giovedì 29 dicembre 2016

Evitare un altro choc referendario sul Jobs Act. Governo in ambasce

Le batoste fanno male, soprattutto se a rifilartele è la stragrande maggioranza del paese. E così una classe dirigente vile e servile si sta lambiccando su come evitarne un'altra.
Il tema è il referendum sul Jobs Act, che effettuato “a caldo” – questa primavera, stando ai tempi tecnici dopo la sentenza di ammissibilità – darebbe molto probabilmente un responso ferale per l'esecutivo Renzi-bis chiamato Gentiloni.
Le ipotesi per rinviarlo non sono molte. Quella più politicante dipende dalla durata del governo attuale. Se viene fatto cadere in primavera, si deve andare a nuove elezioni politiche e quindi – per legge – il referendum sul Jobs Act verrebbe rinviato all'anno prossimo. Per allora, sperano le imprese e il capitale mutinazionale, un po' della rabbia popolare potrebbe essere sbollita, al punto da non garantire il raggiungimento del quorum e quindi la delegittimazione bis dei loro terminali a Palazzo Chigi.
Questa soluzione andrebbe bene a Renzi, perché ogni mese che passa il suo appeal rischia di passare di moda. E anche Signorini – il direttore di Chi, che gli dedica copertine strappacuore mentre fa la spesa alla Coop – potrebbe considerarlo alla fine uno dei tanti ex. Non andrebbe però tanto bene per chi deve trovare a breve molte soluzioni (non esclusi gli impegni internazionali di marzo e maggio) per tenere in carreggiata un veicolo piuttosto malconcio.
E allora? L'altra soluzione è fare delle finte modifiche al Jobs Act, ritoccando appena un paio di cose insignificanti sul piano sociale, ma sufficienti – su quello legale – a invalidare il quesito referendario sulla legge.
Il tema privilegiato è quello dei voucher, non a caso sponsorizzato dalla presunta “sinistra” interna al Pd. Completamente liberalizzati, sono diventati la forma salariale preferita da imprese di tutte le dimensioni, visto che con quel ticket si può pagare una paga a ora, senza contributi previdenziali né diritti per chi lavora. Una sorta di caporalato legalizzato, uno schiavismo ad hoc che non lascia scampo soprattutto alle giovani generazioni (quelle sempre “in cima ai pensieri”, nelle dichiarazioni in tv).
Ad ottobre ne sono stati venduti 121 milioni, pari a 15 milioni di giornate lavorative. Fatevi due conti a vedete a quanti posti di lavoro “normale” corrispondono, senza peraltro smuovere assolutamente nulla quanto a “ripresa” dell'economia.
Inoltre, dal primo gennaio, grazie proprio al Jobs Act, spariscono tutta una serie di ammortizzatori sociali, a cominciare dalla mobilità. E il nuovo sussidio di disoccupazione, la Naspi, non ha la stessa estensione o durata. E questo potrebbe invece far crescere un malessere sociale già ai limiti di guardia.
Una risposta rapida, da parte del governo, è comunque difficile. Prima di muoversi per modificare a casaccio la normativa sui voucher, infatti, si attende di conoscere i dati sugli effetti provocati dalla cosiddetta “tracciabilità” dei ticket in questione. Da ottobre è infatti in vigore l'obbligo, per il datore di lavoro “voucherista”, di comunicare via sms o mail – un'ora prima della “prestazione lavorativa” – l'attivazione del voucher (fino ad allora erano usabili senza alcun limite). In teoria, questo dovrebbe fare da deterrente per il lavoro neo (spesso il voucher viene attivato dopo un infortunio del lavoratore).
In ogni caso, la Corte Costituzionale deve pronunciarsi l'11 gennaio sull'ammissibilità dei tre quesiti su cui la Cgil ha raccolto oltre tre milioni di firme: i voucher, appunto, l'art. 18 (da ripristinare) e la corresponsabilità dell'impresa vincitrice dell'appalto in quel che combinano i subappaltanti. E' chiaro che se tutti e tre i quesiti dovessero essere promossi, e ricevere il voto favorevole, l'altro pilastro delle “riforme” renziane verrebbe abbattuto , azzerando o quasi una stagione letale per il mondo dei lavoratori e sconfessando – indirettamente – le “prescrizioni” della Troika.
Una modifica della regolamentazione dei voucher potrebbe facilmente essere venduta come una mossa “che va nel senso del relativo quesito referendario”, ma resterebbero comunque in piedi gli altri due. Sui quali, peraltro, non ci sono molti margini di fantasia per modificarne la portata (o c'è la reintegra, dopo un licenziamento illegittimo, o non c'è; e così per gli appalti).
Quindi a Palazzo Chigi si lambiccano sulle possibili soluzioni.
Sia chiaro: per impedire che la gente voti di nuovo contro, non certo per rimuovere una normativa criminogena e criminale.

mercoledì 28 dicembre 2016

Autovelox: addio multa se incompleta

Per la Cassazione va annullata la sanzione per eccesso di velocità su strada extra-urbana priva degli estremi del decreto prefettizio
un autovelox su strada
di Lucia Izzo - Niente multa se l'eccesso di velocità rilevato con autovelox sulla strada extra-urbana non contiene gli estremi del decreto prefettizio. Lo ha precisato la Corte di Cassazione, sesta sezione civile, nella sentenza n. 26441/2016 (qui sotto allegata), con cui è stato accolto il ricorso di un automobilista, sanzionato per aver superato i limiti di velocità.
La violazione, ex art. 142 del d.lgs. n. 285 del 1992, era stata rilevata a mezzo di dispositivo elettronico lungo una strada provinciale; il Tribunale aveva ritenuto che non integrasse violazione del diritto di difesa a mancata indicazione, nel verbale di contestazione, del decreto prefettizio di individuazione della strada su cui era stata rilevata l'infrazione tra quelle extraurbane nelle quali era consentito l'utilizzo di dispositivi finalizzati al rilevamento a distanza delle violazioni.
Di diverso avviso i giudici di legittimità secondo i quali risulta in atti che l'infrazione è stata rilevata su una strada extraurbana secondaria e che il verbale di contestazione non conteneva l'indicazione degli estremi del decreto prefettizio con il quale era autorizzata, sulla strada in questione, la rilevazione della velocità a mezzo autovelox e la contestazione differita.
La giurisprudenza ha ripetutamente affermato che "la mancata indicazione degli estremi del decreto prefettizio nel verbale di contestazione integra un vizio di motivazione del provvedimento sanzionatorio, che pregiudica il diritto di difesa e non è rimediabile nella fase eventuale di opposizione". Ricorso accolto e Comune condannato a rifondere le spese di giudizio.
Cass., VI sez. civ., sent. n. 26441/2016

martedì 27 dicembre 2016

La BCE con i soldi pubblici finanzia le multinazionali

A giugno 2016 la BCE lancia l’ennesimo piano per provare a rilanciare l’economia del vecchio continente. Visto che anni passati a “stampare soldi” tramite il quantitative easing (www.nonconimieisoldi.org) non hanno dato i risultati sperati, ecco il passo ulteriore: con questi soldi acquistare non solo titoli di Stato, ma anche obbligazioni di imprese private. Corporate Europe Observatory – CEO, l’organizzazione che da anni studia e denuncia il peso delle lobby nelle decisioni europee, è andata a vedere quali siano le imprese e i settori che hanno beneficiato di tali acquisti. La ricerca appena pubblicata (corporateeurope.org) non lascia spazio a dubbi: “il risultato è inquietante, a meno che non pensiate che petrolio, auto di lusso, champagne e gioco d’azzardo siano il posto migliore in cui mettere soldi pubblici”.
In ultima analisi l’intervento della BCE è un sostegno ad alcune delle più grandi multinazionali. Le obbligazioni sono una forma di finanziamento, il cui costo segue la legge della domanda e dell’offerta: se sono in molti a volere i titoli di una determinata impresa, questa potrà offrire tassi di interesse minori. Se al contrario nessuno o quasi le vuole comprare, gli interessi che dovrà garantire l’impresa per finanziarsi salgono. Se la BCE interviene acquistando determinate obbligazioni, il soggetto corrispondente si trova quindi avvantaggiato rispetto ai concorrenti. Non parliamo di spiccioli. La BCE avrebbe investito 46 miliardi di euro a fine novembre 2016 e prevederebbe di arrivare a 125 miliardi per settembre 2017.
Dalla Shell alla Repsol, dalla Volkswagen alla BMW, troviamo alcune delle più grandi imprese dei combustibili fossili e dell’automobile. Anche dimenticandoci dello scandalo che solo pochi mesi fa ha investito la Volkswagen, nel momento in cui l’Europa sbandiera la sua politica “verde” e i suoi obiettivi contro i cambiamenti climatici, siamo certi che sostenere tali settori con decine di miliardi sia la strategia migliore per rispettare gli impegni presi? E poi multinazionali del calibro di Nestlè, Coca Cola, Unilever, Novartis, Vivendi, Veolia, Danone, Renault e chi più ne ha più ne metta.
E l’Italia? Eni, Enel, Terna, Hera, Snam, ACEA, Assicurazioni Generali, Exor (la società di casa Agnelli che controlla Fiat e Ferrari), A2A, Telecom Italia, Autostrade per l’Italia e poche altre. Non sembra esattamente l’elenco delle imprese che hanno le maggiori difficoltà ad avere accesso al credito. All’esatto opposto, sono con ogni probabilità quelle che indipendentemente dal sostegno della BCE (che nella scelta dei titoli si appoggia alle banche centrali nazionali, quindi anche a Banca d’Italia) possono già finanziarsi alle migliori condizioni.
Per l’ennesima volta regole e procedure europee cucite su misura per i gruppi industriali e finanziari di maggiore dimensione, a scapito di piccole imprese e settori più innovativi. In Italia la stretta sull’erogazione di credito – o credit crunch – per anni ha colpito pesantemente piccole imprese, famiglie, artigiani. Così come il quantitative easing ha gonfiato i mercati finanziari senza rilanciare l’economia, così il nuovo piano della BCE sembra inefficace se non controproducente. Che si guardi alla finanza pubblica o a quella privata, ciò a cui assistiamo è un gigantesco eccesso di soldi per i più forti, mentre mancano risorse per un vero rilancio di economia e occupazione e per enormi bisogni che non trovano un finanziamento. La casa europea sta bruciando, ma i pompieri gettano acqua in una piscina piena mentre lasciano divampare l’incendio.
Se come ripetono i libri di testo il compito principale della finanza, anzi il suo stesso motivo di esistere, è “l’allocazione ottimale” delle risorse nell’economia reale, stiamo quindi parlando del più macroscopico fallimento dell’era moderna. Non solo provoca crisi a ripetizione, aumenta le diseguaglianze, pretende di piegare l’intera società ai propri diktat, ma al culmine del paradosso questo sistema finanziario semplicemente non funziona e non fa l’unica cosa che dovrebbe fare. Alla faccia dei “mercati efficienti”, vero pilastro su cui poggiano le teorie economiche che hanno dominato gli ultimi decenni e dominano ancora le istituzioni europee.
Cosa sarebbe accaduto con politiche monetarie ed economiche differenti? Cosa sarebbe accaduto se le centinaia di miliardi della BCE che oggi gonfiano i mercati finanziari e sussidiano le multinazionali, fossero invece stati destinati a un piano di investimenti pubblici, alla ricerca, l’occupazione, la riconversione ecologica dell’economia? Tecnicamente non ci sarebbero problemi a farlo: invece di acquistare obbligazioni della Coca Cola o della Shell, la BCE compra titoli della Banca Europea per gli Investimenti – BEI, una banca pubblica alla quale le istituzioni europee potrebbero dare un mandato chiaro per impiegare le risorse per gli obiettivi che la stessa Europa si è data in materia di inclusione sociale, lotta alle diseguaglianze e ai cambiamenti climatici. Farlo o non farlo non è quindi questione di trattati europei – ammesso che per qualche misterioso motivo non sia possibile cambiarli – è questione di volontà politica.
Una volontà totalmente assente in un’Europa che a dispetto dei disastri attuali rimane schiacciata su una visione liberista e su politiche monetarie ed economiche fallimentari. Non ci si può allora stupire della crescita delle destre xenofobe e populiste e del concreto rischio che l’incendio porti a una disgregazione della stessa UE. L’unica cosa che stupisce è una testardaggine che rasenta il fanatismo nel vedere che a dispetto di tali disastri, le scelte di fondo non vengono in nessun modo rimesse in discussione.

