venerdì 31 marzo 2017

Trivellare senza i permessi: regalo del governo ai petrolieri

Una bozza di decreto che, nel tentativo di adeguare l’iter per la valutazione d’impatto ambientale alle direttive europee, favorisce e facilita in realtà la vita di petrolieri, imprenditori e costruttori: è all’esame delle commissioni Ambiente, Politiche Ue e Bilancio della Camera (che dovranno esprimersi entro il 25 aprile) e rende molto più semplice e veloce ottenere permessi per ricercare idrocarburi, trivellare o costruire. La Via. In pratica, tutto ciò che riguarda attività che hanno un impatto sull’ambiente deve ricevere la Via, la valutazione di impatto ambientale. È una sorta di autorizzazione a operare. Si vuole sondare il sottosuolo per scoprire se c’è il petrolio? Bisogna ottenere la Via. Si vuole fare un pozzo? Bisogna fare la Via. Si vuole costruire una centrale idroelettrica? Bisogna ottenere la Via. È, insomma, una procedura tecnico-amministrativa che ha lo scopo di individuare e valutare preventivamente gli effetti delle opere sull’ambiente e sulla salute, nonché di identificare le misure per prevenire, eliminare o renderne minimo l’impatto. Studi, progetti preliminari, pareri, previsioni di tutela ambientale e confronto con la popolazione: solo dopo essersi accertati che tutto questo sia in regola, si può procedere.
Il favore. -Se però fino ad oggi alla Via doveva essere sottoposta gran parte dei progetti che hanno un impatto sull’ambiente, il decreto fa saltare diversi vincoli: in molti casi basterà infatti richiedere la cosiddetta “verifica di assoggettabilità alla Via”. Si potrà decidere se un progetto debba o meno richiedere la via. E in caso negativo, l’opera potrebbe iniziare con la sola assoggettabilità. Non sono più necessari quindi tutti i vincoli e i controlli ambientali richiesti dall’iter completo. “Ad esempio, viene prevista la sola verifica di assoggettabilità per tutte le prospezioni in mare con airgun (metodo controverso che utilizza potenti getti d’aria, ndr) o con gli esplosivi – spiegano dai Comitati no triv e dai Movimenti per l’acqua – E anche per progetti petroliferi di coltivazione di giacimenti con produzione fino a 182.500 tonnellate di petrolio o 182 milioni di Mc di gas: in sostanza, la gran parte di quelli del Paese”. Se con la Via obbligatoria bisognava poi depositare i documenti del progetto preliminare e uno studio preliminare ambientale (una decina di pagine generiche), seguiti da una fase di 45 giorni per le osservazioni del pubblico, con il nuovo decreto basterà solo lo studio preliminare. Inoltre è prevista una sorta di sanatoria per le opere iniziate senza aver chiesto la Via: le società scoperte in fallo avranno il tempo per mettersi in regola. Ma intanto potrebbero già aver provocato danni all’ambiente. E a supervisionare? Una commissione tecnica di 40 membri nominata senza concorso pubblico, con poltrone assegnate dal ministero dell’Ambiente.
Eccezioni. - Un altro punto riguarda invece la possibilità del ministero dell’Ambiente, in casi eccezionali, di esentare un progetto dalla valutazione di impatto ambientale qualora questa ostacoli il progetto stesso. “Purtroppo si tratta di un ‘potere’ di non poco conto – spiega Enzo Di Salvatore, professore di Diritto costituzionale a Teramo ed estensore dei quesiti del referendum no Triv – in questo modo si accorda al ministero un potere pressoché discrezionale, che si riassume nel far prevalere le ragioni delle finalità dei progetti sulle ragioni della tutela ambientale”. La possibilità è certo prevista dalla direttiva europea. “Ma si tratta appunto di una facoltà e non di un obbligo – spiega Di Salvatore – Il decreto del governo deve, inoltre, rispettare i principi e i criteri fissati dalla legge delega del Parlamento (la 114/2015), tra i quali c’è il ‘rafforzamento della qualità della procedura di valutazione di impatto ambientale’. E l’attribuzione di un potere discrezionale di quel tipo finisce, a mio avviso, per vanificare la volontà del Parlamento”. Piattaforme. Altro elemento scivoloso è nell’articolo 25. Nelle disposizioni per smontare le piattaforme petrolifere giunte a fine produzione – nonché gasdotti o oleodotti – si parla di un decreto con il quale si dovranno stabilire le linee guida per la cosiddetta dismissione mineraria. Ma c’è anche l’ipotesi di una “destinazione ad altri usi” di quelle stesse piattaforme abbandonate in mare. “Già immaginiamo i mille e fantasiosi usi che verranno proposti per queste strutture – spiegano i comitati –. In realtà è un vantaggio di centinaia di milioni di euro ai petrolieri, visto che ci sono decine di piattaforme da smantellare e centinaia di chilometri di tubazioni posate sul fondo marino da bonificare”. D’altronde, non è un mistero che la promozione governativa dell’astensione al referendum no triv serviva a evitare ai petrolieri anche questo fastidio.

giovedì 30 marzo 2017

Brexit, Theresa May richiede ufficialmente l’attivazione dell’articolo 50 di Lisbona. Via ai negoziati, le repliche dell’UE

È stata inviata oggi alle 13 dal premier britannico, Theresa May, la lettera con la richiesta ufficiale di applicare l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, che regola la richiesta di uscita di un paese membro dall’Unione Europea.
Il leader dei Tories ha commentato la formalizzazione della Brexit ai media: “È una giornata storica, i giorni migliori per l’UK saranno dopo la Brexit”. Mentre ha ribadito alla Camera dei Comuni che la scelta è stata fatta “secondo la volontà del popolo”.
La missiva è stata recapitata nelle mani del Presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, dall’ambasciatore del Regno Unito, Tim Barrow: “Non è un giorno felice” avrebbe commentato Tusk alla consegna della lettera.
Come si può leggere dal documento i toni della lettera del Regno Unito sono concilianti nei confronti dell’Unione Europea. Significativo è uno dei passaggi dell’elaborato scritto dalla May, nel quale si tiene a sottolineare che il Regno Unito sta uscendo dall’Unione Europea e non dall’Europa.
Principio che oltre ad essere ribadito indirettamente in altre parti del discorso, sembra essere la colonna portante del discorso che la May ha rivolto a Tusk. Nella lettera viene rivolta una certa attenzione ad alcuni temi che senza una serena e pacifica collaborazione tra UE e UK resterebbero irrisolti o addirittura potrebbero aprire a delle serie frizioni tra le parti. È un chiaro invito alla partnership trasparente e sincera con l’Europa.
Tuttavia dall’altra parte sembra essersi alzato un muro, un atteggiamento fortemente ideologico e poco realistico che da sempre spinge questa Unione. In nove mesi di trattati infatti sono state scarse le concessioni fatte a Londra dai negoziatori di Bruxelles, che hanno richiesto al Regno Unito una “buonuscita” di ben 60 miliardi di euro, richiesta non ha nessun fondamento giuridico né politico.
“Non c’è ragione di pensare che oggi sia un giorno felice, la prima priorità sarà quella di minimizzare le incertezze provocate dalla decisione del Regno Unito per i nostri cittadini, le imprese e gli Stati membri”. “Cosa posso aggiungere? Ci manchi già…”. “Io e la Commissione abbiamo il forte mandato per proteggere gli interessi dei 27. Non c’è niente da vincere nel processo (del negoziato per l’uscita del Regno Unito dalla Ue, ndr) e parlo per entrambe le parti. In essenza si tratta di un limitare i danni. Il nostro obiettivo è chiaro: minimizzare i costi per i cittadini, le imprese e gli stati membri della Ue. Faremo tutto quanto in nostro potere ed abbiamo tutti gli strumenti per raggiunger questo obiettivo”, non proprio simpatica né conciliatoria la risposta di Tusk. Ma l’Europa ci ha abituato a questi atteggiamenti.
Più diplomatica la risposta dei 27: “Ci dispiace che la Gran Bretagna lascerà l’Unione europea, ma siamo pronti per il processo che ora dovremo seguire”. E poi: “Per l’Unione europea, il primo passo sarà ora l’adozione da parte del Consiglio europeo delle linee guida per i negoziati” che “fisseranno le posizioni complessive e i principi alla luce di cui l’unione, rappresentata dalla Commissione europea, negozierà con la Gran Bretagna”.
Restando le cose così l’Europa rischia di bandire dal proprio giro di affari anche il Regno Unito, dopo le sanzioni alla Federazione Russa. Essendoci l’intenzione da parte dei paesi membri (la Germania) di escludere Londra anche dal mercato comune europeo, l’UE con una crescita media di poco sopra il 2% del PIL si chiude ancora di più in se stessa, e stavolta non c’entrano le guerre o la democrazia. Parliamo di pura e semplice ripicca. Lo sgarro compiuto da Londra nei confronti dell’immagine dell’UE è stato un colpo troppo duro da digerire per Berlino e i suoi satelliti, che difficilmente sarà perdonato.
Il premier britannico Theresa May ha dichiarato a tal proposito che “L’Ue ci ha detto che non possiamo scegliere”, dove per scelta si intende la possibilità di Londra di non abbandonare completamente il mercato europeo. Ma è anche convinta che “oggi è un momento storico” e “non si torna indietro” perché “ho scelto di credere nella Gran Bretagna” e i suoi cittadini che “hanno votato per riprendersi i propri confini e la propria sovranità” ripete orgogliosa e con un po’ di retorica la May davanti al Parlamento inglese.
Intanto viene ribadito il rifiuto da parte del premier britannico di concedere alla Scozia delle trattative sull’indipendenza di Edimburgo, nonostante le proteste di Nicola Sturgeon: “Lo scorso giugno due paesi del Regno Unito hanno votato per la Brexit e due contro, non siamo un ‘Regno Unito’ sull’Europa”. Ma la May liquida la questione così: “Non è il momento per un nuovo referendum”.

mercoledì 29 marzo 2017

Brexit, May: “Accordo con l’Europa in 18 mesi”

Theresa May ha dichiarato che intende concludere le procedure per la Brexit entro 18 mesi.
Ci vorranno quindi 2 anni prima che gli scozzesi possano votare una seconda volta per l’indipendenza dalla Gran Bretagna. La May, infatti, non vuole concederlo prima della conclusione della Brexit.
Nicola Sturgeon, premier di Scozia, invece, lo vorrebbe subito, dato che, a suo dire, non ci sarebbero motivi razionali per attendere: secondo lei, infatti, già ora gli scozzesi sono in grado di votare in maniera informata, come richiesto dal premier britannico.
Theresa May ha ribattuto dicendo che, se si votasse adesso – o nell’immediato futuro – gli scozzesi sarebbero costretti a farlo alla cieca, non conoscendo l’esito dei negoziati per la Brexit.
Il leader dei tories si aspetta infatti di concludere i negoziati entro 18 mesi, più altri sei per la ratifica. “Non è il momento di parlare di referendum” ha dichiarato dopo l’incontro con Nicola Sturgeon “e questo per due ragioni – continua il premier – la prima è che, dato che siamo impegnati nei negoziati per la Brexit, dobbiamo restare compatti, in modo da ottenere il miglior accordo possibile per tutta la Gran Bretagna. Non è il momento di dividersi ma quello di fare squadra. La seconda ragione è che non sarebbe giusto per gli stessi scozzesi se si chiedesse loro di prendere una decisione di cui non potessero conoscere tutti i fatti”.

martedì 28 marzo 2017

La Siria 7 anni (e 7 miliardi di dollari investiti dagli USA) dopo

La guerra in Siria è entrata nel suo settimo anno. Ed è difficile prevederne la fine in tempi brevi. Gli Usa sono stati il principale attore internazionale a voler destabilizzare il paese per i loro ben noti interessi geostrategici in Medioriente. La politica dell’amministrazione Obama, senza riuscire a far cadere al Assad, aveva contribuito al finanziamento dei gruppi combattenti, in maggioranza islamisti, che hanno devastato uno dei paesi arabi più avanzati dal punto di vista culturale e civile.
Secondo il Washington Post (10 giugno 2015) la Cia ha speso un miliardo di dollari all’anno nelle sue operazioni in Siria, tutti spesi in funzione di un “regime change”. L’ex presidente – premio Nobel per la pace! – ha lasciato in eredità al suo successore Trump un mondo arabo in fiamme: Libia, Siria, Iraq, Yemen e – non senza importanza – la esponenziale proliferazione del terrorismo di al-Qaida/Gruppo Stato islamico. Si tratta di un’eredità pesante per il nuovo inquilino della Casa Bianca, la cui politica riguardo al Medioriente e alla Siria in particolare resta ancora ignota.
Pochi giorni dopo l’insediamento di Donald Trump nella sala ovale, i russi – assieme ai turchi e agli iraniani – sono riusciti ad organizzare un meeting ad Astana nel quale hanno coinvolto il governo siriano e l’opposizione armata e politica, dominata in gran parte dai Fratelli Musulmani. Lo scopo dell’incontro era di avviare un processo di riconciliazione, rispettando il cessate il fuoco approvato con la risoluzione 2536 dall’Onu. A differenza dei precedenti meeting in cui Hillary Clinton e poi John Kerry dettavano legge, come quello dei cosiddetti Amici della Siria o quello di Ginevra (1,2,3), a rappresentare Washington ad Astana c’era solo il suo ambasciatore, in qualità di osservatore…
Cosa farà Trump con lo scottante dossier Siria? È difficile intuirlo ora, come del resto anche con molti altri dossier internazionali, a cominciare dal conflitto israelo-palestinese e da quello del nucleare iraniano ecc. L’immigrazione è una delle poche questioni finora affrontate dal neo presidente – nel caso specifico quello del divieto di ingresso negli Usa di cittadini di 7 paesi musulmani con il pretesto del «terrorismo» – per soddisfare i propri elettori ma senza scontentare i suoi principali partner commerciali: l’Arabia Saudita non figura in quella lista, eppure, dei 19 attentatori dell’11 settembre 2001, 17 erano sauditi e oggi la diffusione massiccia del terrorismo jihadista è in gran parte sponsorizzata da questo paese. Trump in effetti, più che un politico, è soprattutto un uomo d’affari!
Il presidente Usa ha in diverse occasioni affermato che vuole instaurare una proficua collaborazione con la Russia. Quest’ultima ha in mano la questione siriana, ha persino (pro)posto un progetto di Costituzione ai siriani, come se questi ultimi non fossero in grado di scriverne una! Ed è anche riuscita ad attirare verso di sé la Turchia, un paese chiave per la Nato.
Questa organizzazione militare, nonostante le riserve di Trump, resta per gli americani il cavallo di Troia in Europa (e non solo). Ma senza Ankara – e con una Unione europea già in crisi politica – la Nato diventerebbe vulnerabile. Ed è difficile pensare che Washington accetti ciò. In effetti Trump ha iniziato di recente a parlare di una no fly zone in Siria. Un provvedimento che Erdogan sta chiedendo dall’inizio della guerra contro Damasco. È una mossa per riportare la Turchia all’ovile? E, se dovesse realizzarsi, come si comporteranno gli Usa/Nato con i cacciabombardieri russi che sorvolano tutto lo spazio aereo siriano?

