lunedì 31 agosto 2015

Il bilancio dello Stato? Serve a ripianare le perdite sui derivati!

Una vera e proprio “mina sulla finanza statale italiana”. Ammontano a quasi 40 miliardi di euro le perdite potenziali nei conti pubblici italiani legate ai derivati. A dirlo con la quasi matematica certezza è un’analisi di Unimpresa, che ha preso in considerazione le voci nei bilanci dello Stato che nell'ultimo anno sono aumentate di quasi il 30% arrivando a quota 36,8 miliardi. Il Centro studi di Unimpresa, sottolinea che la montagna di titoli finanziari ad alto rischio, cioè potenzialmente in perdita, è cresciuta in totale di oltre l'8% in un anno (dal 2013 al 2014) passando da 153 miliardi di euro a 166 miliardi in aumento di 13 miliardi. In piena crisi internazionale e con l'economia ancora piegata dalla recessione, “tutti i comparti del nostro Paese hanno visto crescere i pericoli legati ai prodotti d'azzardo'', è scritto nello studio.''L'aumento complessivo dell'esposizione in derivati in Italia – scrive Unimpresa - è legato soprattutto all'aumento di questo tipo di attività finanziarie all'interno dei bilanci dello Stato centrale dove risultavano, alla fine dello scorso anno perdite potenziali pari a 36,8 miliardi in crescita rispetto ai 28,7 miliardi dell'anno precedente: 8,1 miliardi in più in 12 mesi (+28,1%). Su anche i derivati "a rischio" delle banche, in crescita di 4,7 miliardi da 105,7 miliardi a 110,5 miliardi (+4,4%)'', continua Unimpresa.
''Da segnalare, poi, secondo l'analisi di Unimpresa basata su dati della Banca d'Italia, la sostanziale invarianza (+0,7%) dei derivati in perdita nelle amministrazioni locali: nei 12 mesi sotto la lente, le consistenze dei bilanci di comuni, province e regioni sono passate infatti da 1,26 miliardi a 1,27 miliardi, con un aumento di soli 9 milioni. Lieve incremento per i prodotti speculativi nei bilanci delle imprese: a fine 2014 l'ammontare è salito di 347 milioni a quota 7,6 miliardi rispetto ai 7,3 del 2013 (+4,7%). Nel comparto assicurativo e dei fondi pensione si è passati da 5,2 a 5,5 miliardi (+5,1%) in aumento di 269 milioni, mentre il resto degli intermediari finanziari ha registrato una crescita di 164 milioni (+3,5%) da 4,6 miliardi a 4,8 miliardi''. ''Quanto alle amministrazioni centrali, la massa di derivati potenzialmente in perdita è arrivata a quota 36,8 miliardi: in un anno è dunque salita di 8,1 miliardi(+28,1%) rispetto ai 28,7 miliardi di fine 2013. In totale, i derivati del settore pubblico e del settore privato pesano 166,6 miliardi e sono saliti negli ultimi 12 mesi di 13,6 miliardi dai 153,1 miliardi precedenti con un incremento dell'8,9%'

domenica 30 agosto 2015

I nostri rifiuti tech uccidono in Ghana

Lo chiamano e-waste. Sono montagne di rifiuti elettronici che invadono il Ghana e provocano il cancro. L'opportunità di lavoro per molti giovani ha un alto costo umano.
Un cimitero di plastica e scheletri di elettrodomestici abbandonati dal ricco Occidente diventano opportunità di lavoro per molti africani. Ma il costo per la salute è alto: molti giovani si ammalano di cancro. Scarti per 50 milioni di tonnellate all'anno. Mancano leggi contro il commercio illecito
di Massimo Lauria - Un fumo denso e irritante invade il dedalo di stradine fangose che ospitano centinaia di baracche e piccoli negozi di Accra, la popolosa capitale del Ghana. Brucia la gola e la pelle di chi è costretto a respirarlo ogni giorno. È il fumo che emana dal groviglio di cavi elettrici bruciati da cui si ricava il rame. Vecchi televisori, smartphone rottamati, frigoriferi, ferri da stiro, computer, forni, condizionatori, lampade, tostapane e ogni genere di rifiuti compongono la montagna di spazzatura elettronica di Agbogbloshie, quartiere popolare di Accra.
Una città nella città, dove migliaia di giovani danno nuova vita agli elettrodomestici che il ricco Occidente abbandona. Ma più spesso si ammalano e muoiono di cancro perché vivono tra l'immondizia tossica.
"Quello che una volta era un paesaggio verde e pieno di frutti è ormai diventato un cimitero di plastica e scheletri di elettrodomestici abbandonati", dice Mike Anane, attivista ambientale.
Accra è diventata la più grande discarica di rifiuti tecnologici al mondo. Lo chiamano e-waste; secondo l'Onu se ne contano tra i quaranta e i cinquanta milioni di tonnellate l'anno. Inondano letteralmente intere porzioni della città africana e non solo.
I maggiori produttori di questa spazzatura sono Stati Uniti ed Europa. Mentre la Cina ne produce sempre di più. Tutti insieme hanno un peso complessivo pari a sette volte quello delle grandi piramidi di Giza in Egitto. E solo una piccola parte di essi - circa il 15,5% nel 2014 - viene riciclata con metodi che sono efficaci e sicuri per l'ambiente.
In Ghana si sta sviluppando un gigantesco mercato dell'hi-tech di seconda mano. Si tratta, secondo un'inchiesta di Al Jazeera, di un commercio florido che coinvolge moltissimi lavoratori. I geek neri, ovvero i tecnici africani, hanno un ruolo fondamentale nel processo di recupero e di sviluppo di tutto il Paese. Esiste una
e una serie di attività che tentano di sfruttare appieno il potenziale dei rifiuti elettronici. Senza la diffusione dei televisori nessuno avrebbe ad esempio costruito le torri Tv, spiega Robin Ingenthron, fondatore del commercio di Equo Riciclaggio, una organizzazione non-profit che sostiene il riciclaggio dei rifiuti elettronici e il commercio etico.
Tuttavia è anche luogo di gigantesche e inquinate discariche di rifiuti elettronici. I dati sulla salute della popolazione locale sono allarmanti. Un team di ricercatori provenienti da Ghana e Stati Uniti hanno raccolto e analizzato i campioni di sangue dei lavoratori di Agbogbloshie. "I campioni hanno rivelato alti livelli di piombo", spiega la ricercatrice Onallia Osei.
Ma come tutte le medaglie anche Agbogbloshie ha due facce. La prima è senz'altro quella dell'insopportabile strascico di inquinamento da metalli pesanti e rifiuti tossici, che fa ammalare e morire le persone. L'altra mette in mostra un grande potenziale produttivo.
"Agbogbloshie è una gigantesca fabbrica a cielo aperto, dove chiunque può raccogliere materiale di scarto e dargli una nuova vita", spiega l'antropologo Osseo-Assare. Ai ghanesi non piace l'immagine paternalistica con cui li descrivono i media occidentali. Sono coscienti dei pericoli per la salute e delle pessime condizioni a cui sono esposti i lavoratori. Semmai "il problema è come migliorare le condizioni di vita della comunità e ripulire l'ambiente", dice Janet Gunter, co-fondatrice del progetto Restart. Mancano leggi adeguate per frenare il traffico illecito di rifiuti tossici e il commercio di materiale pericoloso per la salute e per l'ambiente. I tecnici ghanesi non vogliono vivere in mezzo a puzzolenti e dannose discariche, ma lavorare senza più ammalarsi di cancro.