venerdì 23 dicembre 2016

Natale: recuperiamo la magia di un tempo denso e lento

Il Natale, nelle antiche religioni europee, quelle legate alla natura e ai suoi cicli, è sempre stato una festa sacra. Il solstizio invernale rappresentava morte e rinascita, la fine e l’inizio dell’anno solare, l’addormentarsi della terra nel gelo invernale e il germogliare dei semi nel suo grembo, il passaggio tra la diminuzione graduale e l’aumento graduale della luce. Un momento cruciale, festeggiato con tutti i simboli della vita che la stagione offriva e con il colore simbolo della vita: il rosso vivo del sangue. Agrifoglio, pungitopo, abete, luce: di candele, di focolare, di falò. Le piante, i semi, la luce rappresentavano la vita, la fecondità, la rinascita. E non era un caso che i bambini fossero i principali protagonisti di queste feste: in tutti i riti di morte-rinascita i bambini lo erano, ricordavano il passaggio, erano gli araldi della nuova vita.
Fino alla società dei consumi.
Ricordo bene i Natali della mia infanzia: pochi modesti regali dai genitori e dagli zii più vicini, una bambola, un libro illustrato; i doni erano solo per i bambini, la loro gioia coinvolgeva tutta la famiglia. Ricordo l’attesa incantata di quella notte magica, soffusa di luce e di prodigio. Di quei giorni conviviali, vissuti sempre in numerosa compagnia.
Da allora è cresciuta la ricchezza, lo spreco , il dominio, l’aggressività e l’alienazione, e il Natale, da festa sacra della vita, è diventata una festa di scempio della vita. Se si può ancora chiamarla “festa”.
La nostra è una società dissacratoria, che sta devastando terre e mari, sta distruggendo persino l’atmosfera che protegge il nostro pianeta e lo rende vivo. Il Natale è diventato parte di questa frenesia mortale, un rito di distruzione invece che di feconda ricomposizione.
C’è sempre più gente che dice di non sopportare le feste di Natale, e come non capirli? Quello che in realtà non sopportano è la competizione sempre più spinta nell’acquistare, spendere, consumare a più non posso. Ma non sono capaci di uscire da questa spirale dell’orrore, benché non dia loro gioia. Bisogna fare quello che fanno tutti, rispondere ai richiami delle vetrine illuminate, della pubblicità sempre più incalzante.
Bisogna marciare tutti alla stessa musica.
Nella tradizione cristiana il Natale era attesa di un evento prodigioso (esattamente come nelle religioni più antiche), una festa di pace e preghiera, di gioia e convivialità, di riconciliazione.
Cosa è rimasto di sacro nel consumo spropositato di cibi che hanno percorso migliaia, quando non decine di migliaia di chilometri, per arrivare sulle nostre tavole; di pesci in via di estinzione, di maiali torturati, di fegati di oche ingozzate a morte? Cosa c’è di sacro nello spreco di oggetti inutili, nel lusso, nell’affollare ristoranti, nel fare code chilometriche di auto e bus sulle strade che portano ai mercatini di Natale, dove la paccottiglia cinese o del Bangladesh schiavizzato viene venduta come “artigianato”? Cosa c’è di sacro negli spari di migliaia di petardi che ogni anno ammazzano bambini e giovani, terrorizzano piccole creature di ogni specie, inquinano e distruggono la pace e la vita invece di festeggiarla e onorarla.
Il Natale è ormai la festa dei consumi ed eserciti di consumatori si mettono in faticosa marcia verso una meta che non hanno scelto.
Eppure scegliere non è così difficile. Dato che viviamo nell’ultima fase del capitalismo, la globalizzazione consumistica, ci troviamo ad avere nelle nostre mani un’arma potentissima: il non consumo. La sobrietà.
L’albero di Natale può essere la pianta che abbiamo già in casa, addobbata e onorata nel solstizio d’inverno che prelude alla rinascita delle piante. Le luminarie ai balconi e alle finestre possono essere sostituite da candele accese la sera sulla tavola, o intorno alla pianta o al presepe: vere fiamme e minori consumi. Invece di miriadi di regali superflui per grandi e piccini, il dono del nostro tempo alle persone care, di oggetti fatti per loro, di giochi insegnati, di regali “etici” e semplici, pervasi dell’incanto di un tempo sacro. Come è sacra la vita, da non sperperare per inseguire l’avida falsità di feste deformate.
Il solstizio d’inverno è un tempo denso e lento, come la linfa nelle piante addormentate. Il Natale era raccoglimento: degli affetti, dello spirito, dei sentimenti. Così come questo tempo è raccoglimento per la natura che germoglia nell’oscurità immobile.
Facciamo germogliare un tempo nuovo nell’anno che finisce e che rinasce, un tempo di coscienza, responsabilità e collaborazione.
E buon Natale a tutti.

giovedì 22 dicembre 2016

Esecutivo Gentiloni. L’ennesima beffa al popolo sovrano

Le urne sono ancora calde dei No di 20 milioni di elettori. E un’illusoria parvenza di coerenza ci è stato offerta su un piatto di falso argento dalle immediate dimissioni, oltretutto annunciatissime del Premier, autore della riforma respinta con un “en plein”, anche del tutto imprevisto. Generalmente un responso così eccezionale prevede un cambio di rotta. Morto il vecchio che la maggioranza ha disdegnato, nasce il nuovo. O almeno si tenta di farlo nascere. Così vuole la logica delle cose, così vorrebbero i fatti, a seguire.
Ebbene nel paese dei balocchi, o meglio degli inciuci e degli inganni, accade esattamente il contrario. Avete detto che Non mi volete, quindi resto. Anche se, per ora, mi dimetto. Avete detto No, quindi non è successo niente, tutto come prima. Avete detto No, quindi me ne vado, ma solo per un po’. Il tempo di sistemare alcune cosette in sospeso alla Leopolda e tornerò “più forte e più potente che pria”. Dagli eventi e dalla piega che sta prendendo l’onda politica e istituzionale, sembra proprio questo il progetto dell’ex premier. Come se a Palazzo Chigi avesse affisso il classico cartello “Torno subito”. Il tempo di prendere un caffè a Pontassieve. Il tempo di festeggiare il Natale in famiglia. E nel frattempo lascio a guardia dei miei poderi, o poteri, i miei fidi.
E nasce, in poche ore, a garanzia del millantatore fiorentino, il copia incolla dell’esecutivo renziano. Questa volta tocca ad un blasonato guidarlo. Habemus contem, Paulus Gentiloni . L’Italia si tinge di nobiltà e di sangue blu, almeno per un po’. Ma a che e a chi serve un titolato oggi al Paese? Mai che si pensasse ad eleggere un fautore delle tute blu, rappresentanza assente da troppo tempo in Parlamento. Se non fosse che questo è il Paese in cui viviamo e da cui traiamo le basi della nostra vita sociale. Se non fosse che la politica è la base di una società civile. Se non fosse che una parte del popolo del No, quella che ritiene la Costituzione garante dei diritti dei cittadini, si è fermamente opposta a chi voleva deformarla.
Se non fosse che quel popolo ha vinto il referendum e generalmente il premio lo incassa il vincitore e decide degli sviluppi. Se non fosse che un intero popolo è stanco di subire la deprivazione dei diritti sociali e che un’intera giovane generazione si ribella alla mancanza di lavoro e a dover adattarsi a prestazioni occasionali retribuite con i voucher. E se non fosse che sono state messe in campo riforme antipopolari come il Jobs act e la Buona scuola. Se non fosse, infine, che è la stessa Costituzione, all’articolo 54, a imporre il dovere di “adempiere le funzioni pubbliche con disciplina e onore”, rispettando quindi i verdetti popolari e la parola data, non saremmo certo oggi così indignati per la beffa ad oltranza che ci propongono le istituzioni, ai danni e alle spalle del popolo sovrano.
Evidente che siamo stati vittime di un raggiro e che la nostra scheda elettorale con quella X ben marcata sul No è stata considerata al pari di carta straccia. Ne è prova inconfutabile il neonato governicchio che è tutto tranne che nuovo e rimanda la precisa idea del deja vu. Un totoministri eletto che fa pensare e che la dice lunga sulle future intenzioni del dimissionario premier. La più scandalosa rinascita agli altari del potere è senza dubbio quella della madre della riforma, l’avvenente Maria Elena Boschi, che per aver ben eseguito, caldeggiandolo da tutti i media con un martellante cinguettio, il compitino anticostituzionale, ha meritato non di essere espulsa per sempre da tutti i parlamenti mondiali, ma di troneggiare, per ossimoro, alla sottosegreteria della presidenza del Consiglio con sovrintendenza sovrana. Eppure la stessa aveva pubblicamente annunciato, durante la trasmissione “In mezz’ora” dell’Annunziata, che, in caso di sconfitta , si sarebbe ritirata dalla vita politica. “Alla faccia della coerenza” avrebbe detto il mitico Totò.
Che avrà mai fatto di così onorevole per il Paese, l’onorevole figlia della banca Etruria, per meritare simile promozione nell’esecutivo del nobile Gentiloni? Resta un mistero che si spiega solo come figura a baluardo della prossima rentrée in governo del suo complice in affairs politici… Sembra che le armi di Renzi per far smontare dal seggio dell’esecutivo il suo supplente siano già ben affilate “Faccio le primarie, subito a elezioni…e torno in carica”. Così sembra dire alla consegna della campanella al suo temporaneo sostituto. Un’interpretazione che non dovrebbe discostarsi molto dal progetto di rientro a Palazzo dell’imbonitore fiorentino. É giovane e intraprendente quanto basta, con un’ambizione politica sfrenata. Figlio politico di quel Berlusconi che ha il potere di risorgere sempre dalle ceneri come fosse l’araba fenice. Avvinghiato alla poltrona a cui ancora oggi, pur ottantenne e provato in salute, non sa rinunciare. Il potere è una droga per chi lo esercita e una damnatio per chi lo subisce.
Tornando al totoministri, che dire della conferma della Madia, madonna rinascimentale, alla pubblica amministrazione, sebbene la Consulta abbia dichiarato incostituzionale il suo ultimo decreto. Massimo Villone (Comitato per il No), professore emerito di diritto costituzionale all’Università Federico II di Napoli, spiega chiaramente il motivo della bocciatura “La Corte ha dichiarato la incostituzionalità del decreto Madia perché l’intreccio delle competenze tra i livelli istituzionali avrebbe richiesto non un semplice parere delle autonomie sui decreti delegati attuativi della legge 124, ma una intesa formale da raggiungere nelle Conferenze tra Stato e autonomie. Intesa in cui si realizza il fondamentale principio di leale collaborazione tra i livelli istituzionali”.
E della conferma della Lorenzin al ministero della salute ne vogliamo parlare? La Lorenzin, la ministra del Fertility day , che proponeva alle donne di fare più figli e presto, perché l’orologio biologico non attende. Mise in atto una campagna vergognosa e sollevò un vespaio di contestazioni sui social. Tanto che lo stesso Renzi si affrettò a disapprovare e a prendere le distanze dalla proposta. Ed eccola di nuovo, con il Renzi bis, in sella alla poltrona della salute nazionale.
Confermato ancora Poletti al lavoro, una delega bis, la più inquietante. Sul lavoro non si scherza. É la vera nota dolens del Paese. Lavoro non ce n’è e Poletti è complice con Renzi della riforma dello statuto dei lavoratori. Avrebbe dovuto essere deposto per primo. E invece eccolo lì, ancora al suo posto a perorare un’orribile riforma che toglie diritti e stabilità ai lavoratori e dà ancor più precarietà. Sulla questione del referendum per abrogare alcune parti del Jobs act, Poletti nicchia e sollecita, per rinviarlo, le lezioni anticipate. Smascherato prontamente da Susanna Camusso. “Il governo boicotta i referendum? Mi sembra che il ministro si stia sostituendo al Presidente della Repubblica nel decidere quando sarà il voto. E comunque la logica del rinvio dei problemi non li risolve di certo. Il voto del 4 dicembre e la reazione dei giovani lo dimostrano: non si scappa. Certi temi vanno affrontati, bisogna dare delle risposte”. (link: Referendum Jobs act, Camusso contro Poletti: "Vuole sostituirsi a ...www.ilfattoquotidiano.it)
Alfano, l’ex fedelissimo delfino di Berlusconi, resta attaccato all’esecutivo come un mitile. Si sposta solo di poltrona, dagli interni agli esteri. Non si comprendono le retrovie dei motivi della delega agli esteri. Quindi il responsabile della figuraccia per il rapimento della Shalabayeva, caso in cui è implicatissimo, va a rappresentare l’immagine internazionale del Paese. Logica non pervenuta. Altra incoerenza del Renzi bis di cui non ci è dato di conoscere le motivazioni. Forse che hanno tirato a dadi per formare questo esecutivo, avendo fretta di partecipare, con la squadra fatta, al tavolo del consiglio europeo del 15 dicembre? Forse. O forse era già tutto precostituito per dare continuità a Renzi e dare il via al vespaio di contestazioni, perché in effetti nulla è cambiato e chissà se cambierà. E per dare voce al popolo del Sì con il fatidico “Ve l’avevamo detto, ora starete peggio”. Illazioni?
Espulsa dal nuovo esecutivo la Giannini, la complice dell’odiatissima, dal popolo della scuola, riforma che ha l’ironico nome “Buona scuola”. Che nel merito è come dire a chi siede in cattedra “Dovete pagare tutto. Ora vi conciamo per le feste”. Livida di rabbia, con incarnato sempre più giallastro, è costretta a tornare a casa. Sembra un bene e una speranza, ma, prese informazioni sulla sostituta, una speranza tiepida. Valeria Fedeli ha la delega alla scuola. Ex sindacalista, mai un giorno di cattedra, curriculum incerto sui titoli. Non è del mestiere del ministero a cui è delegata quindi. Come la Lorenzin, le cui competenze professionali nulla hanno a che vedere con la delega alla salute. Tutto scomposto questo Renzi bis. Sarà un governo volante o il supplente di Renzi tirerà fuori qualche rassicurante asso dalla manica per arrivare a fine legislatura?
Cavalcano però i 5stelle che intendono andare subito a elezioni, subito dopo il verdetto della Corte costituzionale sulla legge elettorale, il 24 gennaio. Intanto la sinistra del No sociale, ulteriormente offesa dall’evidente ritorno al renzismo, con un governo che ne è la fotocopia, non vuole restare a leccarsi le ferite. Si riparte da dove e con chi? Sarebbe il caso di ottimizzare la vittoria del No, partendo dalla lotta di classe con una campagna di solidarietà diffusa su tutto il territorio nazionale. Vicini alle lotte dei lavoratori sfruttati, nelle fabbriche e in tutti i luoghi in cui il lavoro non è dignitoso e rende schiavi di orari e di contratti che danneggiano il lavoratore impoverendolo, arricchendo i padroni. Sarebbe anche il momento favorevole per pretendere di annullare le inique riforme fatte dagli ultimi governi e anche di pretendere dai sindacati scioperi generali a oltranza. Non vogliamo che questo. Altrimenti il 4 Dicembre verrà presto dimenticato.

