Ancora nessun accordo tra Italia e Ue. A
Roma si ritoccano i saldi della legge di bilancio per ottenere il 2,04%
di rapporto deficit/Pil promesso da Conte alla Commissione europea, che
chiede una ulteriore riduzione del deficit strutturale e che mercoledì
dovrebbe comunicare al governo il suo verdetto. Al momento, dunque, la
procedura di infrazione non è scongiurata.
I due vicepremier si affannano a
fornire garanzie sul reddito di cittadinanza e quota 100, ma i due
provvedimenti hanno già pagato un prezzo molto salato (4 miliardi in
tutto) ai vincoli europei. “Mi auguro che a Bruxelles ci sia buonsenso e
non figli e figliastri” ha detto Salvini, riferendosi al doppiopesismo
applicato verso Francia e Italia. Un auspicio, però, che è destinato a non produrre nulla,
perché “con i mezzi della politica contingente” l’Italia rimarrà dov’è,
prigioniera della gabbia che si è colpevolmente scelta, spiega il
costituzionalista Mario Esposito.
Professore, cosa pensa della situazione cui è giunta la trattativa tra Ue e Italia?
Nessuna sorpresa. Al di là del gioco
di specchi in cui finisce per risolversi il confronto tra Commissione e
Governo nazionale sulle percentuali di deficit, gli articoli 81, 97 e
119 pongono vincoli costituzionali inderogabili. La conformità — e badi
bene: non il semplice rispetto — alle prescrizioni europee in materia di
bilancio è ormai un carattere del nostro sistema interno, che le
comprende e vi si subordina. In altri termini, la loro violazione
contravviene non solo ai Trattati europei, ma alla Costituzione.
Dunque potrebbe essere che il 2,4% di deficit sia stato bocciato, in via preventiva, dagli uffici legislativi del Quirinale?
Non lo sappiamo e del resto non
coltivo “dietrologie”. Ma non ci si dovrebbe stupire se si fosse fatto
ricorso alla moral suasion da parte delle istanze di “garanzia attiva”
della Costituzione.
Insomma dopo ls riforma del 2012 i
vincoli di bilancio non dipendono solo dalla volontà della Commissione,
come qualcosa che ci è imposto.
E’ questo il punto: fanno ormai parte
delle nostre regole fondamentali, condizionando fortemente
l’organizzazione costituzionale. Non solo: è sotto questa luce che
dovremmo tornare a vedere il “film” della formazione di questo governo,
quando il presidente della Repubblica si sentì tenuto a presidiarne
strettamente e molto attivamente la composizione per assicurare la
lealtà dei suoi singoli componenti all’Unione Europea, ossia a quella
struttura organizzativa le cui decisioni esprimono in concreto i
parametri cui siamo strutturalmente vincolati con forza di legge
costituzionale.
Un suicidio politico. E’ davvero sconfortante.
Un’abdicazione,
se vuole. Voluta da una larghissima maggioranza delle forze politiche e
in un inquietante silenzio, nonostante la gravità della scelta.
Aggiunga poi il contrasto tra questo nostro atteggiamento e quello dei
Paesi più forti, che, nello stesso torno di tempo, dal “fronte
unionista” ripiegavano su posizioni intergovernamentali e, dunque, più
schiettamente internazionalistiche…
La Ue sembra dotata di un fortissimo potere di cooptazione all’interno del proprio establishment.
Lo dimostra la svolta centrista di Salvini, a cominciare dalla
fascinazione esercitata dal Ppe e dal proposito, testuali parole del
vicepremier, di “cambiare l’Europa dall’interno”.
E’ la forza interna del sistema:
seguendo l’acuta impostazione di Giuseppe Guarino, le norme giuridiche
sono chiasmi di energia. Non sono dettami inerti, ma attivi,
condizionano la realtà politica, si potrebbe quasi dire che la
producano. E poi ricordiamoci che la Ue è una struttura del tutto
atipica, dove accanto alle regole e alle procedure codificate agiscono
molte sedi informali.
Dopo un mese di gilet gialli
Macron è andato in tv a dire che avrebbe fatto più debito. Più
sorprendente è che il nostro governo, davanti a una violazione
annunciata del Fiscal compact, non abbia battuto ciglio.
Ma questa è la storia del rapporto di
sempre dell’Italia con l’Unione Europea. Lei ricorda una sola volta in
cui, nel suo lungo cammino di cosiddetta integrazione, l’Italia abbia
fatto una sola volta la voce grossa?
Forse questa era l’ultima possibilità. Perché siamo sempre stati più europeisti degli altri?
Perché pensavamo che fare i virtuosi a Bruxelles potesse servire a risolvere le magagne di casa nostra.
Il principio politico, prima ancora che economico, del “vincolo esterno”.
Sì, e le dirò di più: se è per
questo, la genesi stessa della nostra repubblica è caratterizzata da un
vincolo esterno (e, risalendo nel tempo, anche la nostra unità
nazionale). La nostra posizione internazionale è ancora quella che viene
dal trattato di pace del 1947.
Se l’imperativo è quello di
“evitare l’infrazione”, come ripetono Mattarella e il governo, vuol dire
che nessuna svolta è possibile. Cosa ci resta da fare?
Adeguarci alle richieste. Non siamo formalmente in una posizione di forza. Lo dicono le norme.
E la politica deve adeguarsi. Non possiamo proprio farci nulla?
Non con i mezzi della politica contingente. L’unica strada sarebbe quella di una riforma costituzionale che cambi direzione.
Nel frattempo, senza poter fare una manovra pesantemente anti-ciclica, saremo stritolati.
Economisti e giuristi molto attenti
già molti anni fa avevano lucidamente preconizzato che i vincoli
contratti a Maastricht, nelle condizioni in cui versavamo allora,
avrebbero comportato un “avvitamento” del nostro sistema, a meno di non
cambiarlo radicalmente e magari di rinunciare alla stessa “forma
statuale”. E chissà che non sia proprio questo il significato della
riforma del 2012, che, se valutata integralmente, stravolge appunto
elementi essenziali di tale forma.
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