’umanità solo dal punto di vista degli individui e rifiutano di vedere la nostra fondamentale interdipendenza? Che senso hanno i partiti politici che non vogliono attaccare le multinazionali, che sono tra i maggiori inquinatori del pianeta? Per salvare il clima, abbiamo bisogno di politiche pronte ad affrontare le grandi imprese e i lobbisti. Abbiamo bisogno di politici che credono che il cambiamento sia possibile e che comprendono che insieme possiamo fare la differenza.
L’Europa ha anche bisogno di una forma di cooperazione migliore e più democratica. Occorre restituire più potere agli Stati e ai popoli, e gli interessi delle grandi imprese devono essere sconfitti. Vogliamo riprenderci il potere dai burocrati e dai lobbisti europei. Ecco perché la cooperazione tra i nostri movimenti è importante in questa campagna elettorale. Faremo appello agli elettori insieme e parleremo della nostra alternativa.
Vogliamo utilizzare la nostra posizione critica nei confronti dell’UE per creare una cooperazione europea più democratica, equa e sostenibile. Invece che rassegnazione, vogliamo infondere speranza e determinazione. Quando un governo propone una riforma progressista e umanistica invece di seguire gli ordini dell’UE, noi la sosteniamo. Quando gli Stati membri rifiutano di accettare privatizzazioni di massa, noi li sosteniamo. Quando l’Unione Europea sceglie di aumentare le spese militari, proponiamo di spendere questi fondi per invertire il cambiamento climatico. Questo è il nostro messaggio agli elettori in queste elezioni.
Non possiamo immaginare che ci sia qualcosa di più importante del salvare il clima e invertire l’epidemia di autoritarismo e razzismo. Non commettete errori, voi avete in mano la chiave del cambiamento in Europa.

lunedì 15 aprile 2019

Il sindacato complice

Il poeta francese Charles Baudelaire affermava che “la più grande astuzia del diavolo è farci credere che non esiste”. I padroni hanno storicamente fatto tesoro di questa lezione, tanto da dotarsi di una teoria economica – il paradigma economico oggi dominante – che ha tra i suoi principali obiettivi quello di convincerci che, alla fine della fiera, non c’è alcuna contrapposizione e inconciliabilità tra gli interessi dei lavoratori e dei capitalisti.
Ora, chiunque abbia lavorato anche solo una settimana in vita sua, chi è disoccupato o sottoccupato, sa benissimo che questa è una menzogna bella e buona, utile solamente a tenere al riparo proprio i capitalisti da noiose rivendicazioni. Una cosa apparentemente così banale e di buon senso deve essere sfuggita ai sindacati confederali i quali, dopo tanto parlare di partito del PIL ed armonia sociale, decidono finalmente di fare il grande passo e lanciano un ‘Appello per l’Europa’ insieme alla principale organizzazione padronale italiana, Confindustria.
Un quadro idilliaco si apre di fronte agli occhi del lettore dell’appello, un universo dove siamo tutti sulla stessa bella barca, padroni e lavoratori, tutti con la fortuna di risiedere in una Unione Europea che viene presentata come “il progetto […] cruciale per affrontare le sfide e progettare un futuro di benessere per l’Europa che è ancora uno dei posti migliori al mondo per vivere, lavorare e fare impresa”.
La premessa dice già tutto. L’architettura europea è un valore di per sé e non necessita di alcuna riflessione critica. Chi ha scritto l’appello, chiaramente, non ha vissuto e non vive come un problema i vincoli di finanza pubblica e le politiche di austerità, che hanno causato il ritorno della disoccupazione di massa e il peggioramento materiale delle condizioni di vita di milioni di lavoratori. In tutto il testo, è presente solo un vago e impersonale riferimento a generiche “politiche di rigore”, senza neanche menzionare chi queste politiche di rigore le ha congegnate e imposte agli Stati membri, in particolare quelli della periferia europea.
La crisi e le suddette politiche di rigore, inoltre, sembrano due entità indipendenti l’una dall’altra, come se non fossero state le seconde una delle cause fondamentali della prima. E il metro di giudizio, in ogni caso, è sempre il potenziale danno in termini di benessere di lavoratori e imprese, quasi a voler identificare le due entità come un unicum a-conflittuale, cooperativo e pacificato.
Ma veniamo ai contenuti dell’appello. Il documento, nell’invitare i cittadini europei all’esercizio del voto per le elezioni del parlamento europeo – e, di fatto, nell’indirizzare palesemente un istituto per sua natura libero e democratico in favore, guarda caso, di quelle forze politiche sostenitrici dell’austerità europea – esordisce con un attacco ai presunti sovranismi che hanno preso piede in Europa, affermando che le conseguenze economiche e sociali della crisi degli anni recenti non possono essere risolte con un ritorno all’isolamento degli Stati nazionali e alle barriere commerciali, suscettibili di richiamare in vita “gli inquietanti fantasmi del Novecento”.
Quest’espressione è lasciata volutamente vaga, in maniera tale da poter far riecheggiare, nelle orecchie di qualche sincero liberale, l’incubo del fascismo. Ma sufficientemente generica da poter anche rievocare, nella mente del padroncino che legge, gli anni dell’esplosione del conflitto sociale e della lotta di classe, che mettevano a repentaglio privilegi e profitti. Se, leggendo il documento, è molto chiaro cosa NON si deve fare per uscire dalla crisi, la parte propositiva è affidata alla propaganda: bisogna rilanciare con forza il progetto europeo.