mercoledì 21 dicembre 2016

L'umiliazione sistematica della Grecia da parte di Schaeuble

La Grecia torna nuovamente in prima pagina con un incidente che la dice lunga, in un linguaggio così semplice da essere ormai evidente per tutti, la realtà dell'oppressione dell'Unione europea su questo povero paese, scrive Jacques Sapir su RussEurope.
Il meccanismo europeo di stabilità (MES) ha annunciato il blocco delle misure per alleggerire il debito alla Grecia decise dall'Eurogruppo il 5 dicembre Jeroen Dijsselbloem, il Presidente dell'Eurogruppo, ha detto senza mezzi termini: "Le istituzioni sono giunti alla conclusione che le azioni del governo greco non sembrano essere in linea con i nostri accordi " . (In realtà sembra che la Commissione sia stata scavalcata, ndr). Ciò che è in questione è una misura sociale, perfettamente in linea con quanto consentito al governo greco dagli "accordi" , di un bonus forfettario per il mese di dicembre destinato alle fasce pensionistiche più basse, il cui costo è stimato in 674 milioni di euro Possiamo vedere che il MES, e il signor Dijsselbloem in particolare, conducono un&#
39;umiliazione sistematica della politica del governo greco.

La situazione in Grecia è così drammatica che il Fondo monetario internazionale sollecita le istituzioni dell'UE a autorizzare le misure adottate dal governo greco e di cancellare gran parte del debito greco. Ma non sarà così. Le istituzioni europee non hanno smesso di volere la caduta del governo Tsipras e avere una vera e propria Vendetta politica.
Questo dimostra, se ce ne fosse bisogno, che la capitolazione del luglio 2015 non ha aiutato. Solo una politica di rottura con le istituzioni europee, e con l'Eurogruppo, potrebbe consentire alla Grecia di ritrovare la speranza. Non c'è futuro per la Grecia se rimane nella zona euro, né per le altre nazioni dell'Europa meridionale.
E' stata responsabilità di Tsipras negare tutto ciò, nonostante il chiaro mandato ottenuto dal popolo greco in un referendum. Ma, il fatto di aver tradito il suo mandato non lo ha salvato dalla condanna delle istituzioni europee. Dovrebbe ricordarsi questo durante le elezioni presidenziali di aprile-maggio 2017, e non eleggere qualcuno la cui mano nel momento decisivo, potrebbe tremare.

martedì 20 dicembre 2016

Fisco e ricchezza In Italia più auto di lusso che redditi al top

La questione fiscale è apparsa e scomparsa rapidamente dalla lunga campagna referendaria che l’Italia si è appena messa alle spalle. È persino possibile che essa non abbia avuto alcun impatto sul gradimento del governo di Matteo Renzi. Probabilmente non ne ha avuto in negativo, quando in questi anni sono state alzate certe aliquote sui redditi da capitale. Ma curiosamente non sembra averne avuti neanche in positivo, dopo altre misure che invece avevano tutto per piacere a chi evade o ha problemi aperti con il Fisco: l’innalzamento da mille a tremila euro della soglia permessa per l’uso del contante, la sanatoria su penalità e interessi di mora per tasse e multe arretrate o la «rottamazione» di Equitalia.
Se davvero il governo Renzi ha provato a strizzare l’occhio agli evasori, la lezione di questi anni è che una strategia del genere non produce più consenso in automatico. Non nell’Italia del 2016, provata dalle crisi di debito e dalla povertà. Il governo di Paolo Gentiloni, se mai deciderà di tentare una propria politica fiscale, riparte da qui: l’evasione resta una patologia italiana, ma non è scontato che una maggioranza degli elettori oggi chieda che essa resti esattamente tale. Poiché l’iniquità nella distribuzione dei redditi è ormai determinante per gli assetti politici nelle economie avanzate, può essere utile cercare di capire per indizi dove si trova l’Italia oggi.
Non a buon punto. Grandi aree di diseguaglianza reale dei redditi nel Paese rimangono, perfettamente nascoste al Fisco. Lo suggerisce un semplice esperimento: il confronto fra il numero delle dichiarazioni d’imposta sulle persone fisiche (Irpef) superiore a 120 mila euro nel 2014 e la distribuzione di auto di lusso in Italia, grazie ai dati messi a disposizione dal Dipartimento delle finanze e dall’Automobile club Italia. Su base nazionale e delle singole regioni. Si tratta di un modello sviluppato da Elio Montanari, un ricercatore indipendente con una lunga esperienza di studi per i sindacati e nella valutazione d’impatto dei fondi europei. Ne emerge (nel grafico in pagina) il ritratto di un Paese nel quale i modelli di auto in circolazione dal costo di almeno 100 mila euro risultano di un terzo più numerosi dei redditi Irpef di fascia alta: sono 349.453 mila contro 269.093 dichiarazioni dei redditi elevate. In alcune regioni, specie nel Mezzogiorno e a Nordest, il surplus di modelli di lusso rispetto ai redditi di livello più alto è addirittura fuori da ogni scala spiegabile in un sistema dove prevale l’applicazione della legge.
Spicca la Calabria: presenta la quota più bassa d’Italia di dichiarazioni Irpef sopra i 120 mila euro (appena lo 0,17% del totale, contro l’1,1% in Lombardia), eppure il numero di Aston Martin, Audi di grossa taglia, Ferrari, Jaguar, Lamborghini, Porsche è addirittura triplo rispetto alle dichiarazioni più elevate.Queste ultime sono 2047, le «super-car» sono 6.095. Poco importa che anche un reddito Irpef da 120 mila o 150 mila euro molto spesso non basti per poter comprare e mantenere un’auto di quel tipo. In Basilicata, Puglia, Umbria, Abruzzo, Trentino Alto Adige la proporzione di «super-car» rispetto alle Irpef elevate è più che doppia; in Sicilia e Veneto, quasi doppia.
Solo in quattro regioni su venti — Lombardia, Lazio, Liguria e Piemonte — si contano più dichiarazioni Irpef da 120 mila euro o più che cosiddette «supercar». E proprio il fatto che fra queste si trovi la regione a più alta presenza di imprese, la Lombardia, fa pensare che le distorsioni non siano prodotte dalla diffusione di flotte aziendali di auto di lusso. Naturalmente un modello del genere ha dei limiti: in alcuni casi le auto di lusso sono genuinamente noleggiate dalle società, benché di solito siano meno grandi; e poiché questo modello misura i redditi Irpef, non cattura quelli di molti lavoratori autonomi e quelli da capitali. Allo stesso tempo, questo indicatore sicuramente sottostima il numero di auto di lusso: non include quelle immatricolate all’estero proprio per eludere, non tiene conto delle auto d’epoca e — spiega Montanari — non cattura tutti i modelli sopra i 100 mila euro di costo se in certe regioni alcuni sono poco diffusi.
In altri termini questa non è una diagnosi, ma solo uno screening sull’intensità dell’evasione diffusa fra gli italiani più benestanti e sulla reale diffusione della ricchezza in Italia. Segnala una realtà diversa da quella ufficiale. Lo ha capito bene la Guardia di Finanza, che da pochi mesi ha iniziato a usare i controlli stradali e gli autovelox con scopi innovativi: incrocia i dati per verificare se le auto sono assicurate o se alcune hanno targhe estere — Romania e Bulgaria molto diffuse — solo per restare sotto i radar del Fisco.

lunedì 19 dicembre 2016

Le risorse ci sono ma vanno alle Banche. La linea Renzi-Gentiloni

Una pioggia di miliardi sta per essere destinata a mettere una toppa alle falcidianti falle del sistema bancario italiano. Parola di Gentiloni, che l'ha dichiarata come priorità essenziale (e costituente?) del neo-esecutivo di impronta renziana.
Quindici miliardi di euro sono subito pronti a essere usati per comprare, in sostanza, ciò che il mercato non vuole, a partire dalle azioni, degli istituti bancari nell'occhio del ciclone.

Con ciò la strada dei rimborsi, almeno per i piccoli risparmiatori di Banca Etruria e Monte dei Paschi, appare sempre più un miraggio, come afferma il tesoro.
Per stabilizzare il sistema bancario italiano la Commissione Europea su pressione dell' ex esecutivo sta sbloccando in meno di pochi mesi qualcosa come 80 miliardi, sempre per coprire le garanzie sulla liquidità bancaria.
Una quantità ingente, che possiamo leggere da una parte come meccanismo di “solidarietà finanziaria”, e dall' altra è contingente alla ricetta economica a cui gli italiani non paiono essersi tanto ben abituati in fondo, quella dell' austerità.
Mentre però scuole in mezzo paese sono senza riscaldamento e le strutture sanitarie implodono, ritorna lecito chiedersi: la stabilità finanziaria in nome della quale si convogliano le risorse, a chi giova in ultimo termine?
Mentre la conversione delle obbligazioni e gli stessi passaggi strutturali di ricapitalizzazione di MPS appaiono come un dilemma, la linea del Governo si staglia chiara.
Un Governo che risulta quanto di più aderente, se non fotocopia spudorata di quello che ha visto il burattinaio (e bottegaio) fiorentino uscire, per usare una immagine che può rendere, dalla porta di emergenza di una nave rottamata con già pronto uno scivolo di conduzione a terraferma.
E' chiaro, e i giochi delle tre carte dei giorni scorsi lo dovrebbero palesare fortemente, che la figura di Renzi è stato medium e focus al tempo stesso del grosso mondo di interessi che tiene unito il suo partito ad altre cordate abbarbicate al potere. Ed è così che lo slancio r-innovativo del Matteo si scontra contro la sua stessa figura, complementare, dell'ultima mesata, non essendo riuscito ad ingraziarsi gran parte della popolazione nonostante lo strapotere comunicativo, sta alla penombra di un Governo che è nient'altro che il più alto ganglo corporativista del Paese.
Niente di eccepibile dunque se Gentiloni si prostra a uso e consumo del sistema bancario, e l' esortazione a fare “gli interessi dell' Italia” insulta e parla ai tanti NO emersi nella tornata referendaria del 4 Dicembre in questo Paese.
E nondimeno, a parte le timide allusioni piddine al ripensamento su un Jobs Act già attuato e persino rivendicato con la riconferma del fido Poletti, pare sfidare lui stesso i dissenzienti al sistema di governo a giocare una partita che si deve infiammare e sostanziare nelle piazze altrimenti resta imbottigliata dall' attesa prettamente passiva del gioco delle urne.