lunedì 27 marzo 2017

L’AGGIOTAGGIO SOCIALE DI BILL GATES

I brevetti prodotti dalle Università italiane finiscono all’estero. Si lancia l’allarme e si annuncia trionfalmente la “soluzione”: l’Università “La Sapienza” di Roma e l’Università di Catania stringono accordi con una multinazionale farmaceutica straniera (sic!), la statunitense Eli Lilly, per “valorizzare” i propri brevetti.
Il paradosso si spiega facilmente: l’Università italiana è sottoposta ad una sistematica denigrazione da parte dei media che contano, come, ad esempio, il quotidiano “La Repubblica”, che non si limita a denigrazioni generiche ma ricorre anche a veri e propri falsi. In questo contesto le Università italiane, per “valorizzarsi”, sono costrette a dimostrare di riscuotere la fiducia delle multinazionali, perciò svendono il loro lavoro ed i loro know-how in cambio di briciole o, addirittura, gratis.
Una campagna di disinformazione fa calare il valore di un bene pubblico, come un centro di ricerca universitario, cosicché i potentati economici possano acquisire ciò che gli interessa a prezzi stracciati. La razzia dei brevetti da parte delle multinazionali è uno degli aspetti più attuali del fenomeno, che ha un nome preciso: aggiotaggio. Sarebbe un reato, però costituisce la prassi abituale del rapporto delle multinazionali con i territori: svalutare ciò che i territori posseggono o producono per facilitarne l’acquisizione. Si induce artificiosamente nelle vittime il bisogno di svendersi. Ciò può accadere perché il reato di aggiotaggio viene delimitato all’ambito borsistico, mentre il suo vero, e principale, campo di applicazione è quello dei beni pubblici e del lavoro.
Qualche settimana fa ha fatto scalpore la “proposta” di Bill Gates di tassare i robot per acquisire risorse da destinare ai disoccupati che l’automazione produce. Lanciata l’esca, tutti hanno abboccato ed è nato un bel “dibattito”, un’altra occasione per tirare fuori a sproposito il Luddismo e rilanciare controproposte altrettanto demenziali.
Si perde di vista il vero scopo di queste “proposte”, che è quello di disinformare, suggerire il mito di un ineluttabile tramonto del lavoro umano, cosa che costituisce un ottimo pretesto per pagare ancora di meno gli attuali lavoratori. La robotizzazione infatti non è un fenomeno spontaneo o dettato da presunte leggi del “mercato”, bensì è un fenomeno incentivato dai governi a spese dei contribuenti. Il piano del ministro dello Sviluppo Economico, Calenda, prevede infatti agevolazioni fiscali per favorire l’automazione delle imprese. Altro che tasse, semmai la robotizzazione si avvantaggia di sgravi fiscali, riconfermati e allargati dall’ultima Legge di Stabilità.
E non ci sono solo le agevolazioni fiscali, ci sono anche i finanziamenti a fondo perduto da parte dello Stato e della UE. Nascono anche apposite agenzie di consulenza che operano per guidare le aziende nel mare magnum dell’assistenzialismo delle pubbliche istituzioni verso le imprese private. Alla gara di generosità del pubblico nei confronti del privato partecipano entusiasticamente anche Regioni e Comuni.
La robotizzazione, per quanto incentivata, non è in grado di abolire completamente il lavoro umano, però l’importante per i lobbisti come Bill Gates è farlo credere, così è necessario che sin da studenti avere un lavoro venga percepito come un’elemosina da scontare con sfruttamento intensivo.
Ma c’è di più: la precarizzazione non vuol dire solo meno salario e più sfruttamento, in quanto il “temporary work” costituisce esso stesso un business gestito dalle agenzie di lavoro interinale. Quanto sia rilevante il business è dimostrato dal fatto che è egemonizzato in gran parte da multinazionali, come la statunitense Kelly Services.

venerdì 24 marzo 2017

Alitalia, un destino segnato venticinque anni fa

Alitalia è nuovamente in difficoltà e non è una sorpresa. Lunga è ormai la lista dei salvataggi a cui è dovuta ricorrere quella che un tempo fu la nostra gloriosa compagnia di bandiera. Qualche speranza era nata dall’accordo con Ethiad, il vettore arabo, ma i conti continuano a non tornare e adesso si paventa la necessità di un nuovo intervento pubblico, anche se il ministro Calenda ha subito messo le mani avanti per scongiurarlo. Il 15 marzo si è riunito il Consiglio d’Amministrazione per approvare il nuovo piano industriale, un coacervo draconiano di tagli lineari ed estensivi dei costi ed ottimismo probabilmente mal riposto dal lato dei ricavi. La previsione è quella di riportare la compagnia all’utile nel 2019. Nel mentre, servono 1,4 miliardi di euro per garantire la transizione, solo duecento dei quali possono venire iniettati da Ethiad senza infrangere i vincoli europei. In alternativa, la compagnia degli Emirati dovrebbe salire al 51 percento e addio a quell’italianità che Berlusconi aveva cercato demagogicamente di preservare di fronte all’assalto di Air France nel 2008. Si va quindi discutendo in questi giorni col governo quale soluzione sperimentare, tipo un fondo a garanzia di Stato. Il rischio è quello di non riuscire a pagare gli stipendi già dal mese prossimo. Parallelamente sono cominciati i tavoli coi sindacati, subito postisi sul piede di guerra. Ne hanno ben donde, d’altra parte: si parla di oltre duemila esuberi su dodicimila dipendenti della compagnia e tagli agli stipendi del trenta percento circa. Se a questi si aggiunge la messa a terra di venti vettori, paiono avere un certo fondamento le esternazioni della Camusso, che vi vede più un piano di ridimensionamento che di rilancio. Al di là del caso particolare di questo inizio di 2017, tuttavia, ci sarebbe da chiedersi perché Alitalia sia in difficoltà da così tanto tempo, vent’anni più o meno. Vediamo di ripercorrerne brevemente la storia.
L’epopea del trasporto aereo ad uso civile inizia davvero nel secondo dopoguerra. Uno dopo l’altro, tutti i Paesi industrializzati si dotano di una compagnia di bandiera, che significa pubblica. Alitalia non fa eccezione, collocandosi all’interno della galassia Iri, il colosso industriale nato come estrema ratio durante il fascismo per cercare di salvare il salvabile di fronte alla crisi del ’29. Protagonista negli anni del boom, nel corso dei decenni l’Istituto di ricostruzione industriale diventerà una delle principali compagnie del pianeta, arrivando ad impiegare oltre mezzo milione di addetti. Tra le tante controllate figura, per l’appunto, anche Alitalia. A questo punto è necessario ricordare come il trasporto aereo, fino a tutti gli anni Settanta, fosse un settore particolarmente regolamentato. Niente libero mercato, niente tariffe decise dall’incontro tra domanda e offerta, ogni Paese europeo ha il proprio vettore pubblico all’interno e per le rotte internazionali si sottoscrivono accordi bilaterali che solitamente prevedono la paritaria divisione di passeggeri e ricavi. Fifty-fifty, dunque, niente concorrenza. È quindi facile immaginare come funzionassero le compagnie del settore: se c’erano buchi di bilancio era sufficiente che il governo o ripianasse i debiti o alzasse le tariffe interne. La concertazione sindacale, al contempo, garantiva notevoli tutele e stipendi agli addetti del settore. Stiamo parlando, tuttavia, di un settore che veniva considerato come trasporto di lusso. Certo, i flussi di passeggeri erano in costante aumento, ma si era ben lungi dall’abitudinarietà del volo di massa di oggi.
Le cose cominiano a cambiare in America, come al solito, e tra anni Settanta e anni Ottanta, come al solito. È con Carter, invece che con Reagan come avviene nella maggior parte dei casi, che inizia la deregulation del settore, inizialmente solo per i voli interni agli Stati Uniti. Se ne possono immaginare le conseguenze: aumento del numero dei passeggeri, calo delle tariffe, abbassamento dei livelli di sicurezza, dei controlli richiesti, riduzione delle tutele (o privilegi, la semantica per il neoliberismo è sempre fondamentale per frammentare le classi sociali) del personale. Nascono così nuove compagnie che offrono servizi “low cost, no frills” (bassi costi, niente fronzoli). A far scuola sarà la Southwest Airlines, che proprio dalle liberalizzazioni di Carter prenderà, letteralmente, il volo. Come sempre, ciò che avviene a Washington si riverbera prima a Londra e poi nel resto dell’Europa e così, con l’avvento di Margaret Thatcher, il mantra delle deregolamentazioni entra, tra mille resistenze, nel linguaggio politico del nostro continente. Decisiva, a questo punto, è l’azione della Commissione Europea a guida Delors, la prima che comincia ad influenzare pesantemente le politiche degli Stati della nascente Unione Europea. L’accelerazione del processo di integrazione infatti, coincide malauguratamente col diffondersi del neoliberismo, che ne influenzerà pressoché totalmente la direzione.
Torniamo ad Alitalia. Il biennio 1983-84 è felice per la compagnia. Ottima qualità, puntualità, terzo posto europeo per numero di passeggeri, ricavi in crescita e, miracolo, profitti considerevoli. Già si profila all’orizzonte, però, il terremoto della deregulation. Il presidente dell’epoca, Umberto Nordio, in buon politichese fa capire che, per quanto la compagnia sia solida… beh, insomma, sarebbe proprio meglio che non si liberalizzasse. La Commissione parte all’attacco con morbidezza, tante sono le resistenze da vincere e l’esperienza americana insegna che la crescita ha un prezzo alto da pagare che quasi nessuno in Europa pare essere disposto ad accettare. Tuttavia, una volta che la pietra inizia a ruzzolare diventa sempre più difficile ipotizzare che si fermi, anzi, solitamente accelera. Così, passo dopo passo (e con la scusa che le nascenti “associazioni dei consumatori” sono felici delle basse tariffe) si arriva alla liberalizzazione pressoché completa, non solo intraeuropea, ma generale. Non saranno pochi infatti gli scontri, in quegli anni, con gli Stati Uniti, per l’aggressiva politica commerciale messa in atto dalle più forti delle loro compagnie. Non sarà morbido, con gli americani, l’allora amministratore delegato di Alitalia, Giovanni Bisignani. Quel che conta, comunque, è che alla fine il gioco al ribasso diventerà un massacro per tutti. Il rosso sarà il colore che accomunerà quasi tutte le compagnie dell’epoca, che fossero di bandiere o meno. È quello dei bilanci, chiaramente. Un terribile gioco al massacro capitalistico, dunque, dal quale solo i più forti, grandi ed efficienti potevano sperare di uscirne vivi. E ci sarebbe da aggiungere i più indebitati, quelli che potevano permettersi la leva debitoria maggiore per stare in piedi nonostante la necessità del dumping.
Da allora sono passati venticinque anni. Un quarto di secolo e gli aerei col tricolore in coda sono ancora a terra, incapaci sia di librarsi in volo che di morire. Se da un lato i continui salvataggi pubblici hanno tenuto in vita la compagnia, dall’altro sono stati insufficienti e non accompagnati da piani di rilancio ambiziosi ed efficaci. Lo stesso, in realtà, è avvenuto in quasi ogni altro settore della nostra economia. Noi italiani non siamo stati capaci di comprendere come concorrenza volesse dire fine di un’epoca, di un sistema che presentava sì degli svantaggi in termini di efficienza, ma notevoli vantaggi sociali. Concorrenza, ad esempio, vuol dire vantaggi per i consumatori, ma svantaggi per i lavoratori e oggi infatti si parla di tagli degli stipendi del trenta percento, d’altronde devi competere con Ryanair che li ha più bassi del quaranta.
In altre parole, quello che il neoliberismo dà da una parte, con la riduzione dei prezzi, toglie dall’altra, con la riduzione dei costi. La differenza è che i prezzi calano subito per tutti, i costi (cioè in buona parte gli stipendi) solo per alcuni. Proprio la frammentazione delle classi sociali è la sua forza, così ogni categoria gode delle disgrazie altrui finchè non tocca alla propria. Arriviamo così alla situazione odierna, ben fotografata da questo pezzo di Repubblica. Il modello vincente è Ryanair. O si diventa più competitivi di loro, coi rischi connessi, o si muore. In ultima analisi, pertanto, non siamo stati capaci né di opporci al cambiamento e difendere il nostro vecchio modello di sviluppo, né di cambiare veramente e compiere scelte coerenti, per quanto brutali. Il risultato sono stati venticinque anni di lenta agonia.

