Il
segnale più forte della crisi che serpeggia nell’Unione Europea è
arrivato stamattina da Strasburgo, dove il presidente francese Emmanuel
Macron ha parlato per la prima volta. Un discorso “ansiogeno”, a tratti
quasi apocalittico, in palese dissonanza con la melassa di banalità e
buoni propositi che si ascoltano in genere in quell’aula.
«Non
possiamo far finta di essere in un tempo normale, c’è un dubbio che
attraversa molti dei nostri Paesi europei sull’Europa, una sorta di
guerra civile europea sta emergendo: stanno venendo a galla i nostri
egoismi nazionali e il fascino illiberale». Il rimedio è però poco più
di un gioco di parole («Di fronte all’autoritarismo che ci circonda, la
risposta non è la democrazia autoritaria ma l’autorità della
democrazia») che non una visione di lungo periodo.
L’unica
proposta concreta uscita dal suo discorso è straordinariamente flebile.
Per risolvere il problema dell’ostilità all’accoglienza dei migranti,
non ha trovato di meglio che «creare un programma europeo per finanziare
le comunità locali che accolgono e integrano i rifugiati». Un po’ di
soldi per chi accoglie e stop. Nessun progetto di integrazione (lavoro,
casa, servizi, scuola, ecc), dunque nessuna soluzione duratura.
Monetizzare un problema è l’unica cosa che può venire in testa a un
pollo d’allevamento cresciuto in banca (Rotschild). E che non riesce
neppure a far arrivare ordini meno disumano alla sua polizia di
frontiera, come a Bardonecchia…
In
ogni caso, ha evocato lo spettro di una riemergente “guerra civile
europea” come conseguenza del prevalere degli “interessi nazionali”.
Strano discorso, per un presidente che pià di tutti dovrebbe sapere che
questi “interessi”, certamente forti e sussistenti, sono sollecitati
soprattutto dagli svantaggi che l’operare delle multinazionali (anche
della finanza) provoca negli Stati meno forti.
Diversi
analisti inquadrano il suo discorso come una conseguenza della doppia
tenaglia che si va stringendo su di lui. Una, tutta interna al suo
paese, riguarda la fortissima opposizione sociale alle sue “riforme liberali”,
che hanno portano decine di categorie ad entrare in lotta. Durissima
quella dei ferrovieri, con 23 giornate di sciopero (due alla settimana”)
che potrebbero però arrivare a 36. I sondaggi lo danno in calo
costante, mentre sale prepotente la sagoma di Jean-Luc Mélenchon, che ha
da tempo superato in tromba anche i lepenisti.
La
seconda sciagura, per Macron, arriva però dalla Germania. Il suo
progetto di arrivare in tempi brevi – entro giugno – a una revisione dei
trattati dell’eurozona, primo passo dell’”Europa a due velocità”,
sembra stia per infrangersi sull’opposizione dei conservatori tedeschi –
il partito di Angela Merkel – in particolare alla sua idea di un
bilancio della zona euro per favorire gli investimenti.
Un
“egoismo nazionale” di fonte decisamente potente, che di fatto rende
impossibile anche solo immaginare una “condivisione di futuro” tra paesi
forti e paesi in difficoltà: senza forme di redistribuzione interna,
insomma, i primi continueranno a rafforzarsi a spese dei secondi. Con
buona pace della retorica europeista.
La
contraddizione di fondo del progetto Macron sta però proprio nella
convinzione di poter risolvere le evidenti slabbrature interne alla
costruzione europea con una dose più massiccia della vecchia medicina.
Se è vero che, in teoria, un bilancio comune della zona euro
consentirebbe qualche margine di manovra in più sul lato “crescita”, la
via scelta da Macron è ancora quella di aggiustare il bilancio francese
tagliando posti di lavoro, contratti, diritti, pensioni e salari. Ossia
la vecchia ricetta dell’austerità che tanti danni ha fatto a tutti i
paesi del Mediterraneo, Francia compresa (anche se il conto lo va
pagando solo ora).
Italia
e Spagna potrebbero – anche qui in teoria – essere a fianco di Parigi
nel pretendere un cambio di passo nella gestione degli affari
comunitari, ma sono due paesi in evidente crisi politica (governo
precarissimo a Madrid, difficile a farsi a Roma), che faticano a tenere
insieme tensioni montanti.
Non
mancano contraddizioni ancora più palesi, anche se meno enfatizzate.
Come quella tra il voler essere “il più europeista dei leader europei” e
l’aver deciso di bombardare la Siria insieme a Usa e Gran Bretagna,
contro il parere o comunque l’orientamento, del resto d’Europa.
Insomma, Macron sembra cominciare ad assomigliare a un Renzi della “seconda fase”. Quella perdente in serie…
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