venerdì 16 dicembre 2016

Le tre grandi bugie sulla tragedia di Aleppo e della Siria

La tragedia di Aleppo e della Siria, non è figlia del cattivo Vladimir Putin, ma del mal orchestrato piano messo in piedi cinque anni fa dall'amministrazione Obama con la complicità di Inghilterra e Francia in Europa e di Turchia, Arabia Saudita e Qatar in Medio Oriente. Un piano che, al pari di quanto successo in Libia, rischiava di consegnare la Siria al caos e all'orrore jihadista. Un piano che da una parte ha generato l'Isis e dall'altra quei ribelli «moderati» che ad Aleppo si sono macchiati delle stesse atrocità di Jabat Al Nusra, la costola siriana di Al Qaida. Per capire veramente cosa succede in queste ore è necessario far piazza pulita di almeno tre grandi menzogne.
ALEPPO, UN ASSEDIO INIZIATO DAI RIBELLI
Da quando in Siria è scesa in campo la Russia di Putin la battaglia di Aleppo è diventata, per definizione, un assedio condotto dalle forze governative colpevoli di bombardare i ribelli e i civili arroccati nei quartieri orientali. La realtà è esattamente opposta. A iniziare e condurre l'assedio sono stati i ribelli scesi dal confine turco nell'estate del 2012. Da allora Aleppo non ha conosciuto pace. Per tre anni, fino all'intervento russo del settembre 2015, la maggioranza della popolazione fedele ad Assad - tra cui gli abitanti dei quartieri cristiani - sono sopravvissuti senza acqua ed elettricità subendo gli assalti e i bombardamenti, praticamente quotidiani, delle forze ribelli decise a trasformare la città nella capitale dei cosiddetti «territori liberati».
LE ATROCITÀ DEI «MODERATI»
In queste ore le milizie governative sono accusate di aver eliminato un'ottantina di militanti jihadisti catturati dopo la resa. Nelle zone di Aleppo controllate dai ribelli atrocità ed esecuzioni sommarie erano all'ordine del giorno da quattro lunghi anni, ma nessuno s'è mai indignato troppo. A dar retta al rapporto di «Amnesty International» «Torture was my punishment» («La tortura è stata la mia punizione») dello scorso giugno torture, esecuzioni sommarie, rapimenti e violazioni dei diritti umani erano la regola sia nelle zone di Aleppo, sia in quelle della provincia di Idlib, controllate dai ribelli. E tra i crimini più odiosi venivano segnalate le uccisioni di decine di sventurati accusati di apostasia o di omosessualità. Crimini giustificati con l'osservanza della legge coranica e perpetrati non solo dai gruppi di matrice terroristica come Jabhat Al Nusra, ma anche formazioni come il Fronte del Levante, la Divisione 16 o il movimento Nouradin Al Zenki, inserite dalla Cia negli elenchi dei gruppi autorizzati a ricevere armi e appoggi dall'amministrazione Obama.
CIVILI USATI COME SCUDI UMANI DAI RIBELLI
Mosca e Damasco vengono accusati di bloccare l'evacuazione dei civili intrappolati nei quartieri orientali. Secondo un comunicato della commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite di Ginevra datato 14 dicembre 2016 (cioè ieri) i primi a bloccare la fuga della popolazione sono i gruppi ribelli che da mesi utilizzano i civili come scudi umani. «La commissione continua a ricevere segnalazioni secondo cui alcuni gruppi dell'opposizione, tra cui il gruppo terroristico di Jabhat Fatah al-Sham (ex Jabhat al Nusra) e Ahrar al-Sham impediscono ai civili di fuggire mentre i combattenti dell'opposizione si mescolano alla popolazione aumentando il rischio che dei civili vengano feriti o uccisi». Un comunicato estremamente chiaro, ma stranamente tenuto nascosto all'opinione pubblica internazionale.

giovedì 15 dicembre 2016

L’Italia bombarda lo Yemen

Il 10 dicembre 2016, giungeva nel porto di Cagliari la nave portacontainer saudita Bahri Tabuk; doveva caricare 18 container con 3000 bombe prodotte dalla fabbrica RWM, di proprietà tedesca ma sita presso Domusnovas, in Sardegna. L’operazione di carico sulla Bahri Tabuk, avveniva sotto massima riservatezza, in presenza della Polizia. Le bombe erano destinate a ripianare gli esauriti depositi di munizioni aeree della Royal Saudi Air Force, l’aviazione dello Stato dei Saud che dalla primavera 2015 bombarda il confinante Stato dello Yemen.
Il deputato Mauro Pili, che ha indagato sul traffico di armi tra Sardegna e Arabia Saudita, afferma, “Il primo segnale che l’operazione fosse concreta è riscontrabile alle 5.48, quando l’alba è ancora alta sul porto canale di Cagliari. Nessuno deve sapere perché una nave battente bandiera dell’Arabia Saudita ha lanciato le cime sulla sponda principale del terminal sardo. Un blitz italo-saudita pianificato in ogni dettaglio. Pianificato e organizzato dallo Stato italiano con la copertura dei ministri della Difesa Pinotti e degli Esteri Gentiloni. Sono loro che hanno trattato con gli emiri e i reali dell’Arabia Saudita questo carico di morte, coprendo la Germania che produce in Italia ma condanna il regime saudita. Soldi in cambio di strumenti di morte. Quelle bombe hanno già provocato migliaia di morti, migliaia di bambini falciati da quel carico di morte. La ricca Germania sfrutta la povertà di un territorio, il Sulcis, per produrre armi micidiali e rivenderle ai ricchi dell’Arabia Saudita, che poi le scaricano sui poveri dello Yemen. Altre stragi, altre vittime innocenti. Con il via libera del governo italiano che avalla una strage in violazione a tutte le norme internazionali e alle stesse leggi italiane. Occorre un provvedimento per garantire la ricollocazione dei lavoratori impegnati in queste nefaste produzioni. Non bisogna perdere il lavoro, ma non bisogna nemmeno e soprattutto cancellare la vita di persone povere e inermi. Sarebbe facile fregarsene, in cambio di qualche voto! Ma la coscienza di ognuno deve prevalere sulla violenza di governi che producono armi e le spacciano in giro per il mondo. Poi non lamentiamoci quando l’immigrazione è un fenomeno incontrollabile”.cy1g_ifukaatrzmNel gennaio 2016, un altro carico di 1000 bombe Mk83, prodotte dalla RWM, a bordo di quattro TIR scortati da un’agenzia di sicurezza privata, raggiungeva il porto Isola Bianca di Olbia, per essere imbarcato su una nave cargo della Moby Lines, diretta a Piombino da dove il carico sarebbe stato inviato in un aeroporto e imbarcato su un aereo-cargo diretto in Arabia Saudita.cuvknv-wwaac1xkAnche il 18 novembre 2015, il deputato denunciava che nella notte del 18, dall’aeroporto di Cagliari-Elmas partiva un carico di bombe, caricato di notte, tra l’1.00 e le 5.30, su un aereo-cargo Boeing 747 dell’Arabia Saudita. In effetti, il 16 novembre Washington approvava la vendita al governo saudita 1,29 miliardi di dollari in munizioni e altro materiale militare. Pochi giorni dopo avveniva l’operazione d’imbarco di 2000 bombe Mk83 dalla Sardegna per l’Arabia Saudita. Una parte del carico decollava di notte dall’aeroporto di Cagliari-Elmas, imbarcato su aereo-cargo della compagnia azera SilkWay. L’aereo-cargo Boeing 747 della SilkWay giungeva nella base aerea saudita di Taif. Velivoli della SilkWay erano già apparsi nell’aeroporto cagliaritano due mesi prima, mentre il resto del carico salpava dai porti della Sardegna.
imageIl deputato Mauro Pili osservava “Tutto questo può avvenire impunemente solo con il via libera diretto del governo italiano che del resto, dopo la vergognosa vicenda dei Rolex regalati alla delegazione italiana in Arabia Saudita, stende un tappetto rosse a tutte le esigenze di guerra del regime saudita. Di questo fatto deve renderne conto il governo e l’Ente nazionale dell’aviazione civile che con una irresponsabilità senza precedenti ha autorizzato questo ennesimo carico e questo volo. E’ semplicemente scandaloso che dall’Italia siano partite nuove bombe destinate all’Arabia Saudita, il Paese che guida la coalizione la quale, senza alcun mandato internazionale, da 9 mesi bombarda lo Yemen causando migliaia di morti tra i civili. Secondo le organizzazioni umanitarie internazionali le tonnellate di bombe e munizionamento vengono utilizzate per sterminare ormai migliaia di bambini nello Yemen dove vengono distrutte scuole, ospedali e luoghi civili senza alcun rispetto… E’ semplicemente scandaloso che il governo Renzi in cambio di qualche Rolex avalli e copra questi crimini di guerra commessi in Yemen e, anzi, lo alimenta con trasferimenti irresponsabili di armi. Evidentemente valgono più quattro Rolex rispetto al martirio di migliaia di civili. Dall’Italia partono bombe e munizionamenti impiegati per alimentare un conflitto promosso da un Paese come l’Arabia Saudita che palesemente viola i diritti umani. I principi alla base della legge n. 185/90 che regolamenta l’esportazione italiana di armamenti vanno in tutt’altra direzione: è vietato fornire armi per conflitti non autorizzati dalla nazioni unite. Per questo motivo il governo italiano è complice di tutto quello che sta avvenendo in quell’area geografica e dei rischi che ne possono drammaticamente seguire”.