giovedì 23 marzo 2017

La UE lascia campo libero al razzismo economico dei Paesi del Nord contro quelli del Sud

La UE sanziona chi cerca di bloccare i clandestini, ma accetta il razzismo economico contro i Paesi meridionali del blocco europeo, come quello di Dijsselbloem: "I governi dei paesi del Sud hanno sprecato i loro soldi in alcol e donne". Parole inaccettabili.
Jeroen Dijsselbloem, il capo dei ministri delle Finanze della zona euro, si è rifiutato di scusarsi per le proprie dichiarazioni nelle quali ha attaccato duramente i Paesi meridionali del blocco UE.
Dijsselbloem ha sostenuto che i Paesi dell’Europa meridionale hanno sprecato soldi per “alcol e donne” causando l’esplosione del debito dell’intera Europa.
Nel corso di una audizione parlamentare a Bruxelles, Dijsselbloem – il cui partito laburista ha subito una pesante sconfitta nelle recentissime elezioni nazionali – è stato definito “insultante” e “volgare” dai suoi colleghi.
Dijsselbloem si è anche rifiutato di prendere le distanze dai suoi commenti, percepiti come un attacco ai Paesi del Sud Europa come Spagna, Portogallo, Italia e Grecia. Ha inoltre asserito che i Paesi del Sud sono stati salvati dai sacrifici di quelli settentrionali [mentre è vero il contrario semmai: i Paesi del sud si sono dissanguati per salvare sia la Grecia che le banche del nord in forti difficoltà per via dell’accumulo di titoli tossici, N.d.R. ].
Particolarmente veemente è stata la reazione degli spagnoli, mentre quella italiana – come al solito – è non pervenuta.
L’eurodeputato spagnolo Gabriel Mato ha affermato che i commenti di Dijsselbloem sono stati “assolutamente inaccettabili” e un “insulto” agli Stati membri del sud, sostenendo che Dijsselbloem aveva perso la sua “neutralità” come capo dell’Eurogruppo.
Attualmente è il ministro delle Finanze ad interim dell’Olanda dopo che il suo partito di centro-sinistra ha subito un crollo nelle elezioni della scorsa settimana.
Il mandato di Dijsselbloem come presidente dei ministri delle Finanze si conclude nel mese di gennaio 2018.
Il tutto, mentre Juncker, il quale è notoriamente un alcolizzato cronico, è presidente della Commissione Europea.
La UE lascia, ancora una volta, campo libero al razzismo economico dei Paesi del Nord contro quelli del Sud. Al contempo, impone leggi e provvedimenti draconiani per imporre l’arrivo di milioni di clandestini, pena l’accusa di razzismo e le sanzioni conseguenti.
In altre parole, è impossibile erigere muri per fermare i clandestini africani e asiatici, ma è perfettamente lecito dare degli scialacquatori, degli ubriaconi e dei puttanieri a tutti i Paesi del Sud Europa.
L’Europa del Nord si conferma la roccaforte dell’ipocrisia e del razzismo economico.

mercoledì 22 marzo 2017

La Nato sotto comando Usa sta preparando altre guerre e la Sicilia sarà base d'attacco

Si svolge dal 12 al 24 marzo, di fronte alle coste mediterranee della Sicilia, l’esercitazione navale Nato Dynamic Manta cui partecipano le marine militari di Stati uniti, Canada, Italia, Francia, Spagna, Grecia e Turchia.
La punta di lancia delle 16 unità navali impegnate è il sottomarino nucleare statunitense da attacco rapido California SSN-781. Armato di un centinaio di siluri e di quasi 150 missili da crociera per attacco a obiettivi terrestri, esso fa parte della Task Force 69, responsabile delle operazioni Usa di guerra sottomarina in Europa e Africa. Oltre che col sottomarino da attacco, la U.S. Navy partecipa all’esercitazione col cacciatorpediniere lanciamissili Porter e aerei da pattugliamento marittimo, con la stazione Muos di Niscemi e la base aeronavale di Sigonella.
La Dynamic Manta 2017 si svolge nell’area del Comando della forza congiunta alleata (il cui quartier generale è a Lago Patria, Napoli), agli ordini dell’ammiraglia statunitense Michelle Howard, che comanda allo stesso tempo le Forze navali Usa in Europa e le Forze navali Usa per l’Africa.
L’Italia, oltre a partecipare all’esercitazione con proprie unità, svolge quello che il contrammiraglio De Felice, comandante di MariSicilia, definisce un «ruolo fondamentale» poiché fornisce tutto il supporto logistico. Particolarmente importante è Augusta, «punto strategico in quanto fornisce rifornimenti di combustibile, di munizionamento e di supporto per le unità navali che vengono addirittura da paesi al di là dell’Atlantico». Rilevante anche il porto di Catania, disponibile a ospitare ben nove navi da guerra.
Contemporaneamente, sono in corso da febbraio esercitazioni a fuoco di forze speciali statunitensi nel poligono di Pachino. Quest’area è stata ufficialmente concessa in «uso esclusivo degli Stati uniti», in base a un accordo sottoscritto col Pentagono nell’aprile 2006, durante il governo Berlusconi III.
Nello stesso accordo sono state concesse agli Stati uniti in uso esclusivo un’area all’interno della base di Sigonella, per la stazione aeronavale, e una a Niscemi, per il centro di trasmissioni radio navali e la successiva stazione terrestre del Muos. In tali aree, viene specificato a chiare lettere, «il Comandante Usa ha il pieno comando militare sul personale, gli equipaggiamenti e le operazioni statunitensi», col solo impegno di «notificare in anticipo al Comandante italiano tutte le significative attività statunitensi».
Riguardo alle spese della stazione aeronavale statunitense, in base all’accordo viene finanziata esclusivamente dagli Usa solo la Nas I, l’area amministrativa e ricreativa, mentre la Nas II, quella dei reparti operativi e quindi la più costosa, è finanziata dalla Nato, ossia anche dall’Italia.
La situazione della Sicilia, emblematica di quella nazionale, dovrebbe essere uno dei temi centrali della mobilitazione del 25 marzo, il giorno dopo la conclusione della Dynamic Manta. Non si può pensare di liberarci dai poteri rappresentati dall’Unione europea senza liberarci dal dominio e dall’influenza che gli Usa esercitano sull’Europa direttamente e tramite la Nato. Oggi 22 dei 28 paesi della Ue, con oltre il 90% della popolazione dell’Unione, fanno parte della Nato, riconosciuta dalla Ue quale «fondamento della difesa collettiva».
La Nato sotto comando Usa sta preparando altre guerre, dopo Jugoslavia 1999, Afghanistan 2001, Iraq 2003, Libia 2011, Siria dal 2011, Ucraina dal 2014. Lo conferma la Dynamic Manta, che sicuramente ha testato anche le capacità di attacco nucleare nell’esercitazione di guerra sottomarina. Notizia rimasta sommersa nella grande «informazione».

martedì 21 marzo 2017

Rockefeller: il vero potere al comando, dalla fine di Nixon

Le elezioni esistono ancora, possiamo votare i candidati. A patto di non scordarci che non saranno loro a decidere le cose importanti. Vale per Trump ma era così anche per Obama. L’orribile Nixon provò a fare di testa sua, e la pagò cara: fu travolto dallo scandalo Watergate che spianò la strada a Gerald Ford e soprattutto al suo vice, Nelson Rockefeller, fratello di David. Loro, i Rockefeller, insieme al loro stratega, Zbingiew Brzezinski, da allora non si sarebbero più fermati, dalla “fabbricazione” di Jimmy Carter in poi, fino a Obama e oltre. Lo ricorda Jon Rappoport, prestigioso giornalista americano, candidato al Pulitzer. «Lo Stato-nazione come unità fondamentale della vita organizzata dell’uomo ha cessato di essere la prima forza creativa», affermava Brzezinski nel 1969, quattro anni prima della nascita della Trilateral Commission, fondata da Rockefeller. «Le banche internazionali e le multinazionali stanno agendo e pianificando in termini che sono di gran lunga in anticipo rispetto ai concetti politici degli Stati nazionali». Ammette, nel 2003, lo stesso David Rockefeller: «Se questa è l’accusa, io sono colpevole e sono orgoglioso di esserlo». E cioè: «C’è chi crede che noi siamo parte di una cabala segreta che lavora contro i veri interessi degli Stati Uniti».
«Particolarmente la mia famiglia ed io – aggiunge il capostipite della dinastia – veniamo considerati degli “internationalists” e dei cospiratori, insieme ad altri, in giro per il mondo, che vogliono costruire una struttura politica ed economica globale più David Rockefellerintegrata, “One World”». Pochi, scrive Rappoport in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, ricordano che ad opporsi agli albori della globalizzazione fu Richard Nixon, «che aveva cominciato a mettere certi dazi su alcune merci importate negli Stati Uniti, per pareggiare il campo di gioco e proteggere le aziende americane». Nixon, beninteso, «sotto altri aspetti era un vero mascalzone», ma in questo caso «uscì fuori dalle righe e in realtà aprì la via ad un movimento che rifiutava la visione globalista del mondo». Era troppo, per il supremo potere: con Ford al suo posto alla Casa Bianca (e Nelson Rockefeller come vice) si ebbe «il segnale che il globalismo e il libero scambio erano di nuovo in pista». Ma David Rockefeller e il suo assistente, Brzezinski, pretendevano di più: «Volevano un loro uomo alla Casa Bianca e volevano che fossero loro stessi a crearlo da zero. Quell’uomo era un contadino che coltivava arachidi e di cui nessuno aveva mai sentito parlare: Jimmy Carter».
Grazie al loro network, Rockefeller e Brzezinski misero Carter sotto i riflettori, così il loro uomo vinse la nomination dei democratici nel 1976 e, dopo la débacle del Watergate, «cominciò a mandare in giro smielati messaggi di amore e di “volemose-bene”, e ben presto arrivò allo Studio Ovale». Appena due anni dopo, passò completamente inosservata un’intervista – in realtà illuminante – realizzata dal giornalista Jeremiah Novak, a colloquio con Karl Kaiser e Richard Cooper, due membri della Commissione Trilaterale fondata nel ‘73. Argomento dell’intervista: chi, esattamente, stesse “dettando” la politica degli Usa, sotto Carter. «L’atteggiamento negligente e distratto dei due della Trilaterale è sorprendente», scrive Rappoport: «Kaiser e Cooper è come se stessero dicendo: “Quello che stiamo rivelando è già alla luce del sole, è troppo tardi per fare qualcosa, perché state ancora perdendo tempo con questa storia? Abbiamo già vinto”». Era così, ma Novak non lo sapeva ancora. E’ vero, domanda ai due, che un “ente privato” (quale è la Trialterale), guidato dallo statunitense Henry Owen e composto da Jimmy Carter oggirappresentanti anche europei e giapponesi, sta «coordinando lo sviluppo economico e quello politico» dei paesi interessati? Sì, certo, confermano gli intervistati: «Si sono già incontrati tre volte».
Ma allora, insiste il reporter, perché la Trilaterale dice di voler restare “informale”? «Questa cosa non fa paura?». Ma no, smorza Kaiser: è solo per non irritare gli europei di fronte al peso, reale, della Germania Ovest. Aggiunge Cooper: «C’è tanta gente che ancora vive in un mondo di nazioni separate, e ci resterebbe male per questo coordinamento della politica». Come dire: gente che crede ancora alle elezioni, ai governi, alla democrazia. Eppure, ribatte Novak, ormai la Trilaterale «è essenziale per tutta la vostra politica». E dunque, domanda, «come potete cercare di mantenerla segreta, rinunciando a ottenere un sostegno popolare» per le decisioni di politica economica stabilite dalla Commissione? Oh, be’, abbozza Cooper: si tratta di “lavorarci su”, utilizzando la stampa, i media. E passi, concede Novak. «Ma perché allora il presidente Carter non ne parla? Perché non dice al popolo americano che il potere economico e politico è coordinato da una Commissione, la Trilaterale, diretta da un comitato composto da sette persone? Dopotutto, se la politica è gestita a livello multinazionale, la gente dovrebbe saperlo». Ribatte Cooper: «Il presidente Carter e il segretario di Stato, Cyrus Vance, ne Zbigniew Brzezinskihanno fatto costantemente riferimento, nei loro discorsi». Già, conferma Kaiser: «E questo non è mai stato considerato un problema».
Dov’era, l’opinione pubblica, mentre tutto questo accadeva? Dov’era la stampa, a parte Jeremiah Novak? «Naturalmente – puntualizza Rappoport – benché Kaiser e Cooper avessero detto che tutti già erano a conoscenza delle manipolazioni fatte dal comitato della Commissione Trilaterale, nessuno ne sapeva niente». Nonostante ciò, «la loro intervista è scivolata sotto i radar dei media generalisti che, deve essere detto, la ignorarono e la sotterrarono. Non divenne uno scandalo del livello del Watergate, benché il suo contenuto fosse ben più scandaloso del Watergate». In realtà avevano “già vinto”: «La gestione della politica e dell’economia Usa era guidata da un comitato della Commissione Trilaterale, creata nel 1973 come “gruppo informale di discussione” da David Rockefeller e dalla sua longa manus, Brzezinski, che divenne poi il “national security advisor” di Jimmy Carter». All’indomani della vittoria alle presidenziali, il braccio destro di Carter, Hamilton Jordan, disse: se Vance e Trump e ObamaBrzezinski entrassero nella squadra del presidente, io me ne andrei, perché avrei perso. Jordan (che poi però non si dimise) vedeva la Trilaterale come una minaccia: avrebbe messo la Casa Bianca sotto controllo, in barba agli elettori americani.
Sono scene che da allora si ripetono, racconta Rappoport: lo stesso Brzezinski, nel 2008, ricomparve come “tutor” di Barack Obama, presentato ufficialmente come outsider assoluto. Nel tempo, il peso della Trilaterale è cresciuto esponenzialmente: il saggista Patrick Wood fa presente che oggi sono ben 87 i membri Commissione che vivono in America. E Obama, aggiunge Rappoport, ne ha nominati 11 in cariche di primissimo piano: per esempio Tim Geithner al Tesoro, James Jones alla sicurezza nazionale, il super-falco neocon Paul Volker all’economia e Dennis Blair alla direzione della National Intelligence. Un altro veterano della Trilaterale, Michael Froman, è stato piazzato sempre da Obama come rappresentante per il commercio, portavoce degli Usa per il trattato globalista Tpp, Trans-Pacific Partnership. Sono uomini che «non vengono messi lì per caso, devono eseguire un ordine del giorno specifico». Donald Trump oggi ripudia quel trattato, ma – avverte Patrick Wood – ha già preso a bordo un esponente della Trilaterale, Kenneth Juster, come vice-assistente presidenziale per gli affari economici internazionali. «I compiti assegnati a Juster lo porteranno nel cuore dei negoziati ad alto livello con governi esteri sulla politica economica», conferma Rappoport. «Vediamo se sarà veramente in linea con le posizioni dichiaratamente anti-globaliste di Trump». Come dire: puoi battere Hillary Clinton, ma non i signori della Trilateral Commission. Quelli vincono sempre, comunque.

