venerdì 30 marzo 2018

Tra pensioni e non autosufficienza, le sfide del welfare del futuro

“Vogliamo cambiare nome e chiamarci Istituto nazionale della protezione sociale”. Per festeggiare i 120 anni dell’Inps, il presidente Tito Boeri ha chiesto un regalo simbolico. E ha colto l’occasione del convegno organizzato a Roma a fine gennaio per festeggiare il traguardo per formulare di nuovo l’invito al Parlamento. “Fornire protezione sociale è oggi più che mai la missione dell’Inps. Su 440 prestazioni erogate oggi dall’Istituto -ha spiegato Boeri- quelle di natura strettamente previdenziale sono 150”. Questo non significa che la spesa per pensioni di natura previdenziale o assistenziale rappresenti solo un terzo della spesa dell’Inps. Bilancio sociale 2016 alla mano, infatti, la voce “spesa pensionistica” ammonta a 272,6 miliardi di euro e rappresenta l’88,6% dell’ammontare delle prestazioni. Boeri vuole promuovere un’immagine diversa da quella del mero istituto “erogatore di pensioni”: “Nell’ultimo anno abbiamo aggiunto alla gamma di misure gestite dall’Inps il Bonus mamma domani, l’Ape sociale e l’Ape volontaria, il beneficio per i lavoratori precoci, il nuovo contratto di prestazione occasionale e il Reddito d’inclusione”. Da “erogatore” ad amministrazione “cardine” di qualunque programma rivolto ai cittadini, anche non esclusivamente in età da pensionamento.
Questa dimensione “larga” del welfare cade non solo in occasione dei 120 anni dell’Inps ma anche dei 40 anni del Servizio sanitario nazionale. E obbliga a porsi il problema di un modello di welfare universalistico che ha davanti profondi cambiamenti sociali, sanitari, culturali, economici. “In Italia si parla sempre di pensioni e quasi mai, di non autosufficienza -ha ribadito Boeri-. Eppure è proprio da quest’ultima che verranno le sfide più impegnative legate all’invecchiamento della popolazione”. Lo sa bene Francesco Longo, professore associato presso il dipartimento di Analisi delle politiche e management pubblico all’Università Bocconi, che è tra i curatori per conto del Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale (Cergas) del rapporto annuale “OASI”: Osservatorio sulle aziende e sul sistema sanitario italiano.
I dati che lo preoccupano sono forniti dall’Istat e riguardano i fabbisogni della long term care (Ltc). “La popolazione attesa Italia nel 2065 è di 53,7 milioni di persone -spiega Longo- il che ci pone tecnicamente in una situazione di ‘Paese in riduzione’. Ogni anno muoiono 615mila persone e ne nascono solo 475mila. Ci mancano 150mila nati. In più, ogni anno, 150mila giovani lasciano il Paese. Il saldo negativo sale a 300mila persone”. A questo si aggiunge l’esplosione dei non autosufficienti: “Oggi -continua Longo- ne contiamo 2,8 milioni con a disposizione appena 270mila posti letto sociosanitari residenziali pubblici o privati accreditati. E le cure domiciliari offerte dal Servizio sanitario nazionale restano di modesta intensità: 17 ore in media per paziente preso in carico che si esauriscono in 9 settimane”. Le persone in stato di bisogno sono costrette a “sconfinare”, come sintetizza Longo, in diversi sistemi di welfare, inclusi i pronto soccorso per ricoveri non dovuti.

giovedì 29 marzo 2018

LA SENTENZA CHE NON PIACE ALLE BANCHE

Una sentenza della Commissione Europea permette a singoli cittadini, imprese ed enti pubblici di chiudere tutti i contratti, stipulati tra il 2005 e il 2008, di mutuo, prestiti e derivati, che avevano, nel contratto, un tasso variabile legato all’Euribor, riconoscendo agli stessi il diritto al risarcimento. La sentenza è il “caso AT 39914” del 3 dicembre 2013, pubblicata dalla Commissione Europea solo a fine 2016 (!), ma ormai interamente operativa e attivabile da qualsiasi soggetto coinvolto.
La sentenza si basa su due elementi:
a) il primo è relativo all’indeterminatezza del tasso quando il parametro di riferimento preso è l’Euribor (un tasso inteso a riflettere il costo dei prestiti interbancari in euro); in questo caso, rileva la sentenza, i parametri atti ad individuare il tasso variabile sono scarsamente intelligibili, poiché nella clausola è prevista una serie di rinvii concatenati a valori anche di valute estere in astratto recuperabili, ma tali da non rendere immediatamente reperibili e via via verificabili i dati.
L’incertezza della clausola di determinazione degli interessi in un contratto di mutuo determina la nullità della clausola stessa (art. 117 T.U.B.);
b) il secondo è relativo all’intesa restrittiva della concorrenza, operata da un cartello tra le principali banche europee, con lo scopo di manipolare, a proprio vantaggio, il corso dell’Euribor; vicenda che si è chiusa con la condanna di 4 tra le più note banche europee (Barclays, Deutsche Bank, Royal Bank of Scotland e Société Générale) al pagamento di una multa pari a 1,7 mld ed il conseguente diritto tangibile al risarcimento dell’utente finale per indeterminatezza e manipolazione del tasso.
La sentenza riguarda il 100% dei contratti di mutuo ipotecario e fondiario a tasso variabile, ma riguarda anche il 100% dei contratti derivati sul tasso (interest rate swap= IRS), in quanto atti il cui tasso di riferimento è nel 100% dei casi l’Euribor, stipulati da famiglie, imprese ed enti locali italiani con banche commerciali, sia italiane che estere operanti in Italia. Gli enti locali italiani possono in sostanza ora ottenere il risarcimento integrale di tutti gli interessi e flussi negativi su derivati che si sono visti addebitare relativamente a tali contratti nel periodo che va dal 2005 al 2008.
La Sentenza, essendo stata emessa dalla Commissione Europea, ha potere vincolante sul Giudice competente nazionale, che, pertanto, è chiamato ad uniformarsi, diversamente sanzionabile a seguito di apposita istanza al Presidente del Tribunale competente, al Consiglio/organismo della Magistratura nazionale o alla Corte di Giustizia UE.
Alcune riflessioni sono decisamente necessarie.
Va innanzitutto sottolineata la subalternità della Commissione Europea allo strapotere del sistema bancario che, se pur condannato, ottiene la non pubblicazione di una sentenza a proprio sfavore per oltre 3 anni (!).
Ma altrettanto severamente va giudicata la condotta degli enti locali che, a distanza di oltre 4 anni dalla sentenza e di oltre 1 anno dalla sua pubblicazione, non hanno ancora agito di conseguenza, tutelando la propria funzione pubblica e sociale, le comunità territoriali amministrate e la ricchezza collettiva prodotta.
Gli anni 2005-2008 costituiscono il periodo di massima dimensione della stipula di contratti derivati da parte degli Enti Locali, il cui apice è stato raggiunto nel 2007 con 796 enti interessati e 1.331 contratti sottoscritti dal valore nozionale iniziale di 37,042 miliardi di euro.
Fu proprio l’espansione senza controllo dei derivati a far decidere nel 2008 (art. 62, D.Lgs. n. 112/2008) la sospensione temporanea all’attività in derivati di regioni ed enti locali (poi divenuta definitiva con la Legge di stabilità 2014).
Siamo dunque di fronte a una massiccia e criminale sottrazione di ricchezza alle comunità locali, operata dalle banche con la complicità, ingenua o consapevole, degli amministratori.
Ora nessuno potrà più dire “Io non lo sapevo”. Per questo i movimenti in lotta per i diritti sociali e per la riappropriazione dei beni comuni e i comitati per l’audit sul debito locale devono immediatamente aprire un conflitto dentro ogni territorio e città rivendicando:
a) la pubblicizzazione di tutti i contratti derivati e di tutti i mutui sottoscritti nel periodo 2005-2008;
b) l’annullamento dei medesimi contratti derivati, con conseguente risarcimento collettivo degli interessi negativi pagati;
c) la revisione al ribasso dei tassi d’interesse su tutti i mutui contratti nel periodo sopra indicato, con conseguente risarcimento della quota sovrastimata pagata;
d) la sospensione del pagamento degli interessi su tutti i mutui e i derivati, fino alla definizione di quanto sopra indicato;
e) la pressante richiesta all’ANCI di farsi carico dell’iter legale per il riconoscimento di quanto dovuto.
Come si vede, i soldi ci sono. Sono solo finiti nelle mani sbagliate e si tratta di riappropriarsene collettivamente.

mercoledì 28 marzo 2018

I mercati finanziari non si sono accorti della bomba ad orologeria dell’eurozona: l’Italia.

L’Italia non è l’unica potenziale fonte di instabilità economica nel futuro dell’eurozona, ma è certamente la più prevedibile. Altre fonti di instabilità derivano dalla guerra commerciale o da una crisi economica globale – o più probabilmente da entrambe le cose insieme. Una guerra commerciale rimane un pericolo evidente e attuale.

Per ora l’Unione europea si è garantita una sospensione dei dazi statunitensi su acciaio e alluminio. Ma il blocco dei paesi europei è pericolosamente dipendente dall’esportazione di beni manufatturieri. E dovremmo fare attenzione a non interpretare l’annuncio di una breve dilazione come un segno di condiscendenza da parte di Donald Trump. Il presidente USA ha preso la decisione tattica di non muovere guerra a Unione europea e Cina nello stesso momento. Per cui la minaccia verso la UE non è scomparsa, e le concessioni che Trump riuscirà a ottenere in cambio di una futura esenzione permanente dai dazi saranno formidabili.

Una guerra commerciale o un altro incidente geopolitico stanno diventando sempre più probabili. E potrebbero mettere fine all’attuale tendenza globale di espansione dell’economia. Una crisi, o anche un semplice breve periodo di recessione, per l’eurozona e per l’Italia sarebbero veleno.

La crisi dell’eurozona ha lasciato all’Italia un unico, improbabile percorso su cui procedere: quello di una stretta fiscale permanente da associare a riforme economiche (con la preghiera che questa fantasiosa combinazione di politiche economiche conservatrici possa garantire una sostenibilità del debito nel lungo termine). Tornando al mondo reale, non c’è nessun partito politico in Italia che abbia promesso delle serie riforme economiche, e i due partiti usciti vincitori dalle ultime elezioni politiche, cioè il Movimento Cinque Stelle e la Lega, partito anti-immigrazione, hanno minacciato di scatenare un qualcosa di assolutamente opposto a una stretta fiscale. Perciò, se l’economia globale dovesse andare in crisi, porterebbe l’Italia con sé.

Un momento cruciale a cui guardare sarà la legge finanziaria per il 2019, che dovrà essere approvata entro l’autunno. Per allora, l’Italia potrebbe anche riuscire a formare un governo. Ma le dinamiche politiche del Parlamento saranno determinanti. I partiti populisti contano, assieme, il 60 percento dei deputati e senatori Italiani. La loro priorità non è sicuramente quella di seguire il percorso fiscale imposto dalla UE. Quando i governi sono deboli, i parlamenti sono forti. La maggioranza presente nel Parlamento italiano non sembra decisamente una maggioranza propensa ad approvare un altro bilancio di austerità.

Ma allora perché i mercati finanziari sono così calmi? Penso che stiano commettendo due errori. Il primo è che Mario Draghi si è fatto garante della stabilità, almeno fino alla fine del suo mandato, che sarà a ottobre del prossimo anno. Non scommetterei, però, che il presidente della Banca centrale europea sia disposto a correre in sostegno di un paese membro che si faccia deliberatamente beffe dei vincoli fiscali europei.

Quando nel 2012 Draghi prese il suo impegno del “whatever it takes”, l’Italia era guidata da Mario Monti, un primo ministro eurofilo che rappresentava un governo di tecnocrati. Naturalmente Monti era ligio alle regole.

Il secondo errore di valutazione che i mercati stanno facendo è che l’establishment italiano riuscirà sempre a trovare il modo di tenere gli estremisti lontano dal potere. Ho perso il conto delle volte in cui mi è stato assicurato che le riforme elettorali avrebbero garantito la vittoria dei partiti centristi. Certo, i sistemi elettorali sono importanti, ma non possono creare per miracolo delle maggioranze che non esistono.

