Sono
tempi molto confusi, nei quali le tradizionali categorie del discorso
politico sembrano sfaldarsi sotto la pressione di nuovi termini dal
significato volutamente ambiguo (“populismo” e “sovranismo”, in
particolare). Sotto l’apparente confusione, però, continuano a operare i
meccanismi che caratterizzano il capitalismo e, quindi, la lotta di
classe. Può essere utile, allo scopo di fare chiarezza su tali
meccanismi, ricorrere alle analisi dei più lucidi studiosi del
capitalismo.
A
tal fine, proponiamo ai lettori un breve ma denso pezzo del 1943 ad
opera di Michał Kalecki (Lodz, 1899 – Varsavia, 1970), uno dei maggiori
economisti eterodossi del ‘900. Di formazione marxista, ha contribuito
in maniera decisiva agli studi sul ruolo della domanda effettiva sullo
sviluppo delle economie capitalistiche, scrivendo pagine fondamentali
sulla dinamica di un sistema economico moderno. L’articolo si intitola “Political Aspects of Full Employment” (in italiano, “Aspetti politici del pieno impiego”)
e la domanda alla quale Kalecki cerca implicitamente di rispondere in
esso è la seguente: se è vero, come la Storia e la teoria economica
keynesiana insegnano, che i governi possono, attraverso la politica
economica, ottenere il pieno impiego dei lavoratori, come mai ciò non
accade? L’argomento è senz’altro di attualità e la lettura di Kalecki ci
offre la possibilità di avere un’interpretazione coerente di ciò che
quotidianamente leggiamo nel dibattito politico.
L’autunno
che si prospetta per l’Italia è potenzialmente esplosivo: il governo
gialloverde sarà finalmente impegnato sul primo, vero, banco di prova:
la legge di bilancio. Fino ad ora ha avuto gioco facile nel mostrare i
muscoli contro dei disgraziati alla deriva, ma il provvedimento che
dovrà approvare ci farà capire quale sarà la direzione intrapresa dal nuovo esecutivo.
Se fotografassimo ora la situazione, vedremmo dal punto di vista
economico alcune questioni: si parla molto della nazionalizzazione delle
autostrade a seguito della tragedia di Genova, si discute di quali
siano i migliori provvedimenti da adottare in materia di politiche
fiscali, spingendo per reddito di cittadinanza e flat tax,
ci si chiede come gli investitori reagiranno alle mosse del governo,
guardando febbrilmente al livello dello spread, si guarda preoccupati il
dato della crescita, visto che veniamo da ormai dieci anni di
stagnazione.
Negli
ultimi decenni il ruolo dello Stato nell’economia è stato smantellato,
sulla base di una retorica tossica sulla maggiore efficienza del privato
rispetto al pubblico. Una retorica presente anche nel DNA e nelle esternazioni dei
principali esponenti del cosiddetto “governo del cambiamento”, alla
faccia delle bellicose dichiarazioni seguite al crollo del ponte
Morandi. Proprio per aiutarci a capire cosa ci sia dietro queste
dichiarazioni dalla quantomeno dubbia consistenza teorica, ci viene in
aiuto Kalecki.
L’economista
polacco ci dice, sostanzialmente, che a opporsi alle politiche di pieno
impiego è la classe dominante, quella dei capitalisti. L’avversione del
grande capitale nei confronti dell’intervento pubblico nella sfera
economica, scrive Kalecki, non è immediatamente comprensibile: lo Stato,
aumentando la capacità dell’economia di assorbire la produzione
corrente tramite spesa in deficit,
può di fatto aumentare la massa di profitti che il settore privato è in
grado di realizzare. In altre parole, se lo Stato si aggiunge al
settore delle famiglie e al settore estero, può contribuire ad
acquistare beni prodotti dal privato, a tutto beneficio dei capitalisti.