lunedì 20 marzo 2017

Sarà il 2017 l'anno della crisi finale della Ue?

Le elezioni olandesi hanno prodotto una ondata di euforia nei ranghi della politica dominante e dei mass media al loro seguito: "l'ondata populista si ferma. La Ue si sta salvando". Euforia, per certi versi eccessiva, anche se l'analisi coglie un dato vero: il rallentamento della pressione antieuropeista.
Ma anche su questo punto qualche riflessione in più il dato la merita: vero è che il partito di Wilders si aggira intorno al 19% ed è lontanissimo dal partito liberal conservatore di Rutte che ha il 33%. Però va detto che nessun sondaggio aveva previsto una affermazione dei "populisti" che raggiungesse il 25%, che il partito di Rutte perde l'8% dei consensi rispetto alle politiche precedenti (il che è difficile dire che sia una vittoria), ma soprattutto che quella olandese è una delle economie più solide d'Europa e che, nonostante le misure di austerità che hanno privato i cittadini di diversi servizi e garanzie sociali, la qualità della vita è pur sempre fra le migliori del continente. Insomma: non era certo l'Olanda il test più sfavorevole alla "Festung Europa".
Come si sa, nel 2017 ci saranno altre due elezioni politiche decisive per la sopravvivenza della Ue: Francia e Germania. Il caso più compromettente è quello della Francia, paese capitale (come la Germania) dove la lista antieuropeista ha concrete probabilità di vincere. Quanto alla Germania, si tratta del paese più importante dell'unione, ma la lista anti Euro (Alternative fur Deutschland) dovrebbe fermarsi all'11 %, una percentuale di qualche consistenza, ma pur sempre largamente sottomaggioritaria.
Dunque, il test decisivo è quello parigino. Personalmente non ritengo probabile una vittoria della Le Pen chde, tuttavia al ballottaggio ci arriverà e, realisticamente, prenderà più del 40%. Considerato che in Germania non dovrebbero esserci rischi di sorta: davvero si potrà dire che l'"ondata populista" si è fermata e la Ue è salva. E questo non convince affatto.
Che l'ondata cosiddetta "populista" possa essere giunta al punto massimo della sua espansione, oltre il quale non va è possibile o anche probabile, ma non sicuro: potrebbe trattarsi anche solo di un ondeggiamento momentaneo.
Ma, soprattutto, questo non significa affatto che la "Ue sia salva". La maggior parte di osservatori ed analisti ragione in termini di "chi" possa demolire la costruzione europea e vede nei "populisti" l'unica minaccia concreta. Ma il problema non si pone affatto in termini di "Chi" quanto di "Cosa": non "chi" demolirà la costruzione tecnocratica ed elitaria della Ue, ma di "Cosa" la farà implodere. Certo, se la Le Pen vincesse in Francia (non me lo auguro) sarebbe una decisa accelerazione della crisi europea e la fine potrebbe essere imminente. Ma non è affatto detto che se questo non dovesse accadere, la Ue non avrebbe più rischi di crollo. Chi pensa in termini di "chi" inverte l'ordine logico dei termini: non sono i "populisti" a far nascere i problemi di sopravvivenza della Ue, ma sono quei problemi non risolti ad aver determinato l'ondata "populista" e quei problemi rimangono perché dipendono direttamente dal difetto di progettazione dell'edificio europeo.
La Ue aveva promesso convergenza delle sue economie interne, una prossima unificazione politica, la stabilità dei prezzi, la difesa di salari e consumi. Nessuna di queste promesse ha trovato applicazione. E non a caso: la costruzione era tale da avvantaggiare il contraente più forte. Le regole finanziarie erano le stesse dell'ordinamento neo liberista, la caduta del welfare avrebbe portato con se il peggioramento delle condizioni di vita dei ceti popolari, la politica di delocalizzazione avrebbe mietuto posti di lavoro.
E la crisi ha svelato le dinamiche reali: l'esplosione del debito pubblico ha reso evidente la divaricazione delle economie nazionali sempre più divaricanti.
Oggi l'Euro è per i più deboli una camicia di forza che li soffoca. Alle classi dirigenti europee manca un pensiero strategico per uscire dall'impasse e la divaricazione degli interessi dei singoli paesi è tale da impedire anche la più elementare delle decisioni. E la conclusione del recente summit europeo senza nessun documento comune, neanche la più formale che si possa immaginare, è un'evidenza che parla da sola. L'unione è divisa su tutto: sulla crisi dell'immigrazione, sulle politiche economiche, sulla gestione del debito pubblico, sulle sanzioni alla Russia, sul rapporto con gli Usa di Trump, sulla politica energetica, eccetera eccetera.
Che la costruzione stia franando lo dice la stessa proposta di Europa a due velocità avanzata dalla Merkel che non si capisce bene a cosa si riferisca e che non si capisce come possa reggersi in una situazione in cui la moneta resta unica per tutti. Si capisce solo che occorre rivedere tutti i trattati istitutivi da cima a fondo, ma questo, con le regole attuali è praticamente impossibile. E, in effetti, basta il veto polacco per paralizzare tutto.
In una situazione del genere non è affatto necessario che i "populisti" vincano in qualche paese importante. E' sufficiente qualsiasi cosa per determinare la frana finale: il default di Atene, una nuova Brexit in qualsiasi paese, fosse anche l'Ungheria, Malta o il Lussemburgo, un improvviso aggravamento della crisi del debito italiano, una improvvisa crisi diplomatica con la Russia che divida drasticamente i paesi dell'Unione, un'ondata fuori misura di immigrati e rifugiati.
L'amore per le cifre tonde e per gli anniversari, porta a pensare al 2017 , a sessanta anni dal patto di Roma, come l'anno finale dell'attuale costruzione europea, ma non è affatto necessario che questo avvenga nell'anno corrente. Ma ragionevolmente non si andrà molto più lontani.

venerdì 17 marzo 2017

Le acque reflue saranno il nuovo oro nero?