Un progetto che avrebbe garantito “una pace duratura in tutto il nostro continente e ha unito i cittadini europei attorno ai valori fondamentali dei diritti umani, della democrazia, della libertà, della solidarietà e dell’uguaglianza”. Una pace duratura all’interno dei confini dell’Unione che ha avuto il suo corrispettivo, giusto per limitarci agli ultimi vent’anni, in una serie interminabile di conflitti in giro per il mondo, partendo dai confini di casa con la guerra in Jugoslavia nel 1999, passando per Afghanistan, Iraq, Libia, Ucraina e arrivando all’appoggio e la legittimazione dati al golpista e burattino Juan Guaidó in Venezuela. Decine di migliaia di morti, Paesi devastati e spoliati, il tutto con la partecipazione attiva dei paesi membri dell’Unione, a titolo individuale o sotto l’ombrello della NATO. 
Un’idea di ‘pace duratura’ davvero originale e che fa a pugni con la realtà. Ma questo non sembra preoccupare gli estensori dell’appello, estensori che possono senza problemi richiamarsi all’uguaglianza, ignorando o fingendo di ignorare che gli ultimi 40 anni hanno visto un’esplosione delle disuguaglianze e una compressione continua e ininterrotta della quota di reddito che va ai salari e che i vincoli di finanza pubblica imposti dai Trattati impediscono il raggiungimento di qualsiasi tipo di uguaglianza sostanziale.
Sulla base di tali premesse, quali sarebbero, allora, secondo l’appello, le strategie da adottare per il ‘rilancio’ del progetto europeo?
Il documento è diviso in tre sezioni: nella prima, “Unire persone e luoghi”, si promuove l’Apprendistato Europeo per permettere ai giovani di formarsi in una sorta di ‘Erasmus in azienda’ – un programma che ben rappresenta la concezione liberista dell’istruzione come strumento di creazione di forza-lavoro alla completa mercé delle imprese e incarnazione di quell’ideale europeo di mobilità del lavoro che non nasconde altro che una guerra tra poveri su scala continentale.
C’è poi il “Piano straordinario per gli investimenti in infrastrutture ed in reti”, che dovrebbe “promuovere un modello di crescita e di vita socialmente e ambientalmente sostenibile, rispettoso dell’equilibrio naturale ed energivoro”. Parole bellissime e condivisibili, che però fanno venire in mente la strenua difesa della TAV ad opera di sindacati confederali e Confindustria, un progetto che contraddice completamente il concetto di “ambientalmente sostenibile” e che di certo non sembra puntare ad “unire territori, città e paesi” in quanto, tanto per fare un esempio, Torino e Lione sono già collegate dalla linea ad alta velocità TGV.
La seconda sezione, intitolata “Dotarsi degli strumenti per competere nel nuovo contesto globale”, al primo punto ripropone il mantra liberista del rafforzamento della libertà di movimento dei capitali. Ci era sembrato che i capitali all’interno dell’UE non avessero particolari problemi a spostarsi dove fa più loro comodo, alla ricerca del massimo profitto, ma secondo Confindustria e i sindacati confederali si può fare di più e meglio.
L’appello, tuttavia, dimentica di dire cosa significhi, concretamente, la libera circolazione dei capitali, cioè la possibilità per le imprese di delocalizzare la produzione in quei Paesi o regioni dove sono presenti salari da fame e dove la forza-lavoro ha un potere contrattuale nullo. O, nel ‘migliore’ dei casi, la garanzia per il padronato di una forza contrattuale tale da costringere i lavoratori, sotto la minaccia della delocalizzazione, ad accettare livelli salariali più bassi e condizioni lavorative peggiorate (si pensi ad esempio alla FIAT).
Sostenere una simile posizione dona una luce sinistra anche al proposito di armonizzare, a livello europeo, i sistemi fiscali, i trattamenti salariali, i sistemi di protezione del lavoro e i diritti dei lavoratori, in quanto sorge spontaneo il dubbio che la finalità di entrambe le proposte sia quella di condurre ad una revisione o “armonizzazione” al ribasso dei livelli salariali, dei diritti e dei prelievi fiscali proprio per favorire gli afflussi di capitale.
Tutto questo andrebbe abbinato ad una imprecisata “politica industriale europea”, che non ha l’obiettivo di aumentare e sostenere l’occupazione, per carità, bensì migliorare la competitività. Leggere tali affermazioni, unite al contenuto presente nelle due sezioni successive (“Potenziare la rete di solidarietà sociale europea” e “Sviluppare il dialogo sociale e la contrattazione”) aiuta a comprendere la linea seguita dal documento, laddove da un lato inserisce qua e là qualche spruzzo di misure sociali (d’altronde, i sindacati confederali sono tra gli estensori dell’appello), le quali però risultano inapplicabili e inattuabili se, al contempo, si struttura l’intera proposta con politiche in favore della libertà di movimento dei capitali o con provvedimenti che non mettono in discussione i vincoli europei alla spesa pubblica.