Ciò a cui stiamo assistendo ora in Italia è la prevedibile risposta a due decenni di politiche economiche che non sono riuscite a garantire posti di lavoro per i giovani. Molte delle vittime di queste politiche costituiscono oggi la spina dorsale del sostegno ai trionfanti partiti populisti. Nessun paese, nemmeno un paese paternalista come l’Italia, è in grado di mantenere un consenso pro-europeo in presenza di una interminabile calamità economica.

A meno che il Movimento Cinque Stelle o la Lega non decidano di autodistruggersi, non possono permettersi di venire meno alle loro promesse elettorali. Il Movimento Cinque Stelle ha promesso un reddito di cittadinanza universale. La Lega ha promesso la flat tax. Entrambi i partiti intendono cancellare la riforma delle pensioni. Queste promesse sono semplicemente incompatibili con il rispetto delle regole fiscali della UE.

Nuove elezioni non potranno risolvere il problema. Potrebbero condurre semplicemente allo stesso risultato, o perfino a una percentuale di voti ancora più alta per i partiti più estremi. Continuerà a non esserci una maggioranza favorevole alle riforme economiche e alla stretta fiscale. In altre parole: di tutte le possibili alternative in campo, si fa fatica a trovarne una che sia compatibile con il rispetto dei vincoli fiscali europei.

La tragedia dell’eurozona è che l’Italia è troppo grande per fallire, ma anche troppo grande per essere salvata. L’eurozona non ha strumenti per agire efficacemente in caso di crisi di un grosso paese. I dibattiti franco-tedeschi sulle riforme dell’eurozona appartengono alla categoria delle cose che sarebbe bello realizzare. Si tratta di nuove regole per l’attuazione del Meccanismo Europeo di Stabilità, l’ombrello di salvataggio, e dei prossimi passi verso l’unione bancaria.

Ma se Parigi e Berlino facessero sul serio in merito alla prevenzione della crisi dovrebbero discutere di un fondo unico per arginare i mercati finanziari e di uno strumento di finanziamento fiscale capace di ravvivare il desolante paesaggio economico europeo. Politicamente, la probabilità di simili riforme è pari a zero.

Fino a che le cose stanno così come sono ora, possiamo tranquillamente dire che la stabilità economica è solo un periodo che intercorre tra due crisi.

martedì 27 marzo 2018

Troppe tasse e poco welfare: in Italia poveri salgono a 18 milioni

Nel decennio tra il 2006 e il 2016, il rischio di povertà o di esclusione sociale è salito di quasi 4 punti percentuali, raggiungendo il 30% della popolazione.
È il risultato di un livello di tassazione che è tra i piú alti in Europa, ma anche di una spesa sociale tra le più basse d’Europa. Risultato: le persone in difficoltà e deprivazione sono passate da 15 a 18,1 milioni. Lo sottolinea un’analisi realizzata dall’Ufficio studi della Cgia di Mestre.
Meglio nel resto d’Europa anche se la tendenza resta al rialzo. Il livello medio europeo è salito solo di un punto, attestandosi al 23,1 per cento: 6,9 punti in meno rispetto alla nostra media. Controcorrente la Francia e la Germania che, in questi 10 anni, hanno mostrato una riduzione del rischio povertà: attualmente il dato presenta un livello di oltre 10 punti inferiore al dato medio Italia.
Tornando all’Italia, la situazione risulta particolarmente critica nel meridione. Gli ultimi dati disponibili riferiti al 2016 segnalano che il rischio povertà o di esclusione sociale sul totale della popolazione ha raggiunto il 55,6% in Sicilia, il 49,9% in Campania e il 46,7% in Calabria.
“Da un punto di vista sociale – commenta il coordinatore dell’Ufficio studi della CGIA Paolo Zabeo – il risultato ottenuto è stato drammatico: in Italia, ad esempio, la disoccupazione continua a rimanere sopra l’11 per cento, mentre prima delle crisi era al 6 per cento. Gli investimenti, inoltre, sono scesi di oltre 20 punti percentuali e il rischio povertà ed esclusione sociale ha toccato livelli allarmanti. In Sicilia, Campania e Calabria praticamente un cittadino su 2 si trova in una condizione di grave deprivazione. E nonostante i sacrifici richiesti alle famiglie e alle imprese, il nostro rapporto debito/Pil è aumentato di oltre 30 punti, attestandosi l’anno scorso al 131,6 per cento”.
In questi ultimi anni la crisi ha colpito indistintamente tutti i ceti sociali, anche se le famiglie del cosiddetto popolo delle partite Iva ha registrato, statisticamente, i risultati più preoccupanti.

lunedì 26 marzo 2018

L’export italiano lo dimostra: la crisi è una lotta, e solo i vinti piangono

La crisi viene spesso descritta come se fosse un violento tornado che si abbatte su tutta la popolazione, sui ricchi come sui poveri, sui lavoratori come sulle aziende, travolgendo l’intera economia: un disastro collettivo che colpisce tutta la società, dalla testa ai piedi. Come vedremo si tratta, tuttavia, di una narrazione funzionale esclusivamente agli interessi della classe dominante, perché veicola una visione armonica della nostra società: stiamo perdendo tutti, tutti insieme dobbiamo rialzarci e non vi sono ragioni per immaginare un conflitto all’interno della società – tra le sue parti.
Peccato (per la classe dominante) che ogni tanto questa narrazione tossica debba fare i conti con la realtà dell’evidenza empirica, una realtà che ci fornisce un quadro sostanzialmente diverso: la crisi assume infatti i contorni di una precisa trasformazione della società, un violento cambiamento di rotta imposto al modello di sviluppo per favorire una parte della società a scapito di un’altra, un cambiamento che si manifesta attraverso una ricomposizione della domanda – favorendo quella estera a scapito di quella domestica – alla quale viene demandato il ruolo di trainare l’economia. I recenti dati sul commercio internazionale pubblicati da Eurostat aprono l’ennesimo squarcio sulla narrazione dominante, mostrando i tratti di una vera e propria lotta tra le classi sociali. Come in tutte le lotte, vedremo chiaramente vincitori e vinti, ovvero una divisone della società che non può emergere dalle narrazioni pacificanti della crisi. E torna alla memoria il significato originario della krísis quale scelta, una decisione che imprime un cambiamento nell’organizzazione della nostra società.
Proprio in questi giorni è possibile imbattersi in un recente articolo di Marco Fortis sul Foglio dove si parla apertamente dei “dieci anni (di crisi) che hanno migliorato le esportazioni italiane.” Sì, proprio così: la crisi ha fatto bene ad un pezzo importante della nostra economia, consentendo a quel segmento del tessuto produttivo orientato al commercio con l’estero di aumentare le vendite, sbarazzarsi della concorrenza e conquistare quote crescenti dei mercati mondiali. Nel dettaglio, i nuovi dati sul commercio internazionale ci parlano di un’economia italiana che si è integrata meglio nelle reti globali degli scambi proprio negli anni della crisi. Nel 2007 il nostro paese importava più beni e servizi di quanti ne esportasse all’estero, registrando un disavanzo commerciale di 8,6 miliardi di euro: eravamo tra i deboli del mercato mondiale. Nel 2017 la situazione si è ribaltata, con le esportazioni che superano le importazioni di ben 47,4 miliardi di euro: si tratta di un miglioramento del saldo commerciale di oltre 56 miliardi di euro in dieci anni, un vero e proprio balzo in avanti delle aziende italiane sui mercati internazionali. Secondo la ricostruzione di Fortis l’Italia occuperebbe il secondo posto in Europa per il miglior surplus commerciale, dopo la locomotiva tedesca. Trainato dai settori della chimica-farmaceutica, dell’agroalimentare, della meccanica dei mezzi di trasporto e di altri settori manifatturieri (moda, mobili, carta, metallurgia, gomma, plastica), l’export italiano è cresciuto negli anni della crisi di più di 83 miliardi di euro. Eccoli, dunque i vincitori: nessuna lacrima per loro, nessuna goccia di sangue dai loro fatturati, solo tanti profitti macinati proprio negli anni della crisi. Come vedremo, proprio grazie alla crisi.
Vi è un preciso nesso tra le strabilianti performance del settore delle esportazioni italiano e la precarietà, la disoccupazione e la povertà che stanno mettendo in ginocchio il resto del Paese. Specialmente nei settori a più alta intensità di manodopera, la retribuzione del lavoro rappresenta una delle più importanti voci di costo di un’impresa; pertanto, il progressivo ma inesorabile smantellamento dei diritti dei lavoratori che ha avuto luogo negli ultimi anni (ultimo atto il Jobs Act) ha operato un disciplinamento dei lavoratori, resi più docili e meno combattivi dalla riduzione delle tutele, dalla marginalizzazione della contrattazione nazionale e dal crescente ricatto della disoccupazione. In questo modo si è prodotta una contrazione dei salari, che ha colpito per primi i lavoratori più vulnerabili e ricattabili, dei segmenti produttivi più fragili. Questa alterazione dei rapporti di forza ha poi permesso ai capitalisti di esercitare una pressione al ribasso anche sui salari dei lavoratori delle aziende che producono principalmente per i mercati esteri: ecco rivelato il segreto del successo delle esportazioni italiane all’estero registrato dai dati Eurostat.
Abbiamo una manodopera altamente qualificata che, grazie all’impoverimento imposto dalla crisi, si offre sul mercato del lavoro a salari sempre più bassi, a tutto vantaggio di quelle imprese che possono invadere i mercati esteri sfruttando due armi formidabili: da un lato, la capacità di penetrazione dei settori qualitativamente più elevati del made in Italy e, dall’altro, la possibilità di competere sui prezzi proprio grazie alla compressione salariale. La crisi che stiamo vivendo assomiglia molto ad una precisa scelta di governo dell’economia che favorisce un ristretto gruppo di imprese a forte proiezione internazionale, i capitali più solidi e maggiormente capaci di competere sui mercati globali, contro gli interessi della stragrande maggioranza della popolazione, costretti a pagare il prezzo della cosiddetta svalutazione interna attraverso la disoccupazione di massa, la precarietà e la povertà. E questo non succede per caso o per una qualche legge di natura, ma perché nel contesto europeo, non vigendo la possibilità di svalutare la propria moneta per riacquistare competitività estera, lo stimolo all’export dal lato dei prezzi può avvenire solo tramite la svalutazione del lavoro, che vuol dire riduzione generalizzata dei salari e peggioramento delle condizioni di vita per la maggior parte della popolazione.
Vincitori e vinti, dunque, come in tutte le lotte. I vincitori potranno continuare a godersi i loro successi in santa pace fin quando i vinti, credendo al mito della crisi generalizzata, ignoreranno l’esistenza di chi ha tratto profitto dalla loro sconfitta. Quel profitto ed il potere che ne deriva riposano entrambi anche sulla incapacità dei vinti di riprendere la lotta.

venerdì 23 marzo 2018

L’America sta cercando di andare in guerra con la Siria?