Il Rapporto Onu sulle risorse idriche mondiali, “Le Acque reflue: una risorsa inesplorata”, anticipato oggi da UN-Water e Unesco e che verrà presentato ufficialmente a Durban, in Sudafrica, il 22 marzo in occasione della Giornata mondiale dell’Acqua, si chiede «Cosa accadrebbe se le enormi quantità di acque reflue provenienti dall’utilizzo domestico, agricolo e industriale scaricate quotidianamente nell’ambiente fossero considerate una risorsa preziosa piuttosto che un pesante onere?»
Ed è proprio quello che propongono UN-Water e Il World water assessment programme dell’Unesco che ha redatto il rapporto e che sostiene che «Le acque reflue, una volta trattate, potrebbero dimostrarsi una risorsa di enorme valore, in grado di soddisfare la crescente domanda di acqua dolce e di altre materie prime».
Secondo, Guy Ryder, presidente di UN-Water e direttore generale dell’International labour organization (Ilo) «Le acque reflue costituiscono un bene prezioso in un mondo in cui la domanda di una risorsa limitata come l’acqua è in costante crescita. Possiamo tutti fare la nostra parte per raggiungere l’Obiettivo di sviluppo sostenibile che si propone di dimezzare i quantitativi di acque reflue non trattate e di aumentare il riutilizzo di acque sicure entro il 2030. Si tratta di introdurre processi mirati di gestione e di riciclo dell’acqua che utilizziamo nelle nostre case, nelle fabbriche, nelle aziende agricole e nelle città. Contribuiamo tutti a ridurre e a riutilizzare in sicurezza maggiori quantitativi di acque reflue, in modo tale che questa preziosa risorsa possa essere sfruttata per soddisfare le necessità di una popolazione crescente e di un ecosistema fragile».
Nella sua introduzione al rapporto, la direttrice generale dell’Unesco, Irina Bokova, sottolinea che «L’edizione 2017 del Rapporto sullo sviluppo delle risorse idriche mondiali evidenzia come una migliore gestione delle acque reflue possa essere conseguita riducendo l’inquinamento alla fonte, rimuovendo le sostanze contaminanti dai flussi di acque reflue, riutilizzando le acque depurate e recuperando sottoprodotti utili […] Una maggiore accettabilità sociale dell’utilizzo delle acque reflue è essenziale per poter compiere passi avanti»
Ma una percentuale consistente delle acque reflue viene immessa nell’ambiente senza nessun progetto di raccolta o di trattamento. Un-Water e Unesco evidenziano che «Ciò accade in misura ancora maggiore nei paesi a basso reddito, che in media trattano appena l’8% dei reflui domestici e industriali, rispetto al 70% dei paesi ad alto reddito. Di conseguenza in molte aree del mondo l’acqua contaminata da batteri, nitrati, fosfati e solventi viene scaricata nei fiumi e nei laghi, raggiungendo quindi gli oceani, con conseguenze negative per l’ambiente e per la salute pubblica. Il volume di acque reflue da trattare crescerà considerevolmente negli anni a venire, in particolare nelle città dei paesi in via di sviluppo con una popolazione in rapida crescita».
Gli autori del rapporto sostengono che «La generazione di acque reflue costituisce una delle principali sfide correlate con la crescita degli insediamenti abusivi (le baraccopoli) nei Paesi in via di sviluppo» e fanno l’esempio di Lagos, la metropoli nigeriana, che ogni giorno produce 1,5 milioni di m3 di acque reflue che vengono in gran parte scaricati senza nessun trattamento nella Laguna di Lagos: «In mancanza di un intervento immediato, questa situazione si aggraverà ulteriormente a seguito dell’aumento della popolazione della città, che secondo le stime supererà i 23 milioni entro il 2020».
Ma il fenomeno è molto più esteso: «L’inquinamento causato da agenti patogeni presenti nelle escrezioni umane e animali interessa circa un terzo dei fiumi in America Latina, Asia e Africa, mettendo in pericolo la sopravvivenza di milioni di persone. Nel 2012 sono stati 842.000 i decessi registrati nei paesi a reddito medio e basso collegati all’acqua contaminata e a servizi igienico-sanitari inadeguati. La mancanza di processi di trattamento delle acque reflue contribuisce inoltre alla diffusione di alcune patologie tropicali, come la febbre dengue e il colera. Oltre allo scarico di sostanze nutritive (azoto, fosforo e potassio) provenienti dall’agricoltura intensiva, solventi e idrocarburi prodotti dalle attività industriali e minerarie accelerano l’eutrofizzazione delle acque dolci e degli ecosistemi marini costieri. Secondo le stime circa 245.000 chilometri quadrati di ecosistemi marini – una superficie all’incirca pari a quella del Regno Unito – sono attualmente interessati da questo fenomeno».
Lo scarico di acque reflue non trattate favorisce anche la proliferazione di alghe tossiche e contribuisce al declino della biodiversità e «La crescente consapevolezza della presenza di sostanze inquinanti nelle acque reflue, quali ad esempio ormoni, antibiotici, steroidi e interferenti endocrini, conduce a nuove sfide, dato che gli effetti di queste sostanze sull’ambiente e sulla salute non sono ancora stati del tutto chiariti».
Ma, come fa notare l’Unesco, «L’inquinamento limita la disponibilità di fonti di acqua dolce, già ridotta tra l’altro a causa dei cambiamenti climatici. Tuttavia le autorità politiche e pubbliche si occupano principalmente delle sfide dell’approvvigionamento idrico, in particolare laddove questo è limitato, trascurando la necessità di gestire l’acqua dopo il suo utilizzo. Eppure si tratta di due questioni strettamente correlate. La raccolta, il trattamento e l’utilizzo sicuro dei reflui costituiscono la base stessa di un’economia circolare, che permette di equilibrare sviluppo economico e utilizzo sostenibile delle risorse. Le acque depurate costituiscono una risorsa in larga misura sotto sfruttata e che può essere riutilizzata più volte. Dalla fognatura al rubinetto».
Le acque reflue vengono principalmente utilizzate in agricoltura per l’irrigazione in almeno 50 Paesi del mondo, che rappresentano circa il 10% di tutti i terreni irrigui. «Tuttavia – everte il rapporto – i dati sono ancora incompleti per numerose aree del mondo, e principalmente per l’Africa. Questa pratica solleva comunque preoccupazioni di carattere sanitario in quei casi in cui l’acqua contiene agenti patogeni che possono contaminare le colture. La sfida consiste quindi nel passare da un’irrigazione non controllata ad un utilizzo pianificato e sicuro, come accade ad esempio già dal 1977 in Giordania, Paese in cui il 90% delle acque reflue trattate viene utilizzato per scopi irrigui. In Israele i reflui trattati costituiscono all’incirca la metà dell’acqua utilizzata per l’irrigazione».
Nell’industria possibile riutilizzare grandi quantitativi di acqua, ad esempio per il riscaldamento e il raffreddamento, piuttosto che scaricarli nell’ambiente. Secondo UN-Water e Unesco, «Entro il 2020 il mercato del trattamento dei reflui industriali dovrebbe crescere del 50%».
Ma le acque reflue trattate possono essere utilizzare per sostenere l’approvvigionamento di acqua potabile, sebbene questo utilizzo sia ancora marginale. E’ quel che fanno dal 1969 a Windhoek, la capitale della desertica Namibia, dove per ovviare alla penuria di acqua dolce il comune ha installato infrastrutture che permettono di trattare fino al 35% delle acque reflue che poi vengono utilizzate per approvvigionare le riserve di acqua potabile. Anche a Singapore e a San Diego i cittadini bevono acqua riciclata. «Si tratta di interventi che talvolta si scontrano con la resistenza dell’opinione pubblica – dicono UN-Water e Unesco – che non accetta di buon grado l’idea di bere o comunque di utilizzare acque che erano “sporche” prima del trattamento». Proprio la mancanza del sostegno dell’opinione pubblica ha fatto fallire un progetto per il riutilizzo dell’acqua per scopi irrigui e per la piscicoltura lanciato in Egitto negli anni ’90. All’Onu sono però convinti che «Le campagne per una maggiore consapevolezza possono promuovere una maggiore accettazione da parte dell’opinione pubblica nei confronti di interventi di questo genere, in particolare citando esempi positivi, come quello degli astronauti della Stazione Spaziale Internazionale che riutilizzano la stessa acqua riciclata da oltre 16 anni».
Le acque reflue possono anche diventare una fonte di materie prime: «Grazie agli sviluppi delle tecnologie di trattamento – spiegano i ricercatori – alcuni elementi nutritivi, come ad esempio fosforo e nitrati, possono ora essere recuperati dai reflui fognari e dai fanghi e quindi trasformati in fertilizzanti. Secondo le stime, il 22% della domanda globale di fosforo, un minerale a disponibilità limitata ed eccessivamente sfruttato, potrebbe essere soddisfatto attraverso il trattamento degli escrementi e dell’urina umana». In Paesi come la Svizzera sono state approvate norme sull’obbligatorietà del recupero di elementi nutritivi, come il fosforo.
Le sostanze organiche contenute nelle acque reflue possono essere utilizzate per produrre biogas, rifornendo così di energia gli stessi impianti di trattamento dei reflui e agevolando così la loro trasformazione da impianti ad alto consumo energetico a impianti a consumo zero o produttori netti di energia. In Giappone il governo si è prefissato l’obiettivo di recuperare il 30% dell’energia da biomassa ricavabile dalle acque reflue entro il 2020. Ogni anno la città di Osaka produce 6500 tonnellate di biosolidi ricavati da 43.000 tonnellate di fanghi di depurazione.
Per l’Onu «Si tratta di tecnologie che non dovrebbero essere fuori dalla portata dei paesi in via di sviluppo, dato che soluzioni per il trattamento a basso costo permettono già da ora l’estrazione di energia e di elementi nutritivi. Queste tecnologie forse non permettono ancora il recupero diretto di acqua potabile, ma possono permettere di ricavare acqua utilizzabile e sicura per altri impieghi, come ad esempio l’irrigazione. Inoltre la vendita di materie prime ricavate dalle acque reflue può fornire un reddito aggiuntivo a copertura degli investimenti e dei costi di esercizio degli impianti di trattamento delle acque reflue».
Il roblema – gigantesco – è che oggi 2,4 miliardi di persone non hanno ancora accesso a veri impianti igienico-sanitari e UN-Water e Unesco fanno notare che «La riduzione di questo numero in linea con l’Obiettivo per lo sviluppo sostenibile n° 6 su acqua e impianti igienico-sanitari dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite causerà un ulteriore aumento degli scarichi di acque reflue, che dovranno quindi essere trattati a costi accessibili».
Qualche passo avanti è già stato fatto, come in America Latina, dove il trattamento delle acque reflue è quasi raddoppiato rispetto alla fine degli anni ’90, attestandosi tra il 20% e il 30% della raccolta dei reflui nelle reti fognarie urbane. Ma questo significa comunque che tra il 70% e l’80% viene scaricata senza alcun trattamento.
«Resta quindi ancora molto da fare – conclude il rapporto – e un passo essenziale a questo proposito sarà compiuto quando verrà finalmente riconosciuto il valore di un utilizzo sicuro delle acque reflue trattate e dei prodotti derivati come alternative all’acqua dolce».

giovedì 16 marzo 2017

Il bluff degli 80 euro, 2 milioni di italiani li devono restituire

Flop 80 euro. Quasi un milione di italiani, tra i 12 milioni che hanno ricevuto il “bonus” renziano, lo hanno dovuto restituire integralmente. Altri 765.000 cittadini, invece, lo hanno dovuto restituire solo in parte. Ecco i dati ufficiali appena pubblicati dal dipartimento delle finanze del ministero dell’economia. Ed è già bufera. Di nuovo. Matteo Renzi la definisce ancora sul suo blog come «la più grande opera di redistribuzione salariale mai fatta in Italia». Ma i media parlano di “flop 80 euro” e taluni non esitano ad apostrofarla “mancetta elettorale”. In qualunque modo la si voglia chiamare, però, la manovra renziana è stata un fallimento de facto. In primis perché doveva servire a rilanciare i consumi nazionali sostenendo l’economia reale e coadiuvando la ripresa. E questo non è avvenuto. Poi perché per quasi due milioni di italiani il “bonus” promesso si è rivelato un “bluff”. Un bonus o un prestito statale? Secondo i dati appena pubblicati dal dipartimento delle finanze del ministero dell’economia, infatti, circa un milione di cittadini, tra i 12 milioni che hanno ricevuto i famosi 80 euro in più in busta paga, hanno dovuto restituire integralmente la somma di denaro, per giunta in un’unica soluzione da 950 euro. E altri 765.000 italiani ne hanno dovuta restituire una parte. Si tratta del 14,5% dei beneficiari.
Il che, di per sé, è un paradosso visto che un “bonus” per definizione dovrebbe essere un emolumento non restituibile. Più che comprensibile, dunque, l’irritazione di quelle famiglie che avendo speso, assai ingenuamente, l’intera somma senza cogliere Padoan e Renziprontamente l’inganno nascosto dietro l’ossimoro in questione – il bonus-prestito – si sono trovate in difficoltà economica al momento di dover restituire l’importo. Ma tant’è. Il problema principale della questione è che il governo Renzi ha introdotto questo “bonus” con un’erogazione mensile da 80 euro, ma avrebbe dovuto scegliere la via di un’unica erogazione annuale a fine anno, così da permettere ai tecnici dell’Agenzia delle Entrate di definire esattamente importi e idoneità. In molti casi, invece, è accaduto che l’agenzia si è trovata a dover correggere in negativo o in positivo (più raramente) il saldo dei bonus dopo aver esaminato la dichiarazione dei redditi dei contribuenti. Così ha richiesto indietro il denaro anche a quelli che l’avevano già speso.
Una “mancia” a fini elettorali? Ma perché scegliere di erogare il bonus mensilmente andando incontro a tutti questi problemi e mettendo in difficoltà intere famiglie che, de facto, in questo modo si sono viste trasformare un bonus in un prestito statale? Probabilmente per accelerare i tempi della «mancetta elettorale» (come la definisce Giulio Cavalli su “Left”) e renderla maggiormente «visibile» in busta paga (un conguaglio di fine anno non avrebbe avuto lo stesso effetto sull’umore degli elettori). Vale anche la pena ricordare che il “bonus” in questione escludeva a priori le fasce più deboli della popolazione, cioè tutti coloro che guadagnavano meno di 7.500 euro, considerandoli evidentemente troppo poco interessanti dal punto di vista elettorale.

mercoledì 15 marzo 2017

Italia, Ue: manovra sia più pesante

E’ impietosa l’analisi che il Comitato economico e finanziario europeo fa della situazione italiana nel dossier, chiamato Opinione sui conti italiani, che sarà sul tavolo dell’Eurogruppo il prossimo 20 marzo e in cui si rivela uno scenario tragico per Roma.
Il rischio palese è che salti un pezzo della flessibilità, quella per gli investimenti, concessa all’Italia nel 2016 e che avrebbe come conseguenza nel peggiore degli scenari la restituzione dei soldi, lo 0,2% del Pil, altri 3,4 miliardi, o parte di essi per non finire in procedura di infrazione. Da qui il rischio che la manovra sia molto più pesante di quella prospettata.
La Commissione Ue a febbraio scorso aveva bocciato la Legge di Stabilità ma ha anche dato due mesi in più di tempo a Roma per approvare la correzione dei conti pari allo 0,2% del Pil, in soldoni 2,4 miliardi di euro in più. Il Comitato economico e finanziario Ue ha approvato la proroga dei termini concessi all’Italia ma ha anche rivelato uno grosso rischio che corre il nostro paese.
Nel 2017 il deficit italiano salirà al 2,4% del Pil dal 2,3% di un anno prima mentre il debito si avvia verso il 133,3%. Nel 2017 il governo di Roma avrebbe dovuto realizzare una correzione strutturale pari allo 0,6% del Pil ma in verità, notano da Bruxelles, ci sarà un deterioramento dello 0,4 per cento. L’Italia rischia così una deviazione significativa rispetto all’aggiustamento nel 2017.
Ma non solo quelli 2017, per Bruxelles non tornano neanche i conti del 2016. Come rende noto il Comitato infatti il governo di Roma aveva promesso un aumento degli investimenti ma poi non è stato di parola.
Roma rischia una deviazione significativa rispetto agli impegni nel 2016 e 2017 con il pericolo che non si dimostri più capace di mantenere la dinamica del debito su un percorso sostenibile.
Il tutto potrà essere evitato con la manovra correttiva che il governo dovrà presentare entro aprile: se essa sarà completa e credibile – tradotto più pesante – il problema della flessibilità per gli investimenti sarà risolto con qualche trucco puramente tecnico, altrimenti le due questioni si accavalleranno e per l’Italia si profilerà il rischio concreto che finisca in procedura d’infrazione.