Qualora il ragionamento vertesse su una tassazione comune a livello europeo, ad esempio sui redditi da capitale (peraltro già piuttosto bassa in Italia, con un’aliquota unica al 24%), o su una definizione di ‘standard retributivo’ europeo minimo (nonostante, anche in tempi recenti, confederali e Confindustria si siano espressi negativamente sul salario minimo), ciò in ogni caso non sembrerebbe essere da impedimento allo spostamento dei capitali in Paesi dove i salari sono comunque più bassi. In altri termini, il problema è la libertà di movimento dei capitali in sé che, tranne per un pallido accenno a forme di “dumping sociale e salariale”, l’appello non mette minimamente in discussione.
Veniamo alle proposte contenute nella terza sezione (“Potenziare la rete di solidarietà sociale europea”), laddove si parla di un sostegno europeo al reddito con “funzione di stabilizzazione del ciclo economico” in occasione di crisi di uno o più Paesi membri. Misure di sostegno a chi perde il lavoro e ammortizzatori sociali sono una triste necessità, all’interno di un sistema economico che ha bisogno della disoccupazione di massa come strumento disciplinante del lavoro.
Tuttavia, Confindustria e sindacati confederali si premurano di specificare che queste misure devono essere tali da “non pesare sulle imprese”. E su chi dovrebbero pesare, allora? Dati i vincoli di finanza pubblica e il mantra della scarsità delle risorse, che sia i sindacati confederali che Confindustria sposano appieno, il costo dell’eventuale sussidio verrebbe fatto interamente ricadere sul lavoro dipendente. Una soluzione quanto meno curiosa, in quanto l’erogazione di un sussidio in favore di chi perde il lavoro o di chi versa in condizioni di povertà sarebbe a carico dei lavoratori, contribuendo ad accentuare le disparità nella distribuzione del reddito e a fomentare la guerra tra poveri.
Criticare ed attaccare sindacati che rappresentano milioni di lavoratori non è un esercizio piacevole o divertente. Tuttavia, purtroppo, diventa un’amara necessità nel momento in cui chi ha il compito di difendere gli interessi dei lavoratori abdica completamente ai suoi doveri, contribuendo a diffondere scoraggiamento, sfiducia e rassegnazione. Il mondo del lavoro è nel pieno di una delle peggiori fasi di arretramento degli ultimi decenni in termini di reddito, diritti e condizioni lavorative.
La migliore idea che i sindacati confederali sono stati in grado di concepire per arrestare questa deriva consiste nel consegnarsi, mani e piedi, alla benevolenza del padronato, sognando un inesistente mondo senza conflitti sociali. Il tutto con la benedizione delle istituzioni europee. Non ci vuole particolare ingegno per capire come questa strategia sia suicida. Provare a fermarla è un dovere per chi, non ancora totalmente accecato dalla propaganda del nemico di classe, vuole davvero difendere gli interessi dei lavoratori e di tutti coloro che non hanno nulla da guadagnare da questo sistema economico.

giovedì 11 aprile 2019

La Nuova Era cinese tra declino Usa e debolezze Ue

La Cina resta un oggetto misterioso, specie per chi ha paura di guardare negli occhi – e provare a capire – una diversità di così enormi dimensioni. Come sempre accade, il riflesso condizionato conduce a ridurre l’ignoto al noto, perdendo di vista proprio l’elemento centrale che andrebbe indagato: la differenza tra quell’oggetto e gli altri.
C’è chi si rifugia nelle definizioni prese a prestito dai media mainstream (“dittatura”, “mancanza di libertà”, ecc), che non spiegano affatto il successo cinese, ma cercano di dipingerlo in una luce negativa.
E c’è chi – specie nelle diverse espressioni della “sinistra radicale” – prova a buttarla in ideologia di risulta, citando a vanvera i classici del marxismo (singole frasi decontestualizzate, per lo più), per arrivare a concludere frettolosamente che “è solo normale capitalismo” o all’opposto “va tutto bene così, il socialismo è questo”.
A noi interessa conoscere e capire, sapendo bene la limitatezza delle fonti cui riusciamo ad accedere e la complessità del problema.
Per questo vi invitiamo a leggere – e a meditare – su questa intervista rilasciata a Jacobin Italia dall’ex ambasciatore italiano a Pechino, Alberto Bradanini.
Perché non è soltanto una fonte di informazione, ma un punto di vista assolutamente più elevato di quanto non sia possibile trovare nella scarsa pubblicistica italiana sul tema.
Colpiscono i giudizi sull’Unione Europea, la dissennata e feroce politica tedesca, lo status di minorità dell’Italia, la funzione di rapina dell’euro, l’indebolimento strategico degli Stati Uniti, la programmazione a lunghissimo termine dei cinesi.
Ma colpiscono ancora di più le considerazioni fatte sulla storia del movimento comunista mondiale del ‘900, che denotano grande attenzione allo studio degli interlocutori da parte di un “tecnico della diplomazia” che, evidentemente, è stato obbligato a sapere e capire il più possibile di quel che davvero la Cina è. Per storia, scelte, analisi, conflitti, cultura.
Una lezione di storia e di economia, di geopolitica e di teoria politica, che può tornare utile a tutti. A chi si è fin qui abbeverato alle fonti avvelenate dei media mainstream, ma anche a chi ha bisogno di esser svegliato dal “sonno dogmatico”.