mercoledì 14 dicembre 2016

Due anni di Jobs Act

Il Jobs Act è una riforma del diritto del lavoro attuata dal governo Renzi. In particolare ci si riferisce alla Legge n.183 del 10 Dicembre 2014, una legge delega che permetteva al governo di riformare il mercato del lavoro allo scopo di incentivare e facilitare le assunzioni a tempo indeterminato, favorendo da un lato la flessibilità del lavoro per imprese e lavoratori, dall’altro la tutela per chi perde il lavoro. Il Jobs Act si articola in otto decreti legislativi approvati tra Marzo e Settembre del 2015. In sostanza questi renderebbero più facili le assunzioni a tempo indeterminato poiché permettono alle imprese di non pagare i contributi sui nuovi assunti con questa forma contrattuale per tre anni. D’altro canto renderebbero più facili i licenziamenti, dato che l’indennizzo per un licenziamento senza giusta causa corrisponde a due mensilità per ogni anno di anzianità (dunque decisamente basso per le imprese) e viene escluso il diritto al reintegro al posto di lavoro per il licenziamento causato da motivazioni economiche. Dal punto di vista degli ammortizzatori sociali il Jobs Act è stata la riforma che ha cercato di aumentare il numero delle persone a cui sono rivolti, riducendo però la consistenza e la durata dei sussidi. Ha regolamentato i vari ammortizzatori, eliminando la mobilità e introducendo la NASPI (Nuova Prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego), il DIS-COLL (Disoccupazione per i Collaboratori) e l’ASDI (Assegno di Disoccupazione).
Scopo primario del Jobs Act è dunque quello di aumentare l’occupazione in Italia, favorendo le imprese attraverso la decontribuzione e incentivandole a stipulare contratti a tempo indeterminato a discapito di quelli a termine. Questi quattro grafici mostrano rispettivamente l’andamento del tasso di occupazione, di disoccupazione, di disoccupazione giovanile e di inattività (elaborazione grafica personale, dati ISTAT). I dati sono espressi in percentuali e i periodi considerati sono i trimestri, dall’ultimo del 2014 al secondo del 2016. Analizzando questi grafici emerge subito che la situazione dal punto di vista occupazionale sia migliorata, in particolar modo da Marzo 2015 (quindi dal secondo trimestre del 2015) quando è entrato in vigore il contratto a tutele crescenti alla base del Jobs Act. Se l’occupazione da quella data è aumentata di più di un punto percentuale, la disoccupazione non è da meno mostrando un andamento decrescente, seppur con dei punti di stagnazione. Risultati ancora migliori si notano dalla diminuzione del tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni), che solo nel secondo trimestre del 2015 è calata di 3,2 punti percentuali, mostrando poi un andamento continuativamente decrescente. Ciò non è spiegabile, o comunque ammortizzabile in parte, da un incremento della popolazione inattiva, dato che il tasso di inattività mostra una progressiva, seppur lenta, discesa.
Flessibilità
Obiettivo del Jobs Act è trovare il giusto connubio tra flessibilità del lavoro e l’assunzione attraverso contratti a tempo indeterminato. Se si è appena visto che i dati sull’occupazione sono indiscutibilmente positivi, analizziamo ora altri dati che mostrano, nel dettaglio, le stipulazioni di contratti a tempo indeterminato e a termine (elaborazioni grafiche personali, dati INPS – Osservatorio sul precariato). Nel grafico successivo vengono mostrate le assunzioni medie mensili nei primi nove mesi degli ultimi tre anni, distinguendo assunzioni a tempo indeterminato e a termine.
Dal punto di vista delle assunzioni a tempo indeterminato, in ogni mese del 2015 sono state assunte più persone che nei rispettivi del 2014, mentre nei primi nove mesi del 2016 le assunzioni sono drasticamente calate rispetto agli stessi periodi dell’anno precedente, con numeri che sette mesi su nove sono inferiori anche a quelli del 2014. D’altra parte, le assunzioni a termine sono invece aumentate progressivamente, sia dal 2014 al 2015, che dal 2015 al 2016. Nella seguente tabella (dati INPS – Osservatorio sul precariato) viene mostrata la variazione netta dei contratti di lavoro a tempo indeterminato, ossia oltre alle nuove assunzioni si considerano le trasformazioni dei contratti a termine e dei contratti di apprendistato, più ovviamente le cessazioni.
Anche la variazione netta verifica il trend generale precedentemente descritto: ad una situazione decisamente migliorativa nel 2015 si nota un forte peggioramento nel 2016, non solo nei confronti dei dati del 2015, ma anche di quelli del 2014. In aggiunta a questi dati sulle tipologie di contratti, non va assolutamente dimenticato l’utilizzo dei voucher come mezzo di pagamento. Dalla tabella riportata qui sotto (dati INPS – Osservatorio sul precariato) si evince come il pagamento tramite voucher sia una pratica in continua crescita in ogni area dell’Italia, e il Jobs Act non ha assolutamente frenato la crescita di questo fenomeno, che anzi non ha accusato minimamente la riforma.
Produttività
Obiettivo primario del Jobs Act non era quello di incrementare la produttività delle imprese, ma questa riforma ha influito pesantemente su questo fattore, che nel 2015 è diminuito dello 0,3% (dati ISTAT), constatabile anche da un aumento del PIL ben più lieve dell’aumento dell’occupazione. Se un’interpretazione classica, più che altro marxista, potrebbe vedere nel calo della produttività la giustificazione a un aumento della produzione (ridurre il prodotto per lavoratore lasciando inalterata la quantità prodotta significherebbe assumere più lavoratori, a parità di fattori tecnologici), la spiegazione è decisamente più articolata, e meno positiva. Il calo della produttività è infatti perfettamente giustificabile dall’introduzione del contratto a tutele crescenti del Jobs Act. Se aumenta la flessibilità del lavoro, dunque la facilità con cui le imprese possono assumere-licenziare-riassumere, cala innanzitutto la formazione dei lavoratori, dato che saltando da un’impresa all’altra non riescono ad acquisire competenze specifiche e le imprese non sono incentivate a fargliele acquisire, dato che hanno più convenienza nell’assumerne un altro con le stesse, senza farne specializzare nessuno, o quasi. In secondo luogo le imprese sono disincentivate nel modernizzare e attualizzare i propri fattori produttivi, per lo stesso motivo precedentemente descritto. Se infatti il costo del lavoro è più basso e il mercato del lavoro è più flessibile, le imprese trovano più conveniente investire in forza lavoro, seppur con contratti spesso precari, piuttosto che in tecnologie. Questo risultato era del tutto prevedibile, in quanto mai è stato riscontrato il nesso tra flessibilità e produttività. Anzi, l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) ha dimostrato empiricamente come non vi sia un rapporto direttamente proporzionale tra l’indice di protezione del lavoro (Employment Protection Legislation) e tasso di disoccupazione. Ciò si capisce benissimo dal Grafico qui dotto (dati OCSE) che mostra quanto appena detto.
Conclusione
Volendo concludere brevemente quanto descritto nelle pagine precedenti con l’ausilio di dati e grafici, è innegabile che la riforma del lavoro passata sotto il nome di Jobs Act abbia avuto effetti positivi sull’occupazione, constatabili da un aumento del tasso di occupazione e da una diminuzione di quello di disoccupazione, sia generale che giovanile. Analizzando però più a fondo altri dati, emerge che ciò è stato possibile sostanzialmente grazie ad una diminuzione delle tutele per i lavoratori salariati e all’impiego di contratti instabili che hanno incrementato la precarietà: contratti a termine, di apprendistato e soprattutto il pagamento tramite voucher. Quindi affermando che per ottenere crescita si debba far ripartire la domanda interna, deve per forza di cose ripartire il consumo dei privati, e ciò non può accadere di certo con politiche che danneggino i redditi derivati da salario. Inoltre c’è da considerare che gli effetti positivi della riforma sono da associare alla decontribuzione, dunque dal pagamento dei contributi di una parte dei lavoratori da parte della spesa pubblica, per una certa percentuale di nuovi assunti a tempo indeterminato. Quando la decontribuzione finirà la situazione sarà ancor peggiore di quella odierna, dato che già nel 2016 gli effetti positivi del Jobs Act sono visibilmente spariti. Il tutto considerando che né la produttività né la domanda interna cresceranno con politiche di flessibilità del lavoro, e ciò è stato ampiamente dimostrato nel corso dei decenni. Infine va aggiunto che una politica economica che voglia perseguire seriamente gli obiettivi di aumento dell’occupazione e della produttività, quindi di crescita, non può precludere dalla messa in discussione delle politiche di rientro dal debito che hanno caratterizzato l’agenda economica dei governi Italiani negli ultimi anni.

martedì 13 dicembre 2016

Mps nazionalizzata. La crisi del liberismo a un punto di svolta

Il fatto che, senza alcuni scandalo dei benpensanti dell'economia e della politica, sia considerata ed accettata come quasi inevitabile la nazionalizzazione di MPS, la dice lunga sulla crisi delle politiche liberiste dopo dieci anni di crisi generale. Solo fino a poco tempo fa la parola stessa nazionalizzazione era tabù, guai a pronunciarla. Si era tacciati di nostalgia del comunismo o della democrazia cristiana, di apologia della corruzione. Il pubblico era il male, il privato era il bene ci spiegavano tutti i commentatori di palazzo, così vuole l'Europa aggiungevano. Oggi è proprio la Banca Centrale Europea a dire, nei fatti, al governo italiano: basta inseguire il mercato, nazionalizzate la banca.
Certo questa indicazione non nasce da un cambio di rotta politico da parte delle istituzioni europee, ma dalla paura. Tutto il sistema bancario del continente è a rischio, quello della Germania non meno di quello del nostro paese. Dunque se salta una grande banca, il timore dell'effetto domino è fortissimo. E una crisi bancaria che accompagnasse i vari pronunciamenti "populisti" degli elettori sarebbe ingestibile per il potere costituito. Quindi la nazionalizzazione di MPS alla fine è un male minore, e la burocrazia europea è la prima a suggerirla.
Così questo intervento pubblico dovrebbe solo permettere alla finanza internazionale di rifiatare e poi di riprendersi la banca risanata, nella più pura tradizione della socializzazione delle perdite e della privatizzazione dei profitti. Così la Banca Morgan, a cui Renzi dopo quello della Costituzione aveva anche affidato anche il futuro di MPS, deve ritirarsi. Due sconfitte in pochi giorni, una per opera del popolo, l'altra per via dello stesso mercato, che sulla banca senese non vuol mettere soldi.
Ora i cialtroni della globalizzazione cercheranno di ridimensionare il fatto ad una rara eccezione. Ma non ce la faranno. Il pubblico torna in campo semplicemente perché il privato non ce la fa, perché la crisi continua. Se nazionalizzano una banca allora che dire del resto dell'economia? I poteri di sempre non riusciranno a contenere l'utilizzo di questo strumento, l'intervento pubblico, ora che loro per primi lo rimettono in vigore. Non riusciranno a farlo con un popolo che al sessanta per cento ha appena detto che vuole quella Costituzione, che dell'intervento pubblico fa un suo pilastro. E neppure riusciranno, i poteri di sempre, a tenere ancora fuori dai conflitti sociali i vincoli europei. Se la BCE ci fa nazionalizzare una banca, perché dobbiamo ascoltarla ancora quando ci chiede di privatizzare la sanità? E se dobbiamo spendere soldi pubblici per impedire un collasso finanziario, perché non dobbiamo usarli per prevenirne altri? E magari anche per creare lavoro vero e non precario? E se lo stato rientra in campo nella gestione della economia, perché non deve avere tutti gli strumenti per poterlo fare? Cioè avere la piena sovranità sulla moneta, sul bilancio, su tutti gli strumenti della politica economica, cioè avere la piena indipendenza dei vincoli europei.
Non sappiamo se alla fine MPS finirà davvero in mano pubblica, o invece sarà regalato a qualche sceicco, ma il solo fatto che l'ipotesi principale sia la nazionalizzazione ci dice quanta acqua in poco tempo sia passata sotto i nostri ponti. Il voto del referendum ha mostrato come il popolo italiano cominci a non accettare più una condizione sempre più povera ed ingiusta. La crisi MPS a sua volta, mostra come le classi dirigenti non ce la facciano più a dare le risposte che finora hanno sempre dato. L'epoca del liberismo è giunta alla sua crisi, siamo entrati in un'altra storia, una storia che possiamo fare noi.

lunedì 12 dicembre 2016

PIAZZA FONTANA 12.12.1969

Il 12 dicembre 1969 una bomba nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana a Milano, uccide 16 persone. È l’attentato che segna l’inizio del terrorismo politico in Italia. Le indagini, orientate all’inizio sulla pista anarchica, portano all’arresto e all’incriminazione di Pietro Valpreda. Un altro anarchico, Giuseppe Pinelli, il 15 dicembre muore cadendo dal quarto piano della questura durante un interrogatorio. Passano più di due anni prima che prenda corpo l’ipotesi dell’eversione neofascista: Franco Freda e Giovanni Ventura vengono incriminati nell’agosto 1972. Le inchieste scoprono poi che settori deviati dei servizi segreti hanno aiutato e coperto alcuni dei principali imputati. Nel 2000 va a giudizio un altro estremista di destra: Delfo Zorzi. Sette i processi: a Roma, Milano, Catanzaro, di nuovo Catanzaro, Bari, Catanzaro, Milano. Nessun imputato però è stato condannato per l’eccidio: dopo una vicenda giudiziaria durata oltre 35 anni (l’ultima sentenza della Cassazione è del 3 maggio 2005) la strage di piazza Fontana resta impunita. Alla luce di nuove prove e testimonianze, nelle ultime due sentenze la responsabilità è attribuita a terroristi di destra guidati da Freda e Ventura. Che non sono più processabili perché assolti per questo reato con sentenza passata in giudicato.