Come venuto fuori dal nulla, un generale russo annuncia che se gli Stati Uniti attaccassero il centro di Damasco (Siria) con un attacco aereo, i Russi reagirebbero.
All’inizio di quest’anno era sembrato che la possibilità di un attacco americano contro obiettivi del governo siriano – una possibilità seria nel 2013 e nel 2014 – era ora accantonata. Sembra che il governo siriano – con l’appoggio russo e iraniano – avrebbe presto preso il controllo delle ultime restanti roccaforti dell’opposizione, ora
Principalmente ridotte a una forma o a un’altra di estremismo. La presa di Aleppo – la città più grande della Siria – è stato il segno dell’inversione di rotta. Ogni volta che le forze del governo siriano circondavano i combattenti dell’opposizione – in gran parte estremisti – questo avrebbe fatto un accordo e li avrebbe inviati nella provincia di Idlib, nel nord della Siria. Non sembrava possibile alcun importante tentativo di rovesciare il governo di Bashar Assad.
Durante gli incontri, i funzionari del governo siriano erano soliti dire ai Russi a agli Iraniani che in questa guerra avrebbero trionfato. I negoziati divennero difficili perché ora appariva che a malapena ci sarebbero stati sufficienti capi dell’opposizione siriana per riempire le sedie dall’altra parte del tavolo. C’era un serio disaccordo tra questi alleati, dato che i Russi erano per lo più focalizzati sulla preparazione di una strada politica tra il governo siriano e i vari gruppi siriani di opposizione (tranne gli estremisti incalliti, ora in gran parte circondati, a Idlib).
E’ in questo momento che la conversazione sulle armi chimiche è di nuovo sul tavolo. Un rapporto delle Nazioni Unite non pubblicato fa pensare a un commercio di armi chimiche tra la Corea del Nord e la Siria. Quello che si è dedotto dal rapporto indica che le prove di questo arrivano da un governo occidentale che non vuole rivelare la sua identità. Questo rende il rapporto piuttosto sospetto. Ci sono anche dichiarazioni circa l’uso di armi chimiche nell’attuale fase della guerra. E’ questo che potrebbe fornire il pretesto per un rapido bombardamento su Damasco da parte degli Stati Uniti. Nell’aprile 2017, l’amministrazione Trump ha lanciato missili da crociera contro obiettivi del governo siriano. Hanno detto che era stato fatto in segno di rappresaglia per l’uso delle armi chimiche. Il Segretario al Commercio degli Stati Uniti, Wilbur Ross, ha fatto capire che l’attacco era stato ‘un intrattenimento dopo cena’. Sembrava ci fosse molto cinismo riguardo all’attacco del 2017.  In seguito non se ne è mai parlato.
Due generali
Valery Gerasimov, il capo di Stato Maggiore della Russia, ha avvertito che, nelle prossime settimane, se non nei prossimi giorni,  gli Stati Uniti potrebbero davvero dare il via a un attacco contro obiettivi del governo siriano. Ha detto che i ribelli nell’enclave di Ghouta Est dove i combattimenti sono stati molto aspri, ‘simulerebbero un attacco chimico’ per provocare l’appoggio aereo da parte degli Stati Uniti. Proprio adesso, questi ribelli affrontano una forza asimmetrica: l’aeronautica militare siriana domina i cieli. Il tributo di vittime civili è stato consistente. Gerasimov ha avvertito gli Stati Uniti che se ci fosse un attacco del genere, e se un solo russo dovesse essere ucciso, la Russia reagirà attaccando obiettivi statunitensi. Questo è stato un avvertimento molto brusco. Gerasimov il giorno successivo ha parlato con il Capo di Stato Maggiore delle forze armate, Generale Joseph Dunford. I due generali hanno soltanto detto in pubblico che avrebbero continuato a mantenere i loro canali di comunicazione. E’ probabile che si siano scambiati assicurazioni contro un’azione belligerante di questo genere. Questa notizia non è stata, però, confermata.
Osservatori attenti del conflitto a Damasco e a Beirut dicono che ora sono preoccupati per un attacco, considerate le persone imprevedibili che sono responsabili della strategia politica degli Stati Uniti. Rex Tillerson, malgrado tutti i suoi difetti, perlomeno era una persona pratica. Ora il triumvirato in carica – Trump, Pompeo e la Haley, sono ideologi che hanno poca comprensione della regione e di questa guerra. Per arrivare all’Iran, che è l’ossessione di Pompeo, gli Stati Uniti potrebbero essere molto desiderosi di indebolire ulteriormente il governo siriano e di rafforzare alcuni dei suoi alleati. Meglio continuare questa guerra, in altre parole, che permettere agli Iraniani di ottenere una vittoria. Gli Stati Uniti non sono stati capaci di impedire agli Iraniani di costruire un ponte di terra da Teheran al Libano che permetterebbe agli Iraniani di rifornire Hezbollah quando è necessario. A Pompeo piacerebbe rompere quel ponte. Un attacco a Damasco potrebbe essere il suo mezzo.
Trump di recente ha parlato della Siria con i suoi alleati occidentali – Francia, Germania e Regno Unito. La Merkel e Trump, in marzo hanno detto che deve essere rispettato il cessate il fuoco (Risoluzione dell’ONU 2401). Macron e Trump, in febbraio hanno detto che le ‘linee rosse’ (cioè l’uso delle armi chimiche) stanno venendo testate dal governo siriano. Questo tipo di dichiarazioni sono dei test della reazione pubblica. Macron aveva già detto, proprio dopo la sua elezione – che se le armi chimiche venivano usate in Siria, allora prometteva una ‘ritorsione e una replica immediata’.  Questa era una ‘linea rossa molto chiara’.
Che questi leader si focalizzino sulle armi chimiche, è indicativo. Significa che non hanno alcun problema con le armi convenzionali e con e con il carattere della guerra in Siria. Piacerebbe loro riservarsi il diritto di colpire in un momento scelto da loro. forse per accrescere la loro posizione diplomatica attualmente debole.
Potenze esterne
Oggi, ad Astana, si incontrano gli Iraniani, i Russi e i Turchi.  Parlano della Siria. E’ oramai un fatto familiare avere degli estranei che parlano del destino della Siria. Mi dicono che l’incontro cementerà un accordo tra queste parti. Alla Turchia che è concordato entri ad Afrin, il bastione della regione curda siriana, verrà detto che né i Russi né gli Iraniani né di fatto l’esercito siriano interferiranno nei piani per la Siria Settentrionale. In cambio, i Russi e gli Iraniani riceveranno una garanzia dalla Turchia che non permetterà neanche – come mi ha detto una persona – che ‘una bottiglia d’acqua’ vada dalla Turchia ad Idlib quando il governo siriano comincerà il suo assalto a quella città. La Turchia, che aveva per lungo tempo fornito supporto proprio a quei ribelli, dovrà osservarli mentre verranno distrutti in un momento successivo di questo anno. Ciò che questo significherà è che la resistenza curda siriana – presumibilmente appoggiata dagli Stati Uniti – sarà distrutta come anche lo saranno i Turchi e i combattenti appoggiati dal Golfo ora a Idlib. Questi due eventi offriranno un vantaggio alla Siria se i Turchi, dopo avere indebolito le ambizioni dei Curdi siriani, si ritireranno in Turchia. Allora il governo siriano potrà rivendicare la sovranità nominale sul suo territorio.
Un attacco con bombe da parte dell’Occidente su Damasco, indebolirebbe il governo siriano e costringerebbe l’Occidente ad avere un posto al tavolo dei negoziati. Questo non aiuterebbe l’opposizione che è stata messa da parte. E non riaprirebbe l’idea che ‘Assad deve andarsene’. Un’incursione di bombardamenti servirebbe semplicemente a far entrare l’Occidente in Siria come protagonista e non permetterebbe al paese di essere o un proxy russo/iraniano o di avere un percorso indipendente. Questo sarebbe un motivo per un’incursione di bombardamenti. Le armi chimiche sarebbero semplicemente il pretesto per un’azione del genere. Non è il liberalismo che motiva queste considerazioni. E’ il potere.

giovedì 22 marzo 2018

Banchiere di Goldman Sachs diventa viceministro delle finanze in Germania

Dopo aver collocato i propri allievi nella maggior parte delle banche centrali, Goldman Sachs sta ora puntando ancora più in alto: dritto ai governi nazionali. Lunedì mattina, un portavoce del ministero delle finanze tedesco ha affermato che il co-direttore della sezione tedesca di Goldman Sachs, Joerg Kukies, diventerà viceministro delle finanze nel nuovo governo tedesco.

Secondo Reuters, Kukies sarà responsabile delle politiche del mercato finanziario e dell’area europea nel suo nuovo ruolo, a quanto ha riferito il portavoce del ministero. In altre parole, con Mario Draghi – un altro allievo di Goldman Sachs – che si accinge a terminare il mandato alla BCE, Goldman rifiuta di cedere il controllo sugli sviluppi delle politiche finanziarie europee, e in questo senso ha già fatto la sua mossa.

Kukies ha prestato servizio come consigliere delegato di Goldman Sachs e come co-direttore della sezione tedesca e austriaca dall’ottobre 2014. Kukies era incaricato di supervisionare la suddivisione dei titoli azionari e dei titoli a rendimento fisso per conto di Goldman Sachs in Germania e in Austria.

A seguito della sua nomina nel governo tedesco, Kukies ha rassegnato le dimissioni da co-direttore della sezione tedesca e austriaca, secondo quanto riferito in una dichiarazione via email da una portavoce di Goldman Sachs. “Nel prossimo futuro, Wolfgang Fink guiderà la sezione tedesca e austriaca di Goldman Sachs con ruolo di amministratore delegato unico“.
 È ironico notare che non molto tempo fa Kukies, sul blog di Goldman Sachs, aveva condiviso i seguenti consigli, quelli che a suo dire avrebbe dato a se stesso da giovane:

1. Prepara bene chi ti dovrà sostituire. È controintuitivo, ma preparare un collega a prendersi carico delle tue attuali responsabilità ti permette di avanzare più rapidamente a gradi superiori.

2. Sii un buon venditore. Non importa in quale settore, la qualità dei servizi che offri ai tuoi clienti interni o esterni è il miglior predittore del tuo successo nei prossimi dieci anni.

3. Pensa a lungo termine. Nonostante l’industria dei servizi finanziari sia caratterizzata da continui cambiamenti, scoprirai che molti dei tuoi clienti attuali rimarranno tuoi clienti anche in futuro – ma saranno in posizioni più elevate – tra cinque, dieci o quindici anni.

4. Fai attenzione alle potenzialità. Qualsiasi candidato con cui hai un colloquio oggi potrebbe diventare il tuo migliore collega – o il tuo migliore cliente – domani.

5. Condividi i tuoi obiettivi. Fai attenzione alle tue aspirazioni e ambizioni. Fermati a pensare alla tua futura carriera, e non tenere i tuoi piani solo per te stesso.

Ora che è diventato il secondo consigliere finanziario più influente della Germania, possiamo dire che si è effettivamente attenuto a tutti e cinque i punti.