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La Nuova Era cinese tra declino Usa e debolezze Ue
Martino Avanti – Alberto Bradanini
9 Aprile 2019
Il modello cinese, il dominio della politica sull’economia e la piena sovranità politica spiegati dall’ex ambasciatore Alberto Bradanini
Abbiamo fatto qualche domanda ad Alberto Bradanini, consigliere commerciale all’ambasciata italiana a Pechino tra il 1991 e il 1996 e poi ambasciatore a Pechino nel periodo 2013-2015. Parla del modello cinese, del dominio della politica sull’economia e  della piena sovranità sono le condizioni per aspirare allo sviluppo mantenendo come obiettivo finale l’affermarsi del socialismo, per quanto il termine sia oggi mescolato a una forte apertura al capitalismo. «Un insegnamento utile anche all’Italia e l’Unione europea», dice l’ambasciatore. Che invita a cogliere l’opportunità di interloquire con la Cina e a un atteggiamento meno subalterno tanto agli Usa quanto al dominio tedesco.
Quali prospettive si aprono per l’Italia e per l’Europa con l’ascesa della Cina come protagonista della politica (e dell’economia) internazionale?
L’Europa è un continente politicamente ed economicamente frammentato. Nell’Ue, dove prevalgono le priorità stabilite dal direttorio franco-tedesco, vige la legge della giungla, e non certo quello spirito di solidarietà che pervade le pagine dei Trattati. Sul piano strategico, la Cina avrebbe interesse a dialogare con un’Europa come soggetto politico non solo economico, alla luce della concezione multipolare delle relazioni internazionali che reputa di sua convenienza. Un percorso questo oggi assai improbabile per ragioni endogene, e comunque indipendente dalle scelte cinesi.
Nei limiti menzionati, l’Europa potrà beneficiare dell’interazione con l’economia cinese se riuscirà a essere leader nei settori industriali di punta e nelle tecnologie del futuro. A tal fine però sarebbero necessari massicci investimenti pubblici che sono oggi impediti dalle assurde politiche di austerità di marca tedesca.
L’Italia potrà a sua volta raccogliere qualche beneficio da un’interlocuzione con la Cina se, dopo aver recuperato la propria sovranità monetaria, saprà avviare una politica economica degna di questo nome, riavviando il tessuto industriale ridottosi del 20% nell’ultimo decennio e investendo massicciamente su innovazione e ricerca. In assenza di ciò, l’Italia è destinata a raccogliere solo poche briciole dal dialogo con la Cina, sia in seno che al di fuori del progetto Belt and Road. Nelle tecnologie di punta inoltre il dislivello tra i due paesi è già forte e non facilmente colmabile.
Nella politica estera europea, competenza rimasta ai paesi membri, non si è mai raggiunta alcuna posizione unitaria nei riguardi della Cina, così come in quasi nessuno dei dossier caldi della scena internazionale. In occasione della firma dell’MoU tra Italia e Cina, le critiche dell’Ue (che riflettevano quelle di Francia e Germania) erano motivate dall’esistenza di un governo euroscettico a Roma e dalla potenziale concorrenza italiana ai paesi nordeuropei sul business con la Cina. Nulla che avesse a che fare con le esigenze di definire una postura unitaria.
Più che l’Italia, del resto, sono altri i paesi Ue che hanno commercio e investimenti con Pechino. Il primo partner cinese in Europa è la Germania: nel 2017, 180 miliardi di euro di commercio bilaterale, la metà di tutta l’Ue, seguita da Olanda, Regno Unito, Francia e solo quinta Italia. La Gran Bretagna è il primo paese per investimenti cinesi, con oltre 230 acquisizioni, seguita da Germania, Francia e solo quarta l’Italia. Inoltre, la Commissione ignora da anni un disavanzo Ue-Cina di oltre 175 miliardi (solo quello italiano supera i 20 miliardi) e la ragione è banale: le politiche Ue verso la Cina sono pilotate dalla Germania, unico paese Ue (a parte le irrilevanti Irlanda e Finlandia) a godere di un avanzo commerciale nei riguardi di Pechino (oltre 18,5 miliardi) e che non ha alcun interesse a sollevare questo dossier.
Quanto agli investimenti cinesi in Europa, i primi posti sono occupati da Regno Unito e Germania seguiti da Francia e Italia. Ciononostante, non risulta che la Commissione si sia strappata le vesti quando nei mesi scorsi altri 13 paesi membri hanno firmato simili MoU.
Sulle industrie del futuro, infine, invece di combattere una battaglia interdittiva destinata alla sconfitta, sarebbe interesse della cosiddetta Unione Europea far nascere un campione continentale che sia espressione di un’industria integrata che distribuisse dividendi economici, industriali e politici a tutte le nazioni Ue, in un settore strategico per il nostro futuro, così da non dipendere né dai cinesi né dagli americani. Di ciò tuttavia non v’è nemmeno l’ombra nell’Ue di oggi.
Quali sono le preoccupazioni americane rispetto alla penetrazione tecnologica e l’aumento degli investimenti cinesi in Europa? Quali sono i benefici per gli europei e gli italiani? Perché la Belt and Road Initiative è stata al centro del dibattito politico nelle ultime settimane in Italia e in Europa?
Lanciata dal presidente Xi nel 2013 la Bri è un progetto strategico con finalità assai ambiziose. Si tratta di una proposta di sviluppo che la Cina rivolge al mondo intero e che include investimenti, commercio, crediti, meccanismi e standard non più incentrati sul Washington consensus, ma spostati sul Beijing consensus.
