venerdì 16 marzo 2018

L’ordine che non c’è più. Nel mondo e in Italia

Due analisi su temi molto diversi tra loro – gli squilibri Nord-Sud in Italia e la guerra dei dazi scatenata da Trump – affrontano esattamente lo stesso problema “sistemico”: le diseguaglianze di sviluppo territoriale (dunque anche sociale) sono alla base di problemi politici e geopolitici di prima grandezza.
Per quanto riguarda il nostro paese, Giuseppe Berta, sul confindustriale Sole24Ore, affronta e spiega le disuguaglianze elettorali con le relative differenze di modello produttivo.
Il Nord, in estrema sintesi, è agganciato strettamente alle economie (alle filiere produttive) dell’Europa tedesca, ma non è più differenziato al suo interno secondo le caratteristiche degli anni ‘90 (grandi imprese nell’Ovest, a partire dalla Fiat, e “piccolo è bello” nel Nordest). Anzi, la media impresa – o comunque impresa non egemone nel proprio comparto – è la norma, allargata ormai anche a parti consistenti dell’Emilia e del centro.
Il Sud, invece, ha perso o sta per finire di perdere anche quelle “cattedrali nel deserto” (è rimasta ormai soltanto l’Ilva di Taranto, oltre alla Fiat di Melfi) che avrebbero dovuto far da volano per un indotto mai nato davvero.
Ne conseguono due aspettative di sintesi politico-economica che non possono essere giustapposte (schematizzando molto: meno presenza dello Stato al Nord, più presenza nel Mezzogiorno), e che in buona misura spiegano le difficoltà a creare un governo comune Lega-Cinque Stelle. Le distanze si sono allargate a dismisura e nessuna visione unitaria del futuro è fin qui apparsa all’orizzonte. Anche lo strisciante trasferimento della “capitale di fatto” da Roma a Milano è allo stesso tempo un effetto di quelle disuguaglianze e un loro fattore di aggravamento, perché contribuisce a far piovere sempre più capitali da investimento nella parte del paese che già ne attira il 90%.
A questa dicotomia invalidante hanno dato un enorme contributo le politiche europee di austerità, che hanno favorito esattamente la stessa dinamica a livello continentale (con la Germania del ruolo del Nord e quasi tutto il resto d’Europa nella posizione del Mezzogiorno).
A bocce ferme – ossia secondo i trattati esistenti nella UE – questa polarizzazione è irrisolvibile perché utile a confermare il modello mercantilista tedesco (compressione salariale e del mercato interno per avere una capacità di esportazione più aggressiva).
Sul piano gobale, invece, Adriana Cerretelli minimizza – nei limiti del possibile – lo scontro Usa-UE sui dazi doganali, trovando un filo di interesse comune tra due sponde dell’Atlantico: il contrasto delle capacità egemoniche della Cina.
Se il discorso fosse limitabile al solo aspetto geopolitico – tra grandi potenze, nazionali o plurinazionali – filerebbe pure. Ma c’è un ma, grande quanto la crisi di egemonia Usa. La sola superpotenza rimasta dopo il crollo del Muro è infatti tutt’altro che nel pieno delle sue forze. Lo stesso ricorso al protezionismo più sgangherato (non solo su acciaio e alluminio, ma soprattutto sulle tecnologie informatiche) ha un carattere molto “difensivo” e tutt’altro che vincente.
Basta infatti ragionare sul fatto che i dazi sono un limite posto all’interscambio, dunque hanno effetti più o meno depressivi e comunque creano ostacoli sia sul piano dello sviluppo economico, sia su quello della “collaborazione” internazionale. E questo vale sa per gli Usa che per l’Unione Europea. Mentre al contrario la Cina è in grado di “allagare di liquidità da investimento” tutti quei paesi che vanno alla ricerca di relazioni internazionali meno improntate allo strozzinaggio.
Cosa lega le due dinamiche (quella nazionale e quella globale)? La fine del mito dei “ benefici illimitati del liberismo incontrollato”.
Non si tratta, nota giustamente Cerretelli, di una revisione “ideologica”, ma solo della presa d’atto che a via della “globalizzazione” ha prodotto alla lunga risultati inaccettabili per i paesi (le aree economiche) che ne erano stati i promotori. La delocalizzazione ha gonfiato i profitti delle multinazionali occidentali, ma ha svuotato di reddito disponibile le popolazioni (sempre occidentali); creando problemi enormi di gestione politica che hanno portato un Trump alla Casa Bianca e ventate “populiste” sempre meno arginabili senza cambiare indirizzo.
Quando le cose arrivano a questo punto (“Le cose si dissociano; il centro non può reggere”) nella Storia si danno poche alternative. L’emergere di una nuova visione più lungimirante, fondata su gambe robustissime (in pratica: un passaggio di ruolo egemonico da una potenza a un’altra), in grado di fare da “nuovo centro”. Oppure l’autonomizzazione delle parti, ovvero la competizione di tutti contro tutti (Usa, Unione Europea, Cina, Russia, in un vortice di alleanze che si fanno e si disfano continuamente).

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