martedì 14 marzo 2017

La Cassa Depositi e Prestiti sotto attacco: partono le privatizzazioni

Padoan ha proposto di cedere una quota rilevante della Cassa Depositi e Prestiti (CDP), di cui il Tesoro detiene l'82,77%, per abbattere il debito pubblico. Lo annuncia l'articolo de Il Fatto dicendo che il Governo "punta a cedere entro fine anno una nuova tranche di Poste e a portare in Borsa le Frecce delle Ferrovie dello Stato".
Il Governo intende cedere il 15% di CDP a qualche banca d'affari della City di Londra, di quelle dove in genere finiscono i Ministri dell'Economia o i dirigenti del Tesoro quando terminano la propria carriera politica (...), e rimborsare circa 5 miliardi di euro di debito pubblico in modo da rientrare nei vincoli imposti dall'UE.
Ma si può rimborsare il debito pubblico cedendo aziende e industrie strategiche di Stato?
Analizziamo due dati chiave. Nei 15 anni che vanno dal 2001 al 2016 la liquidità primaria in Italia, data dalle monete, dalle banconote e dai conti correnti bancari (detta anche M1) è cresciuta di 520 miliardi di Euro. Nello stesso periodo, il debito pubblico dello Stato è cresciuto di 598 miliardi di Euro (dati Bankitalia).
Tenendo conto che una parte dell'incremento del debito pubblico si deve al pagamento di interessi passivi e che parte di questi interessi vanno a beneficio di soggetti non residenti che quindi drenano liquidità dal Paese, possiamo concludere che l'incremento di debito pubblico negli ultimi 15 anni si rapporta quasi perfettamente all'incremento di liquidità netta nell'economia domestica (liquidità netta cioè dopo la fuoriuscita dovuta al pagamento di interessi a soggetti non residenti).
Non è una sorpresa. In un sistema di moneta-debito quale è l'Euro-sistema, l'ammontare di debito pubblico è sostanzialmente pari alla massa monetaria in circolazione.
Basta immaginare uno Stato che si formasse da zero, senza debito e senza moneta e che aderisse all'Eurozona. Cosa farebbe il primo giorno? Emetterebbe obbligazioni sottoscritte dalle banche, iscriverebbe un debito pubblico nel bilancio del Tesoro e con la liquidità raccolta farebbe spesa pubblica in modo da mettere la massa monetaria nelle mani di famiglie ed imprese. Ecco come nasce il debito pubblico (la semplificazione del linguaggio ha finalità esplicative).
Dunque, quando il Ministro Padoan ci racconta che intende rimborsare 5 miliardi di debito pubblico in realtà sta dicendoci un'altra cosa: che intende drenare il sistema Italia di 5 miliardi. Se non fosse così, chiedo al Ministro di spiegare a tutti come poteva l'Italia negli ultimi 15 anni introdurre 520 miliardi di liquidità primaria nel sistema economico senza fare debito?
Ecco, io vorrei che il Ministro Padoan rispondesse a questa semplice domanda e che inoltre illustrasse come pensa di far crescere la liquidità primaria nei prossimi 20 anni, senza aumentare il debito pubblico. Pensa di svendere altri pezzi dello Stato? Cioè, intende cedere lo Stato italiano per dotarci della moneta che servirà a scambiare beni e servizi?
Mi permetto un consiglio al Ministro Padoan: visto che il debito è aumentato a fronte di carta e impulsi elettronici, perché non restituiamo parte di questa carta e di impulsi elettronici - anziché pezzi di Stato - sostituendoli con strumenti monetari paralleli controllati dalla Repubblica, come peraltro vorrebbe l'art. 47 della Costituzione ("La Repubblica controlla il credito...")? (vedi: Le basi economiche di un new deal italiano).
Ma c'è dell'altro. Non solo il Ministro Padoan vuole drenare liquidità dal Paese facendolo passare come rimborso di debito pubblico, quindi come qualcosa di virtuoso anziché di scellerato, ma vuole anche farlo attraverso la cessione del 15% del più importante strumento di governo dell'economia che lo Stato italiano ha ancora a disposizione.
Infatti, la Cassa Depositi e Prestiti è l'ultimo vero baluardo che resta per sperare di ricostruire una sovranità industriale, economica e monetaria nel Paese. Detiene oltre 240 miliardi di Euro di depositi postali, eroga già crediti al sistema impresa, possiede partecipazioni strategiche in Terna, Eni, Snam, Poste, Fincantieri, Saipem, Italgas ed altre aziende strategiche dalle quali si potrebbe ripartire per impostare una politica industriale, ed inoltre potrebbe essere il perno per l'emissione di una moneta parallela che ci consenta di de-finanziarizzare il Paese e diminuire gradualmente l'impiego di Euro (vedi: De-finanziarizzare l'economia).
Corre l'obbligo di ricordare al Ministro Padoan che nel far questo violerebbe almeno due fondamentali articoli della Costituzione italiana, il 43 ed il 47.
L'art. 43 stabilisce che "A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire... allo Stato... determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia... ed abbiano carattere di preminente interesse generale". Ministro Padoan, non le sembra, tanto per citarne due, che ENI e SNAM siano classificabili come "fonti di energia"?
L'art 47 stabilisce che "La Repubblica... favorisce l'accesso del risparmio popolare... al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese". Non le sembra, dunque, Ministro Padoan che la Cassa Depositi e Prestiti, che vuol dire Fincantieri, Saipen ed Italgas, per citarne alcune, rientri nei "grandi complessi produttivi del Paese"? E dunque, perché cederla alle banche d'affari della City di Londra anziché riservarla al "risparmio popolare"?
Per chi lo avesse dimenticato, Padoan è lo stesso che ha rifiutato di costituirsi parte civile nel processo di Trani contro le agenzie di rating, su invito del PM Michele Ruggiero, dal che potevano ricevere il pagamento di ingenti danni erariali che la Corte dei Conti ha stimato in oltre 120 miliardi di Euro (vedi: Sentenza storica a Trani).
Teniamolo bene a mente. La difesa della Cassa Depositi e Prestiti, ed il suo rilancio come banca pubblica (vedi: Una banca pubblica per rilanciare il Paese), sono un'altra delle trincee dove ci giochiamo uno degli ultimi brandelli di sovranità nonché la vera chance di di risorgere.

lunedì 13 marzo 2017

Parchimetro senza bancomat? Il parcheggio è gratis: ora c'è la sentenza "pilota"

Se il parchimetro non ha il bancomat si può parcheggiare gratis. È questo quanto si ricava dalla sentenza "pilota" del giudice di pace di Fondi (in provincia di Latina) sulla vexata quaestio dei parcheggi a pagamento non dotati di dispositivi attrezzati per pagamenti elettronici, evidenziata l'estate scorsa dal nostro quotidiano e ripresa da tutti i media nazionali (leggi: "Strisce blu: se non c'è il bancomat il parcheggio è gratis").
La sentenza emessa lo scorso 21 febbraio dal giudice di pace Giovanni Pesce, come riporta il Messaggero (leggi: "La sentenza del giudice di pace: niente multa se al parcometro non c'è il bancomat"), ha accolto il ricorso presentato dallo studio legale Martusciello nei confronti del comune. A trascinare in giudizio l'amministrazione nel settembre scorso era stata una praticante dello studio che parcheggiando la propria vettura sulle strisce blu in una zona cittadina non disponendo di monete (considerato che il parchimetro non accettava neanche banconote) non riuscì a pagare il ticket. Al rientro, trovando una multa da 41 euro, aveva deciso di fare ricorso. Il giudice di pace le ha dato ragione. Per il magistrato onorario di Fondi, infatti, "gli automobilisti – si legge ancora sul Messaggero - in mancanza dei dispositivi attrezzati col bancomat, potranno ritenersi autorizzati a parcheggiare gratis e senza il rischio di essere multati".
Il giudice, infatti, ha richiamato specificamente la legge di stabilità 2016 secondo la quale dal primo luglio dello scorso anno anche i dispositivi di controllo di durata della sosta, devono accettare i pagamenti con bancomat e carte di credito.
La sentenza è destinata a fare da "apripista" in tutto il territorio nazionale, visto che ad oggi, adducendo la mancanza del decreto ministeriale e/o un'impossibilità tecnica oggettiva all'installazione, sono ancora molti i comuni a non essersi adeguati alla norma.

venerdì 10 marzo 2017

Gli "hacker russi" sono la CIA?

È quasi impossibile attribuire cyber-intrusioni. Un attacco ben eseguito non può esser fatto risalire al suo autore. Bisogna stare molto attenti nel seguire le tracce: molto probabilmente sono false.
Migliaia di report mostrano che questa lezione non è stata imparata. Ogni attacco è attribuito ad uno tra i vari "nemici" senza alcuna prova. Esempi:
Hacker russi ricattano gruppi liberali dopo aver rubato email e documenti
Gli U.S.A. accusano ufficialmente la Russia di aver hackerato il Comitato Nazionale Democratico e di aver interferito nelle elezioni
L'Iran ha violato un casinò americano, dicono gli Stati Uniti
Iran sospettato per l'attacco alla Saudi Aramcoo
La Corea del Nord 'hackera il Cyber Command militare della Corea del Sud'
Ufficiale: la Corea del Nord dietro lo scandalo mail Sonyk
Nel giugno 2016 abbiamo avvertito che Il prossimo "attacco cibernetico russo" potrebbe essere un falso, sul tipo di quello del Golfo del Tonchino:
Tutto ciò che si può vedere in una violazione [cyber] è, semmai, un qualche modello di azione che può sembrare tipico di un avversario. Ma chiunque può imitare un tale modello, non appena gli sia noto. Ecco perché non vi è mai una chiara attribuzione in questi casi. Chiunque sostenga altrimenti, mente o non sa di cosa stia parlando.
Vi è ora prova pubblica che questa lezione base di informatica forense è corretta.
Wikileaks ha acquisito e pubblicato una gran quantità di documenti dell'organizzazione di hackeraggio interna della CIA. Parte di essa è un sottogruppo chiamato UMBRAGE:
UMBRAGE group raccoglie e archivia le tecniche di attacco 'rubate' da malware prodotti in altri stati, tra cui la Russia.
Con tali progetti' la CIA aumenta il proprio bagaglio di attacchi, ma riesce anche a mimetizzarsi, lasciando dietro le "impronte digitali" dei gruppi da cui le tecniche di attacco sono state rubate.
I componenti di UMBRAGE si interessano di keylogging, raccolta di password, riprese da webcam, distruzione dati, azioni furtive, aggiramento di anti-virus (PSP) e tecniche di indagine.
I metodi di hacking sono raramente di nuova concezione. Vengono presi da esempi pubblici e malware, da attacchi di qualche altra organizzazione che, una volta commessi, vengono comprati e venduti da entità commerciali. Molti attacchi ricombinano un mix di strumenti di hack precedenti. Una volta che l'attacco Stuxnet della NSA contro l'Iran è diventato pubblico, gli strumenti in esso utilizzati sono stati copiati e modificati da altri servizi simili, così come da parte di hacker commerciali. Ogni nuovo attacco che sembra fatto da Stuxnet, potrebbe essere fatto da chiunque ne abbia le conoscenze adeguate. Sarebbe stupido dire che la NSA ha commesso il nuovo attacco solo perché lo ha fatto Stuxnet.
La CIA, così come altri servizi, ha interi database di tali strumenti 'rubati'. Possono combinarli in modo che sembrino attribuibili alla Cina, compilando il codice sorgente con l'orario di Pechino o "dimenticando di rimuovere" il nome di un famoso imperatore cinese nel codice. La CIA potrebbe farlo per simulare un "hacking cinese" in Corea del Sud, per aumentare la paura che si ha della Cina e per, alla fine, vendere più armi americane.
La Russia non ha hackerato le mail dei democratici, l'Iran non ha hackerato casinò americani e la Corea del Nord non ha hackerato Sony.
Come detto: "Non vi è mai una chiara attribuzione". Non cascateci quando uno cerca di convincervi.

giovedì 9 marzo 2017

Quanto "costa" l'inquinamento? Sei milioni di morti. Ed è solo l'inizio

L’inquinamento atmosferico – proveniente sia da sorgenti indoor che da fonti esterne – rappresenta il più grave rischio ambientale per la salute e, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), nel 2012 (che rappresenta il dato più recente disponibile per l'analisi appena pubblicata) risulta correlato alla morte prematura di oltre 6 milioni di persone. Quindi, proviamo a pensare a quante morti ci sono state e con quale possibile e plausibile trend in aumento dal 2012 ad oggi!
Il rapporto dell'Oms si intitola “Evolution of WHO air quality guidelines: past, present and future” e riassume i principali documenti pubblicati a partire dagli anni Cinquanta, la loro evoluzione relativamente ai criteri di valutazione della qualità dell’aria e dell’impatto sulla salute umana, e che hanno portato allo sviluppo di una serie di linee giuda, sia per l’inquinamento dell’aria indoor sia outdoor. Il documento sottolinea l’evoluzione dell’evidence scientifica sugli effetti dell’inquinamento dell’aria sulla salute ed è uno strumento di supporto per i decisori nella definizione di strategie di gestione e controllo della qualità dell’aria. Vengono inoltre presentate le attività in corso e le direzioni future auspicate.
QUI il documento completo “Evolution of WHO air quality guidelines: past, present and future”
QUI il comunicato stampa sul sito dell’Oms.
Tra le vittime più colpite dall'inquinamento atmosferico ci sono senza dubbio i bambini. E a questo proposito è utile e interessante la visione del video messo a disposizione dall'associazione "Cittadini per l'aria" sulla conferenza che si è tenuta lo scorso 26 gennaio a Milano dal titolo “Salute e inquinamento atmosferico. Nuove evidenze sui danni allo sviluppo cognitivo dei bambini”, con presentazione di studi e ricerche, dati certi, nuove evidenze e immagini chiare che fanno luce sulle conseguenze, a livello fisico e mentale, dell'esposizione all'aria inquinata.
QUI per vedere il video della conferenza
Nel dicembre scorso, poi, è stato pubblicato il primo studio di coorte in Europa, svolto dall'Istituto Nazionale dei Tumori con il supporto di strumentazioni satellitari, che mette in relazione la mortalità per il tumore femminile con le concentrazioni di PM 2.5. La ricerca è stata effettuata su una coorte di 2.021 donne con diagnosi di tumore al seno tra i 50 e i 69 anni, nel periodo compreso tra il 2003 e il 2009, e si è basata su dati del Registro Tumori. "I risultati dello studio sono altamente rappresentativi in quanto basati su un Registro Tumori di popolazione capace di intercettare tutti i casi di neoplasia presenti su un territorio e su una popolazione di donne numericamente elevata (2021). Inoltre i risultati sono simili a quanto già osservato nello studio californiano e in quello cinese. Il nostro studio indica che il rischio di mortalità per tumore della mammella aumenta con l'esposizione al PM2.5. Anche se da un punto di vista scientifico
serviranno altre ricerche per una migliore definizione del percorso causale in oggetto, questi risultati aprono la strada a interventi rivolti al miglioramento della prognosi delle pazienti con tumore della mammella, basati sulla riduzione dell’esposizione a PM 2.5”. Hanno spiegato dall’Istituto.

mercoledì 8 marzo 2017

"Effetto euro": In Grecia la povertà è aumentata del 40% in 7 anni.