mercoledì 21 marzo 2018

Sanità iniqua: 65 giorni di attesa per una visita nel pubblico, 7 nel privato

I frutti avvelenati delle dissennate manovre in materia di Sanità varate dai governi dell’ultimo quindicennio, sono giunti a maturazione. Il Ssn e continua ad arretrare, lasciando consistenti fette di utenza ad un privato sempre più concorrenziale.
I tempi di attesa per effettuare visite mediche nella sanità pubblica sono in costante aumento, con una media di 65 giorni a fronte di circa 7 giorni nel privato e a costi sempre meno distanti, talvolta persino inferiori a quelli dell’intramoenia. Il Ssn regge il colpo solo per le prestazioni urgenti, ma naufraga nei restanti casi.
È quanto emerge dallo studio “Osservatorio sui tempi di attesa e sui costi delle prestazioni sanitarie nei Sistemi Sanitari Regionali”, condotto da Crea, commissionato dalla Funzione Pubblica Cgil e dalla Fondazione Luoghi Comuni e presentato ieri a Roma.
Sotto osservazione sono finite le prestazioni mediche (senza esplicita indicazione di urgenza) effettuate, dal 2014 al 2017, su oltre 26 milioni di utenti residenti in 4 regioni, Lombardia, Veneto, Lazio e Campania, il 44% della popolazione totale.
Lo studio consegna “una situazione dove il Ssn e continua ad arretrare soccombendo alla concorrenza del privato”. Per il sindacato è necessario “continuare la mobilitazione per difendere e, allo stesso tempo, potenziare e qualificare il Ssn con un impegno costante per invertire la tendenza al definanziamento e garantire un adeguato livello di occupazione attraverso un piano triennale di assunzioni”.
La nota più dolente è costituita dai tempi di attesa. Dallo studio sono emersi tempi di attesa nella Sanità pubblica estremamente lunghi, a fonte di un’offerta “privata” molto più celere. Nel 2017, come abbiamo già sottolineato, i tempi medi di attesa per effettuare una visita medica attraverso il Ssn sono stati di 65 giorni nel pubblico a fronte di 6 nell’intramoenia, 7 nel privato e 32 per il privato convenzionato.
Entrando nel dettaglio, nel pubblico si va da 22,6 giorni per una Rx articolare a 96,2 per una Colonscopia. Le stesse prestazioni registrano in intramoenia attese di 4,4 giorni per l’Rx articolare e di 6,7 per una Colonscopia; e rispettivamente di 8,6 e 46,5 giorni nel privato convenzionato; infine di 3,3 e 10,2 giorni nel privato a pagamento.
Per una visita oculistica nel pubblico si è passati da circa 61 giorni di attesa nel 2014 agli attuali 88 (+ 26 giorni in meno di 4 anni), mentre nel privato a pagamento, lo scorso anno, si registravano soli 6 giorni di attesa. Quanto invece alla stessa visita oculistica condotta in intramoenia, l’attesa lo scorso anno era di 7 giorni mentre nel privato convenzionato 55.
Per una visita ortopedica nel pubblico, si è passati dai 36 giorni di attesa nel 2014 ai 56 (+20 giorni) di oggi; passando sotto la lente d’ingrandimento il solo 2017, nel privato a pagamento le attese sono state di 6 giorni, lo stesso anche in intramoenia, mentre nel privato accreditato si arriva a 27 giorni.
Tempi di attesa dilatati anche per la colonscopia. Nel pubblico si è passati dai 69 giorni nel 2014 ai 96 giorni del 2017 (+27 giorni). Ma sempre lo scorso anno, nel privato a pagamento l’attesa era di 10 giorni, 7 in intramoenia e 46 nell’accreditato.
Passando al dettaglio regionale sui tempi di attesa per le varie prestazioni nel settore pubblico, il Lazio primeggia per tempi particolarmente lunghi, soprattutto per gastroscopia e colonscopia. Attese particolarmente lunghe anche in Lombardia per poter fare un’ecografia tiroidea e in Campania per la visita oculistica. In intramoenia, invece, i tempi di attesa presentano differenze contenute tra le Regioni monitorate.
Per quanto riguarda le strutture private accreditate, si registrano tempi lunghi e differenze molto significative per alcune prestazioni: 63 giorni per una colonscopia o i 52 per una gastroscopia in Lombardia e circa 90 giorni per una coronarografia in Campania.
Migliora la situazione nelle strutture private, per le prestazioni a pagamento pieno: tempi di attesa brevi e differenze limitate.
“Emerge dunque con evidenza come il privato, si legge nel rapporto, riduca drasticamente i tempi di attesa per prestazioni mediche e come anche il privato convenzionato garantisca un servizio notevolmente più rapido a quello del sistema pubblico degli ultimi anni”.
Per quanto riguarda i costi sostenuti dai pazienti, rilevati solo per intramoenia e privato a pagamento, dallo studio Crea e Funzione Pubblica Cgil emerge che “risultano mediamente abbastanza consistenti, ma in molti casi non molto distanti dal costo del ticket pagato nelle strutture pubbliche e private accreditate”.
Per una visita oculistica, nel 2017, nella sanità privata sono stati sborsati circa 97 euro a fronte dei 98 euro dell’intramoenia. Pochi euro di differenza anche per la visita ortopedica che nel privato ha un costo di circa 103 euro contro i 106 euro dell’intramoenia.
Relativamente al confronto della spesa sostenuta dal paziente in intramoenia nelle 4 regioni sottoposte ad analisi, si registrano costi mediamente più salati in Lombardia. Una visita oculistica in Lombardia costa 117,1 euro, in Veneto 104,1, nel Lazio 84,5, e 80,7 euro in Campania. Una visita ortopedica in Lombardia costa 115,6 euro, in Veneto 112,6, nel Lazio 100, e 95 euro in Campania.
I numeri sfatano infine il “mito” delle assunzioni in eccesso nella Sanità pubblica di Campania e Lazio, dove a farla da padroni sono i privati. La Campania è la Regione con meno personale nelle strutture Pubbliche o equiparate del Ssn (8,6); segue il Lazio con 11,1, ancora sotto la media nazionale, quindi segue la Lombardia (con 11,7, pari alla media) e il Veneto con 13,6, che è una delle Regioni a statuto ordinario con più personale pubblico.
La Campania, è la Regione con la maggiore quota di privato, seguita dal Lazio (0,91) e dalla Lombardia (0,83); mentre il Veneto con 0,26 letti privati accreditati ogni 1.000 residenti è seconda solo alla Liguria.

martedì 20 marzo 2018

Usa ed Europa dominano il mercato delle armi

Il mercato globale delle armi non conosce crisi. A certificarlo è il Sipri (istituto internazionale di ricerche sulla pace con sede a Stoccolma), che nel suo ultimo aggiornamento evidenzia un aumento nel trasferimenti internazionali di armi: + 10% nel periodo 2013-2017 rispetto al 2008-2012. Prosegue così la tendenza al rialzo iniziata all’inizio degli anni Duemila e che vede oggi in testa alla classifica dei principali esportatori Stati Uniti, Russia, Francia, Germania e Cina.
A guidare la classifica sono gli Stati Uniti: l’export a stelle e strisce occupa il 34% del mercato mondiale di sistemi d’arma, aerei, elicotteri e navi (il report Sipri non considera infatti armi e munizioni), in crescita rispetto al 2008-2012. I principali clienti sono Arabia Saudita (che assorbe il 18% dell’export statunitense), Emirati Arabi (7,4%) e Australia (6,7%). “Sulla base degli accordi firmati durante l’ amministrazione Obama, le consegne di armi degli Stati Uniti nel 2013-17 hanno raggiunto il livello più alto dalla fine degli anni Novanta -ha dichiarato Aude Fleurant, direttore del programma SIPRI per le armi e la spesa militare-. Questi accordi e altri importanti contratti firmati nel 2017 garantiranno che gli Stati Uniti resteranno il maggiore esportatore di armi nei prossimi anni”.
Al secondo posto si piazza la Russia (22% dell’export mondiale tra il 2013 e il 2017), seguita da Francia (6,7%), Germania (5,7%) e Cina (5,7%). L’Italia si piazza al nono posto (con una quota del 2,5%), vendendo soprattutto a Emirati Arabi Uniti, Turchia e Algeria. Sommati tra loro, però, i cinque principali esportatori europei –Francia, Germania, Regno Unito, Spagna e Italia- raggiungono il 23% dell’export mondiale.
 Crescono le spese militari, cresce il volume dei trasferimenti e cresce il fatturato delle aziende militari -sottolinea Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Italiana per il Disarmo-. Tutti questi indicatori sono collegati tra di loro e ci indicano chiaramente un trend: il mondo si arma sempre di più. E i principali mercati di destinazione sono i Paesi nelle aree più calde del mondo”.
In Medio Oriente, una delle regioni più segnate dai conflitti negli ultimi anni, si è anche registrato un aumento nella vendita di armi: +103% tra il 2008-2012 e il 2013-2017. Complessivamente, nella regione è stato venduto il 32% delle armi nell’ultimo periodo preso in esame da Sipri. Tra i primi acquirenti l’Arabia Saudita (31%), l’Egitto (14%) e gli Emirati Arabi (13%). Il principale fornitore di armi nei Paesi della regione sono stati gli Usa (52%), seguite dal Regno Unito (9,4%) e dalla Francia (8,6%).
“I conflitti violenti in Medio Oriente e le preoccupazioni in materia di diritti umani hanno portato a un dibattito politico in Europa e nel Nord America sulla limitazione delle vendite di armi”, ha dichiarato Pieter Wezeman, ricercatore senior di Sipri-. Eppure gli Stati Uniti e gli stati europei rimangono i principali esportatori di armi nella regione e hanno fornito oltre il 98% delle armi importate dall’Arabia Saudita”.

lunedì 19 marzo 2018

E’ boom di lavoratori poveri nell’Unione Europea. Italia prima in numeri assoluti

I dati di Eurostat diffusi ieri a Bruxelles, confermano che nell’Unione Europea sono in crescita coloro che lavorano, magari anche a tempo pieno, ma che le sempre più basse retribuzioni stanno gettando dentro il gorgo della povertà. Insomma è boom dei working poor, i lavoratori poveri.
Secondo i parametri ufficiali, si parla di rischio di povertà lavorativa nel caso in cui un lavoratore che vive in un nucleo familiare abbia un reddito disponibile al di sotto della soglia del rischio povertà. La soglia è stabilita al 60% del reddito medio nazionale disponibile, considerando i contributi sociali.
Il rischio di povertà continua ad affliggere diversi Paesi dell’Unione Europea e può variare a seconda della tipologia di contratto: è il doppio più alto per i lavoratori part-time (15,8%) che per quelli full-time (7,8%) e tre volte maggiore per i lavoratori con contratto a tempo determinato (16,2%) rispetto a quelli con contratto a tempo indeterminato (5,8%). I lavoratori uomini (10,0%) inoltre sono secondo Eurostat, più a rischio di povertà rispetto alle donne (9,1%).
I dati segnalano che il rischio di povertà lavorativa nell’Unione europea sta aumentando e sta incidendo soprattutto sui giovani. Secondo l’ufficio statistico europeo, negli ultimi anni la proporzione dei lavoratori a rischio povertà è in continuo aumento, dall’8,3% nel 2010 al 9,6% nel 2016. Questo vuol dire che circa un decimo (9,6%) dei lavoratori sopra i 18 anni nell’Unione europea erano a rischio povertà nel 2016. E l’Italia è il primo paese in classifica, in termini assoluti e non percentuali, per presenza di lavoratori a rischio povertà.
In negativo infatti, se il paese dell’Unione europea con maggiore rischio di povertà lavorativa è la Romania (18,9%), seguita da Grecia (14,1%), Spagna (13,1%), Lussemburgo (12,0%), l’Italia (11,7%) si posiziona al quinto posto nella classifica dei Paesi con rischio povertà più alti. In termini assoluti l’Italia però risulta primo Paese dell’Ue nel 2016 con poco più di tre milioni i lavoratori a rischio povertà, seguita da Spagna con 2,9 milioni e Romania con 1,6 milioni.
L’aumento più elevato di lavoratori a rischio di povertà si è registrato in Ungheria con un aumento dal 5,3% nel 2010 al 9,6% nel 2016, seguito da Estonia, Germania, Italia e Spagna.
Ai primi posti della classifica di chi invece ha meno working poor, ci sono quei paesi in cui meno del 5% della popolazione senza lavoro era a rischio di povertà. Al primo posto abbiamo la Finlandia (3,1%), seguita da Repubblica Ceca (3,8%), Belgio (4,7%) e Irlanda (4,8%).
La situazione migliora in alcuni Paesi in cui il rischio di povertà lavorativa sembra essere diminuito secondo i dati Eurostat. In Lituania per esempio, il rischio si è ridotto dal 12.6% nel 2010 al 8.5% nel 2016, con a seguito Danimarca, Lettonia e Svezia.

