Ogni anno nell’Unione Europea si verificano tra i 25mila e i 37mila decessi per resistenza agli antibiotici,
7mila dei quali accadono in Italia – dati del
Review on Antimicrobial Resistance
del 2016. È soprattutto nel Sud Italia che l’abuso di farmaci desta
preoccupazione: l’Aifa ha stimato che Campania, Puglia e Sicilia da sole
raccolgono il 60% dell’eccesso di consumi di medicine dell’intero paese
ed è proprio il Meridione, la
regione con i tassi di resistenza ai farmaci più alti,
a far lievitare il tasso totale nazionale. Oltre all’abuso legato
all’ignoranza popolare e alla negligenza dei medici di famiglia, che
insieme realizzano un fenomeno tutto greco ed italiano, è da segnalare
il vertiginoso aumento del ricorso agli psicofarmaci:
oltre 11 milioni coloro che ne fanno uso annualmente, pari al
12,8% della popolazione, secondo uno studio dell’Istituto di Fisiologia Clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pisa.
Paragrafo a parte meriterebbe il caso del
Trentino Alto Adige.
Fino al 2010 la regione d’Italia con il minor tasso di resistenza agli
antibiotici e di abuso di farmaci, in pochi anni ha scalato la
classifica, posizionandosi oggi al terzo posto per via del boom
registrato nel consumo di psicofarmaci – a fronte di una spesa per
farmaci generici rimasta invariabilmente bassa. La questione ha attirato
l’attenzione dell’Aifa e secondo lo psichiatra
Claudio Volanti,
figura di spicco della comunità medica altoatesina, sarebbero fattori
culturali specifici delle popolazioni tedesche ad elevare la propensione
di ricorrere a psicofarmaci per fronteggiare ansia, stress ed altre
patologie di tipo comportamentale o psichiatrico. Guardando questi dati,
non è un forse un caso che sempre il Trentino Alto Adige sia la regione
con il più alto tasso di suicidi, in particolare la provincia autonoma
di
Bolzano:
20 suicidi ogni 100mila abitanti contro una media nazionale di 4,7. In occasione del convegno “Depressione
– Demenza” tenutosi a Bolzano l’anno scorso, è emerso che in Alto Adige soffrirebbero di depressione circa
25mila persone su una popolazione di circa
525mila e che i decessi annuali per suicidio superino quelli per incidenti stradali.
Non solo gli italiani, ma anche i
detenuti
nelle carceri italiane – famosi per il tasso di recidiva tra i più alti
dei paesi comunitari, soffrirebbero di diffuse patologie psichiatriche e
disturbi dell’umore in accordo con quanto emerso dall’indagine “
La salute dei detenuti in Italia” del 2015 ed a questo si deve l’elevato numero di prescrizioni di psicofarmaci (
il 46% del totale)
nelle strutture detentive italiane. Inadeguatezza dell’ambiente
carcerario, scarse ed inefficaci misure alternative alla detenzione,
basse prospettive di reinserimento nel mondo del lavoro e nella società e
recupero e rieducazione ostacolate da una mentalità diffusa di tipo
pregiudicante e stereotipante, tante le cause alla base dei suicidi
nelle carceri italiane e dell’alta recidività e per le quali, come nel
caso dell’abuso di farmaci, si invita alla sensibilizzazione, ma non si
attua nulla di concreto.
Stereotipo diffuso nel mondo, come ben evidenziato dalle
rappresentazioni hollywoodiane sugli italiani e sull’Italia, riguarda il
forte sentimento religioso che caratterizzerebbe il popolo del Bel
Paese, una (
falsa) credenza legata al passato della
nazione e al fatto di ospitare la sede della cristianità occidentale. Le
cose non stanno proprio cosi, perché – sebbene in maniera meno marcata
che altrove, anche l’Italia ha subito e sta subendo gli effetti della
secolarizzazione, soprattutto le nuove generazioni, ed anche coloro che
si professano religiosi (i cattolici in particolare) sono
sostanzialmente riconducibili a quel tipo di persone che il noto
sociologo
Peter Berger ha definito credenti senza
appartenenza o al contrario appartenenti senza fede, un’altra fetta è
rappresentata da atei cristiani e soltanto una (piccola) parte di
cattolici praticanti segue regolarmente le funzioni, conosce e segue
nella quotidianità i dettami evangelici e direziona il proprio voto
politico sulla base delle convinzioni religiose personali.