La Grecia è il grande perdente della crisi economica internazionale con l'aumento del tasso di povertà che è il più grande tra i paesi UE, vale a dire del 40%."
La povertà in Grecia è aumentata di uno scioccante 40% dal 2008 al 2015, secondo i dati diffusi dall'Istituto di Colonia per la ricerca economica (IW).
Cipro, con un aumento del 28,2% viene dopo la Grecia, seguito dall'Irlanda, con un aumento del 28%.
Lo studio non ha limitato i suoi criteri all'indicatore del reddito più basso, ma ha adottato un "indice di povertà multidimensionale" che include fattori come l&#
39;impossibilità di acquistare beni materiali, così come una diminuzione delle opportunità di istruzione, la sottoccupazione e le condizionei sanitarie peggiori. L'alto livello di povertà è attribuito a una recessione prolungata, all'elevata disoccupazione, così come alle dure misure di austerità e alle condizioni e i termini imposti alla Grecia dai suoi creditori.
Lo studio ha mostrato che i paesi mediterranei sono stati i più colpiti, con la Spagna che ha registrato un aumento del livello di povertà del 18% e l'Italia dell'11%.

martedì 7 marzo 2017

E' colpa di Francia e Germania". La barca dell'euro affonda e i Mario Monti scendono

"Le regole vanno rispettate dai paesi del sud e del nord dell'Europa", ha dichiarato. "Non rispettando il no al referendum anti-austerità, Alexis Tsipras ha chiaramente violato la democrazia", ha proseguito un Monti davvero scatenato.
Ma poi, finalmente, riconosciamo il vero Mario Monti nella conclusione: "Nonostante alcune regole sembrino strane e crudeli, sono designate per proteggere le prossime generazioni dalle politiche degli attuali governi". Servono, in altre parole, a proteggere i giovani e quei figli che non nascono più (Dati Istat).
E, quindi, voi giovani italiani che non lavorate, che non avete nessuna possibilità di un'autoderminazione personale e che siete costretti ad emigrare per lavori miseri nel nord Europa sappiate che i vari Mario Monti lo hanno fatto per voi, per proteggervi dalle politiche dei governi nazionali!

lunedì 6 marzo 2017

Bush: Invadere l'Afghanistan e l'Iraq è stato corretto, non mi pento

L'ex Presidente degli USA, George W. Bush ha ribadito che la sua decisione di invadere l'Afghanistan e l'Iraq era 'giusta' e 'non è pentito' di averla presa.
"Credo che sia stata la decisione giusta (...) Io non sono pentito né ho rimorsi per aver ordinato le invasioni dell'Afghanistan e dell'Iraq" ha dichiarato l'ex Presidente degli Stati Uniti, n un'intervista durante la trasmissione statunitense 'Today', telegiornale della NBC.
"Ho avuto un tuffo al cuore quando ho preso la decisione di andare in Afghanistan e in Iraq, perché sapevo che avrebbe avuto conseguenze disastrose (...) ma dovevo essere fermo e deciso", ha aggiunto, esprimendo le sue condoglianze a tutti coloro che sono colpiti da queste guerre.
Nel 2001, Washington e i suoi alleati hanno invaso l'Afghanistan come parte della cosiddetta guerra contro il terrorismo. L'offensiva ha deposto talebani dal potere, ma l&#
39;insicurezza, nonostante la presenza di migliaia di truppe straniere, continua a devastare tutto il territorio.
Nel mese di ottobre 2016, il Dipartimento della Difesa ha riconosciuto che 2366 militari Usa sono morti dall'inizio della guerra in Afghanistan, mentre altri 20,166 sono stati feriti.
Nel 2003, in una flagrante violazione del diritto internazionale, gli Stati Uniti d'America hanno guidato l'invasione dell'Iraq per rovesciare Saddam Hussein con il pretesto che avesse armi di distruzione di massa, cosa rivelatasi falsa.
Dopo anni di invasioni dell'Afghanistan e dell'Iraq, i funzionari degli Stati Uniti hanno anche ammesso che i gruppi terroristici come l'ISIS (Daesh, in arabo), che operano principalmente in Iraq e Siria, sono nati a seguito di interferenze straniere degli Stati Uniti nella regione.

giovedì 2 marzo 2017

La sovranità illimitata dei flussi di denaro

La finanza costituisce uno dei pilastri del capitalismo contemporaneo. Oltre a modificare l’insieme dell’economie nazionali e internazionale, modifica la composizione sociale della forza-lavoro e «produce» un aumento della disoccupazione. L’infulenza della finanza si avverte anche a livello politico: la caduta del governo Berlusconi in Italia, la crisi greca, ne sono gli esempi più recenti. Infine, gli scandali che hanno coinvolto le banche italiane, il caso Enron, i Panama papers, la recessione del 2008, hanno stimolato studiosi, politici e una fetta sempre più consistente dell’opinione pubblica ad interrogarsi sulla possibilità di controllare la finanzia, o, quantomeno, di incanalarla a fini sociali. Gabriel Zucman, nel suo ultimo lavoro, La ricchezza nascosta delle nazioni (Add Editore, pp.140, euro 15), risponde affermativamente. Partendo dal presupposto che la finanza globale si basa sul drenaggio di ricchezza prodotta e consumata a livello locale, lo studioso francese realizza una genealogia dei paradisi fiscali.
Zucman ci mostra come i processi di elusione e di evasione fiscale attraverso la finanza offshore non siano la conseguenza di processi economici naturali. Ci troviamo piuttosto davanti alla polarità tra accumulazione privata del capitale e processi di redistribuzione collettiva della ricchezza. La storia dei paradisi fiscali inizia dopo la prima Guerra mondiale, in risposta ad un crescenti controllo dell’economia in seguito alla crisi del 1929 e culminato con l’affermazione del Welfare State. È la Svizzera a fungere da sponda ai capitali in fuga, principalmente dai Paesi transfrontalieri come Francia, Italia e Germania. Il basso tasso di interesse corrisposto dalle banche elvetiche viene controbilanciato dalla possibilità di usufruire del segreto bancario, nonché di potere effettuare, dal rifugio svizzero, investimenti lucrativi sul piano internazionale.
GLI ISTITUTI BANCARI della Confederazione hanno infatti offerto un ampio ventaglio di servizi, che hanno e spesso tutt’ora dirottano i capitali esportati verso un’ampia gamma di investimenti (dai titoli azionari alle opera d’arte). L’impatto della deregulation e della globalizzazione e la nascita di nuovi paradisi fiscali come le isole caraibiche, Jersey, e Guernsey arrecano un danno solamente marginale alle banche svizzere. Poche le conseguente anche delle misure volte a tassare i capitali esportati o ad abolire il segreto bancario per i conti individuali.
Qui troviamo il secondo punto di forza dello studio di Zucman. Le misure di contenimento si rivelano fallaci, poiché la legislazione vale per i conti individuali e non per le imprese. Inoltre, la proliferazione dei nuovi paradisi fiscali non toglie niente alla forza delle banche elvetiche, che rimangono intatte nel loro ruolo di primo piano all’interno del trasferimento e del riciclaggio dei capitali. In altre parole dal libro di Zucman trapela come la delocalizzazione, caratteristica del capitalismo contemporaneo, sia penetrata in profondità anche all’interno delle transizioni bancarie. Gli operatori finanziari elvetici cessano di essere i depositari del processo di esportazione dei capitali, per trasformarsi nel punto nodale della rete delle volatilità finanziarie.
DIETRO LA MAGGIORANZA di imprese finanziarie e banche delle Isole Vergini e del Lussemburgo, vi si trova un istituto con sede a Zurigo o a Ginevra. Il capitale descritto e analizzato da Zucman si mostra vitale, dinamico, capace di calibrare le misure adatte alle proprie esigenze di riproduzione al di fuori e al di sopra delle dinamiche sociali.
La vitalità del capitale globale finisce dunque per costituire un problema al momento in cui i paradisi fiscali movimentano una somma pari all’8% dell’economia mondiale. Chi sposta la ricchezza da dove è stata prodotta, infatti, mette a repentaglio il principio di equità fiscale, sul quale poggia la legittimità degli Stati contemporanei. Ne consegue un aumento della divaricazione sociale. Non è casuale che tra i principali elusori ed evasori troviamo gli oligarchi russi e africani, ma soprattutto, le majors dell’economia della conoscenza (da Apple a Google, solo per citare le imprese sotto i riflettori dei media e dell’Unione europea per quanto riguarda l’elusione fiscale).
Una soluzione a tutto ciò esiste, e questo rappresenta il terzo punto di forza del libro di Zucman. Bisognerebbe, scrive lo studioso francese, approntare tre misure; la prima consiste nel creare un catasto delle ricchezze finanziarie mondiali, che in realtà esiste già, solo che è in mano ai privati. Un catasto sovranazionale, affidato ad autorità con prerogative statali. In secondo luogo, una tassazione delle ricchezze investite fuori dal contesto produttivo in cui sono state generate; in altre parole, le majors dichiarano solo i profitti realizzati a livello nazionale, mentre i cespiti andrebbero realizzati a livello globale. Infine, bisognerebbe abolire il segreto bancario anche per le società, e procedere alla redistribuzione della ricchezza in proporzione ai luoghi in cui è stata prodotta.
Zucman, però, affronta soltanto marginalmente il ruolo dell’economia illegale e delle condotte illecite, che invece costituiscono gli snodi principali dell’ultimo libro di Vincenzo Ruggiero, Dirty Money. On Financial Delinquency (Oxford University Press, pp. 250). Da questo lavoro trapela una critica articolata, ancorché pessimista, delle dinamiche relative all’interazione tra economie sporche, economie lecite e scandali finanziari.
LA SECOLARIZZAZIONE del denaro nella cultura contemporanea, nota Ruggiero, produce uno slittamento significativo nella lettura delle crisi e degli scandali finanziari. Nel passato la concezione paleocristiana del denaro come sterco del demonio costituiva una maschera ideologica efficace per l’affermazione del capitalismo, con truffe e frodi derubricate ad aberrazioni di un sistema altrimenti fondato sulla produzione, la parsimonia e la libera iniziativa. Ad un’iniziale stigmatizzazione di individui corrotti e corruttori è seguita l’analisi dei reati finanziari come il prodotto della disfunzione di specifici segmenti del sistema, tra cui va compresa anche la criminalità organizzata. Le narrazioni odierne rappresentano crisi, scandali e inflitrazioni criminali come il prodotto dell’ineluttabilità del mercato; come episodi da rimuovere e centrifugare in una dinamica capitalistica volta alla massimizzazione dei profitti e all’espansione.
All’interno di questo processo, economie legali e illegali si combinano osmoticamente, rendendo (quasi) del tutto superflua ogni velleità regolativa. Ruggiero mette in evidenza tre elementi cardine di questa dinamica.
Il primo, riguarda la tipologia delle reti criminali. Non ci troviamo di fronte a legami rigidi e sistematizzati. I rapporti tra attori legali e illegali sono fluidi, sfumati, funzionali allo scopo. La rete del riciclaggio, ad esempio, comprende una pluralità di attori: politici, avvocati, commercialisti, titolari delle attività del riciclaggio, membri delle organizzazioni criminali. Una rete opaca che non viene necessariamente riproposta una volta che l’obbiettivo attorno al quale si è sviluppata è stato raggiunto. Di conseguenza, risalire alla catena criminale e intervenire su di essa è alquanto arduo.
In secondo luogo, qualora si volessero regolamentare i paradisi fiscali, si andrebbe incontro a quello che Ruggiero definisce effetto palloncino, ovvero la tendenza di un fenomeno ad espandersi da un’altra parte dopo che ha subito una contrazione. In altre parole, la regolamentazione dei paradisi fiscali esistenti non farebbe altro che produrre la creazione di altri luoghi analoghi e il conseguente riposizionamento dei capitali. Inoltre, le regolamentazioni finanziarie sono raramente vincolanti, quindi non applicabili e sicuramente aggirabili.
IL TERZO ELEMENTO evidenziato da Ruggiero riguarda la sfera morale. La regolamentazione sarebbe possibile qualora tra gli operatori di mercato prevalesse una moralità orientata alla cooperazione. Negli ultimi anni, al contrario, si è affermata nei mercati una logica di tipo «matematico», che si è poi diffusa su tutto il corpo sociale. Alla base di questa concezione troviamo l’idea del calcolo dei costi e dei benefici in funzione dei profitti individuali. È proprio l’ipostatizzazione di questa logica a costituire l’ostacolo più grande al controllo della finanza, in quanto crea un meccanismo di legittimazione reciproca, che giustifica le violazioni più vistose in cambio di un certo livello di tolleranza verso quelle minori. In altre parole, l’egemonia diffusa dell’idea di profitto crea una condizione di alienazione generalizzata, per cui la società si dissolve nel proprio oggetto dei desideri. Più che creare nuove regole, bisogna rileggere il moro di Treviri.

mercoledì 1 marzo 2017

Alitalia. Il business sta nel farla fallire?