sabato 29 agosto 2015

Cresce la rete degli uffici di scollocamento

Uno dei primi uffici di scollocamento è sorto a Varese, poi a Roma, a Torino, poi sono arrivati il progetto di scollocamento per imprenditori e i corsi di formazione al Per; a inizio 2015 ha preso il via un progetto a Marano sul Panaro (Modena) e ora si parte anche a Padova. Il cambiamento ormai è realtà travolgente.
L’Ufficio di Scollocamento è uno "sportello" per aiutare le persone a scollocarsi da lavoro eccessivo, stile di vita sbagliato, stress, ansia, consumismo; qualcosa che aiuta a costruire una nuova vita. Di fatto, aiuta in un cammino di emancipazione e cambiamento rispetto alla cultura imperante, per cercare l’autentico benessere e dire basta a schiavitù e omologazione. Uno dei primi uffici di scollocamento è sorto a Varese, poi a Roma, a Torino, poi sono arrivati il progetto di scollocamento per imprenditori e i corsi di formazione articolati; a inizio 2015 ha preso il via un progetto a Marano sul Panaro (Modena) e ora si parte anche a Padova. Il cambiamento ormai è realtà travolgente.
L’ultimo in ordine di tempo, appunto, è sorto a Padova, da culture ed esperienze vicine al pensiero della decrescita e del downshifting, e «a tutte le numerose correnti di pensiero che animano l’ampio tentativo di costruire una cultura alternativa da quella vigente che mette l’economia davanti alle persone» dicono i promotori Matteo Majer, Federica Bruno e Gianfranco Torre.
«L’intento è di fornire alla persona strumenti e metodi concreti per riflettere sul proprio stile di vita, definire con efficacia un progetto di realizzazione personale alternativo, del tutto o in parte al di fuori dell’attuale sistema, che risponda alle proprie aspirazioni, allo scopo di vivere un’esistenza più funzionale, costruttiva e realizzante».
«Al già alto numero di persone che decide di cambiare vita, la situazione attuale ha aggiunto quelle che della crisi sono già vittime – spiegano i tre ragazzi padovani - Ma una crisi è anche una grande opportunità. Nonostante nell'uso comune questo termine abbia assunto un'accezione negativa, possiamo coglierne la sfumatura positiva originaria: momento di riflessione, di valutazione, di scelta, di discernimento. Rappresenta di conseguenza il presupposto necessario per un miglioramento, per una rinascita. Sempre più persone, in Italia e nel mondo, decidono di cambiare vita e lavoro, operando scelte personali e collettive in direzione di una vita più vicina alle loro aspirazioni. Chi si avvicinerà all’Ufficio di Scollocamento di Padova non riceverà un numero e un modulo da riempire, ma la proposta di un percorso articolato per mettere a fuoco e poi in pratica le proprie motivazioni interiori al fine di realizzarsi come persona prima e come lavoratore poi. Cambiare non presuppone l’utilizzo di una bacchetta magica né tantomeno l’abbandono del proprio lavoro quanto piuttosto una pianificazione adeguata di una strategia che possa dare la possibilità di uscire da un’occupazione che non rende felici e promette risultati per il futuro che probabilmente non manterrà mai. Per coloro che, invece, non stanno lavorando, UDS Padova può fornire supporto per una definizione di un progetto di vita alternativo, non necessariamente legato al sistema dominante che spesso blocca le energie individuali e l’iniziativa personale per poter “relegare” gli individui al ruolo di semplici consumatori».
Le attività proposte si articolano in incontri di formazione tematici di gruppo e sessioni di coaching individuale o di gruppo.
«Si lavorerà inizialmente sullo sviluppo della consapevolezza individuale, dell’autostima e della forza di volontà, elementi di partenza che servono per gettare le basi alla progettazione del percorso – aggiungono i promotori del nuovo sportello - Verranno presentati ed approfonditi gli strumenti per il miglioramento personale per esempio come affrontare lo stress, gestire i propri impegni, risolvere le situazioni problematiche e prendere le decisioni più adeguate al proprio benessere individuale. Si agirà sulla definizione del proprio scopo nella vita e dei propri obiettivi e verranno forniti gli strumenti per redigere un progetto di vita più in linea con le proprie aspettative. Infine sarà dedicato spazio alla leadership individuale e alle capacità relazionali, essenziali per comunicare e rapportarsi al meglio con gli altri. Inoltre, nelle fasi finali del percorso, sarà possibile, se richiesto, l’affiancamento da parte di professionisti esterni (analisti finanziari, esperti di marketing, esperti di legge, ecc.) al fine di definire negli ultimi dettagli il personale piano d’azione».

venerdì 28 agosto 2015

Lavoro, sui posti fissi numeri erano completamente sballati (e gonfiati)

Le posizioni a tempo indeterminato sono la metà di quanto annunciato in precedenza. Il governo è costretto a fare dietrofront e rivedere le cifre ufficiali sul mercato occupazionale ancora in profonda crisi.
I numeri sui contratti di lavoro in tutti i settori economici, esclusi quello domestico e nella Pubblica Amministrazione, si sono rivelati sballati. "Purtroppo, un errore nei calcoli relativi alle diverse componenti ha prodotto valori non esatti" si giustificano dal ministero del Lavoro diffondendo la nuova tabella sui primi sette mesi del 2015.
Come riferisce l'Ansa, al meeting di Rimini di Comunione e Liberazione il capo del ministero del Lavoro, Giuliano Poletti, "dopo una telefonata con il premier Matteo Renzi, annuncia un altro rinvio all'approvazione dei 4 provvedimenti (fra questi quello sul controlli a distanza dei dipendenti) che dovrebbero arrivare il Cdm "la prossima settimana".
"Ho parlato con il premier, non c'è alcun problema di merito, c'erano troppi provvedimenti all'ordine del giorno ed altri temi con scadenze più stringenti", ha spiegato.
Intanto il Jobs Act fatica ad arrivare al capolinea: ben quattro decreti restano ancora senza approvazione parlamentare.