Perché dunque tanto astio? L’autore riporta tre fondamentali aspetti in
merito, che in parte si sovrappongono tra essi:
-
l’avversione nei riguardi della ingerenza dello Stato nella gestione dell’economia;
-
l’avversione nei confronti di specifiche tipologie di intervento pubblico;
-
il punto più fondamentale: l’avversione alle trasformazioni sociali e politiche che deriverebbero dal mantenimento costante del pieno impiego.
1. Il
primo aspetto riguarda l’attitudine dei capitalisti nei confronti
dell’intervento dello Stato nell’economia. Il grande capitale avversa
tale intervento con tutte le sue forze e Kalecki ci ricorda le ragioni
che i sostenitori del laissez faire e
il grande capitale adducono a sostegno del non intervento dello Stato:
l’attivismo dei governi nell’economia andrebbe a minare la cosiddetta
“atmosfera di fiducia” che regola il comportamento degli imprenditori,
portando, quindi, a una riduzione degli investimenti privati. Tale
intervento viene dipinto come tanto più nocivo, quanto più ricorre alla
spesa in deficit, considerata particolarmente perniciosa.
Sembra
difficile non sentire l’eco degli infiniti dibattiti sul fatto che un
governo deve agire responsabilmente in fatto di bilancio, pena la fuga dei capitali e l’aumento dello spread. Stando al Vangelo mainstream,
le misure di austerità dovrebbero aiutare gli investitori a
tranquillizzarsi ed effettuare più investimenti. In realtà, come ci
insegna l’esperienza recente, queste misure non conducono a più
investimenti, né a una maggior occupazione. Come ci spiega Kalecki, le
ragioni dietro l’avversione dei grandi capitalisti all’espansione del
ruolo dello Stato, è ben diversa e meno nobile: il loro obiettivo è
esattamente opposto all’espansione dell’occupazione, come spiegheremo
nel punto 3.
2. Successivamente,
Kalecki ci dice che oltre alla generale avversione dei capitalisti
riguardo la spesa pubblica, essi hanno una particolare ritrosia nei
riguardi dell’investimento pubblico e del sovvenzionamento del consumo
di massa.
L’investimento
pubblico, per i capitalisti, deve essere assolutamente scoraggiato in
quanto quel tipo di strategia potrebbe condurre alla ‘possibilità che il
governo, agendo secondo la logica di tale politica possa spingersi a
nazionalizzare i trasporti o i servizi pubblici, per poter allargare
l’ambito del suo intervento’. Kalecki è ovviamente contrario a questo
modo di ragionare, ben consapevole del fatto che gli investimenti
pubblici, “occupando” settori produttivi, sottraggono una parte
dell’economia al controllo dei capitalisti privati e, dall’altro,
tendono al raggiungimento del pieno impiego, cosa che, come Kalecki
argomenta nel terzo punto del suo ragionamento, i capitalisti temono più
di ogni altra. Non potrebbe essere più attuale il rimando al dibattito
che sta montando sulla necessità di nazionalizzare il comparto
autostradale a fronte della catastrofica caduta del ponte Morandi,
misura che incontra fortissime resistenze, e che eventualmente
segnerebbe solo una piccola inversione di rotta in un processo che ha
visto le privatizzazioni farla da padrone negli ultimi decenni. Ammesso,
per l’appunto, che si faccia, perché, allo stato attuale, si è sentito
molto abbaiare, ma si sono visti ben pochi morsi.