venerdì 16 marzo 2018

L’ordine che non c’è più. Nel mondo e in Italia

Due analisi su temi molto diversi tra loro – gli squilibri Nord-Sud in Italia e la guerra dei dazi scatenata da Trump – affrontano esattamente lo stesso problema “sistemico”: le diseguaglianze di sviluppo territoriale (dunque anche sociale) sono alla base di problemi politici e geopolitici di prima grandezza.
Per quanto riguarda il nostro paese, Giuseppe Berta, sul confindustriale Sole24Ore, affronta e spiega le disuguaglianze elettorali con le relative differenze di modello produttivo.
Il Nord, in estrema sintesi, è agganciato strettamente alle economie (alle filiere produttive) dell’Europa tedesca, ma non è più differenziato al suo interno secondo le caratteristiche degli anni ‘90 (grandi imprese nell’Ovest, a partire dalla Fiat, e “piccolo è bello” nel Nordest). Anzi, la media impresa – o comunque impresa non egemone nel proprio comparto – è la norma, allargata ormai anche a parti consistenti dell’Emilia e del centro.
Il Sud, invece, ha perso o sta per finire di perdere anche quelle “cattedrali nel deserto” (è rimasta ormai soltanto l’Ilva di Taranto, oltre alla Fiat di Melfi) che avrebbero dovuto far da volano per un indotto mai nato davvero.
Ne conseguono due aspettative di sintesi politico-economica che non possono essere giustapposte (schematizzando molto: meno presenza dello Stato al Nord, più presenza nel Mezzogiorno), e che in buona misura spiegano le difficoltà a creare un governo comune Lega-Cinque Stelle. Le distanze si sono allargate a dismisura e nessuna visione unitaria del futuro è fin qui apparsa all’orizzonte. Anche lo strisciante trasferimento della “capitale di fatto” da Roma a Milano è allo stesso tempo un effetto di quelle disuguaglianze e un loro fattore di aggravamento, perché contribuisce a far piovere sempre più capitali da investimento nella parte del paese che già ne attira il 90%.
A questa dicotomia invalidante hanno dato un enorme contributo le politiche europee di austerità, che hanno favorito esattamente la stessa dinamica a livello continentale (con la Germania del ruolo del Nord e quasi tutto il resto d’Europa nella posizione del Mezzogiorno).
A bocce ferme – ossia secondo i trattati esistenti nella UE – questa polarizzazione è irrisolvibile perché utile a confermare il modello mercantilista tedesco (compressione salariale e del mercato interno per avere una capacità di esportazione più aggressiva).
Sul piano gobale, invece, Adriana Cerretelli minimizza – nei limiti del possibile – lo scontro Usa-UE sui dazi doganali, trovando un filo di interesse comune tra due sponde dell’Atlantico: il contrasto delle capacità egemoniche della Cina.
Se il discorso fosse limitabile al solo aspetto geopolitico – tra grandi potenze, nazionali o plurinazionali – filerebbe pure. Ma c’è un ma, grande quanto la crisi di egemonia Usa. La sola superpotenza rimasta dopo il crollo del Muro è infatti tutt’altro che nel pieno delle sue forze. Lo stesso ricorso al protezionismo più sgangherato (non solo su acciaio e alluminio, ma soprattutto sulle tecnologie informatiche) ha un carattere molto “difensivo” e tutt’altro che vincente.
Basta infatti ragionare sul fatto che i dazi sono un limite posto all’interscambio, dunque hanno effetti più o meno depressivi e comunque creano ostacoli sia sul piano dello sviluppo economico, sia su quello della “collaborazione” internazionale. E questo vale sa per gli Usa che per l’Unione Europea. Mentre al contrario la Cina è in grado di “allagare di liquidità da investimento” tutti quei paesi che vanno alla ricerca di relazioni internazionali meno improntate allo strozzinaggio.
Cosa lega le due dinamiche (quella nazionale e quella globale)? La fine del mito dei “ benefici illimitati del liberismo incontrollato”.
Non si tratta, nota giustamente Cerretelli, di una revisione “ideologica”, ma solo della presa d’atto che a via della “globalizzazione” ha prodotto alla lunga risultati inaccettabili per i paesi (le aree economiche) che ne erano stati i promotori. La delocalizzazione ha gonfiato i profitti delle multinazionali occidentali, ma ha svuotato di reddito disponibile le popolazioni (sempre occidentali); creando problemi enormi di gestione politica che hanno portato un Trump alla Casa Bianca e ventate “populiste” sempre meno arginabili senza cambiare indirizzo.
Quando le cose arrivano a questo punto (“Le cose si dissociano; il centro non può reggere”) nella Storia si danno poche alternative. L’emergere di una nuova visione più lungimirante, fondata su gambe robustissime (in pratica: un passaggio di ruolo egemonico da una potenza a un’altra), in grado di fare da “nuovo centro”. Oppure l’autonomizzazione delle parti, ovvero la competizione di tutti contro tutti (Usa, Unione Europea, Cina, Russia, in un vortice di alleanze che si fanno e si disfano continuamente).

giovedì 15 marzo 2018

Nell’Italia delle disuguaglianze crescenti è boom della povertà

A sostenerlo non è Potere al Popolo ma una istituzione insospettabile come la Banca d’Italia.
In Italia ormai quasi una persona su quattro (23%) è a rischio povertà e una quota così elevata non si era mai raggiunta dalla fine degli anni ’80. Secondo l’indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie, nel 2016 “la quota di persone a rischio di povertà è salita al 23%, un livello molto elevato” e il più alto dal 1989, anno di inizio delle serie storiche dello studio.
Il rischio di povertà, spiega il rapporto della Banca d’Italia, “è più elevato per le famiglie con capofamiglia più giovane, meno istruito, nato all’estero, e per le famiglie residenti nel Mezzogiorno, ma una crescita notevole del rischio povertà si è avuta anche al nord (dall’8,3% al 15%).Tra il 2006 e il 2016 è diminuito solo tra le famiglie con capofamiglia pensionato o con oltre 65 anni”.
Infine, il dato statistico si rivela per quello che è: un dato di classe. Infatti sono aumentati le diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza in Italia: nel 2016 il 5% del ‘Paperoni’ deteneva il 30% della ricchezza complessiva. Il 30% più ricco delle famiglie ha circa il 75% del patrimonio netto rilevato nel complesso, con una ricchezza netta media di 510.000 euro. Oltre il 40% di questa quota è detenuta dal 5% più ricco, che ha un patrimonio netto in media pari a 1,3 milioni di euro. Al 30% delle famiglie più povere invece l’1% della ricchezza.
E’ bene rammentare che Geminello Alvi in un saggio di alcuni anni, segnalava come il livello di occupazione dei lavoratori dipendenti in Italia fosse regredito ai livelli del 1881, cioè nel contesto dell’annessione del Meridione all’accumulazione nel Nord e dell’imperante modello sabaudo.
Se nel 1972 ai salari andava il 59,2% del reddito, nel 2003 era già sceso al 48,9%. La crisi del 2007/2008 ha accentuato tutti i processi di polarizzazione sia verso l’alto e verso il basso innescando un fortissimo aumento delle disuguaglianze sociali.
E’ il modello sabaudo, quello plasticamente rappresentato dal governo Monti e dalla legge Fornero nel 2011/2012 fedeli esecutori dei diktat della lettera della Bce firmata da Draghi e Trichet.

mercoledì 14 marzo 2018

Mosca chiede a Londra campioni gas nervino

Sale la tensione tra Londra e Mosca, nel giorno in cui scade l’ultimatum imposto da Theresa May. Alla convocazione dell’ambasciatore russo a Londra da parte del premier britannico, il ministro degli esteri Serghei Lavrov ha risposto chiedendo il “rispetto degli obblighi internazionali” e richiamando a sua volta l’ambasciatore inglese, Laurie Bristow, nella capitale russa.
Immancabile l’intervento Nato, attraverso una nota del segretario generale Jens Stoltenberg. “Il Regno Unito è un alleato altamente apprezzato e questo incidente è di grande preoccupazione per la Nato”, scrive Stoltenberg.
La Russia respinge al mittente l’accusa di esser dietro all’avvelenamento dell’ex spia del Kgb e di sua figlia Yulia e chiede l’accesso alle indagini.
Lavrov, si è detto pronto pronto a collaborare allo svolgimento dell’inchiesta ma ha sottolineato che Mosca non risponderà all’ultimatum fino a quando Londra non darà ai funzionari del Cremlino accesso alle indagini e al gas nervino utilizzato all’aggressione. Richiesta per ora non accolta.
Il ministro degli Esteri russo è stato categorico: “La Russia non ha nulla a che fare con il caso dell’ex agente dei servizi russi avvelenato in Gran Bretagna insieme alla figlia e non risponderà all’ultimatum del Regno Unito sino a che Londra non le darà accesso alle analisi sulla componente tossica”. Un obbligo tra l’altro sancito nella convenzione sulle armi chimiche.
Lavrov ha dichiarato all’agenzia Interfax che Mosca ha “inviato una richiesta ufficiale di accesso a questo composto in modo che i nostri esperti possano testarlo in conformità con la Convenzione sulle armi chimiche”.
“Finora, ha aggiunto il ministro, la richiesta è stata ignorata. Invece di lanciare ultimatum Londra dovrebbe rispettare i suoi obblighi internazionali”.

martedì 13 marzo 2018

Flassbeck – Il disastro dell’euro

L’Unione Economica e Monetaria Europea (UEM) è in crisi permanente dal 2008. Non tutti gli stati membri ne sono colpiti in ugual misura – tuttavia si è generato un grave squilibrio, risultato di uno sviluppo economico diseguale, che pone una minaccia diretta all’ininterrotta esistenza dell’unione monetaria.

Anche i quattro maggiori paesi dell’euro – Germania, Francia, Italia e Spagna – hanno sperimentato sviluppi molto differenti sotto il regime dell’euro, in particolare dal 2008 con lo scoppio della crisi finanziaria permanente.

  La Francia, d’altro canto, ha visto una crescita molto modesta dall’inizio della crisi. La situazione nei due paesi più grandi dell’unione monetaria si è così invertita: prima della crisi la Germania è stata a lungo considerata il “malato” d’Europa, conseguendo solo fasi molto brevi di crescita dal 1999 al 2000 e dal 2006 al 2007. La Francia sotto l’euro inizialmente ha registrato uno sviluppo davvero costante e molto più robusto. Mentre per Italia, che ha sperimentato una crescita modesta come quella della Germania prima della crisi, la situazione da allora si è sensibilmente deteriorata. Sembra essere caduta dentro una trappola dalla quale non può fuggire.

La Spagna ha vissuto rapidi alti e bassi: inizialmente un lungo boom, quindi un crollo repentino che, come in Italia, ha avuto luogo durante una doppia recessione. Da qualche anno ormai il paese nel Sud ovest dell’eurozona sta mostrando una crescita relativamente forte in termini di dati ufficiali sul PIL. In ogni caso, la disoccupazione rimane molto alta.

Non è sorprendente quindi che la Germania oggi sia generalmente lodata dai media e dai politici come esempio e modello tra i grandi paesi membri dell’euro, mentre Francia e Italia, secondo le interpretazioni ufficiali, non hanno adottato le “politiche necessarie” e sembrano non fare progressi. I presunti compiti a casa trascurati sono naturalmente le “riforme strutturali”. Il termine si riferisce alla urgente e necessaria liberalizzazione del mercato del lavoro e una riduzione del ruolo dello Stato, che sono dipinte come necessarie al ripristino della competitività. Perfino la crisi finanziaria globale dal 2007 al 2009 e la crisi dell’euro, ancora irrisolta dal 2009, non sono state capaci di ispirare ai decisori delle politiche economiche le dovute riflessioni. L’Europa rimane incrollabilmente neo-liberale.

Da questo punto di vista, la Francia e l’Italia si ostacolano da sole sulla strada della propria felicità, perché rifiutano di prendere la medicina: il miracoloso potere curativo del mercato. Oggigiorno, questo mantra viene ripetuto incessantemente da opinionisti considerati esperti e conseguentemente ripreso ad nauseam dai media. Questa citazione di Francois Villeroy de Galhau, governatore della Banque de France, esprime perfettamente il nocciolo dell’ipotesi secondo cui la prolungata debolezza economica sarebbe dovuta al ritardo delle riforme strutturali:

“Venticinque anni fa, parlammo di ‘Unione Economica e Monetaria’. Da allora, abbiamo avuto successo con l’unione monetaria, ma non siamo stati molto efficaci nell’unione economica. Le prestazioni economiche mediamente abbastanza buone nell’area dell’euro nascondono ancora eterogeneità individuali. Pertanto, prima di tutto, alcuni paesi, come Francia e Italia, devono accelerare le riforme strutturali interne per aumentare l’operatività e la flessibilità delle loro economie. E permettetemi di essere chiaro, è nel nostro interesse nazionale: attualmente abbiamo una crescita economica e un’occupazione inferiore a quelle di alcuni nostri vicini, come la Germania, la Spagna e l’Olanda, che hanno avuto successo nel portare avanti le riforme necessarie”.