Pechino intende imprimere una diversa traiettoria al sistema economico internazionale, creando incentivi e una base alternativa a quella occidentale per dare corpo a una nuova dottrina dello sviluppo e delle relazioni economiche tra le nazioni del mondo. La Bri segna dunque la volontà cinese di acquisire un forte protagonismo internazionale, politico ed economico. La sua sola presenza, a prescindere dall’effettiva viabilità di tale disegno, costituisce una sfida insidiosa per l’impero americano. L’iniziativa prevede due percorsi: uno terrestre, che interessa il continente euroasiatico, e uno marittimo, e coinvolge idealmente 65 paesi, il 70 per cento della popolazione mondiale, con un Pil pari al 30 per cento del totale mondiale. Oltre 50 paesi hanno già firmato i relativi accordi di cooperazione con la Cina.
Il principale veicolo di finanziamento sarà l’Aiib, la banca creata da Pechino e operativa dal maggio 2016, che dispone di un capitale di 100 miliardi di dollari con 57 paesi membri, tra cui l’Italia. La Cina vi ricopre un ruolo centrale e ne detiene il 29,8 per cento delle azioni (la maggioranza di blocco è del 25 per cento). I paesi europei hanno versato il 25 per cento del capitale totale e vi occupano qualche buona posizione manageriale, specie Germania e Regno Unito. L’Ue come tale ha espresso la volontà di non partecipare alla Bri. Ciascun paese membro si muove dunque per suo conto.
In Europa la Cina ha dato vita al Gruppo 16+1 con i paesi centro-orientali del continente, undici dei quali sono membri dell’Ue. Il gruppo è destinatario di un fondo di 10 miliardi di euro che la Cina ha destinato allo sviluppo infrastrutturale in una regione in cui convergono le due componenti della Bri, quella terrestre e quella marittima. Da una parte la concorrenza tra paesi Ue occidentali e orientali gioca a favore della penetrazione cinese, dall’altra un’interazione positiva tra la Cina e i paesi Ue del gruppo potrebbe rivelarsi utile nei negoziati commerciali tra Bruxelles e Pechino.
Con la Bri la Cina intende allo stesso tempo ridurre le distanze tra i due estremi del continente Euroasiatico, imporsi come nuovo protagonista della scena mondiale (e qui occorre che essere guardinghi e salvaguardare un sano equilibrio) e infine, gradualmente, modificare l’ordine economico internazionale. Venendo a noi, dopo una visita di due giorni, il Presidente cinese Xi Jinping ha lasciato l’Italia, ma i guai italiani, che non dipendono dalla Cina e ancora meno dalla Bri, sono rimasti: disoccupazione e sottoccupazione dilagano, la povertà penetra nella classe media, i servizi sociali vengono smantellati, la deindustrializzazione del Paese prosegue e il lavoro di una volta è scomparso.
Le ragioni di ciò sono legate alle politiche iper-liberiste, alla perdita di competitività (utilizziamo una moneta straniera e troppo forte, l’euro), a un’assurda austerità di marca tedesca, alla pessima gestione della globalizzazione e beninteso alle nostre carenze endogene: una classe politica inadeguata, un’amministrazione obsoleta, corruzione e criminalità organizzata.
Non solo l’Italia soffre di un forte deficit di sovranità (da non confondersi con sovranismo), ma anche gli spazi di manovra di un tempo si sono ridotti, mentre le altre nazioni uscite sconfitte dal secondo conflitto mondiale dispongono di un’agibilità politica a noi misteriosamente negata.
La visita di Xi lascerà qualche frutto all’Italia? Forse. Il Ministro Di Maio ha parlato di 2,5 miliardi e un potenziale di 20, sui primi dobbiamo capire meglio, l’incertezza sui secondi è appesa alla capacità dell’Italia – sarebbe cosa rara – di guardare alla stella polare dei suoi legittimi interessi con coraggio ed efficienza, due sostantivi che da 40 anni la Cina cura al grado superlativo.
A tale riguardo, il lavoro da fare non sarà affatto facile, l’Italia dovrà individuare imprese e banche in grado di partecipare – insieme a partner cinesi adeguati – a commesse e gare d’appalto riguardanti i piani infrastrutturali nei paesi della Via della Seta. Un percorso tutt’altro che agevole per un paese diversamente organizzato ed efficiente rispetto alla macchina cinese, o anche ai paesi concorrenti del Nord Europa. A tale riguardo il Governo italiano dovrà curare il rispetto degli accordi da parte di Pechino che ha una consolidata attitudine di firmare accordi solo per raccogliere immediati benefici politici.
Sorprende che nell’occasione il Ministro Salvini abbia scoperto che la Cina, con cui l’Italia ha un commercio di 44 miliardi , non è un paese di libero mercato, senza riflettere che i liberi mercati esistono solo sui libri e che quel mercato ha fatto della Cina la seconda economia al mondo, mentre il SottoSegretario Giorgetti si stupisce della spietata concorrenza cinese alle ceramiche italiane. È facile tuttavia prevedere che il Governo tornerà presto nel letargo dell’improvvisazione.