giovedì 27 agosto 2015

Cambiare economia, o addio a 60 milioni di posti di lavoro

Nei paesi più sviluppati del mondo, Usa e Ue, che da soli producono circa la metà del Pil globale, l’economia capitalistica ha imboccato da tempo un periodo di stagnazione che secondo molti esperti potrebbe durare anche cinquant’anni. In Usa, nel decennio degli anni 50 i trimestri in cui il Pil reale cresceva di almeno il 6 per cento l’anno sono stati 40. Negli anni 70 erano scesi a 25. Nei ’90, a meno di dieci. Infine nel periodo 2000-2013 sono stati in tutto tre. Sebbene sia difficile fare una stima aggregata del Pil dei paesi oggi membri della Ue, visto che in settant’anni hanno avuto storie politiche ed economiche diverse, si stima che l’andamento del Pil nella Ue sia stato all’incirca il medesimo. Al presente, un altro indicatore di stagnazione è il forte e prolungato rallentamento degli investimenti nell’economia reale. Essi rendono poco rispetto alle attività speculative svolte nel sistema finanziario, il quale peraltro all’economia reale non reca alcun beneficio (al punto che in realtà non ha nessun senso chiamarli “investimenti”).
Risultato numero uno: si stima che circa il 70% dei capitali circolanti sia destinato alle seconde. Il capitalismo ha posto così le premesse per una sorta di suicidio al rallentatore. Mediante l’automazione ha ridotto drasticamente il numero dei produttori Disoccupatinell’economia reale (servizi compresi). Con la forsennata compressione dei salari reali, (in aggiunta alla riduzione dei produttori) ha ridotto il potere d’acquisto dei consumatori. Per investire l’impresa capitalistica deve poter stimare quanti sono quelli a cui venderà i suoi beni o servizi, e più o meno per quanto tempo. Nei nostri paesi si è messa in condizione di non poterlo più fare. La riduzione degli investimenti è anche dovuta al fatto che da decenni il capitalismo non inventa più nulla che possa diventare un consumo di massa. Al contrario di quanto asseriscono gli economisti neoclassici, il capitalismo non vive affatto di una continua innovazione endogena. Ha bisogno di robusti e ripetuti stimoli esterni.
Negli anni 50 e 60 li hanno forniti, nei nostri paesi, i consumi di massa di auto, elettrodomestici, televisori. La diffusione in atto dei cellulari, dei tablets, dei Pc – tutti fabbricati in Asia – non ha avuto né potrà mai avere effetti paragonabili sulla crescita e sull’occupazione di un paese europeo. Inoltre tanto la produzione quanto il consumo dei beni e dei servizi proposti dall’attuale modello produttivo si fondano su energie tratte da risorse fossili, mentre gli scienziati del mondo intero avvertono che l’inversione dell’attacco all’ambiente, che presuppone una drastica riduzione di tali fonti energetiche, dovrebbe avvenire ormai entro breve tempo se si vuole evitare una catastrofe. In sintesi: l’idea di una ripresa paragonabile al passato – la famosa luce in Robotfondo al tunnel – è una illusione priva di fondamento. E se mai dovesse verificarsi, sarebbe ancora peggio, perché avvicinerebbe il momento di un disastro ambientale irreversibile.
Non basta. Il termine “automazione” si riferisce da cinquant’anni alla sostituzione di lavoro fisico da parte di macchine. Ma la microinformatica ha anche enormemente esteso sia le capacità delle macchine operatrici, sia le capacità dei computer di svolgere attività intellettuali che fino a pochi anni fa si sosteneva non fossero automatizzabili. Risultato numero tre: in Usa si stima che il 47 per cento degli attuali posti di lavoro, finora occupati da esseri umani a causa del loro contenuto intellettuale e professionale medio-alto, possano venire svolte entro pochi anni da una qualche combinazione di macchine, computer e programmi intelligenti. In altre parole potrebbero scomparire più di 60 milioni di posti di lavoro. Un processo analogo di sostituzione di esseri umani da parte dei computer è in corso anche in Europa. Una politica che non si occupi primariamente di Gallinoquesto problema, come avviene nella Ue e in modo ancor più marcato in Italia, non soltanto è da buttare per la sua inefficienza; è una minaccia per milioni di cittadini.
Da quanto precede se ne trae che l’Italia dovrebbe progettare al più presto un piano pluriennale di transizione a un diverso modello produttivo, che abbia come caratteristiche principali l’essere fondato su progetti o settori ad alta intensità di lavoro; elevata qualificazione; tecnologie avanzate; consumi ridotti di energie fossili; elevata utilità pubblica; massima attenzione ai beni comuni. Esso dovrebbe inoltre prevedere il passaggio regolato di milioni di lavoratori dai settori in declino ai nuovi settori. Non è il caso per ora di inoltrarsi in un elenco di questi ultimi: si rimanda alla ragguardevole letteratura esistente sulla trasformazione industrial-ecologica dell’economia. Qui basti dire che il riassetto idrogeologico dell’intero territorio, il miglioramento del rendimento energetico delle abitazioni, gli interventi antisismici nelle zone più a rischio, la tutela dei beni culturali assorbirebbero da soli milioni di posti di lavoro. La complessità e l’ampiezza di un simile piano renderebbe necessario l’impiego delle migliori competenze tecniche ed economiche, pubbliche e private, di cui il paese disponga. E soltanto un governo totalmente rinnovato quanto a cultura politica e competenze professionali sarebbe capace di guidarne la realizzazione. Inutile aggiungere che un simile piano deve poter iniziare entro pochi mesi, per essere via via sviluppato e rettificato.