mercoledì 7 dicembre 2016

Solo l’inizio

Erano sostenuti dalle oligarchie economiche al completo. Hanno diffuso una propaganda imponente e senza precedenti. Avevano il monopolio su tutte le trasmissioni televisive. Hanno potuto contare sul supporto della maggior parte della stampa. Hanno usato innumerevoli artifici (come scrivere il quesito referendario in modo non imparziale). Avevano uno stuolo di giornalisti, intellettuali, artisti, personaggi dello spettacolo. Hanno avuto persino il sostegno degli Stati Uniti d’America. Avevano, insomma, denaro, mezzi e potere senza limitazioni. Hanno adoperato ogni strumento, metodo, tattica possibili. Hanno perso. Quasi il 60% di italiani ha cancellato una riforma che avrebbe stravolto l’attuale Costituzione e indebolito l’ordinamento parlamentare per rendere le direttive delle élite finanziarie più semplici, di quanto già non fossero, da ratificare. Nonostante molti pensavano, alla vigilia, a un possibile “testa a testa”, e a un recupero del “sì”, i contrari a questa riforma hanno prevalso nettamente, al punto da spingere Renzi ad annunciare le dimissioni anticipate da Presidente del Consiglio. Le previsioni dei media sono state ancora una volta, come ormai da qualche tempo succede, sconfessate.
Si è registrata un’affluenza relativamente elevata (intorno al 68%) come non accadeva da tempo in Italia, considerando anche il periodo storico di generale distacco dalla politica. Gli italiani, anche quelli che prima non votavano, si sono recati in massa ai seggi per respingere la riforma firmata da Renzi e scritta dalla JP Morgan. Se si eccettuano Trentino, Emilia e Toscana, il “no” ha prevalso ovunque al centro-nord, mentre ha stravinto nelle regioni del centro-sud. Al di là delle possibili conseguenze di questo voto – se ci saranno elezioni nell’immediato o un governo di transizione – un fatto emerge chiaramente: per la terza volta in Occidente gli elettori hanno espresso una preferenza contraria a quella dei poteri economici e delle oligarchie. Essi, come già accaduto col voto “sovranista” in Gran Bretagna e con le presidenziali negli Stati Uniti, per la terza volta si sono contrapposti al “fuoco incrociato” dei grandi media e a un’impressionante macchina di propaganda. Per la terza volta il ceto intellettuale, oltre che schierarsi a favore delle oligarchie e contro i ceti popolari, non ha compreso le reali dimensioni del fenomeno che aveva di fronte.
Non avveniva da due decenni un fallimento così clamoroso e così ripetuto della strategia comunicativa delle élite e dei poteri finanziari, abituati ormai a servirsi dei vari governi “democratici” come “comitati d’affari”, per usare la locuzione marxiana, senza trovare un’opposizione efficace che glielo potesse impedire. Certo, non bisogna esagerare gli effetti del voto; il governo che verrà non sarà probabilmente migliore di quello appena terminato; continuiamo, per ora, a vivere nell’epoca del neoliberismo, della globalizzazione, dei mercati ubiqui, della politica detronizzata e ridotta a farsa e dell’incapacità di formulare un progetto di società differente. Ma c’è un’altra aria, una tendenza diversa e inedita, una tensione accumulata in tutti questi anni di riformismo oligarchico che non può più essere scaricata attraverso i canali tradizionali, dirottata nella guerra tra poveri o scongiurata attraverso il finto realismo del TINA (“non c’è alternativa”) variamente coniugato, da Thatcher a Renzi; o, perlomeno, non del tutto. La cosmesi pubblicitaria, quella che garantiva vittorie schiaccianti e che faceva gridare alcuni alla “fine della storia”, improvvisamente sembra aver smesso di funzionare.
.

martedì 6 dicembre 2016

Il paese scoppia? Ora se ne ‘accorgono’ anche Tv e giornali

Con un’affluenza massiccia e una percentuale schiacciante di “No”, «l’elettorato ha svelato l’esistenza nel nostro paese di un popolo della rivolta», quello che i media mainstream hanno accuratamente evitato di rappresentare. Un “popolo” che «ha bocciato la riforma della Costituzione, il presidente del Consiglio e l’establishment di governo». A votare contro Renzi, scrive Maurizio Molinari sulla “Stampa”, «sono state le famiglie del ceto medio disagiato, impoverito dalla crisi economica, senza speranze di prosperità e benessere per figli e nipoti», ma anche «i giovani senza lavoro, gli operai che si sentono minacciati dai migranti e gli stipendiati a cui le entrate non bastano più». È un “popolo della rivolta”, espressione dello stesso disagio che in Gran Bretagna ha prodotto la Brexit e negli Usa ha incoronato Trump. Caduta l’illusione-Renzi, ora bisogna «dare in fretta risposte chiare alle crisi all’origine della protesta del ceto medio», massacrato dal rigore imposto da Bruxelles e inasprito a partire dal governo Monti, che i giornali – compreso la “Stampa” – solo pochi anni fa accolsero come il salvatore del paese.
Contrordine, a quanto pare: anziché i tagli senza anestesia della riforma Fornero «serve un nuovo welfare per le famiglie in difficoltà», scrive oggi il direttore del quotidiano torinese, di fronte alla catastrofe dell’evidenza. Lo stesso Molinari utilizza Napolitanoancora il lessico renziano, dice che bisogna «far ripartire» l’Italia. Già, ma come? «Non basta un nuovo governo», concede il direttore della “Stampa”: «Bisogna rispettare il popolo della rivolta e rispondere alle sue istanze». Sulle stesse pagine, un osservatore come Mattia Feltri ammette che «ha vinto la gente, il mare di gente che non si fida più». Si tratta di gente «molto ben disposta verso l’inverosimile e diffidente verso il verosimile», secondo Feltri, «per intima ed esasperante convinzione che là fuori c’è qualcuno che lavora alla sua infelicità, perché manca il lavoro, perché si indeboliscono le garanzie, per invidia sociale, perché l’investimento in banca è andato storto, perché ci sono i poteri forti, perché c’è l’Europa, perché c’è una classe dirigente che in quanto tale campa sulla pelle delle periferie, fisiche o esistenziali». Comune denominatore, il «rifiuto feroce dell’establishment farabutto, una condizione che non riguarda soltanto l’Italia, come raccontano di recente la Brexit e Donald Trump».
Eppure non è piovuto dal nulla, lo tsunami, anche se i giornalisti oggi se ne meravigliano. Non una recensione, sui media mainstream, dell’esemplare saggio “Il più grande crimine”, in cui Paolo Barnard – giornalista maiuscolo – ricostruisce la genesi dell’inevitabile disastro euro-Ue. Silenzio anche su voci “eretiche” ma terribilmente profetiche come quelle dell’economista Nino Galloni, secondo cui, semplicemente, il sistema-euro equivale in modo matematico al declino italiano. Non un articolo, sui grandi giornali, neppure sul libro “Massoni” di Gioele Magaldi, dove alcune eminenze grigie della super-massoneria internazionale definiscono gli italiani «bambinoni deficienti», capace di accogliere col tappeto rosso «i tre commissari che gli abbiamo inviato, nell’ordine: Monti, Letta, Renzi». Fuori dal coro dei “chi l’avrebbe mai detto?”, si segnala “Il Giornale”, che indica in Giorgio Napolitano l’altro grande sconfitto del 4 dicembre: l’ex capo dello Stato, scrive Gian Maria De Francesco, «s’era abituato a trattare Palazzo Chigi come una propria dépendance, insediandovi l’uomo che ha Scalfarimesso in ginocchio il paese a suon di tasse, condannandolo a una recessione dalla quale ancor oggi fatica a tirarsi fuori nonostante la spesa in deficit di Renzi sotto forma di mance e mancette varie».
Per denigrare i 5 Stelle, alla vigilia del voto Napolitano s’era spinto oltre le colonne d’Ercole: «Non esiste politica senza professionalità come non esiste mondo senza élite», aveva detto. «Alla faccia della democrazia e della Costituzione», chiosa De Francesco. Ci si era messo anche l’anziano Eugenio Scalfari: prima della democrazia c’è l’oligarchia, perché il popolo non sa governarsi da solo. Parole nelle quali risuona l’eco della “sinarchia”, la forma di governo evocata a fine ‘800 dall’influente esoterista francese Alexandre Saint-Yves d’Alveydre, come ricorda Gianfranco Carpeoro nel suo saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. Il potere quasi religioso dell’oligarchia “illuminata”: ieri, contro la marea montante del socialismo e dell’anarchismo. Oggi invece la rivolta (solo elettorale) corre via smartphone. Il “popolo” è esasperato? Se ne sono accorti persino loro, i giornalisti. Ben attenti, comunque – ancora – a non dare la parola a chi questa crisi l’aveva annunciata, con anni di anticipo, spiegandone le ragioni nei minimi dettagli. Un argomento su tutti: senza più sovranità, un paese crolla. Senza la disponibilità di una moneta pubblica crollano il bilancio, l’economia, l’occupazione. A crescere sono solo le tasse e il debito. Ma non è una notizia, è una legge (dell’economia). A proposito di leggi, l’Italia invece ha inserito nella propria Costituzione – così enfaticamente difesa il 4 dicembre – il pareggio di bilancio, cioè la morte clinica dello Stato come soggetto garante del benessere della comunità nazionale.

lunedì 5 dicembre 2016

GEREXIT? Quasi la metà dei tedeschi vuole un referendum sull'UE

Quasi la metà dei tedeschi vuole tenere un referendum sull'adeisone della Germania all'UE, ha rilevato un sondaggio che suggerisce quasi due terzi dei tedeschi è infelice e vuole cambiare il fatiscente blocco di Bruxelles.
Un sondaggio effettuato da TNS Infratest Politikforschung per conto della Fondazione Körber ha rilevato che il 42 per cento dei tedeschi crede ci dovrebbe essere un referendum sull'adesione all'UE e che il 62 per cento dei tedeschi pensa che l'UE sita "andando nella direzione sbagliata".
La stessa indagine ha rilevato che il 67 per cento vuole che il superstato burocratico modifichi la sua direzione politica e solo il 39 per cento dei tedeschi crede che l'adesione all'UE sia positiva.
Circa il 96 per cento dei tedeschi vuole che il blocco di Bruxelles diventi "più trasparente e più vicino alla gente".
Quasi la metà di tutti gli intervistati ritiene che la crisi dei rifugiati sia il più grande problema del paese e una soluzione può essere trovata solo con la collaborazione degli altri 27 Stati membri.
La crisi dei migranti, che ha afflitto l'UE negli ultimi mesi, ha portato il 70 per cento degli intervistati a dire che l'Unione europea dovrebbe proteggere i suoi confini esterni, con il 21 per cento che vuole che siano completamente chiusi.
Circa il 60 per cento degli intervistati ritiene inoltre che la Germania dovrebbe rafforzare il suo ruolo all'interno dell'Unione europea e promuovere i propri interessi all'interno del blocco, anche se in contraddizione con il punto di vista di altri membri.

venerdì 2 dicembre 2016

Riforma Madia, le prime lacrime di Renzi

Mentre tutta Europa aspetta il referendum del 4 dicembre e mezza Italia s’interroga sul verdetto della Corte Costituzionale in merito all’Italicum, la Consulta spiazza tutti e boccia la riforma della pubblica amministrazione. Una sberla inattesa per il governo, che pochi giorni prima aveva varato cinque decreti attuativi proprio della legge Madia. Provvedimenti che ora andranno riscritti, visto che i giudici costituzionali hanno ritenuto illegittima la legge delega che sta a monte.
In particolare, la riforma della PA contraddice la Carta nel punto in cui stabilisce che per gli atti di riordino del settore pubblico (compresi i licenziamenti) il Governo non è tenuto a trovare un’intesa con la Conferenza Stato-Regioni: basta che ne ascolti il parere. Un’impostazione contro cui si è scagliato il Veneto, che ha fatto ricorso perché non accettava di non poter più nominare i direttori generali delle aziende ospedaliere regionali, i quali dopo la riforma sarebbero stati imposti da una commissione di nomina governativa.
La reazione del premier Matteo Renzi è sembrata mossa da furia impulsiva: “Noi avevamo fatto un decreto per rendere licenziabile il dirigente che non si comporta bene - ha detto - e la Consulta ha detto che siccome non c’è intesa con le Regioni, avevamo chiesto un parere, la norma è illegittima. E poi mi dicono che non devo cambiare le regole del Titolo V. Siamo circondati da una burocrazia opprimente”.
Al di là della solita arroganza, non è chiaro se stavolta Renzi sia arrivato a insultare addirittura la Corte Costituzionale, a cui logicamente dovrebbe essere riferito quel poco onorevole epiteto di “burocrazia opprimente”. Sono parole di un leader sull’orlo di una crisi di nervi, ma stavolta è comprensibile. Il Premier sa benissimo che questo pronunciamento della Consulta avrà un peso sull’esito del referendum della prossima settimana.
In effetti, a qualsiasi elettore può sorgere un dubbio assai banale, ma non per questo sbagliato. Ovvero: perché mai dovremmo consentire a questo governo di riformare 47 articoli della Costituzione, visto che non è stato in grado nemmeno di riformare la PA senza violare la Carta? La risposta è altrettanto banale, ma non per questo meno giusta: non dovremmo.
E non dovremmo soprattutto perché lo stesso destino della riforma Madia ci dimostra quale sia la reale concezione del potere ai tempi del renzismo. Per l’attuale Premier la parola “concertazione” è una bestemmia, a qualsiasi livello, mentre la “sussidiarietà” di cui parlavano i padri costituenti si è una parola uscita da vocabolario. Il bullismo istituzionale del Presidente del Consiglio si fonda su un presupposto semplice: l’efficienza è inversamente proporzionale al numero di persone che esercitano il potere. In altri termini, l’obiettivo principale di Renzi è il rafforzamento dell’esecutivo a danno degli altri poteri e delle altre istituzioni.
Di qui il Governo che decide senza ascoltare le Regioni, la Camera che legifera senza bisogno del Senato, il partito vincitore delle elezioni che incassa il 54% dei seggi anche se rappresenta il 30% (o meno) degli elettori, il capo del partito che stabilisce le liste elettorali determinando chi sarà eletto deputato. Fa tutto parte dello stesso pacchetto, che s’inserisce nella logica post-berlusconiana dello Stato come azienda e del governo come Consiglio d’amministrazione. Un’ottica in cui gli statali vengono licenziati come fossero stati assunti tramite colloquio in una struttura privata anziché al termine di un concorso pubblico.
Vogliono convincerci che questo modo di pensare sia la sola medicina possibile, l’unica via per ammodernare il Paese e farlo ripartire. La Corte Costituzionale ha detto di no e c’è da sperare che il 4 dicembre l’Italia faccia altrettanto.