Nel merito, la Via della Seta c’entra poco con la tipologia degli accordi firmati (tranne quello della Danieli in Azerbajian, che tuttavia si sarebbe verosimilmente concluso a prescindere dalla Bri). Quasi tutte le intese poi fanno parte di un dialogo fisiologico tra Italia e Cina: l’accordo sulle doppie imposizioni, i protocolli sugli agrumi e sui reperti archeologici, l’esplorazione spaziale e i gemellaggi tra città e regioni sono solo un contorno.
Le intese tra aziende poi hanno un valore potenziale, salvo le due di Ansaldo-Energia, la quale non a caso appartiene per il 40% a Shanghai Electric. I porti di Genova e Trieste infine attireranno forse qualche milione di euro d’investimenti cinesi, ma il grande hub nel Mediterraneo la Cina l’ha già acquisito, investendo 700 milioni ad Atene Pireo: quel treno l’Italia l’ha perso per sempre. Trieste però potrebbe parzialmente smentire questa prospettiva, tenendo conto dell’interesse cinese a raggiungere i mercati dell’Europa orientale.
Infine, se risponde al vero che gli accordi sono poi stati ridotti a meno della metà per via delle pressioni Usa, v’è allora da chiedersi che vale essere un paese del G7 se è sempre il Grande Fratello a decidere al nostro posto, mentre lui e i cosiddetti partner europei fanno con la Cina tutti gli affari che vogliono, senza nemmeno firmare alcun Memorandum d’intesa.
L’ascesa della Cina potrà portare a un’emancipazione dell’Italia e dell’Europa dall’egemonia Usa (e della Nato, la sua longa manus)?
Dopo 74 anni dalla sconfitta della guerra e dalla conseguente perdita della sua sovranità politica, l’Italia resta un paese gregario, subordinato alle priorità di altri, in particolare Washington e Bruxelles. La storia insegna che anche le alleanze più solide possono essere rimesse in discussione quando cambiano le circostanze che le hanno generate. Nei rapporti internazionali infatti, sosteneva W. Churchill, non vi sono nemici eterni, ma solo interessi eterni.
Ad esempio, la firma del Memorandum tra Italia e Cina in occasione della visita del Presidente cinese a Roma a marzo, secondo i nostri alleati non andava fatta, sebbene si trattasse solo di un elenco di buone intenzioni, senza valore vincolante. Ma il tentativo di interferire nel decision making italiano (impensabile in Germania, Francia o Svezia) ha preso corpo perché l’Italia è percepita come un paese subalterno.
Gli americani, che guardano alla Cina come al principale rivale strategico, hanno accusato Roma di una (inesistente) violazione della lealtà atlantica, mentre la Commissione Europea (al servizio del direttorio franco-tedesco) ha fatto appello a una mai esistita, tantomeno nei confronti della Cina, politica estera comune dell’Ue.
È esistito un tempo in cui il riverbero degli Stati Uniti d’America, per il bene e per il male, si distendeva sul mondo intero. Oggi la scena internazionale è mutata, è cresciuto il numero dei concorrenti, ciascuno con sue caratteristiche. La potenza militare non riesce più a contenere la vitalità dei nuovi contendenti, sul piano economico, industriale, tecnologico e dunque politico. L’impero americano, di fronte al suo crepuscolo (seppur relativo), invece di cooperare con i nuovi arrivati per ridisegnare in termini inclusivi i destini del mondo, è preso dal panico, e tantomeno si cura di quelle nazioni che aspettano il loro turno per godere, come l’Occidente, dei generosi frutti del progresso.
Oggi, l’élite finanziaria anglosassone, con le sue propaggine nordeuropee, non riesce a garantire nemmeno ai paesi amici il benessere del passato: le classi medie scompaiono, si diffondono povertà e disoccupazione, mentre i paesi in perenne via di sviluppo acquisiscono coscienza che la promessa del Washington Consensus di poter uscire un giorno dalla morsa del sottosviluppo, in cambio di sottomissione politica ed economica, non è altro che una chimera. Ormai disillusi, molti di questi paesi guardano al modello cinese, che in appena 40 anni ha traghettato una nazione di 1,4 miliardi di individui dal medioevo alla post-modernità. Il paradigma sino-popolare infatti – centrato su sovranità nazionale, controllo politico, un governo forte in economia, tutela dei beni pubblici e dei settori strategici (con qualche spazio vigilato alla proprietà privata) – possiede il fascino autentico di chi mantiene le promesse.
Per ora il muscolo cardiaco della finanza mondiale su cui si reggono gli altri segmenti del potere si colloca ancora in Occidente, ma esso è insidiato da dinamiche non più controllabili come un tempo, e che spostano ogni giorno di più verso Oriente il baricentro del pianeta.
Davanti alla proposta strategica della Belt and Road, la potenza americana è presa dall’angoscia che si tratti davvero dell’inizio del crepuscolo, poiché il successo di questo progetto sottrarrebbe all’America spazi vitali sulla scena economica e politica mondiale.
Il capitalismo neoliberale sta mostrando il suo volto più feroce: disoccupazione e povertà in crescita, forte restringimento della democrazia (soprattutto nell’Ue) e una politica estera sempre più aggressiva. Il modello cinese può rappresentare un’alternativa?
La Cina spariglia le carte del potere mondiale politico e finanziario, oggi concentrato nelle mani di poche nazioni, sebbene sembri farsi largo con le stesse armi del liberismo economico e delle corporazioni industriali-finanziarie occidentali.