mercoledì 26 agosto 2015

Allarme consumatori, arriva la stangata d'autunno

Al rientro dalle vacanze, per quei pochi che se le sono potute permettere, una brutta sorpresa aspetta le famiglie: si tratta di una vera e propria stangata per 1.760,23 euro per tariffe, prezzi e tasse. E' il calcolo dell'O.N.F., Osservatorio Nazionale Federconsumatori.
Nonostante una diminuzione dei costi dell'energia, che si ripercuote leggermente su bollette e riscaldamento, nei mesi di settembre, ottobre e novembre le famiglie dovranno comunque sostenere pesantissimi costi. L'O.N.F. - Osservatorio Nazionale Federconsumatori ha calcolato l'ammontare di tali importi, non specificando gli aumenti delle singole voci relative a prezzi e tariffe ma prendendo in considerazione soltanto l'impatto complessivo della spesa "autunnale". Occorre precisare che la cifra in questione non comprende le spese correnti per alimentazione, abbigliamento, ecc. ( In particolare, per la scuola (libri + meta' del corredo) si prevede una spesa di 788,70 euro, per la Tasi (seconda rata) di 117,03, per le bollette (acqua, luce, gas, telefono) di 455 euro, per la Tari (seconda rata) di 143,00, per il riscaldamento (prima rata) di 256,50 euro. Il totale e' di 1.760,23 euro. "La stangata autunnale rappresentera' un grave colpo per i bilanci delle famiglie e si ripercuotera' pesantemente sui consumi e sull'intero sistema produttivo" - dichiarano Rosario Trefiletti ed Elio Lannutti, Presidenti di Federconsumatori e Adusbef. Secondo i consumatori, il potere di acquisto delle famiglie infatti e' ai minimi storici (si e' ridotto del -13,4% dal 2008 ad oggi) e tali costi non potranno che incidere sempre di piu' sulla domanda di mercato. Inoltre l'elevato tasso di disoccupazione si ripercuote, ovviamente, sui bilanci familiari, poiche' sono proprio genitori e nonni a sostenere economicamente i giovani senza lavoro. "E' dunque piu' che mai urgente che il Governo metta in atto efficaci provvedimenti per rilanciare il nostro sistema economico attraverso un Piano Straordinario per il Lavoro che punti sulla ricerca e l'innovazione, sullo sviluppo tecnologico, sulle comunicazioni (banda larga in primis), sulle bonifiche territoriali, sulla realizzazione di infrastrutture utili alla riqualificazione del settore turistico e sulla messa in sicurezza dell'edilizia scolastica". (AGI) .

martedì 25 agosto 2015

Non c’è più posto per questa umanità

In questa fine d’agosto, l’Europa, che sa badare solo al miope egoismo dei singoli Stati, che sa muoversi solo sotto la dettatura delle convenienze di Berlino, che sa ascoltare solo il linguaggio economico della Troika, è sotto l’assedio di un’ondata senza precedenti di migranti; un’ondata largamente prevista e tenacemente quanto ottusamente trascurata.
Nel Mediterraneo è allarme rosso: nel tardo pomeriggio di sabato erano arrivate già 18 richieste di soccorso alla centrale operativa della Guardia Costiera; una flotta mai vista di 4 barconi e 14 gommoni con sopra fino a 3mila disperati, e non è finita.
I mezzi della Capitaneria, della Guardia di Finanza, della Marina Militare e quelli europei di Triton sono impegnati a tirare a bordo quella folla prima che qualcuna di quelle carrette coli a picco portandosi dietro il suo carico. Li raccoglieranno per sbarcarli in Italia; e dopo? Da mesi, da anni ormai l’Europa discute in un ipocrita dialogo fra sordi, scandito da un naufragio dopo l’altro, senza che mai si giunga a nulla, se non al trionfo dei più beceri egoismi.
Nel frattempo, a quella che è divenuta la rotta più pericolosa al mondo, con oltre 2.400 vittime dall’inizio dell’anno, se ne è aggiunta un’altra, quella che porta alla Grecia e, di là, all’Europa centrale. A luglio, quel Paese, che di problemi suoi ne ha fin sopra i capelli, è stato letteralmente travolto da una marea di gente che fugge dalla Siria, dall’Iraq, dall’Afghanistan e dai tanti altri luoghi disgraziati di cui è sempre più ricco il pianeta.
Ha fatto quello che poteva ed era logico facesse: nella gran parte ha lasciato che continuassero per la loro strada, in barba a quell’egoistica vigliaccata del trattato di Dublino, che scarica addosso ai Paesi periferici il peso e la responsabilità di chi arriva.
Quel fiume di gente è arrivato fino al confine con la Macedonia, una Nazione piccola quanto povera, e lì è stato fermato in una terra di nessuno fra le due frontiere. Il fiume s’è ingrossato in una massa di migliaia di persone che ha premuto fino a sfondare: a nulla sono serviti i reticolati, le cariche della polizia, i lacrimogeni e le granate assordanti. Sabato pomeriggio in almeno 2mila sono passati per correre al nord, verso la Serbia, verso un altro confine ed altri reticolati; per gli altri continua la fame, la sete, la stanchezza; continua l’attesa di un’altra occasione, di un treno verso un futuro che non conoscono ma che non riescono a immaginare peggiore di ciò che hanno lasciato.
La Commissione Ue, dinanzi ai fatti, ha detto che sta monitorando la situazione e che ha già assegnato 90mila euro di aiuti alla Macedonia. 90.000! La stessa Commissione che, senza batter ciglio, ha bruciato una barca di miliardi per salvare i bilanci delle banche in crisi per le speculazioni che avevano fatto.
Le scene di padri disperati con i piccoli in braccio, schiacciati contro i reticolati e gli scudi della polizia; le immagini di poveracci affollati all’inverosimile su barconi sgangherati a cui hanno affidato la propria vita, dovrebbero porci delle domande: a che serve questa Europa?
A costruire il sistema perfetto per le esportazioni di Berlino? A suicidarci con sanzioni assurde dettate da Washington? Potremmo continuare a lungo con le domande; è un fatto che l’Europa non c’è se non quando serve ai più forti.