giovedì 1 dicembre 2016

Referendum 4 dicembre, caos totale tra irregolarità sul voto dall'estero e pressione sulle banche

Non se ne parla più molto, ma il voto estero, oggetto di una particolare "attenzione" da parte del governo, continua ad essere monitorato dal Comitato per il No, in considerazione del rilevante fenomeno di falsificazione delle schede emerso in modo preoccupante negli anni passati (si ricordano, ad esempio, le decine di migliaia di schede false pervenute nelle elezioni politiche del 2008).
Per questo, il Comitato per il No ha scritto al ministero degli Esteri chiedendo il massimo controllo sulle schede in arrivo onde accertarsi che siano autentiche. Il Comitato si riserva di agire attraverso i rappresentanti di lista nel controllo accurato delle schede, ma chiede in modo esplicito l'impegno dei Consolati anche fornendo, entro venerdì prossimo, i dati sul numero di schede stampate, di quelle inviate, di quelle smarrite, di quelle tornate al mittente eccetera. Il Comitato chiede anche, tra l'altro, per ogni consolato una certificazione di avvenuta distruzione di tutte le schede non utilizzate o ritornate al mittente.
Ma il fatto più grave contestato (e documentato) nella lettera al ministro Gentiloni rimane quello di elettori (Flavio Briatore, Laura Serra, Mauro Prini) che hanno fotografato e postato su internet la propria scheda, un comportamento che fa venir meno la segretezza del voto e può configurare il reato di voto di scambio. Per questo, il Comitato chiede al ministero degli Esteri di dare disposizioni affinché questi voti siano annullati, non fosse che per un fatto simbolico che sconsigli simili comportamenti in futuro e di segnalare tutti i casi simili alle competenti autorità; o almeno si chiede che i consolati segnalino i plichi interessati in modo che all'apertura dei seggi a Castelnuovo di Porto si possa procedere alla sottrazione del voto contestato.
Il Comitato, comunque, si riserva di portare all'attenzione della magistratura tutti i casi di irregolarità e in particolare di violazione della segretezza del voto, che, se si diffondesse in futuro, sarebbe causa di gravi violazioni delle regole nell'esercizio della democrazia.
Per quanto riguarda le lettere agli italiani all'estero, di cui parla oggi il Fatto quotidiano, Renzi ha buon gioco nel dire che l'ha mandate il Pd e il Comitato per il Sì, "e non il Governo". Insomma, un teatrino. Anche perché come qualcuno ricorderà gli indirizzi non erano disponibili. Chi gliel'ha dati a "questi signori"?
Ma c'è all'ordine del giorno anche il capitolo, meno formale dal punto di vista delle regole ma ugualmente importante dal punto di vista politico generale, e del peso specifico che può avere nell'orientamento degli elettori, della campagna di stampa sul nesso, assolutamente inesistente tra esito del voto e presunto fallimento delle banche.
"Vale forse la pena ricordare anzitutto - spiega il vice-presidente del Comitato per il No, Alfiero Grandi - che la direttiva europea sul bail in (salvataggi delle banche) è stata recepita dal parlamento a tempo di record in appena 13 giorni e a bicameralismo paritario vigente. Coloro che hanno approvato questa normativa si sono chiesti se era attuabile in Italia? La Germania ha preteso e ottenuto di tenere le Casse locali, una forza nell'economia del paese, sostanzialmente fuori dalle regole europee; l'Italia invece ha approvato senza fiatare e senza riflettere adeguatamente sulle proprie diversità".
"Il Governo se n'è accorto? - continua Grandi - Francamente non sembra visto che ad ogni piè sospinto continua a dire che ogni intervento è bloccato dalle norme europee, il che non è neppure vero perché un intervento pubblico di salvataggio non è affatto vietato, deve solo avvenire con regole concordate. E certo è difficile che possa farlo un Presidente del Consiglio che ha consigliato a più riprese di acquistare bond bancari che sono regolarmente precipitati in borsa».
"Il governo - aggiunge Grandi - ha sbagliato gravemente sia con la legge di trasformazione delle popolari in Spa, facendo un regalo a chi brama di conquistarne il controllo, sia con le modalità del commissariamento delle 4 banche in difficoltà (Banca Etruria in testa): fissando per legge il livello delle percentuali di sofferenza ha creato un potenziale affare per finanziarie speculative, come Algebris, e un effetto domino su altre banche che hanno sofferenze nel campo dell'esigibilità. Il governo quindi ha agito come un dilettante allo sbaraglio, ha messo sull'avviso la speculazione sulle banche e rinviando tutto a dopo il referendum ha creato ad arte l'impressione che dal suo esito dipenda il futuro delle banche, il che è una vera balla".
Il ragionamento non sembra così peregrino. E non lo è se appena appena si osserva che c'è un "attore economico" fortemente interessato al fatto che quantità considerevoli di capitali si spostino nella sua direzione togliendosi dai titoli italiani di banche e Governo. E questok attore economico si chiama Germania.

mercoledì 30 novembre 2016

Appello dei Giuristi Democratici per il NO al Referendum costituzionale

«In gioco non c'é un maggior efficientismo dello Stato, né la battaglia politica tra centrosinistra renziano e centrodestra, ma l’assetto istituzionale della nostra Repubblica e il rispetto di quella corretta ripartizione dei poteri dello Stato che hanno consentito sino ad ora lo svolgimento di una civile convivenza, pur tra posizioni politiche ed ideologiche divergenti». Rifondazione,online 28 novembre 2016 (c.m.c.)
La Costituzione italiana è legge sovraordinata alla legge ordinaria.
La Costituzione è destinata a regolare i rapporti di civile convivenza tra i cittadini e per tale ragione è destinata a durare nel tempo.
La Costituzione contiene norme di carattere generale, cioè riferentisi ad ogni tipo di cittadini, di carattere astratto, cioè a prescindere dalle singole situazioni.
La Costituzione deve essere comprensibile per tutti i cittadini e pertanto deve essere scritta in maniera chiara e sintetica.
La Costituzione italiana è costituzione rigida quanto ai suoi principi, ma non immutabile; può essere modificata nel tempo, ma sempre al fine di realizzare e rispettare i principi fondamentali stabiliti nella prima parte della Costituzione stessa.
La Costituzione può essere modificata nei modi e nei termini previsti dall’art. 138 e le modifiche devono ricercare la più ampia convergenza di opinioni tra le forze politiche.
La Costituzione non si modifica a colpi di maggioranza. La riforma della Costituzione dovrebbe fiorire da un dibattito collettivo, ad impulso esclusivo del Parlamento, senza intromissione alcuna del Governo.
Queste sono le caratteristiche di una Costituzione e questi sono i criteri per modificarla.
Ed invece:
La nuova formulazione della Costituzione è stata approvata alla Camera dalla sola maggioranza, con 360 voti su 630 deputati: alla Costituente il testo fu approvato da 458 parlamentari con soli 62 voti contrari.
Il linguaggio usato è prolisso, controverso, ai limiti della incomprensibilità.
Non è vero che sia stato soppresso il bicameralismo perfetto; semplicemente, esso è stato trasformato in un bicameralismo confuso, perché la permanenza del Senato e i nuovi percorsi di formazione delle leggi, nonostante le minori competenze dello stesso Senato, renderanno confuso e ugualmente complesso il percorso di approvazione di una legge, con il rischio di una moltiplicazione dei ricorsi alla Corte Costituzionale per conflitti tra le due Camere.
Non è vero che il bicameralismo perfetto abbia prodotto tempi di approvazione delle leggi superiori alla media dei paesi democratici europei, così come non è vero che sia così diffuso il fenomeno della cosiddetta “navetta” delle leggi tra le due Camere, fenomeno che, in realtà, risulta limitato al 3% delle leggi varate.
La scelta di non far eleggere i senatori dai cittadini incrina il concetto di rappresentatività dei cittadini stessi, sostituendolo con una nomina di natura politica, che nasce all’interno dei gruppi dei Consigli regionali.
La nuova norma costituzionale rischia di escludere la rappresentanza delle Regioni a Statuto Speciale che prevedono l’incompatibilità tra il ruolo di consigliere regionale e quello di senatore, obbligando, pertanto, l’eletto in Senato a rassegnare le sue dimissioni dal Consiglio Regionale e restando, così, privo di qualsiasi compenso per la sua attività.
Non è vero che le modifiche alla seconda parte della Costituzione, relativa all’organizzazione della Repubblica, non abbiano incidenza sulla prima parte, che stabilisce i principi fondanti dello Stato e della convivenza civile.
La nuova Costituzione introduce una progressiva sopravalutazione del potere esecutivo nei confronti di quello legislativo, istituendo una sorta di democrazia esecutiva.
La nuova Costituzione istituisce un ridimensionamento del ruolo della Camera anche in tema di ordine dei lavori, consentendo al Governo di imporre alla Camera di esaminare le leggi ritenute essenziali per il programma governativo entro 70 giorni: è un’umiliazione del ruolo del Parlamento mai visto dall’epoca fascista.
Non è vero che non esista uno stretto rapporto tra riforma costituzionale e legge elettorale: l’Italicum garantisce al partito vincitore delle elezioni al ballottaggio, magari anche solo con una percentuale del 25%, l’attribuzione del 55% dei seggi della Camera con la riduzione delle opposizioni ad un ruolo di mera, impotente tribuna: si pensi solo alla dichiarazione dello stato di guerra, deliberato dalla maggioranza, precostituita ed immodificabile, della sola Camera. Stante, dunque, la rilevanza della legge elettorale ai fini della valutazione dell’impatto della riforma costituzionale sugli assetti istituzionali, sarebbe stato assai utile che la Corte Costituzionale si pronunciasse sulla legittimità o meno di quella legge; incomprensibile appare il rinvio a data da destinarsi di quel giudizio.
La volontà della maggioranza di ridurre il ruolo delle opposizioni è emblematicamente rappresentato dall’introduzione all’art. 64 di uno Statuto delle Opposizioni, il cui regolamento sarà deciso dalla maggioranza, in salda mano del partito vincitore delle elezioni, della Camera.
Il quesito referendario appare formulato in maniera manipolatoria e tale, dunque, dall’invitare i cittadini all’approvazione della legge; in particolare, il riferimento alla riduzione dei costi della politica non rientra direttamente tra le modifiche costituzionali, ma ne potrebbe essere esclusivamente una indiretta conseguenza.
Queste sono solo alcune delle criticità della riforma costituzionale; in alcuni casi si tratta di questioni molto tecniche sulle quali, ovviamente, il cittadino medio non è in grado di esprimere un’opinione fondata su un’effettiva conoscenza del problema; fondamentale, comunque, è cercare di fare un’operazione quanto più completa possibile di informazione, ma ciò che soprattutto deve essere chiaro è che i cittadini devono essere ben consci dell’importanza della loro scelta ed ergersi a difensori di quel ruolo di unione del popolo italiano che la Carta Costituzionale ha pienamente rappresentato in questi 70 anni.
OCCORRE, DUNQUE, VOTARE NO NEL REFERENDUM DEL 4 DICEMBRE.
Come giuristi, da sempre impegnati nella difesa dei diritti dei cittadini, in particolare di quelli meno tutelati, sentiamo il dovere di dare il nostro contributo di informazione ai cittadini, nella convinzione profonda che in gioco non ci sia né un maggior efficientismo dello Stato, né la battaglia politica tra centrosinistra renziano e centrodestra, ma l’assetto istituzionale della nostra Repubblica e, dunque, in definitiva, il rispetto di quella corretta ripartizione dei poteri dello Stato che hanno consentito lo svolgimento di una civile convivenza, pur tra posizioni politiche ed ideologiche divergenti

martedì 29 novembre 2016

Referendum, la campagna del no punta su JP Morgan: loro hanno chiesto la riforma, ecco come