L’ipotesi della persistente debolezza economica dovuta al ritardo delle riforme strutturali è, naturalmente, in linea con le solite superstizioni della teoria economica mainstream, secondo la quale i mercati devono essere liberati da tutte le “rigidità”, poiché così renderanno possibile – sempre e ovunque – la crescita più veloce e la massima felicità generale. Se alcune economie crescono più velocemente di altre, ciò è dovuto alle riforme strutturali che sono state attuate con successo. Se le economie crescono con un ritmo più lento, questo è dovuto solamente al fatto che non hanno ancora attuato le urgenti riforme strutturali.

La semplicità intellettuale di questa visione del mondo è impressionante, e piace a quelli che, forse con un occhio all’opportunismo politico, vogliono semplicemente unirsi al gregge neo-liberale. Ma prima di spiegare un’alternativa, permetteteci di rivedere per prima cosa la situazione attuale e alcuni sviluppi storici nei quattro grandi stati membri dell’eurozona.



La Germania ha sperimentato una breve accelerazione della crescita negli anni attorno alla riunificazione tedesca; ma la Francia ha recuperato nuovamente nel corso degli anni ’90. Nel complesso, lo sviluppo dell’Italia durante questo periodo è stato solo leggermente più lento di quello di Germania e Francia. La Spagna, dal canto suo, entrata nella Comunità Europea solo nel 1986, stava recuperando con successo, sperimentando una prolungata crescita fino al 2009. L’accelerazione della crescita della Spagna che iniziò a metà degli anni ’80, esclusa la recessione all’inizio degli anni ’90, fu mantenuta fino alla grande crisi finanziaria. Per la Germania e la Francia, nell’insieme, la tendenza è quasi parallela nel periodo successivo all’introduzione dell’euro: la Germania è stata paralizzata prima della grande crisi, e la Francia è stata paralizzata da allora. Nel caso della Spagna, osservatori ottimisti sperano adesso in una ripresa del processo di recupero, che potrebbe essere stato interrotto dalla profonda crisi finanziaria; mentre l’Italia sembra essere naufragata ai margini, sotto il regime dell’euro, come si può di nuovo chiaramente vedere nel grafico.


Lo sviluppo del reddito pro-capite (in potere d’acquisto – stime aggiustate del FMI),  per il periodo che inizia dal 1980, mostra anche che la Germania, tra i tre stati membri più anziani, aveva un leggero vantaggio di circa il 5% attorno al 2005, mentre la Spagna per un periodo è stata capace di ridurre significativamente le sue molto più ampie carenze. Ma la Spagna e persino la Francia da allora sono tornate significativamente indietro. È inoltre facile vedere perché la Germania generalmente è percepita come la vincitrice dell’euro e della sua crisi e perché il resto d’Europa è visto come perdente.

Il divario economico decisivo all’interno della zona euro si riflette anche nella situazione del mercato del lavoro in Germania, il tasso di disoccupazione oggi è basso come prima della recessione dei primi anni ’80, o addirittura più basso di quanto fu durante il “boom della riunificazione”. Negli altri tre paesi, invece, vengono tutt’ora registrati primati storici negativi. In Francia e Italia il tasso di disoccupazione è sceso di poco negli ultimi anni. In Spagna è sceso più decisamente, ma partendo da un livello molto alto. La Germania tradizionalmente ha avuto un tasso di disoccupazione più basso degli altri tre paesi, ma è stata in controtendenza negli anni ’90 fino alla grande crisi finanziaria. In quel periodo la disoccupazione in Germania è cresciuta, contrariamente alla tendenza nel resto della zona euro, e ha superato il livello di disoccupazione degli altri tre paesi maggiori. Perché la Germania ha avuto difficoltà in questo periodo? E come è stata capace di risorgere dalle ceneri, come una fenice – mentre gli altri paesi dell’euro, e la zona euro nel suo complesso, non si sono ancora risollevati dalla crisi?




Lo sviluppo economico insolitamente scarso nella zona euro è particolarmente evidente se confrontato con quello di altri paesi sviluppati, specialmente quando si esamini lo sviluppo della domanda interna a partire dalla grande crisi finanziaria del 2009  Anche se le economie sviluppate più importanti hanno per lo più fallito nello svilupparsi in modo soddisfacente dopo la crisi globale, la zona euro è rimasta molto indietro ed è la grande ritardataria nel panorama internazionale. Secondo i dati ufficiali, la zona euro non è riuscita a tornare ai livelli pre-crisi della domanda fino al 2016.


Il quadro d’insieme della situazione è inequivocabile e non c’è alcun modo convincente di negarlo: la politica economica della zona euro ovviamente ha fallito. In effetti, se l’euro è stato concepito come un mezzo per organizzare e garantire una prosperità condivisa in Europa, ha sicuramente fallito. L’instabilità politica e sociale in quasi tutti gli stati membri ha raggiunto livelli che fanno sembrare una reale possibilità la totale rottura della UEM. Pertanto parlare di “crisi esistenziale” della UE non è un’esagerazione. Wolfgang Munchau ha formulato appropriatamente e senza giri di parole questo punto, riferendosi ai principali colpevoli (Financial Times, 27 marzo 2017).

“L’insuccesso nel superare la crisi dell’eurozona è uno dei grandi errori storici dell’Europa del dopoguerra – l’eredità di Angela Merkel, Nicolas Sarkozy, Francois Hollande e tutti quelli che hanno avuto un ruolo in questo disastro politico. È una delle principali ragioni dell’ascesa del populismo. Ci ha reso tutti vulnerabili ad altre crisi. L’uscita di un singolo paese dall’eurozona scatenerebbe una crisi finanziaria di proporzioni inimmaginabili”.

Sono soprattutto le politiche economiche della Germania a essere responsabili di avere spinto l’eurozona nella sua ancora irrisolta crisi esistenziale. È grottesco che la Germania, dopo aver distrutto la UEM con le sue peculiari politiche “beggar-thy-neighbour” [letteralmente “rovina il tuo vicino”; espressione usata per indicare politiche che beneficiano il proprio paese scaricandone i costi sui paesi vicini, ndt], continui a condurre le danze e ostacoli una vera ripresa dei suoi partner. L’eurozona in effetti ha bisogno di riforme strutturali. Ma le riforme di cui ha urgentemente bisogno riguardano le politiche macroeconomiche e istituzionali, e non hanno nulla a che fare con l’infilare l’Europa ancora più a fondo nel purgatorio neoliberale. L’agenda neoliberale di affamare lo Stato in nome dell’austerità e impoverire i lavoratori nel nome della flessibilità e della competitività può portare soltanto alla distruzione di quello che leader politici responsabili hanno cercato di costruire in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale.

lunedì 12 marzo 2018

40 anni di MOROse falsità delle press-titute

I politici italiani sono ostaggio delle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale. L’uomo politico è moralmente giustificabile nella misura in cui ha l’obbligo di perseguire il possibile. Ma che dire dei giornalisti? Il loro obbligo morale è di perseguire la verità fattuale. Eppure ancora oggi le press-titute sono MOROse nello spacciare la versione banale della prima ora.

40 anni fa, il 16/3/1978, il Presidente del Consiglio Aldo Moro, leader carismatico della Democrazia Cristiana e grande statista, veniva rapito a Roma in un blitz in cui furono trucidati i cinque agenti della sua scorta. Neanche due mesi dopo il suo cadavere veniva ‘recapitato’ a due passi dalla sede nazionale del Partito Comunista Italiano.
Fin dall’inizio emersero gravi elementi che smentivano la versione ufficiale, politica e mediatica: che le responsabilità del sequestro e dell’uccisione di Aldo Moro si dovessero attribuire esclusivamente alle Brigate Rosse, il gruppo terroristico che si opponeva ‘del tutto autonomamente’ al Compromesso Storico, cioè al lungo processo politico che avrebbe ‘addomesticato’ il PCI fino a renderlo compatibile con il sistema democratico occidentale.
Nei 40 anni seguenti, l’evidenza fattuale e giudiziaria ha rivelato una realtà assolutamente diversa: le BR erano infiltrate fin dalla loro nascita, e poi furono sempre più marcatamente eterodirette, da un gran numero di servizi segreti. Nettamente dominanti erano i servizi inglesi e cecoslovacchi, punte di diamante dei rispettivi blocchi mondiali: liberista e comunista. In piena Guerra Fredda, le ‘Convergenze Parallele’ che Moro e Berlinguer[1] andavano tessendo erano intollerabili: l’Italia avrebbe stabilito un precedente molto pericoloso, avrebbe aperto una strada allettante soprattutto per i paesi dell’Europa ‘latina’ da una parte, e dell’Europa orientale dall’altra.
Quella congiura internazionale viene certificata al massimo livello nella Relazione della Commissione Parlamentare d’Inchiesta, trasmessa alle Camere il 7 dicembre 2017.
Chi volesse evitare quel barboso testo redatto in burocratese, e avere una contestualizzazione più ampia, può leggere ‘Il Puzzle Moro’ di Giovanni Fasanella, edito da Chiarelettere. Una chiara presentazione si trova nell’intervista rilasciata da Fasanella a Byoblu qui.
Su Byoblu si trova anche l’intervista in tre puntate a Gero Grassi, che dà prova di encomiabile onestà intellettuale e contestualizza ancor più ampiamente la storia politica di Aldo Moro.
Conclusione: i politici italiani sono ostaggio delle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale. Quei pochissimi che hanno tentato di svincolarsene hanno fatto una brutta fine.
L’uomo politico è moralmente giustificabile nella misura in cui ha l’obbligo di perseguire il possibile.
Ma che dire dei giornalisti? Il loro obbligo morale è di perseguire la verità fattuale. Eppure ancora oggi le press-titute sono MOROse nello spacciare la versione banale della prima ora. Ancora peggio: come recentemente ricordato da Pressenza, le press-titute hanno censurato per trent’anni perfino il romanzo sotto la cui veste Antonio Ferrari aveva raccontato quella congiura internazionale.