lunedì 24 agosto 2015

Finiamola

Gli Stati Uniti non hanno mai inteso liberare alcun popolo, ma solo estendere il loro controllo sui Continenti, primo quello europeo, dove oggi trovano la sola opposizione della Russia.
Proiettati ora alla conquista dell’Asia e dell’Africa, chiamano gli “Stati-clienti” a versare il tributo di soldi e di sangue che gli è dovuto per le loro guerre. Per riacquistare sovranità nazionale, indipendenza, bisogna riscoprire la dignità nazionale e riappropriarci della nostra storia e del nostro passato, con tutte le sue luci e le sue ombre.
La riscoperta di ciò che è nostro, più che il risparmio finanziario sulle spese militari, farà comprendere agli Italiani la necessità di uscire da un’alleanza che ci ha procurato lutti e sangue in passato e che altri ce ne porterà in futuro.
Oggi, l’Italia è una Repubblica fondata sulla menzogna, dalla “guerra di liberazione” alla “sconfitta del terrorismo”, alle “missioni di pace”, che hanno l’unico scopo di far accettare agli Italiani il nostro inserimento in uno schieramento politico e militare che è utile solo per gli Stati Uniti e la loro politica imperiale.
Vogliamo uscire dalla NATO?
Rifondiamo la Repubblica sulla verità che permetterà agli Italiani di riconoscere il disegno strategico di una Potenza che si propone di asservire i popoli al proprio dominio.
Si può giungere alla neutralità e, quindi alla libertà passando però per l’unica via possibile, quella della verità.”

domenica 23 agosto 2015

RENZI E I DIVERSIVI SUI DECRETI ATTUATIVI

Uno dei miti della modernità più drasticamente smentiti dai fatti è quello dell'informazione. L'idea di un'opinione pubblica consapevole e di cittadini in possesso dei dati per decidere, ha ceduto il posto alla realtà della propaganda e della manipolazione mediatica. La figura professionale caratteristica della modernità, che non esisteva in epoche precedenti, è appunto quella del "giornalista", il mitico "professionista dell'informazione", che si è rivelato invece l'addetto-stampa delle lobby degli affari.
Il leitmotiv mediatico di cui si abusa maggiormente in Italia è, ovviamente, il razzismo anti-meridionale, che costituisce in questo periodo il diversivo consolatorio da offrire ad un Settentrione investito da una brutale deindustrializzazione. Il razzismo antimeridionale nasce però con la stampa stessa, diventata fenomeno di massa nell'Inghilterra dei primi decenni dell'800. Per motivi strategici di dominio del Mediterraneo, il Regno delle Due Sicilie costituiva un bersaglio militare e propagandistico della stampa britannica, con la produzione di tutta un'aneddotica sulla tirannia dei vari Franceschi e Ferdinandi e sul degrado del popolo meridionale. Già allora la stampa si poneva come la principale "fonte" di se stessa, ed addirittura come fonte per gli storici. Le notizie erano riprese e rilanciate su scala internazionale senza controllo; allo stesso modo in cui, nell'epoca attuale, l'emittente Al Jazeera è diventata la fonte esclusiva sulle "rivoluzioni" arabe del 2011, oppure fioriscono aneddoti infondati sulle follie omicide del presidente nord-coreano. Imposto dalla stampa inglese come un senso comune mediatico a livello mondiale, il razzismo anti-meridionale può essere ritrovato nei luoghi più insospettabili, da "La Lettera Rubata" di Edgar Allan Poe, sino al "Mein Kampf" di Hitler, il quale era una vera e propria "spugna" della propaganda britannica. Il razzismo anti-meridionale andò a costituire l'ideologia fondante dell'unificazione italiana, con il risultato di formare un'identità italiana autorazzistica e recriminatoria, contrassegnata da velleitarie ambizioni in campo internazionale, ma anche intrinsecamente vulnerabile alla colonizzazione. Il razzismo anti-meridionale serviva infatti a veicolare un razzismo anti-italiano tout court. Quest'antropologia della frustrazione avrebbe trovato nel fascismo la sua consacrazione, ma costituisce un tratto costante della storia unitaria italiana che si è perpetuato sino ad oggi. La politica estera viene ancora adesso rappresentata ad un'opinione pubblica infantilizzata come un pranzo di gala dei vip, a cui però non puoi partecipare perché ti sei preso a carico il fratello scemo e parassita.
Che i rapporti internazionali possano essere segnati da cose come colonialismo e imperialismo, tutto ciò non riguarda mai la nostra storia. Eppure proprio in questi ultimi decenni abbiamo visto lo schema imperialistico del nostro 1860 ripresentarsi identico nell'Afghanistan degli anni '80, e ancora nella Libia e nella Siria attuali, dove un'invasione di truppe mercenarie straniere è stata spacciata come la saldatura tra una rivolta interna e l'arrivo di eroici combattenti per la libertà, a volte anche con l'intervento finale della potenza "liberatrice".
La pubblicazione dell'annuale rapporto dello Svimez - l'ente privato di studi finalizzati allo "sviluppo" meridionale, fondato settanta anni fa - ha consentito ai media di lanciarsi in paralleli molto suggestivi. Secondo lo Svimez, parrebbe infatti che in questi ultimi dieci anni il Sud Italia abbia fatto addirittura peggio della Grecia in incremento del PIL. Dato che la Grecia rappresenta attualmente l'emergenza più all'attenzione, era praticamente d'obbligo associarla mediaticamente all'Italia meridionale, patria naturale di ogni emergenza. Certo è che lo Svimez, come ogni altro ente che fornisca dati sul Sud, si trova in una situazione comunicativa alquanto paradossale. Chi mai lo prenderebbe sul serio, e chi mai lo rilancerebbe, se non presentasse ogni volta un quadro catastrofico?
Sino al febbraio scorso pareva imminente un'impresa militare italiana in Libia, con lo scopo ufficiale di combattere il terrorismo islamico. Renzi aveva annunciato a riguardo un decreto per il marzo scorso, poi abortito senza fornire spiegazioni, e senza che i giornalisti le chiedessero. Se la guerra libica fosse scoppiata, c'era già pronto un accostamento tra la minaccia islamica ed i soliti Meridionali. Un giornalista della scuola di Milena Gabba Merli ha infatti diretto un "documentario" su dieci casi di conversione all'Islam avvenuti a Napoli. In un'area metropolitana che tra città ed hinterland conta quasi tre milioni di abitanti, ci può essere praticamente di tutto, ma sta alla tendenziosità del giornalista attribuire ad alcuni casi un valore "emblematico". Per rendere più scivolosa la supposta, si inizia magari celebrando la tolleranza religiosa della città di Napoli; ma l'importante era introdurre la coppia semantica Napoli-Islam, poi ci sarà tempo per conferirle un senso inquietante.
Durante il suo viaggio ufficiale in Giappone, Matteo Renzi ha trovato modo di rispondere alle polemiche scatenate dal rapporto Svimez, inanellando le solite lamentele contro i "gufi" e contro quelli che "sparano" contro il proprio Paese, ciò in assoluta aderenza al gioco delle parti con la cosiddetta "opposizione" che è d'obbligo in queste circostanze. Ogni tanto si potrebbe anche far notare a Renzi che il più "gufo" "sparatore" di tutti è proprio lui, dato che ogni sua "riforma" è supportata da campagne di denigrazione e criminalizzazione contro intere categorie sociali.
Dal punto di vista dei risultati politici ed economici, questa trasferta giapponese si è dimostrata il consueto spreco di denaro pubblico. A Renzi infatti non è stato neppure concesso di parlare davanti alla confindustria giapponese, ma, in quanto italiano e fiorentino, gli si è riservata una nicchia nell'accademia d'arte. Per darsi importanza - o, forse, perché non sa nulla d'arte - Renzi ha finito per parlare della minaccia terroristica. Eppure, chissà perché, quelle banalità, visto che erano dette dal Giappone, hanno assunto per i giornalisti italiani un suono molto più conturbante.
In base al principio autorazzistico secondo cui la legittimazione e l'autorevolezza ti vengono dal riconoscimento estero, anche Renzi, per farsi prendere sul serio in patria, ha bisogno di dimostrare che i primi ministri stranieri gli stringono la mano e che gli imperatori lo ricevono. La scelta del viaggio giapponese è stata dettata probabilmente da motivi di prudenza diplomatica, dato che in Giappone vige ancora un decoro cerimoniale, mentre in Occidente gli incontri al vertice hanno assunto ormai toni così sbracati e ammiccanti che Renzi avrebbe rischiato persino umiliazioni in pubblico.
Renzi ha quindi trasformato il Giappone in tribuna mediatica protetta per parlare di Italia, alla sua solita maniera. Con il piglio dello schiacciasassi ha promesso che la "riforma" della Pubblica Amministrazione passerà in parlamento. Lanciato da Tokio, il messaggio ha tutta un'altra solennità, ma guai ad entrare nel merito delle proposte, in quanto si tratta dei soliti vaniloqui, infarciti di quelle misure draconiane che fanno la gioia dell'opinione pubblica più forcaiola. Stavolta ci sarebbe in cantiere la licenziabilità dei dirigenti inefficienti e l'ennesimo annuncio dell'abolizione del Corpo Forestale.
Ma la sola notizia concreta riguardo il DDL ora "all'esame" (si fa per dire) del parlamento, è che, ancora una volta, il governo si riserva di sostanziare la cosiddetta "riforma" nei successivi decreti attuativi. Come già il "Jobs Act" e la "Buona Scuola", anche la "riforma" della Pubblica Amministrazione non è altro che una legge di spesa con delega in bianco al governo. Si stanzia del denaro pubblico sulla base di obiettivi fumosi, ma il governo potrà spenderlo nei prossimi mesi a pro delle lobby degli affari senza renderne conto. E c'è anche da considerare che Pubblica Amministrazione significa anche gestione del Demanio dello Stato, quindi possibilità di privatizzazioni occulte, da dissimulare in decreti attuativi a cui i giornali non dedicheranno più di qualche riga. Valeva allora la pena di volare sino in Giappone per non far percepire tutto questo all'opinione pubblica.