L’Alitalia è tornata ancora una volta nel cerchio di fuoco di una crisi paralizzante nonostante sia stata privatizzata da anni. Una condizione che smentisce clamorosamente quella vulgata per cui “i privati lo fanno meglio”… Ne parliamo con Antonello, che è un rappresentante sindacale Usb proprio in Alitaila, nonché uno che in Alitalia ci lavora…
Grazie della tua disponibilità. Ci devi aiutare – a noi e a chi ascolta – a capire due cose: la prima è entrare un po’ nel merito di questa ennesima crisi di Alitalia, come è nata e che prospettiva c’è di risolverla. Si parla sempre poi di ricadute occupazionali importanti, perché sappiamo che le crisi aziendali si risolvono sempre con i lavoratori che perdono il posto di lavoro. E poi anche fare una passeggiata, un excursus po’ storico in quanto questi anni è stata devastata questa compagnia aerea Alitalia che un tempo rappresentava… Noi non siamo per nulla nazionalisti, ma un fiore all’occhiello negli asset del nostro paese – messo in piedi con il contributo di tutta la popolazione – e adesso sembra essere ogni anno in condizioni peggiori. Immaginiamo che la responsabilità – anzi ne siamo certi – sia di chi la gestisce e chi l’ha gestita negli anni, non certo di chi ci lavora. Partiamo dalla crisi di adesso, che tra l’altro, è arrivata ad un punto interessante nel pomeriggio (di venerdì, ndr) o ancora non ci sono novità?
Vi avrei voluto dare qualche notizia in diretta, purtroppo non ce ne sono ancora. Le sigle sono tutte chiuse ancora al tavolo con l’azienda perché ci sono state delle novità negli ultimi due mesi, un’accelerata dell’azienda sul rinnovo contrattuale che è scaduto il 31 dicembre. Purtroppo non prevedeva l’ultrattività, per cui per i nuovi addetti al lavoro di fatto il contratto decadeva alla scadenza; o almeno una parte di esso. E l’azienda vuole imporre ai suoi lavoratori un regolamento aziendale, che non è il contratto nazionale firmato giustappunto 2 anni fa. Siamo ancora in una fase di stallo. Proprio ieri abbiamo finito 24 ore di sciopero, che sono andate bene nel limite del possibile, visto che l’azienda comunque ha cancellato tutti i voli non in fascia protetta… Gli scioperi si raccolgono nella manifestazione aeroportuale, perché di fatto il lavoratore non può esercitare il diritto di sciopero se il volo viene cancellato; sia l’operaio a terra che l’assistente o il pilota sta a casa, di fatto, il giorno di sciopero. Ormai l’Alitalia è diventata come i mondiali di calcio, ogni quattro anni c’è una crisi. Anzi, l’ultima volta addirittura due … La situazione è quella …
Tanto per non farsi mancare niente…
E certo, non ci facciamo mancare niente… Che dire? Ci vorrebbero tante ore per spiegare quello che è successo negli ultimi 15 anni nel mondo aeronautico, direi di iniziare proprio dalla storia, dal 2008…
Sì.
Da quello che è successo allora, dai 10 mila esuberi. Forse è stato quello un “cantiere sociale”, l’inizio di un declino del lavoratore a vantaggio del padrone con la difesa del governo; questo è quello che è successo ad Alitalia. Poi l’esempio è stato seguito da altre realtà, come la Fiat, e vedi anche tutto quello che succede nel mondo del lavoro oggi. Sono venuti, sotto la pena del “chiudiamo, perdete tutti il lavoro”; sono riusciti a licenziare, di fatto, 10 mila persone, ad abbassare il salario fino al 30% e ad andare avanti, perché bisognava privatizzare, perché la privatizzazione è bella, è buona, fa bene.
L’abbiamo visto…
Esatto. Tre fallimenti con la privatizzazione. E il governo ha continuato a mettere soldi, di fatto, nell’Alitalia; probabilmente molti di più di quelli che ha messo quando Alitalia era il fiore all’occhiello degli asset a partecipazione statale, ha continuato a mettere soldi e ha continuato a cambiare padrone, e di fatto ha continuato a fallire. Ma perché? In Italia volano compagnie di bandiera low cost – la deregulation ha voluto quello – ma di fatto, se noi andiamo a vedere, le compagnie low cost non volano con le regole di Alitalia, non volano con le regole delle compagnie italiane no? E nemmeno con quelle europee… Parlo di una compagnia specifica, dove i lavoratori non sono trattati esattamente come dovrebbero essere trattati i lavoratori italiani; e già questo farebbe capire perché bisogna farli volare in Italia. Però questo è, di fatto. La Ryanair in Italia è considerata una grande azienda, un’azienda da proteggere e da tutelare, e di fatto è la compagnia che porta più passeggeri italiani in Europa, il 70 per cento. Questo ha provocato un evitabile collasso di Alitalia, che all’inizio aveva puntato sul medio raggio. Scelta sconsiderata, perché non puoi combattere con le low cost. Gli investimenti erano da fare sul lungo raggio, ma gli aerei per il lungo raggio diventavano una spesa troppo onerosa e così ci ritroviamo a punto e da capo ad oggi.
Hai raccontato una serie di decisioni sbagliate e folli, perché hai parlato del primo tentativo di salvataggio tra virgolette che fu quello del 2008, cioè quello, per capirsi, è quello dei cosidetti capitani coraggiosi, si parlava di quello …
Esatto, esatto …
Di Berlusconi, per capirsi, no?
Esatto. Quello di Berlusconi che non ha voluto cederci ai francesi per regalarci alla “cordata italiana”…
E lì praticamente fu fatta la prima divisione tra bad company e good company …
Là ci fu un fallimento pilotato, di fatto, una italianizzazione della crisi, per come si risolvono le crisi in Italia. Un fallimento pilotato che non credo che esista in nessun libro di giurisprudenza o di economia… Hanno messo i lavoratori in eccesso nella bad company, una compagnia che non esisteva, e i lavoratori invece che dovevano essere reinseriti nel circolo produttivo nella new company, con un contratto totalmente nuovo, con perdite salariali e quello che ne consegue. E da lì diciamo è iniziata la discesa, perché comunque puntarono anche loro sui voli di medio raggio, dove la concorrenza delle low cost è stata feroce, e di fatto si è arrivati al 2014. Gli arabi avevano promesso investimenti… Nel 2014 la situazione diventa un po’ più complessa. Oltre all’avvento degli arabi, è stato firmato allora il contratto nazionale oggi vigente, che dovrebbe essere rispettato da tutte le realtà aeronautiche in Italia. Di fatto, però, il contratto nazionale viene applicato solo da Alitalia. Da nessun altra compagnia operante in Italia. Per cui qualsiasi compagnia viene in Italia, fa le regole sue, nessuno gli dice nulla, solo Alitalia deve rispettare quelle contrattuali. Questo di fatto che cosa crea? Una sorta di dumping, perché il padrone viene da noi e ci dice: “e no, voi guadagnate troppo rispetto a quelli”. Ho capito, ma se loro non pagano le tasse, dovreste rivolgervi a chi non gliele fa pagare, non certo a noi. Là la responsabilità cade inevitabilmente sul governo. Mentre i governi di tutta Europa hanno tutelato le proprie compagnie dall’avvento delle low cost – in Francia, mi viene l’esempio, e in Germania – in Italia tutto ciò non né accaduto, anzi. Hanno favorito la low cost piuttosto che la compagnia cosiddetta di bandiera, che infatti non c’è più.
Tutto questo è chiaro… Ti faccio però una domanda anche sul ruolo e, tra virgolette, le colpe che hanno avuto i sindacati all’interno della gestione Alitalia…
Qui sarebbe da aprire un discorso molto largo. Siamo in Italia … è in Italia che andrebbe analizzato, non solo in Alitalia… Io faccio sempre un esempio. A me pare che il sindacato in Italia, parlo della parte confederale perché sono loro che siedono ai tavoli, fondamentalmente la triste verità è quella .. Se non c’è la firma di Usb, del sindacato di base, si preoccupano fino ad un certo punto. Se manca la firma della grande Cgil, anche se non rappresenta nessuno, è la grande Cgil. Ormai somigliano più che altro ai sindacati americani. Loro pensano all’occupabilità, non più all’occupazione. Troppe volte, dai rappresentanti o delegati dei confederali, ci sentiamo fare discorsi sul lavoro non è più centrale… In Italia sta passando un’idea strana, che il lavoro non é più un diritto, è un favore. Cioè noi dovremmo ringraziare non so quale ente divino se abbiamo un posto di lavoro e dovremmo ringraziare loro, i sindacati complici, perché riescono per fortuna a farcelo tenere. E questa non è una mentalità propriamente da sindacato. Il sindacato deve tutelare i lavoratori, tutti… non tuteli solo dove hai iscritti o, peggio ancora, dove pensi di fare iscritti. Il discorso è ampio. Parlo per esempio dei lavoratori di terra, in Alitalia. Hanno riempito a tappo di lavoratori precari, lasciando a casa i cassaintegrati; e questo cosa ha creato? Sacche di lavoratori che hanno il limite dei 44 mesi, ma li hanno superati – sono a 60 mesi – che però non vengono richiamati. Stanno a casa, perché stavano per superare i 60 mesi e dovevano, per la legge, essere assunti e passare a tempo indeterminato. Questi lavoratori che cosa formano? Degli eserciti di riserva, di fatto; dei ragazzi che sarebbero disposti anche a lavorare di meno piuttosto che perdere il posto di lavoro. 60 mesi sono tanti. E sarebbero anche disposti a dimezzare lo stipendio, ma non basta, perché tanto ci sono altri ragazzi che a loro volta dimezzeranno lo stipendio. Ma questi sono accordi che non vengono presi dal sindacato di base, per esempio. Questi sono accordi che prende il sindacato nazionale complice. Che non favorisce l’occupazione, ma fa sì che il lavoratore sia schiavo del lavoro.
Ok, Antonello, perfetto. Infatti era giusta una precisazione…
Ed è vero quello che avete detto voi. Ma anni e anni hanno portato proprio a questo, al disfacimento delle grandi aziende, di fatto.
Io vedo che i tutti i settori, noi – parlo della fascia di età che va dai 30 ai 40-45 anni – ci troviamo sempre a pagare per i nodi che vengono al pettine. Questo in Alitalia l’ho trovato molto, documentandomi per la puntata di oggi… Per favorire alcuni, penso che siano creati dei macro problemi anche di tipo economico, che poi immagino che tu e i tuoi colleghi immagino vi trovate a dover dirimere però…
Negli anni ’80-’90 probabilmente l’azienda è stata diretta come un carrozzone. C’erano ancora delle sacche di privilegi. che ormai però non ci sono più in realtà da 20 anni. Il lavoro – faccio il caso dell’assistente di volo o del pilota – non è più quello degli anni ’80 e ’90. Non è più quello fatato degli alberghi di lusso e dell’essere abbronzati o alla moda … Ormai è diventato un lavoro un po’ più retribuito, con un po’ più di salario della media, sicuramente; ma un lavoro, un lavoro come altri. Sicuramente una certa, diciamo così, “morbidità” c’è stata nella gestione degli anni ’80 e ’90, come in tante altre realtà. Ma quello che ci troviamo adesso davanti è, probabilmente, l’ennesimo licenziamento di lavoratori a tempo determinato, l’ennesima riduzione salariale che porta, di fatto, a lavorare sotto il salario minimo europeo. Perché poi bisogna vedere con quali realtà uno si rapporta, perché se uno si raffronta con la realtà Ryanair – Ryanair è l’unica realtà, insieme a Walmart, dove il sindacato non può essere presente per contratto – se guardiamo Lufhtansa o Air France, che sono i punti di riferimento … E’ vero, noi abbiamo smesso di crescere dal momento che Air France e Lufthansa hanno cominciato a crescere. Noi non siamo più l’Alitalia dagli anni ’90. Però non credo che alla fine il conto lo debba pagare il lavoratore. Ecco, questo no.
Antonello, tornando all’attuale, la questione è questa: dopo il fallimento dell’esperimento berlusconiano, si può dire a chiare lettere, fallimento nel senso più letterale del termine …
E sì, siamo falliti di fatto…
Questa alleanza con Etihad, che sulla carta avrebbe dovuto portare… Ma questi management, queste persone che decidono – voi lavoratori avete assistito a dei cambi di management – ma possibile che siano totalmente incapaci di prendere decisioni? Una piccola riflessione in conclusione su questa classe imprenditoriale e manageriale che abbiamo in Italia che riceve sempre più favori dal punto di vista delle privatizzazioni e liberalizzazioni, ma non è nemmeno capace di mettere a profitto questi favori che gli vengono fatti dai vari governi… o è un business quello di far fallire Alitalia e i grandi asset, secondo te?
Guarda, non l’ho capito, giuro. Perché io non riesco a capire se sia un problema soltanto di investimenti, perché ovviamente per puntare su una politica industraile diversa – il lungo raggio, per intenderci, voli lunghi, quelli redditizi – ci vogliono i soldi per comprare gli aerei. Non so se è proprio un fatto che uno non può investire, per cui questi cercano di arrabbattarsi e mettere pezze dove possono, e quando le pezze non ci sono più vanno a piangere al governo per ottenere tagli, sconti, fino alla cbiusura. Perché così si chiude. Così, se la situazione rimane questa, puoi durare altri due, tre anni… Un altro sconticino? Ma questo è. O si investe seriamente su Aliltalia e si investe seriamente sulla politica del lavoro in Italia, o se no tra altri due anni… Ci diamo l’appuntamento già oggi . Tra due anni a quest’ora mi richiamate? Va bene?
Sì. E non c’è più Alitalia…
Probabilmente…
Scondo te come lavoratore, e secondo il sindacato di cui sei un delegato, quale è la soluzione immediata da mettere in campo subito?
E’ una soluzione che, se solo la dico, svengono cinque persone. Si chiama nazionalizzazione. Lo stato italiano negli ultimi otto anni ha messo, in Alitalia, più soldi di quanto ne ha messi, andando a ritroso, dal 2008 al 1970. E’ un dato di fatto questo: tra casse integrazioni, solidarietà, immediati interventi sul salario, lo stato italiano ha messo molti più soldi nel periodo in cui è stata privata che quando era pubblica. Rinazionalizziamo l'azienda, non c’è altra via.