Dopo anni di austerità, il paese sta molto peggio di prima. Le
ricette dettate dall'Unione Europea per mettere in ordine i conti
pubblici e far ripartire la crescita – taglio della spesa publica,
privatizzazioni, taglio di pensioni e welfare, abolizione delle tutele
dei lavoratori, abbassamento dei salari reali medi (i nuovi assunti
guadagnano molto meno di quelli che vanno a sostituire) - hanno prodotto
l'esatto opposto: i conti stanno peggio di prima (il rapporto
debito/Pil è aumentanto dal 103 al 133%) e la produzione di ricchezza
annuale (Pil) è scesa di 10 punti percentuali.
Un disastro che spinge anche gli analisti di Cnfindustria a chiedersi le ragioni di questa situazione. I più luidi, come Vito Lops de IlSole24Ore, smettono di esercitarsi sulla litania delle “riforme” e si rimettono a ragionare di fondamentali economici. Per scoprire che, sì, dall'unione monetaria in poi (traduzione: dall'adozione dell'euro, nel 2002), sono aumentate le differenze tra Europa del Nord e del Sud. Esattamente come l'unificazione delle “due Germanie”, sulla base del cambio alla pari tra le due monete, aveva distrutto la struttura industriale dell'Est a vantaggio dell'Ovest.
I trattati europei, sistematicamente strutturati per favorire questo trasferimento di ricchezza dal Sud al Nord (ma anche all'interno di queste aree, con il rafforzamento di alcuni poli meglio inseriti nelle filiere produttive principali e lo smantellamento di altri), rivelano a distanza di anni quanto meno un'incapacità totale dei negoziatori italiani d'allora, ciechi di fronte alle prevedibili conseguenze degli accordi che andavano a firmare. Pesava probabilmente l'idea – l'ideologia – che l'Europa ci avrebbe salvato dai nostri difetti nazionali (ingigantiti dalla dominanza anche “culturale” di un Berlusconi che non si riusciva a ridimensionare per altrettanti incapacità politica interna), così come in Spagna ci si è affidati alla Ue per allontanare i fantasmi del franchismo.
Ma soprattutto quei trattati rivelano il carattere costituente dei rapporti di forza economici esistenti allora e ancor più squilibratisi, di conseguenza, nel corso di questo quindicennio.
Lo si comprende quando l'analisi cerca di individuare un “che fare”, capitalisticamente sensato, e si trova davanti a una serie di non possumus.
Non si possono fare investimenti pubblici perché il vincolo sui conti, essendo peggiorati, si è fatto più stringente. E in assenza di investimenti pubblici quelli privati non si fanno nenanche vedere da lontano.
Non si può aumentare la spesa per “stimolare la domanda”, anzi secondo la Ue andrebbe ulteriormente ridotta (è in arrivo un “richiamo” di Bruxelles al governo per l'eccessiva flessibilità inserita nella legge di stabilità).
Non si può evitare di importare deflazione, naturalmente, perché i prezzi del petrolio e di altre materie prime, crollati in seguito al rallentamento drastico della Cina e altri paesi emergenti, non dipendono dalle scelte di politica economica dei governi nazionali, neanche dellle superpotenze.
Ammanettati e imbavagliati, insomma, costretti ad accantonare “avanzi primari” solo per ripagare debiti che – con la deflazione e il Pil in negativo – aumentano invece di diminuire.
Ovvio che in una gabbia simile, oltre al benessere economico, vada in frantumi anche la Costituzione, la partecipazione popolare alla vita politica, la democrazia parlamentare stessa. Un ripiegamento senza fine, se non ci vede quanto vicini si è al punto di non ritorno.
Un disastro che spinge anche gli analisti di Cnfindustria a chiedersi le ragioni di questa situazione. I più luidi, come Vito Lops de IlSole24Ore, smettono di esercitarsi sulla litania delle “riforme” e si rimettono a ragionare di fondamentali economici. Per scoprire che, sì, dall'unione monetaria in poi (traduzione: dall'adozione dell'euro, nel 2002), sono aumentate le differenze tra Europa del Nord e del Sud. Esattamente come l'unificazione delle “due Germanie”, sulla base del cambio alla pari tra le due monete, aveva distrutto la struttura industriale dell'Est a vantaggio dell'Ovest.
I trattati europei, sistematicamente strutturati per favorire questo trasferimento di ricchezza dal Sud al Nord (ma anche all'interno di queste aree, con il rafforzamento di alcuni poli meglio inseriti nelle filiere produttive principali e lo smantellamento di altri), rivelano a distanza di anni quanto meno un'incapacità totale dei negoziatori italiani d'allora, ciechi di fronte alle prevedibili conseguenze degli accordi che andavano a firmare. Pesava probabilmente l'idea – l'ideologia – che l'Europa ci avrebbe salvato dai nostri difetti nazionali (ingigantiti dalla dominanza anche “culturale” di un Berlusconi che non si riusciva a ridimensionare per altrettanti incapacità politica interna), così come in Spagna ci si è affidati alla Ue per allontanare i fantasmi del franchismo.
Ma soprattutto quei trattati rivelano il carattere costituente dei rapporti di forza economici esistenti allora e ancor più squilibratisi, di conseguenza, nel corso di questo quindicennio.
Lo si comprende quando l'analisi cerca di individuare un “che fare”, capitalisticamente sensato, e si trova davanti a una serie di non possumus.
Non si possono fare investimenti pubblici perché il vincolo sui conti, essendo peggiorati, si è fatto più stringente. E in assenza di investimenti pubblici quelli privati non si fanno nenanche vedere da lontano.
Non si può aumentare la spesa per “stimolare la domanda”, anzi secondo la Ue andrebbe ulteriormente ridotta (è in arrivo un “richiamo” di Bruxelles al governo per l'eccessiva flessibilità inserita nella legge di stabilità).
Non si può evitare di importare deflazione, naturalmente, perché i prezzi del petrolio e di altre materie prime, crollati in seguito al rallentamento drastico della Cina e altri paesi emergenti, non dipendono dalle scelte di politica economica dei governi nazionali, neanche dellle superpotenze.
Ammanettati e imbavagliati, insomma, costretti ad accantonare “avanzi primari” solo per ripagare debiti che – con la deflazione e il Pil in negativo – aumentano invece di diminuire.
Ovvio che in una gabbia simile, oltre al benessere economico, vada in frantumi anche la Costituzione, la partecipazione popolare alla vita politica, la democrazia parlamentare stessa. Un ripiegamento senza fine, se non ci vede quanto vicini si è al punto di non ritorno.
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