sabato 22 agosto 2015

Se Atene affonda, Berlino incassa

Anche se la Grecia dichiarasse bancarotta oggi e non restituisse più un euro del proprio debito pubblico, la Germania avrebbe comunque guadagnato dalla crisi di Atene ben 10 miliardi di euro. E’ quanto emerge da uno studio dell’istituto tedesco di ricerca economica Iwh, che ha condotto delle simulazioni per stabilire gli effetti sulle casse pubbliche tedesche della vicenda greca.
Secondo l’analisi, negli ultimi cinque anni – ovvero da quando è iniziato il calvario di Atene sui mercati – la Germania ha risparmiato in tutto circa 100 miliardi di euro in termini d’interessi sul debito pubblico, una somma superiore al 3% del Pil della prima economia europea. Iwh ricorda che il 3 gennaio 2010 – prima che divampasse l’incendio finanziario greco – il rendimento del Bund decennale era al 3,2%, mentre ieri si attestava allo 0,66%.
A innescare questo crollo dei tassi sui titoli di Stato tedeschi è stata proprio la crisi ellenica, poiché il clima d’incertezza sul futuro di Atene e quindi dell’Eurozona ha spinto gli investitori a proteggere il proprio denaro puntando sui titoli più sicuri: primi fra tutti i Bund, considerati alla stregua di un bene rifugio e perciò sommersi dagli acquisti quando sui mercati si rischia il collasso.
In altri termini, i tassi d’interesse sui bond tedeschi calano ogni volta che arriva una brutta notizia dalla Grecia e “nel corso della crisi del debito di Eurolandia – scrive Iwh -, la Germania ha beneficiato in modo sproporzionato di questo effetto”.
L’istituto di ricerca ha calcolato inoltre che l’esposizione della Germania alla Grecia, comprendendo anche il terzo piano di aiuti ancora da approvare, è di 90 miliardi. Ma Berlino ne ha già risparmiati 100 sui rendimenti, perciò anche in caso di default greco rimarrebbe in attivo di 10 miliardi. In questo modo la Germania esce vincitrice dalla crisi anche sul versante delle finanze pubbliche.
Per quanto riguarda invece la finanza privata, la questione si è chiusa con le grandi manovre messe in atto negli ultimi anni per salvare le banche. Il meccanismo è noto: i soldi dei Fondi salva Stati (provenienti dalle tasche di tutti i contribuenti europei) venivano trasferiti alla Banca centrale greca, la quale a sua volta li girava agli istituti di credito ellenici, che li usavano in massima parte per pagare i propri debiti nei confronti delle altre banche europee.
Così fra il 2009 e il 2014 gli istituti tedeschi hanno ridotto la propria esposizione verso la Grecia da 45 a 13,51 miliardi di euro, scaricando il peso sulle spalle dei contribuenti di tutta l’Unione. Solo che la Germania, grazie al contemporaneo crollo dei tassi d’interesse sul proprio debito, è riuscita a fare in modo che la crisi producesse un guadagno anche per le casse pubbliche, al contrario di quanto è avvenuto in tutti gli altri Paesi coinvolti nel salvataggio di Atene.
Alla luce di tutto questo, non sorprende che la Germania continui ad opporsi alla ristrutturazione del debito greco, un intervento che invece Fmi e Usa chiedono a gran voce, poiché rappresenta l’unica strada praticabile per rimettere l’economia ellenica su una traiettoria di sostenibilità, sottraendola al perverso e potenzialmente infinito schema Ponzi degli aiuti internazionali (debiti nuovi per ripagare i debiti vecchi). Eppure, dal loro punto di vista, i tedeschi hanno ragione. Perché mai risolvere in modo definitivo una crisi così redditizia?