venerdì 9 marzo 2018

Sempre più soldi per le armi nucleari

La Campagna Premio Nobel per la pace ICAN (Campagna internazionale per l'abolizione delle armi nucleari) e la Ong olandese PAX hanno pubblicato il Rapporto 2018 “Don’t bank on the bomb” (‘Non investire nella bomba’) che ha registrato un aumento di 81 miliardi di dollari in nuovi investimenti a favore della produzione di armi nucleari nel 2017, rispetto al 2016. Il Rapporto mostra come siano 20 le aziende che beneficiano maggiormente dell'aumento delle minacce nucleari e viene rilanciato in Italia dalla Rete Italiana per il Disarmo (membro di ICAN) insieme alla Fondazione Finanza Etica.
Stando ai dati pubblicati:
  • Un totale di 525 miliardi di dollari (un aumento di 81 miliardi di dollari) è stato messo a disposizione delle aziende produttrici di armi nucleari; tra questi 110 miliardi di dollari provenivano da sole tre società: BlackRock, Vanguard e Capital Group.
  • Inoltre, 329 banche, compagnie di assicurazione, fondi pensione e gestori patrimoniali di 24 paesi investono in modo significativo in armi nucleari
  • Le 20 maggiori compagnie produttrici di armi nucleari, la maggior parte delle quali ha a propria disposizione significative risorse di lobbying a Washington, trarranno beneficio dalla crescente minaccia nucleare
  • Una nota positiva: dopo l'adozione del Trattato delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari, 30 società hanno cessato di investire in armi nucleari.
  • Due dei cinque maggiori fondi pensione al mondo stanno disinvestendo dalle armi nucleari
"Se vi state chiedendo chi benefici delle minacce di guerra nucleare continuamente rilanciate da Donald Trump, in questo Rapporto troverete la risposta", ha detto la Direttrice esecutiva di ICAN Beatrice Fihn. “Queste sono le aziende che traggono profitto dall’omicidio di massa indiscriminato di civili. Aumenta la nostra insicurezza mentre loro guadagnano sul caos, investendo nella distruzione finale in stile Armageddon”.
"Una nuova corsa agli armamenti nucleari ha avvicinato l'orologio del giorno del Giudizio - il cosiddetto Doomsday Clock - a un vero Armageddon, ma ha anche avviato una nuova corsa all'oro nucleare per coloro che vogliono trarre profitto da ipotesi di distruzione di massa" ha concluso la Fihn.
«Nel Rapporto si riscontra un massiccio aumento degli investimenti nella distruzione di massa, ma vengono anche individuate 63 istituzioni finanziarie con politiche che limitano o proibiscono gli investimenti in qualsiasi tipo di produttore di armi nucleari - spiega la Rete per il Disarmo - Per l’Italia sono Banca Etica (inserita nella “Hall of Fame”) e Intesa-Sanpaolo con Unicredit (inserite tra i “Runners-up” anche se solo con una “stella” sulle quattro possibili e che rimangono comunque anche nell “Hall of shame” per investimenti negli anni precedenti)».
“I nostri soldi non sono neutri. Una volta depositati in banca o affidati a un gestore finanziario possono alimentare economie con impatti positivi o al contrario estremamente negativi. Il Rapporto permette di informarsi su quali sono le banche coinvolte nel finanziamento delle armi nucleari. È quindi uno strumento per formarsi e riflettere sull’uso dei nostri soldi, e per agire di conseguenza” è il commento di Andrea Baranes, presidente di Fondazione Finanza Etica.
Susi Snyder, della Ong PAX e co-autrice del Rapporto, ha evidenziato i risultati positivi: "Il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari ha rilanciato il disinvestimento dalle armi nucleari, evidenziato dal 10% in meno di investitori, ed un incremento nelle istituzioni finanziarie che proibiscono qualsiasi forma di investimento. L’impiego dei propri fondi non qualcosa di neutrale, e questi attori finanziari devono quindi essere lodati per essersi posti dalla parte dell’umanità”.
Anche la pressione sulle istituzioni finanziarie sarà uno degli strumenti a disposizione delle mobilitazioni della società civile che chiedono un mondo finalmente libero dalle armi nucleari. “La richiesta principale per quanto riguarda le campagne italiane è quella che anche il nostro Paese inizi il percorso di adesione e ratifica al Trattato” sottolinea Francesco Vignarca coordinatore della Rete Italiana per il Disarmo. “Per questo abbiamo lanciato insieme a Senzatomica la mobilitazione ‘Italia, ripensaci’ che andremo a sottoporre ai nuovi parlamentari appena eletti. Forti delle cartoline di sostegno che stiamo raccogliendo in tutta Italia e degli ordini del giorno votati da numerosi comuni in tutto il Paese. Anche i dati sul sostegno finanziario alle armi nucleari saranno in questo senso preziosi”.

giovedì 8 marzo 2018

Terremoto politico in Italia

Le elezioni che si sono svolte in Italia domenica 4 marzo hanno provocato un vero terremoto politico. Il partito di centrosinistra (il PD) e il suo leader sono stati cancellati. I partiti euro-scettici o cosiddetti “populisti” sono arrivati primi. È probabile che nei prossimi mesi questo terremoto si diffonderà, per un effetto di contagio, verso altri paesi dell’Unione europea. E’ utile dunque trarne delle lezioni. Va ricordato, tuttavia, che il sistema elettorale italiano è complesso.

La Camera dei Deputati comprende 630 seggi, di cui 232 sono eletti a maggioranza relativa in altrettanti collegi uninominali, mentre 398 sono eletti con sistema proporzionale a livello nazionale. Il Senato della Repubblica è composto da 315 seggi. Dei 315 senatori, 116 sono eletti a maggioranza relativa in collegi uninominali, mentre ben 199 sono eletti con sistema proporzionale nei collegi plurinominali e con soglia di sbarramento regionale del 20% (a livello regionale) o del 3 % (a livello nazionale). Non si può formare un governo senza fare coalizioni.


Vincitori e vinti

Questi risultati rivelano quattro fenomeni significativi [1]. In primo luogo, la coalizione guidata da Berlusconi e composta da tre partiti, è giunta in testa con circa il 35% dei voti. Poi, il Movimento 5 Stelle (M5S), il cosiddetto partito populista, ha fatto un balzo in avanti superiore alle attese e ha totalizzato circa il 33% dei voti. Ciò mette in evidenza il crollo del Partito Democratico (PD) di Matteo Renzi, che con circa il 19% dei voti (o il 22% se si aggiungono piccole frange dissidenti), ha riportato il peggior risultato della sua storia. Infine, e questo è il quarto punto saliente di queste elezioni, la “Lega Nord” (Lega), che ha abbandonato la sua dimensione separatista per diventare un vero partito nazionale, ha fatto meglio, nella coalizione di destra, di Forza Italia, il partito di Berlusconi.

Sono dunque due i vincitori di queste elezioni: Di Maio, che ha guidato la campagna M5S, e Salvini, il leader della Lega. A questo si aggiunga l’elezione, nei collegi proporzionali, di due economisti ben noti per le loro posizioni anti-Euro, Alberto Bagnai e Claudio Borghi. I grandi perdenti di queste elezioni sono i partiti “europeisti”. Ed è anche la sconfitta, pesante, di Matteo Renzi, questo leader del PD che è stato presentato come la nuova stella della politica italiana e che, come primo ministro, ha attuato una politica non molto lontana da quella condotta oggi da Emmanuel Macron in Francia.

Una campagna elettorale polarizzata

La campagna elettorale si è polarizzata intorno a due problemi chiave: la situazione economica dell’Italia e il problema del flusso incontrollato di migranti. Sul primo punto, è chiaro che l’euro ha avuto effetti drammatici, come in Francia, sull’economia italiana. Quest’ultima non può nascondere dietro un saldo commerciale in surplus (ma un surplus dovuto principalmente alla compressione delle importazioni) una situazione generale catastrofica. Va anche notato che il famoso “jobs act” creato da Renzi, a cui si è ispirata la “legge sul lavoro” in Francia, si è dimostrato un fallimento spettacolare, al punto che si parla di abrogarlo.

Ma, come si può ben vedere sia dall’ascesa della Lega che dal cambiamento di atteggiamento su questo tema del M5S, anche il problema dell’immigrazione selvaggia è stato uno dei temi principali di questa campagna. L’Italia, a causa della sua posizione geografica, ma anche della mancanza di reazione da parte di altri paesi dell’Unione europea, è stata lasciata sola ad affrontare i flussi migratori, alcuni dei quali sono provocati dalla pessima situazione in Libia, causata dall’intervento dei paesi NATO, che l’Italia non può né gestire né controllare. La situazione su questo punto è critica.


Due uomini forti

Due uomini emergono da queste elezioni, Luigi di Maio (M5S) e Matteo Salvini (Lega). Di Maio ha fatto molto per dare al M5S un volto accettabile per le élite italiane. Con la sua apparenza di giovane tecnocrate, riesce ad essere rassicurante, e in effetti le borse europee hanno reagito solo moderatamente ai risultati della notte del 4 marzo. Egli appare, in un certo senso, più rispettabile di Beppe Grillo, il fondatore del Movimento. Resta da vedere quanta autonomia avrà Di Maio nei confronti del leader storico. Tuttavia, il successo del M5S (il 32% dei voti) è dovuto molto anche ai risultati ottenuti al sud, dove questo partito ha cancellato il PD. Questi risultati si spiegano sia con i suoi attacchi a un sistema corrotto, che dal rileivo dato al problema dell’immigrazione selvaggia.

Anche Salvini ha fatto molto per trasformare un partito regionale, che all’epoca raggiungeva il 4% alle elezioni politiche, in un vero partito nazionale. Ha avuto un successo oltre ogni speranza. Il fatto che sia in vantaggio su Forza Italia, il partito di Silvio Berlusconi (18% contro il 13,9%), e che segua da vicino il PD (con il 18% contro il 19%), è una prova del suo successo. Inoltre surclassa il movimento populista e nazionalista “Fratelli d’Italia”, che faceva parte della coalizione di destra e ha ottenuto solo il 4,3% dei voti. Ha raccolto alcuni elettori del M5S, turbati dal recente ammorbidimento sull’euro da parte del Movimento. È indubbiamente una forza con cui si dovrà fare i conti in futuro. Ma, se vuole radicare il suo successo, la Lega dovrà migliorare la sua copertura nazionale.

Vixerunt … il PD

Quando Cicerone, la mattina del fallimento della congiura di Catilina a Roma ( «Qusque tandem, Catilina, abutere patientia nostra… ») apparve con la sua armatura sul Foro, esclamò “Vissero” (Vixerunt), nel senso che i cospiratori erano stati messi a morte.

E possiamo riprendere la sua esclamazione per riferirci a ciò che è rimasto della socialdemocrazia italiana. Perché la pesante sconfitta subita va oltre la sconfitta personale di Matteo Renzi. Se questa sconfitta consacra il rifiuto di un programma politico, consacra anche – e forse soprattutto – il fallimento di una strategia, quella dell’adattamento al neoliberismo, ai suoi dogmi e alle sue regole. Questo fallimento non è un fatto solo italiano. In Germania, ne risente gli effetti l’Spd, quello che una volta era un grande partito socialdemocratico che dettava la linea ai “fratelli” socialisti europei, e che è ormai superato da AFD (il 16% contro il 18% negli ultimi sondaggi). Questo fallimento, paradossalmente, spiega il voto dei membri dell’SPD per la Grande Coalizione (o GroKo) di questa stessa domenica 4 marzo. Chiamato ad approvare o respingere un accordo di coalizione con Angela Merkel, ma consapevole che un rifiuto avrebbe riportato gli elettori tedeschi alle urne, con conseguenze disastrose per l’SPD, i suoi membri hanno quindi votato per la GroKo. In tal modo, evitano una morte rapida per consegnarsi ai tormenti di una morte che si protrarrà per diversi anni, ma che non sarà meno inevitabile.


La cancellazione dei partiti europeisti

Un’ultima cosa da notare a proposito dei risultati di queste elezioni del 4 marzo, è la cancellazione dei partiti “europeisti”. Dal momento che sappiamo che anche Berlusconi ha mostrato di avere delle riserve sull’euro (vuole un sistema a “due valute” che non è praticabile nella realtà ma equivale a una condanna dell’euro) e che ricordiamo i vecchi discorsi del M5S, oltre il 68% degli elettori italiani ha votato per partiti più o meno euroscettici. Da questo punto di vista, queste elezioni hanno anche il valore di un referendum sulla questione europea …