Il potere cinese è infatti una piramide strutturalmente diversa. Esso, nonostante i suoi limiti  dottrinali e di coerenza, è idealmente al servizio della costruzione di una società nuova (sebbene indefinita), oltre a porsi in termini dialettici rispetto al dominio politico-finanziario di genesi anglosassone che domina in Occidente.
Il Pcc è cosciente del rischio che il socialismo con caratteristiche cinesi possa essere assorbito tout court dal capitalismo da cui è circondato, e cerca a suo modo di erigere qualche barricata, consapevole che potrebbe essere proprio la classe dei nuovi ricchi ad aprire le porte della Cina al Capitalismo occidentale, di cui negli anni recenti ha imparato a condividere valori, stili di vita e il gusto per il potere.  
In Cina il primato del potere politico su quello economico rimane tuttavia indiscusso. Il pragmatismo riformista di Deng aveva mobilitato le risorse economiche del paese, ma lasciato intatta la sfera politica, in una profetica anticipazione di quello che sarebbe accaduto in Unione Sovietica nel decennio successivo, e dei disastri in cui sarebbe incorsa la Cina in caso di analogo destino.
L’esperienza storica ha insegnato alla Cina che l’indipendenza economica e prima ancora la sovranità politica sono condizioni imprescindibili per aspirare allo sviluppo.
Con la sua politica di apertura e riforme Deng aveva a mente l’esperienza della Nep, la Nuova Economia Politica con cui Lenin nel 1921 intendeva mobilitare le forze produttive per migliorare in fretta la vita di operai e contadini, dopo secoli di miseria aggravata dalle privazioni della guerra. Lenin riteneva che alcuni aspetti dell’economia capitalista dovessero essere mantenuti, ed era disposto a rinunciare alla rigida applicazione del principio di uguaglianza. Alla scomparsa di Lenin, il timore dell’aggressione esterna induce Stalin ad abbandonare la Nep a favore dei piani quinquennali che imbrigliano le dinamiche produttive e pongono così le premesse – già allora, secondo Deng – dell’implosione dell’Urss che sarebbe sopraggiunta molti decenni dopo. Stalin, secondo il Pcc, interpretava il marxismo in forma dogmatica, separando radicalmente capitalismo e socialismo, senza comprendere che il primo andava utilizzato come strumento per giungere al secondo. In buona sostanza il Pcc sembra riconoscere, come Lenin a suo tempo, i meriti di un certo capitalismo quale tappa intermedia sulla strada del socialismo, sebbene non manchi chi da sinistra mette in guardia da un’eccessiva deriva capitalista dalla quale sarebbe poi difficile riprendersi.
Cosa significa socialismo dalla caratteristiche cinesi, come viene descritto dal Partito comunista cinese il modello adottato da Pechino?
La costruzione del socialismo è il traguardo ultimo perseguito dal Partito Comunista Cinese (Pcc), un socialismo dalle caratteristiche cinesi la cui nozione tuttavia non ha mai ricevuto dalla dirigenza un’adeguata illustrazione: la prassi – ragiona il Partito – si incaricherà di metterne a punto i contorni, a posteriori. Per il momento occorre liberarsi di quel dogmatismo ideologico che ai tempi di Mao aveva bloccato lo sviluppo del paese. L’ermeneutica della dottrina marxista viene dunque posta al servizio della crescita economica (catturare i topi), vera priorità del paese da quattro decenni, senza guardare al colore del gatto.
Con il termine socialismo/comunismo la dirigenza intende un quadro politico-economico che produce ricchezza e modernizzazione, in attesa che maturino le condizioni per passare alle tappe successive della strada verso il socialismo. Mentre il maoismo aveva una forte impronta autarchica, nazionalista, pauperista e persino antimoderna, il socialismo di Deng, mercantile e di stato, e ancor più quello post-denghiano libero da ogni baluardo ideologico, è pienamente allineato ai processi di globalizzazione, economici, culturali, etici. In un quadro frammentato, la dirigenza mantiene aperte tutte le opzioni.
In verità, la Cina avrebbe in dotazione un patrimonio straordinario, se riuscisse a coniugare il pensiero classico con quello recente di genesi socialista, aggiornandolo alla luce delle moderne sensibilità: la libertà dell’individuo, che il socialismo nella sua attuazione storica ha trascurato, e l’equità distributiva della ricchezza. Tale sinergia etico-politica aprirebbe sentieri nuovi alle idealità del mondo.
Mentre i bolscevichi avevano sovietizzato il marxismo, i cinesi lo hanno sinizzato, anche se i due percorsi sono stati diversi. Il Partito Comunista Sovietico, all’indomani della conquista del potere, aveva puntato sulla rivoluzione universale, perdendo poi tra contraddizioni e ambiguità – e per necessità di sopravvivenza (secondo il punto di vista sovietico) – la sua iniziale dimensione internazionalista.
La maggior preoccupazione dei comunisti cinesi fu all’inizio la fragilità della nazione e la sostenibilità del processo rivoluzionario in un paese sterminato e arretrato, per di più in assenza di una classe operaia degna di questo nome. Il Pcc ritenne che in quelle condizioni, non si poteva chiedere al comunismo cinese di occuparsi della palingenesi proletaria universale. E tale attitudine nazionalista è tuttora la stella polare del Partito.