venerdì 21 agosto 2015

L’Italia è in pericolo

Come noto, in Italia non si può fare opposizione tra la seconda metà di luglio e l’ inizio dell’ autunno. Scendere in piazza ad agosto, per esempio? Ci mancherebbe, ci sono le ferie, sacre. Poi a settembre, ma meglio ancora fra ottobre e novembre, si ripartirà alla grande, si farà sul serio, chi detiene il potere vedrà i sorci verdi… Nel frattempo si rispetta e celebra il rito lungo della pausa estiva. Di questo se n’è accorto, per esempio, il deputato Pippo Civati, recentemente fuoriuscito dal PD in aperto dissenso con la linea del partito, che ha osato lanciare una campagna di raccolta firme in piena estate per i referendum abrogativi di alcune delle leggi intollerabili fatte approvare in parlamento a colpi di voti fiducia da Renzi e si è ritrovato praticamente isolato a condurre l’impresa con un manipolo di volontari, tra l’indifferenza, il fastidio o l’ostilità evidente degli altri raggruppamenti di opposizione “di sinistra” e dei sindacati, i cui leader ed iscritti si stanno godendo il meritato riposo in varie località di villeggiatura… Va bene. Prendiamo atto di questa consuetudine italica, che la dice lunga peraltro sulla credibilità di certi “oppositori” in una fase fra le più drammatiche che il nostro Paese abbia attraversato nel corso della sua storia repubblicana. E però, se anche l’ opposizione è “chiusa per ferie”, ciò non vuol dire che chi avverte tutta la pericolosità della situazione attuale non possa almeno insistere, con gli strumenti di comunicazione a disposizione, benché pochi e miseri, sulle ragioni che dovrebbero allarmare gli Italiani “dominati” – ossia la stragrande maggioranza della popolazione- quelli che non siedono nei Palazzi del potere, nei consigli di amministrazione, che non sono nominati dai politici amici a dirigere enti, fondazioni, istituzioni, che non speculano in Borsa, ma devono fronteggiare quotidianamente le difficoltà provocate dalle decisioni prese dai “dominanti”. Qui si proverà allora schematicamente a focalizzare quattro motivi per cui il quadro si presenta fosco e preoccupante.
1. Illegittimità
È questo il peccato originale. L’attuale Parlamento avrebbe dovuto approvare, secondo le indicazioni della Corte Costituzionale (sentenza n. 1 del gennaio 2014), le leggi elettorali per consentire agli Italiani di tornare il più rapidamente possibile alle urne, in modo da formare una nuova rappresentanza che riflettesse effettivamente criteri di democraticità della scelta. Le Camere elette nel 2013 in forza di una legge elettorale dichiarata incostituzionale (proprio perché non garantiva la rappresentatività), si sono invece arrogate addirittura la prerogativa di porre mano alla revisione costituzionale, cioè di modificare la Costituzione, eleggendo per di più un nuovo presidente della Repubblica! Mentre dalle considerazioni finali della citata sentenza n. 1 si capiva chiaramente che il “principio di continuità degli organi costituzionali” (che per la Consulta era ciò che consentiva alle Camere di continuare ad operare) veniva evocato solo per il tempo strettamente necessario all’approvazione delle nuove leggi elettorali. Ma va notato che la forzatura istituzionale è avvenuta non subito, bensì dal momento in cui – con un colpo di mano – si è insediato a Palazzo Chigi Matteo Renzi, che ha presentato il suo come un “governo di legislatura” per attuare le “riforme ” di cui – a parere dei centri di potere liberisti ed atlantisti dei quali tale governo costituisce il terminale politico – l’Italia ha assoluto bisogno e che “gli Italiani chiedono da vent’ anni”…! A rifletterci appena un momento questa vicenda mette da sola i brividi, eppure dopo un po’ di proteste iniziali, i caratteri fondamentalmente eversivi dell’attuale governo e della maggioranza parlamentare che lo sostiene sono caduti nel dimenticatoio, non costituiscono praticamente più argomento di scontro politico, come al contrario dovrebbero. Date queste premesse, non vale perciò nemmeno la pena di addentrarsi sulle mostruosità della riforma del Senato o dell’Italicum, degni parti di un governo e di una maggioranza “democratici” di tal fatta.
2. Governo dei padroni
Nel febbraio 2014, quando Renzi conquista il potere, dichiara che il suo è “il governo più di sinistra degli ultimi trent’anni”. A maggio 2015, il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, nella sua ultima relazione all’assemblea degli industriali, afferma compiaciuto: “Oggi non ho richieste, né intendo lamentarmi con il governo di alcunché”. Qualcosa di sicuro non quadra. Non si capisce il senso profondamente “di sinistra” di tutto ciò. Un simile riconoscimento non lo aveva infatti ricevuto neppure Berlusconi nei suoi tempi d’oro, forse perché nemmeno lui era riuscito a fare tanto per la Confindustria come il “governo più di sinistra degli ultimi trent’anni”. Ecco una rapida sintesi delle principali provvidenze volute da Renzi e dalla sua maggioranza “democratica” a favore di una parte, quella dei grandi industriali: taglio delle tasse sui profitti delle imprese, depenalizzazione dell’abuso di diritto, revisione del sistema sanzionatorio amministrativo e penale in materia fiscale, affossamento della Web Tax, Jobs Act, riforma della Pubblica Amministrazione, rinvio della legge sul rientro dei capitali. Si potrebbe continuare, ma d’altra parte, perché meravigliarsi, se perfino la stessa “sinistra PD” è quella che votò compatta, con il resto del partito, la fiducia al governo Monti, la legge Fornero sulle pensioni, il pareggio di bilancio nella Costituzione? Questo per il limitarsi al settore dell’economia. Ma anche su altri piani strategici a livello politico, sociale e culturale, l’incessante attività portata avanti dalla Confindustria presso i vari dicasteri, l’Agenzia delle Entrate, le “Authority” della Privacy, dell’ Anticorruzione, ecc. ha trovato piena soddisfazione da quando il “giovane e moderno” leader toscano è arrivato a Palazzo Chigi. Si pensi alla riforma istituzionale: con largo anticipo rispetto al testo presentato dal governo, già un anno fa Confindustria chiedeva l’abolizione del “bicameralismo perfetto” ed un “Senato espressione delle autonomie territoriali”. O alla legge 107, detta – con non voluta ironia – della “Buona Scuola”, che realizza dopo vent’anni il progetto della Confindustria stessa in ambito educativo e che aveva trovato un primo, ma inadeguato, vettore nelle proposte di Forza Italia mai tuttavia pienamente concretizzatesi a livello di ristrutturazione degli istituti scolastici statali, secondo un modello gestionale di stampo mercantile e autoritario. Che cosa manca ancora? Quali i prossimi obiettivi? “Organizzare un secondo pilastro privato ed integrativo” al fine di “bilanciare la composizione della spesa e rendere più efficiente il sistema sanitario nel suo complesso” – come recitava la “Relazione sull’ attività confederale 2014” della Confindustria. Il che, tradotto nella lingua comune dei dominati, significa sostanziale privatizzazione della sanità, la quale costringa i cittadini a sottoscrivere assicurazioni per avere a pagamento dai privati quello che il servizio pubblico nazionale non passerà più. Non a caso gli ultimi interventi dell’esecutivo riguardano proprio i tagli delle prestazioni in tale settore, destinato a diventare la vittima designata della prossima Spending Review con la scusa della “medicina difensiva” che provoca sperperi.
3. Sistema tribale mediatico neoliberista
Renzi, dunque, non è “malato di annuncite”, come alcuni critici superficiali sostengono. Certo, Renzi annuncia, è il primo leader tutto mass-media, ma poi anche fa. Eccome se fa. A favore di chi, crediamo lo dimostrino ampiamente gli atti che abbiamo sopra elencato. È insomma il primo leader tutto promesse per il popolo, senza popolo (nessun Italiano ha mai votato per un programma di governo come quello che sta attuando) e contro il popolo. Per questo deve sopperire con la demagogia all’evidente iniquità di ogni legge che viene emanata. Lasciamo stare la vecchia storia degli 80 euro a chi ne guadagna meno di 1.500 al mese, che ormai non incanta più nessuno, dato che ogni cittadino ha potuto sperimentare a sue spese come siano state reperite le risorse, cioè attraverso duri tagli ai fondi di Comuni, Regioni e Sanità, che si sono trasformati in aumenti delle tasse locali in busta paga e diminuzione dei servizi. Lasciamo stare pure il balletto sulle cifre riguardanti le assunzioni a tempo indeterminato “grazie al” Jobs Act, sia perché ottenute unicamente attraverso l’incentivo degli sgravi fiscali ai padroni ed alla concessione agli stessi della libertà di licenziamento senza se e senza ma, sia perché comunque il tasso di disoccupazione reale resta al 12,7% e quello giovanile attorno al 44% (per inciso ricordiamo le città italiane tappezzate da giganteschi manifesti del PD che chiedevano le immediate dimissioni di Berlusconi nel 2011, poiché detta disoccupazione era allora al 29,7%…). Ciò che ultimamente impressiona è piuttosto la pioggia di miliardi di euro stanziati a parole dal governo per tutti i rami di attività umana, che nessuno ha mai visto, se non nel mondo virtuale del sistema tribale mediatico asservito al liberismo, che rilancia ed amplifica. Un classico specchietto per le allodole, o un gigantesco specchio di Archimede per incenerire i “gufi” e i “disfattisti” che dir si voglia. Miliardi e miliardi dunque, ce n’è per tutti: per le pensioni dei più poveri, per lo sblocco dei cantieri, per la banda larga, per la diminuzione delle tasse, per il dissesto idrogeologico, per il rilancio del Sud, per il reddito di inclusione, per la “Buona Scuola”. A metterli insieme si raggiunge una cifra che si aggira attorno ai 180… Come funzionino le cose nella vita reale, lo dimostra però un esempio relativo proprio al mondo della scuola. Per la ristrutturazione degli edifici scolastici il governo- ci viene detto dai trionfalistici tg alcune settimane fa- sono stati stanziati 1,3 miliardi, di cui saranno disponibili a settembre ben 21 milioni da utilizzare subito! Per il restante miliardo e 279 milioni non si sa nulla di preciso, si vedrà, forse, più avanti.
4. Gioco delle parti
L’ultimo punto si ricollega idealmente al primo. In una legislatura minata fin dal suo inizio dall’ombra dell’illegittimità è in atto oltretutto un disdicevole gioco di sponda parlamentare tra Renzi ed il suo padre putativo, Berlusconi, che ha consentito finora, in modo diretto o indiretto, al governo del suo giovane, autentico erede di reggere al Senato. Ricordiamo in questo senso l’appoggio esplicito garantito prima dell’elezione di Mattarella e l’arrendevolezza dimostrata successivamente in varie occasioni, tanto che sembrano in qualche modo concordate persino le varie “scissioni” del partito personale di Forza Italia (Fitto, Verdini), le quali, nelle intenzioni, dovrebbero consentire a Renzi di mandare in porto i suoi tanti progetti. L’inquinamento della vita politica, anche a livello istituzionale, è dunque profondissimo.