Leggendo il
Rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia realizzato da
Il Mulino
nel 2014 emergono delle informazioni molto curiose circa la
(a)religiosità degli italiani: il 70% della popolazione custodirebbe in
casa una Bibbia, ma meno del 30% si sarebbe dedicato alla sua lettura,
la stessa percentuale conoscerebbe il nome dei quattro evangelisti e
solo l’1% saprebbe i dieci comandamenti a memoria. Alla luce di questi numeri non dovrebbe sorprendere quanto emerso dall’indagine “
Piccoli atei crescono” condotta nel 2016 dal sociologo
Franco Garelli
su un campione di 1500 giovani tra i 18 e i 29 anni. Nel periodo
2007-2015 i giovani atei sono aumentati di 5 punti percentuali, dal 23%
al 28%, mentre tra coloro che si professano credenti, il 36,3% dichiara
di esserlo per tradizione ed educazione e non per convinzione, ossia
degli appartenenti senza credere.
Cifre importanti che aiutano a comprendere anche altre tendenze, come
la fortissima riduzione di quegli studenti degli istituti di istruzione
secondaria superiore che annualmente decidono di non avvalersi
dell’IRC, l’
Insegnamento della Religione Cattolica,
preferendo passare quelle ore svolgendo attività di laboratorio o
passando il tempo libero: una media di oltre un milione l’anno, contro i
circa 500mila degli anni ’90. Nello stesso ventennio si sono anche
ridotti di un quarto gli studenti iscritti in scuole cattoliche,
nonostante l’introduzione di politiche favorevoli nei loro confronti da
parte dei vari governi: erano 835mila nel 1994 e 624mila nel 2013.
I giovani italiani, in pratica, ereditano la religione dei padri,
percependola come parte del proprio patrimonio culturale, senza sentire
la necessità di approfondirne i caratteri teologici e storici o di
sperimentarne il lato spirituale.
Mentre il cattolicesimo scompare, o meglio cessa di essere elemento
spirituale per mutarsi in un elemento culturale accessorio
dell’italianità,
si sgretola anche la tradizionale centralità della famiglia,
orientandosi verso un percorso già intrapreso dagli altri paesi
occidentali fatto di divorzi, famiglie estese, figli in affido e
genitori single. Soltanto tra il 2014 ed il 2015, complice l’entrata in
vigore del cosiddetto divorzio breve, il tasso di divorzio è aumentato
da 8,6 casi ogni 10mila abitanti a 13,6 – accentuando una tendenza già
esistente, mentre il
tasso di nuzialità si conferma come il terzo più basso d’Europa, stabile a 3,2 ogni 1000 abitanti.
Cambiamenti importanti utili a fotografare il
panorama famigliare che va delineandosi in Italia:
pochi (ed instabili) matrimoni, tanti divorzi, famiglie allargate
(composte da persone risposate), unipersonali (composte da una persona
sola) o monoparentali sempre più numerose; uno scenario comune nel mondo
scandinavo ed anglosassone e che adesso si sta manifestando anche da
noi.
Secondo
l’Istat nel 2016 le famiglie unipersonali rappresentavano il 31.1%
delle famiglie, un grande balzo in avanti considerando che nel 1971
erano il 12.9%, e che in Europa il primato è detenuto dalla Norvegia con
il 39.3%
Nessuna politica od iniziativa a favore della stabilità matrimoniale,
ma provvedimenti ad hoc per facilitare la scissione delle unità
familiari, nessun sostegno alla natalità autoctona, ma innovazioni
legislative e mediche sull’interruzione volontaria di gravidanza e
dichiarazioni bipartisan sulla necessità dell’immigrazione per la tenuta
dello stato sociale e dell’economia nazionale, nessuna azione concreta
per alimentare l’economia della cultura, dell’arte e del turismo,
nessuna manifestazione di orgoglio nazional-popolare, continui richiami
al federalismo europeo e mai un accenno sulla bellezza di una terra che
ha davvero dato i natali a poeti, santi, navigatori, eroi, esploratori e
scienziati e che oggi, lentamente e silenziosamente muore,
uccisa – come ogni altra società del malessere,
dai suoi propri abitanti, troppo
impegnati ad aggiornare la bacheca di Facebook o ad ascoltare musica
priva di contenuto proveniente da oltreoceano (o chi qui la emula) per
accorgersi di quel che sta accadendo.