Per
quanto riguarda il sovvenzionamento del consumo di massa, ovvero tutte
quelle misure di politica economica volte ad aumentare direttamente il
potere d’acquisto della classe lavoratrice, Kalecki pensava che esso
incontrerebbe uno sfavore ancor più aspro visto che permetterebbe ai
lavoratori di potersi sostentare senza lavorare e questo li renderebbe
più forti in fase di contrattazione salariale, così come il pieno
impiego. Sembrerebbe, dunque, che l’idea di “reddito di cittadinanza”,
cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle, sia una notizia positiva
per i lavoratori oppure, smentendo clamorosamente Kalecki, un
provvedimento gradito alla classe dominante. Le cose stanno diversamente
e il ragionamento di Kalecki non risulta in alcun modo scalfito:
proprio perché il capitale ha ottenuto delle vittorie enormi sul piano
delle privatizzazioni, della austerità e della rinuncia all’investimento
pubblico, ad oggi sembra politicamente accettabile lasciare qualche
briciola elargita mediante politiche di reddito minimo, in modo da
tenere bassa la pressione nei riguardi di altre forme di intervento
statale, purché, sia chiaro, si tratti per l’appunto di briciole e non
di interventi più sostanziosi. Tutto deve cambiare, affinché nulla cambi.
3. Infine,
l’autore ci offre una illuminante chiave di lettura dal punto di vista
storico. L’intervento pubblico nell’economia e, in particolare, gli
investimenti pubblici e il sostegno al consumo di massa, oltre alle
ragioni viste sopra, costituiscono una minaccia, agli occhi dei
capitalisti, per un motivo più fondamentale: essi conducono il sistema
più vicino al pieno impiego. Una bassa percentuale di disoccupati,
però, crea grandi tensioni di carattere politico,
in quanto i lavoratori possono spingersi a rivendicare più salario e
diritti, in quanto meno ricattabili. Spieghiamo meglio questo punto. La
ragione per la quale una maggiore disoccupazione tende a far ridurre i
salari reali e a indebolire i diritti dei lavoratori risiede nel fatto
che, se c’è alta disoccupazione, il lavoratore teme maggiormente il licenziamento.
In primis, perché se la disoccupazione è ampia, sarà più difficile per
lui trovare un’altra occupazione. In secundis, in quanto se c’è alta
disoccupazione, è più ampio il cosiddetto esercito industriale di riserva di
marxiana memoria. In altri termini, l’imprenditore ha un più ampio
bacino di disoccupati al quale attingere per sostituire il lavoratore
licenziato: per un lavoratore che alza la voce per ottenere migliori
condizioni di lavoro, ci saranno centinaia di disoccupati disposti ad
accettare qualsiasi condizione pur di lavorare. Se il lavoratore ha,
dunque, paura di perdere il lavoro, sarà più facile, per il capitalista,
spuntare salari più bassi e peggiori condizioni di lavoro.
Kalecki
ci insegna, quindi, che ci sono almeno due ragioni per le quali
chiunque abbia davvero a cuore le condizioni di vita dei lavoratori
dovrebbe sostenere l’intervento pubblico nell’economia. Il primo è che,
attraverso l’intervento pubblico, lo Stato può nazionalizzare settori
produttivi e diventare protagonista della produzione a tutto vantaggio
della collettività. Inoltre, e questa è la ragione più importante, in
quanto l’intervento dello Stato può annullare la piaga della
disoccupazione (il che è un valore in sé) e ciò indirettamente può
condurre ad un rafforzamento del potere contrattuale dei lavoratori e,
quindi, ad una distribuzione del reddito a essi più favorevole.
Il
contributo di Kalecki è un faro nella nebbia che avvolge il dibattito
politico odierno. Ogni volta che si parla di regole sul deficit e sul
debito, di nazionalizzazioni, di sostegno ai consumi e di flat tax, si
sta parlando di una sola cosa: la ricattabilità dei lavoratori. Dietro
le parole velenose di chi proclama solennemente di voler salvare
l’economia dai “disastri” che il deficit porterebbe con sé, di chi
dichiara che il privato è più efficiente del pubblico, di chi sostiene
che meno tasse sui ricchi porteranno a più investimenti, l’antidoto di
Kalecki ci permette di scorgere in controluce il vero significato:
“vogliamo che i vostri salari siano bassi e che i vostri diritti siano
spazzati via”. Conoscere le menzogne di tali ciarlatani è il punto di
partenza per combatterli.
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