Mentre Matteo Renzi punta quasi tutta la sua campagna per il sì al referendum costituzionale sul messaggio dei tagli ai costi della politica e mentre si prepara a indire la consultazione in due giorni (oggi in consiglio dei ministri), anche i vari comitati per il no affilano le armi e scelgono il loro cavallo di battaglia. Un nome: J. P. Morgan, la società finanziaria ritenuta responsabile della crisi dei mutui subprime del 2008, secondo l’inchiesta della procura di New York. Ebbene i costituzionalisti del comitato No Triv, parte attiva anche nella campagna per il no al referendum di ottobre, hanno ripreso un documento di J. P. Morgan del giugno 2013 sull’area Euro (‘The Euro area adjustment: about halfway there’). E concludono: “Sono loro che chiedono le riforme, le stesse istituzioni finanziarie che hanno provocato la crisi del 2008. Non le chiedono gli italiani. E non è vero ciò che dice Renzi e cioè che ‘le facciamo per noi, non perché ce le chiede Berlino o Bruxelles…’”.
Il documento di J. P. Morgan in parte riprende le argomentazioni della lettera della Bce al governo Berlusconi nell’estate del 2011, sostiene la necessità di una unione bancaria e anche l’opportunità di creare ‘Eurobond’ per la zona euro. Pur ammettendo che: “Secondo noi, è improbabile che la Germania accetti gli eurobond senza cambi significativi nelle costituzioni politiche nei paesi periferici”. Una discussione molto attuale se si pensa al ‘migration compact’, la proposta italiana sull’immigrazione che prevede eurobond per l’Africa.
Ma il passaggio sul quale i referendari per il no si soffermano è il seguente:
“I sistemi politici nelle periferie sono nati dopo le dittature e sono stati definiti con l’esperienza delle dittature. Le Costituzioni mostrano una forte influenza socialista, che riflette la forza politica che i partiti di sinistra hanno guadagnato con la sconfitta del fascismo. I sistemi politici nelle periferie mostrano parecchie delle seguenti caratteristiche: esecutivi deboli; stato centrale debole nei rapporti con le regioni; protezione costituzionale dei diritti dei lavoratori; sistemi di consensi basati sul clientelismo; e contemplano il diritto alla protesta contro i cambiamenti allo status quo politico. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche. I Paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali, e abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle Costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)”.
Quindi la conclusione:
“Quando la crisi è iniziata era diffusa l’idea che questi limiti intrinseci avessero natura prettamente economica (…) Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei paesi del sud, e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea”.
Dimostrare che sono le istituzioni finanziarie colpevoli della crisi di sei anni fa, ancora tutt’altro che risolta, sarà il cavallo di battaglia dei vari fronti per il no al referendum di ottobre, tanti e diversi ma con un unico obiettivo in questa battaglia contro Renzi.

lunedì 28 novembre 2016

Caccia alle streghe on-line: delirio neomaccartista, Internet e CIA

La disperazione dei media ufficialisti alle prese con le cinque fasi del dolore, continua a prosperare quanto meno alla base del quarto potere, mentre il Washington Post spaccia la sua storia su “notizie false, colpa dei russi”, quale causa della miserabile fine della candidata prediletta. Citando “due gruppi di ricercatori indipendenti” (sicuramente dal notevole contenzioso per querela per diffamazione) che avrebbero trovato “sempre più sofisticata propaganda della Russia… riecheggiata ed amplificata dai siti di destra su internet, avendo ritratto Clinton come una criminale“, il sito di proprietà di Jeff Bezos indica i siti web Drudge, Zerohedge, The Ron Paul Istitute ed innumerevoli altri siti tra gli “utili idioti” su cui i veri patrioti americani dovrebbero essere cauti. “Il modo in cui tale apparato di propaganda ha supportato Trump ammonta a un’enorme acquisto di media”, secondo un direttore esecutivo della PropOrNot, parlando sotto anonimato con il Post. “E’ stato come se la Russia avviasse un super comitato per la campagna elettorale di Trump“. Dopo le elezioni, notizie false e loro diffusione sui social media sono finite sotto i riflettori, e per i nostri ultimi pensieri su ciò si consulti il nostro “grazie” della notte scorsa. Il presidente Obama ha denunciato l’attenzione raccolta dalle informazioni false, la settimana scorsa, dicendo: “Se non siamo seri sui fatti, su ciò che è vero e ciò che non lo è… se non possiamo discriminare tra argomenti seri e propaganda, avremo problemi”.
E come The Hill riferisce, una sofisticata propaganda russa ha contribuito ad alimentare la diffusione di notizie false durante il ciclo elettorale. Secondo il Washington Post, “Due gruppi di ricercatori indipendenti hanno scoperto che la Russia ha impiegato migliaia di botnet, “troll”, siti web e account sui social media per diffondere falsi contenuti sul discorso politico on-line e amplificare i messaggi dei siti di destra. Vogliono erodere essenzialmente la fiducia nel o gli interessi del governo degli USA”, ha detto Clint Watts, un ricercatore del Foreign Policy Research Institute, co-autore di un rapporto sulla propaganda russa. “Questa era la loro modalità standard durante la guerra fredda. Il problema è che era difficile prima dei social media”. Il Washington Post afferma, senza ironia, che ora ci sono studi scientifici che dimostrano come i russi hanno influenzato l’elezione del 2016… L’alluvione di “notizie false” in questa stagione elettorale ha avuto il supporto della sofisticata propaganda russa che ha creato e diffuso online articoli fuorvianti con l’obiettivo di punire la democratica Hillary Clinton, aiutando il repubblicano Donald Trump e minando la fede nella democrazia statunitense, dicono i ricercatori indipendenti che monitoravano l’operazione. La sempre più sofisticata macchina della propaganda della Russia, tra cui migliaia di botnet, squadre di “troll” e reti di siti web e account sui social-media, riecheggiati ed amplificati dai siti di destra su Internet, ritraeva Clinton come una criminale dai potenzialmente fatali problemi di salute che si preparava a consegnare la nazione a una cricca di oscuri finanzieri globali. Lo sforzo ha anche cercato di aumentare le tensioni internazionali e promuovere la paura di imminenti ostilità con la Russia nucleare. Due gruppi di ricercatori indipendenti hanno scoperto che i russi sfruttavano piattaforme tecnologiche di fabbricazione statunitense per attaccare la democrazia degli Stati Uniti in un momento particolarmente vulnerabile, mentre un neo-candidato sfruttava le ampie lamentele contro la Casa Bianca. La sofisticazione delle tattiche russe complicherebbe gli sforzi di Facebook e Google nel reprimere le “notizie false”, come avevano promesso di fare dopo le ampie lamentele sul problema. La relazione PropOrNot, data al Post, identifica più di 200 siti che abitualmente sostenevano la propaganda russa presso almeno 15 milioni di statunitensi, scoprendo che le storie false diffuse su facebook sono state viste più di 213 milioni di volte. Si può essere sorpresi da alcuni siti nella lista (sembra anche satirici, siti su false notizie, oltre che propagandistici)…”
Quindi, in altre parole, chiunque non sia un drone liberale è solo un’agente russo? McCarthy sarebbe orgoglioso. Come gli “scienziati” spiegano, riferire fatti equivale ad essere un “utile idiota”. “Va notato che i nostri criteri sono comportamentali. Ciò significa che le caratteristiche con cui identifichiamo i siti di propaganda sono le motivazioni agnostiche. Per tale definizione, non importa se i siti elencati siano consapevolmente diretti e pagati da agenti dei servizi segreti russi, o se addirittura sapevano di riecheggiare la propaganda russa: se soddisfano tali criteri, minimo agivano da “utili idioti” dei servizi segreti russi in buona fede, e vanno ulteriormente esaminati”. Ciò ricorda l’impressione data dall’artista @SarcasmRobot sulla disperazione dei dirigenti e dei loro animaletti mediatici.
Chiunque non mi piaccia è un Hacker Russo. L'emozionante guida per bambini su come evitare le proprie responsabilità per i tuoi crimini.
Chiunque non mi piaccia è un Hacker Russo.
L’emozionante guida per bambini su come evitare le proprie responsabilità per i tuoi crimini.
Sulla definizione di “utili idioti”, Jim Quinn ha scoperto il seguente video di un ex-membro del KGB Jurij Bezmenov, che disertò nel Canuckistan nel 1970. In esso si descrive come i marxisti-leninisti programmarono la conquista dell’occidente dall’interno, senza sparare un colpo. Quanto pensate che il piano funzioni? Al minuto 7:20 G. Edward Griffin chiede a Jurij “Cosa facciamo?” (Per contrastare il cambio di amministrazione) rimanendo sorpresi dalla risposta:
Al momento dell’elezione e anche prima, molti sostenevano l’idea che Trump dovesse concentrarsi su come aggressivamente istruire le persone sui mali che ci circondano… sembra sia l’unico modo per raddrizzare la schiena contro la tirannia del quarto potere. Infine (e senza che ciò sia ilare), ecco come gli scienziati hanno descritto ZeroHedge. “ZH è una cinghia di trasmissione importante della diffusione delle storie dei propagandisti/guerrieri dell’informazione russi presso i consumatori di notizie occidentali. Succede spesso. È un esempio particolarmente eclatante ma la cinghia di trasmissione gira tutti i giorni. ZH è parte della guerra delle informazioni di Putin quanto RT. Se si osserva da vicino, è chiaro come il naso sulla vostra faccia”. Abbastanza chiaro, anzi. Questa farsa va letta (esortiamo lettori a leggerla per vedere cosa sia la disinformazione) come “analisi” da parte di un sito web che, si ricordi, è esso stesso anonimo, per poi concludere: “Zerohedge si qualifica come propaganda “grigia”, ingannando sistematicamente il pubblico a vantaggio di politici stranieri. Gli articoli di Zerohedge sono spesso ripubblicati da altri siti, ma appaiono su Zerohedge per primo; gli autori del sito modulano le storie, non solo vi reagiscono. L’analisi dei modelli di traffico web e dei link lo sostiene: Zerohedge ha un posto di rilievo nella rete di siti di notizie e propaganda pro-Russia. Noi di PropOrNot lo valutiamo: Cinque Ombre”.
Intenzionalmente o meno, queste sono sciocchezze da querela, e possiamo dire tranquillamente che non vi è propaganda “architettata” dai russi in questo sito, a meno che criticare il governo degli Stati Uniti vi equivalga, che già attraggono l’attenzione di gente come Glenn Greenwald e molti altri.
Mentre questo ultimo giro sulla cosiddetta “narrativa” sarà certamente controproducente, e accelererà la fine dei tentativi dei media tradizionali di mantenere credibilità e controllo delle menti degli statunitensi, dolorosamente perduto con le bugie nella campagna presidenziale, per non parlare dell'”occhio di bue” e delle entrate pubblicitarie, rimaniamo affascinati dalle accuse implacabili della cosiddetta “sinistra liberale” su Trump che scatenerà l’assalto della censura alla “stampa libera”, quando essa fa di tutto per sopprimere le voci dissidenti. Infine, possiamo concludere che è un bene che tale “potere” declini ogni giorno che passa.2elcsacIl Washington Post, il suo nuovo proprietario e la CIA
The Sleuth Journal, 25 dicembre 2013
jeff-bezos-cia-washington-postNorman Solomon, scrivendo su Counterpunch, l’ha chiarito: la realizzazione di Cloud online che verrà gestito dalla CIA, per la CIA, è stata assegnata, con un contratto da 600 milioni di dollari, all’Amazon Web Services. Jeff Bezos è il fondatore e CEO di Amazon che ora possiede il Washington Post. 600 milioni di dollari creano un grave conflitto di interessi, quando si tratta d’informare sulla CIA. Naturalmente, il Washington Post e altri media importanti sono già compromessi sulle questioni di sicurezza nazionale e comunità d’intelligence. Gli articoli vengono controllati da CIA, NSA e altre agenzie, prima di essere pubblicati. Ma questa è una ciliegina sulla torta. Una ciliegiona da 600 milioni di dollari. I giornalisti del Post saranno extra-cauti sulla CIA. Idem l’editore. Stampa indipendente? Da ridere. Il WaPo è noto da tempo come megafono che riprende ciò che la CIA propone. Così il nuovo proprietario ed i suoi legami con la CIA saranno solo “affari”. Secondo un articolo del 2012 del Seattle Times, chi conosce Bezos lo descrive libertario. La definizione del termine sarà mutata. Prendere 600 milioni di dollari per progettare i servizi on-line della CIA, un’agenzia clandestina il cui bilancio federale è un segreto, ed è nota per rovesciare i governi all’estero… Questo è un esempio di filosofia libertaria? Forse dovremmo tornare a leggere la Repubblica di Platone e Il Capitale di Marx. Potrebbero rivelarsi capolavori libertari.