I capisaldi del socialismo con caratteristiche cinesi sono costituti dal dogma della sovranità nazionale, un ferreo controllo della società, la forte presenza dello Stato in economia, il controllo della finanza, delle grandi aziende/corporazioni e dei settori  fondamentali del paese (proprietà e iniziativa private, giudicate utile a generare ricchezza in questo frangente storico, sono de facto attenuate e attentamente monitorate) e la proprietà pubblica della terra (sebbene talvolta il suo possesso sia gestito con metodi capitalisti).
Quanto all’iniqua distribuzione della ricchezza, il Partito afferma che si tratta di una fase transitoria che verrà corretta strada facendo, sebbene i rischi di deriva capitalista oltre una soglia di sicurezza vengano giudicati da sinistra quanto mai concreti. Un deficit di attenzione ha riguardato l’ambiente, pesantemente sacrificato negli ultimi 40 anni dalle necessità della crescita, e il mondo del lavoro, le cui condizioni sono in Cina subordinate alle esigenze della produzione.
Che giudizio si può dare dell’esperienza del comunismo cinese, a 70 anni dalla fondazione della Repubblica Popolare? Si tratta di un modello che può essere preso a riferimento da parte delle altre forze socialiste nel mondo?
Sette o ottocento milioni di individui strappati alla morsa della povertà sono l’evidenza storica del successo del modello cinese. Se la rivoluzione non è un pranzo di gala, come predicava Mao, ebbene non lo è nemmeno l’uscita dal sottosviluppo. E dunque dal lato dei costi dobbiamo collocare le deviazioni della dottrina e della prassi del Partito dai canoni del pensiero classico marxiano, una debole tutela dell’individuo davanti allo Stato, sfruttamento del lavoro, servizi sociali insufficienti (ma in costante ampliamento), inquinamento ambientale e iniqua distribuzione della ricchezza.
Nell’insieme, sebbene in forma non paritaria, le condizioni del popolo cinese sono enormemente migliorate negli ultimi decenni (il Pil pro-capite è passato da 165 dollari nel 1976 a oltre 9000 nel 2018), mentre i veri poveri (anche per gli standard cinesi) non superano oggi qualche decina di milioni su 1,4 miliardi di abitanti e sono in costante diminuzione. Per di più tale straordinario successo ha avuto luogo senza sostenere i costi dei paesi capitalisti che tentano di uscire dal sottosviluppo (inurbamento di massa, degrado umano, criminalità endemica, promiscuità), senza peraltro riuscirci.
Sorprende molto che il modello cinese non venga adeguatamente apprezzato e divulgato sulla scena internazionale (a partire dalle N.U.). Nel merito, gli ingredienti che hanno portato al successo della Repubblica Popolare sono i seguenti: la pace, una sovranità politica piena, una solida guida politica, una stabile presenza dello stato in economia, un buon apparato amministrativo d’esecuzione.
Quanto alle forze socialisteprogressiste occidentali, esse dovrebbero guardare all’esperienza cinese con le lenti del tempo lungo, tenendo conto delle diversità e della relatività di errori od omissioni. Dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, quando sembrava che il modello comunista fosse destinato alla spazzatura della storia e le teorie di Francis Fukuyama avevano decretato la confluenza universale di tutte le esperienze politiche verso la democrazia mercantile occidentale, la Cina aveva reagito rafforzando il primato della politica sull’economia, e riprendendo la strada verso il modello socialista sulla scorta delle lezioni della storia dopo aver digerito sbandamenti e incongruenze.
Diversamente dagli auspici di Fukuyama tuttavia, il Pcc non ha mai preso in esame che la Cina, nemmeno in un orizzonte lontano, possa intraprendere la strada di una democrazia di stampo occidentale.
Alla fine degli anni Cinquanta Mao aveva affermato: “Ciò di cui l’imperialismo ha paura è il risveglio dei popoli africani, asiatici e latinoamericani … Dovremmo unirci e cacciare l’imperialismo americano dall’Asia, dall’Africa e dall’America Latina”. Tuttavia, nonostante il lessico universalista, da Mao a Xi sia la costruzione del socialismo (dalla fondazione della Repubblica Popolare alla scomparsa di Mao) che la crescita economica (da Deng in avanti) si sono concentrate solo sui bisogni della nazione cinese: il compito di fissare tempi e modi di un’eventuale rivoluzione mondiale è stato sempre rinviato a un futuro imprecisato, dopo aver cancellato dall’orizzonte ogni possibile terza via rivoluzionaria, o anche solo profondamente riformatrice, che la Cina avrebbe potuto capeggiare su scala mondiale.
Al centro della sua politica estera, Pechino non ha mai davvero posto l’internazionalismo proletario, nemmeno in forma erratica o strumentale come il Pcus. La politica estera cinese è rimasta fedele al principio di deideologizzazione delle alleanze, avendo a mente soprattutto l’interesse nazionale. Persino nella fase di forte ideologizzazione maoista, la Cina si è limitata a elargire il valore di una testimonianza, senza esporsi nell’elaborazione di un’agenda – come, almeno sulla carta, quelle del Comintern e del Cominform – nella quale i popoli oppressi potessero investire nella speranza di una possibile mobilitazione proletaria universale. E alla luce dei traguardi raggiunti, non si può dire che la scelta del Pcc sia stata sbagliata: l’esperimento cinese prova che la via nazionale all’emancipazione è stata la più efficace.