mercoledì 7 marzo 2018

Gli Stati Uniti perdono la categoria d’impero

Nel nome della “difesa nazionale”, gli Stati Uniti hanno costruito una politica interventista globale senza precedenti, protetta da un complesso sistema di propaganda che giustifica le azioni militari adottate nei Paesi d’interesse strategico. Tale sforzo per garantire la supremazia mondiale ha contribuito, contrariamente agli obiettivi, alla perdita d’influenza nello scenario internazionale. Quali sono le mosse che hanno condannato la nazione che rivendica il ruolo di poliziotto mondiale?
Il vantaggio politico che, una volta caduta l’Unione Sovietica e annunciata la fine della Guerra Fredda, diede libero sfogo agli Stati Uniti nel far progredire i piani di consolidamento della dottrina neoliberale nel Mondo, indipendentemente dalla sovranità delle nazioni e garantendo gli elementi necessari per sostenere l’apparato di produzione capitalista, è finito con le posizioni su sicurezza interna ed estera nel Mondo. Oggi, la nazione che aveva l’indiscutibile dominio mondiale, valuta il nuovo scenario mondiale riconoscendo e misurando la nuova configurazione multipolare delle potenze emergenti Cina e Russia. Questi due Paesi sono comparabili militarmente e tecnologicamente (nel caso della Cina anche economicamente) agli Stati Uniti e, alleate, le superano di gran lunga. Ciò, tuttavia, non si sarebbe verificato con tale diligenza sentendosi minacciate dalle politiche interventiste del governo degli Stati Uniti. L’espansione della presenza militare nei Paesi balcanici e in Medio Oriente, fondamentale per l’espansione degli interessi transnazionali (per neutralizzare l’influenza dell’ex-Unione Sovietica e controllare le fonti energetiche) portò i primi risultati indesiderabili col rafforzamento della posizione internazionale della Russia. Nel caso dei Balcani, sostegno alle rivoluzioni colorate, bombardamento NATO in Jugoslavia, colpo di Stato in Ucraina, ultimi preparativi a Kiev per attaccare (con l’aiuto di NATO e Stati Uniti) il Donbas (al confine con la Russia) e il caos che hanno comportato nella regione (ignorato nel mondo occidentale ma assordante presso la popolazione russa), ha prodotto un forte senso patriottico nei russi nel difendere il proprio territorio e capire cosa succede. E una minima applicazione della logica spiegherebbe il miglioramento degli equipaggiamenti militari e la risposta della Difesa della Russia, perché gli Stati Uniti, nella loro irrazionale ossessione per indebolire il Paese eurasiatico, applicano le sanzioni economiche: il blocco finanziario contribuisce anche alle politiche di sostituzione delle importazioni e alla crescente autosufficienza in materia di energia, tecnologia e agricoltura della Russia. Intensifica inoltre i motivi per cooperare e rafforzare i legami con altre regioni escluse dalla dittatura del capitale: di nuovo la Cina nel quadro.
L’escalation della violenza in Medio Oriente è un altro caso che ha generato risultati catastrofici per le élite statunitensi e i loro alleati della NATO. I fatti indicano che ci sarà un’escalation di Stati Uniti ed Israele in Libano e Siria affrontando Iran e Russia. Le decisioni prese da tale alleanza, precedute da altre operazioni di “cambio di regime” (Iraq e Libia) ignorano l’autorità del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite in cui Cina e Russia sono membri permanenti e ne deteriorano l’influenza nella regione. Le nazioni si avvicinano e migliorano i rapporti con le potenze che risolvono i conflitti attraverso mezzi nonviolenti (la Russia e la vittoria diplomatica per raggiungere la pace in Siria) e chi investe senza usare la violenza economica nei loro territori (la Cina e i suoi progetti per attivare la Nuova Via della Seta).
Gli Stati Uniti si occupano anche della militarizzazione dell’area di confine della Cina: nella penisola coreana sono schierati 28500 soldati insieme a mezzi militari aerei, navali e terrestri, scatenando un conflitto tra le due Coree che potrebbe provocare lo scontro nucleare che trascinerebbe il gigante Asia. Inoltre, l’intrusione nel mare della Cina meridionale e il sostegno al riarmo giapponese dimostrano ancora che il progresso militare e della difesa della Cina risponde alla minaccia dall’occidente. Il finanziamento di questi obblighi di sicurezza negli anni è costato centinaia di miliardi di dollari. L’ultimo budget proposto, presentato dall’amministrazione Trump per l’anno fiscale 2019, è di 716 miliardi. Che tale investimento sia usato per attuare politiche contro i Paesi che hanno raggiunto le condizioni per avanzare a scapito di essi, è almeno un prezzo molto alto. Tale processo può essere chiaramente identificato nel nostro territorio. Il Venezuela ha subito negli ultimi cinque anni l’intensificazione dell’assedio politico ed economico che ha causato le opportune scosse di assestamento: l’appello alle violenze interne per produrre il caos ha avuto la sua risoluzione con l’appello al potere originario e all’insediamento dell’Assemblea nazionale costituente, i tentativi di spezzare le istituzioni vitali per lo Stato hanno portato all’intensificazione della lotta alla corruzione, e le sanzioni finanziarie internazionali combinate per ridurre le manovre nell’area economica hanno favorito la decisione del governo di sviluppare il Petro; il primo Stato a convalidare le tecnologie BlockChain come valuta digitale agendo da riferimento ad altre nazioni.
Questi sono, per citarne alcuni, i frutti raccolti nella nazione venezuelana e globalmente, dalle azioni irrazionali degli Stati Uniti nel resistere all’inevitabile come impero: la propria sepoltura.

martedì 6 marzo 2018

Il Bel paese che non c’è più

Ogni anno nell’Unione Europea si verificano tra i 25mila e i 37mila decessi per resistenza agli antibiotici, 7mila dei quali accadono in Italia – dati del Review on Antimicrobial Resistance del 2016. È soprattutto nel Sud Italia che l’abuso di farmaci desta preoccupazione: l’Aifa ha stimato che Campania, Puglia e Sicilia da sole raccolgono il 60% dell’eccesso di consumi di medicine dell’intero paese ed è proprio il Meridione, la regione con i tassi di resistenza ai farmaci più alti, a far lievitare il tasso totale nazionale. Oltre all’abuso legato all’ignoranza popolare e alla negligenza dei medici di famiglia, che insieme realizzano un fenomeno tutto greco ed italiano, è da segnalare il vertiginoso aumento del ricorso agli psicofarmaci: oltre 11 milioni coloro che ne fanno uso annualmente, pari al 12,8% della popolazione, secondo uno studio dell’Istituto di Fisiologia Clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pisa.
Paragrafo a parte meriterebbe il caso del Trentino Alto Adige. Fino al 2010 la regione d’Italia con il minor tasso di resistenza agli antibiotici e di abuso di farmaci, in pochi anni ha scalato la classifica, posizionandosi oggi al terzo posto per via del boom registrato nel consumo di psicofarmaci – a fronte di una spesa per farmaci generici rimasta invariabilmente bassa. La questione ha attirato l’attenzione dell’Aifa e secondo lo psichiatra Claudio Volanti, figura di spicco della comunità medica altoatesina, sarebbero fattori culturali specifici delle popolazioni tedesche ad elevare la propensione di ricorrere a psicofarmaci per fronteggiare ansia, stress ed altre patologie di tipo comportamentale o psichiatrico. Guardando questi dati, non è un forse un caso che sempre il Trentino Alto Adige sia la regione con il più alto tasso di suicidi, in particolare la provincia autonoma di Bolzano: 20 suicidi ogni 100mila abitanti contro una media nazionale di 4,7. In occasione del convegno “Depressione Demenza” tenutosi a Bolzano l’anno scorso, è emerso che in Alto Adige soffrirebbero di depressione circa 25mila persone su una popolazione di circa 525mila e che i decessi annuali per suicidio superino quelli per incidenti stradali.

Non solo gli italiani, ma anche i detenuti nelle carceri italiane – famosi per il tasso di recidiva tra i più alti dei paesi comunitari, soffrirebbero di diffuse patologie psichiatriche e disturbi dell’umore in accordo con quanto emerso dall’indagine “La salute dei detenuti in Italia” del 2015 ed a questo si deve l’elevato numero di prescrizioni di psicofarmaci (il 46% del totale) nelle strutture detentive italiane. Inadeguatezza dell’ambiente carcerario, scarse ed inefficaci misure alternative alla detenzione, basse prospettive di reinserimento nel mondo del lavoro e nella società e recupero e rieducazione ostacolate da una mentalità diffusa di tipo pregiudicante e stereotipante, tante le cause alla base dei suicidi nelle carceri italiane e dell’alta recidività e per le quali, come nel caso dell’abuso di farmaci, si invita alla sensibilizzazione, ma non si attua nulla di concreto.
Stereotipo diffuso nel mondo, come ben evidenziato dalle rappresentazioni hollywoodiane sugli italiani e sull’Italia, riguarda il forte sentimento religioso che caratterizzerebbe il popolo del Bel Paese, una (falsa) credenza legata al passato della nazione e al fatto di ospitare la sede della cristianità occidentale. Le cose non stanno proprio cosi, perché – sebbene in maniera meno marcata che altrove, anche l’Italia ha subito e sta subendo gli effetti della secolarizzazione, soprattutto le nuove generazioni, ed anche coloro che si professano religiosi (i cattolici in particolare) sono sostanzialmente riconducibili a quel tipo di persone che il noto sociologo Peter Berger ha definito credenti senza appartenenza o al contrario appartenenti senza fede, un’altra fetta è rappresentata da atei cristiani e soltanto una (piccola) parte di cattolici praticanti segue regolarmente le funzioni, conosce e segue nella quotidianità i dettami evangelici e direziona il proprio voto politico sulla base delle convinzioni religiose personali.
Leggendo il Rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia realizzato da Il Mulino nel 2014 emergono delle informazioni molto curiose circa la (a)religiosità degli italiani: il 70% della popolazione custodirebbe in casa una Bibbia, ma meno del 30% si sarebbe dedicato alla sua lettura, la stessa percentuale conoscerebbe il nome dei quattro evangelisti e solo l’1% saprebbe i dieci comandamenti a memoria. Alla luce di questi numeri non dovrebbe sorprendere quanto emerso dall’indagine “Piccoli atei crescono” condotta nel 2016 dal sociologo Franco Garelli su un campione di 1500 giovani tra i 18 e i 29 anni. Nel periodo 2007-2015 i giovani atei sono aumentati di 5 punti percentuali, dal 23% al 28%, mentre tra coloro che si professano credenti, il 36,3% dichiara di esserlo per tradizione ed educazione e non per convinzione, ossia degli appartenenti senza credere.
Cifre importanti che aiutano a comprendere anche altre tendenze, come la fortissima riduzione di quegli studenti degli istituti di istruzione secondaria superiore che annualmente decidono di non avvalersi dell’IRC, l’Insegnamento della Religione Cattolica, preferendo passare quelle ore svolgendo attività di laboratorio o passando il tempo libero: una media di oltre un milione l’anno, contro i circa 500mila degli anni ’90. Nello stesso ventennio si sono anche ridotti di un quarto gli studenti iscritti in scuole cattoliche, nonostante l’introduzione di politiche favorevoli nei loro confronti da parte dei vari governi: erano 835mila nel 1994 e 624mila nel 2013. I giovani italiani, in pratica, ereditano la religione dei padri, percependola come parte del proprio patrimonio culturale, senza sentire la necessità di approfondirne i caratteri teologici e storici o di sperimentarne il lato spirituale.

Mentre il cattolicesimo scompare, o meglio cessa di essere elemento spirituale per mutarsi in un elemento culturale accessorio dell’italianità, si sgretola anche la tradizionale centralità della famiglia, orientandosi verso un percorso già intrapreso dagli altri paesi occidentali fatto di divorzi, famiglie estese, figli in affido e genitori single. Soltanto tra il 2014 ed il 2015, complice l’entrata in vigore del cosiddetto divorzio breve, il tasso di divorzio è aumentato da 8,6 casi ogni 10mila abitanti a 13,6 – accentuando una tendenza già esistente, mentre il tasso di nuzialità si conferma come il terzo più basso d’Europa, stabile a 3,2 ogni 1000 abitanti.
Cambiamenti importanti utili a fotografare il panorama famigliare che va delineandosi in Italia: pochi (ed instabili) matrimoni, tanti divorzi, famiglie allargate (composte da persone risposate), unipersonali (composte da una persona sola) o monoparentali sempre più numerose; uno scenario comune nel mondo scandinavo ed anglosassone e che adesso si sta manifestando anche da noi.
Secondo l’Istat nel 2016 le famiglie unipersonali rappresentavano il 31.1% delle famiglie, un grande balzo in avanti considerando che nel 1971 erano il 12.9%, e che in Europa il primato è detenuto dalla Norvegia con il 39.3%
Nessuna politica od iniziativa a favore della stabilità matrimoniale, ma provvedimenti ad hoc per facilitare la scissione delle unità familiari, nessun sostegno alla natalità autoctona, ma innovazioni legislative e mediche sull’interruzione volontaria di gravidanza e dichiarazioni bipartisan sulla necessità dell’immigrazione per la tenuta dello stato sociale e dell’economia nazionale, nessuna azione concreta per alimentare l’economia della cultura, dell’arte e del turismo, nessuna manifestazione di orgoglio nazional-popolare, continui richiami al federalismo europeo e mai un accenno sulla bellezza di una terra che ha davvero dato i natali a poeti, santi, navigatori, eroi, esploratori e scienziati e che oggi, lentamente e silenziosamente muore, uccisa – come ogni altra società del malessere, dai suoi propri abitanti, troppo impegnati ad aggiornare la bacheca di Facebook o ad ascoltare musica priva di contenuto proveniente da oltreoceano (o chi qui la emula) per accorgersi di quel che sta accadendo.