giovedì 20 agosto 2015

Sbriciolare la Siria, con missili Usa e mercenari jihadisti

«Quand’è che un cambio di regime non è un cambio di regime? Quando il regime di turno resta al potere ma perde la sua capacità di governare effettivamente. Ed è questo l’obiettivo della politica estera Usa in Siria, impedire al presidente Bashar Al Assad di governare il paese senza necessità di rimuoverlo fisicamente dall’ incarico». Lo afferma un osservatore internazione come Mike Whitney. «L’idea è semplice: scatenare “jihadisti” appoggiati dietro le quinte per catturare e tenere in scacco vasti territori del paese, in modo che il governo centrale non sia in effettivo controllo del suo paese. E’così che l’amministrazione Obama vorrebbe chiudere l’affare Assad, rendendolo irrilevante». La strategia è spiegata nel dettaglio in uno scritto del Brookings Institute a firma Michael O’Hanlon intitolato: “Decostruire la Siria: una nuova strategia per la più complessa tra le guerre americane”. «L’unico modo realistico di procedere da qui in avanti – afferma O’Hanlon – sarebbe in effetti un piano per decostruire efficacemente la Siria».
La comunità internazionale, scrive l’analista Usa, dovrebbe «lavorare a creare sacche» fuori dal controllo di Damasco, per poi «espanderle nel tempo». Letteralmente: «Forze americane, saudite, turche, britanniche, giordane e di altri Stati arabi Obamaagirebbero da costante supporto, non soltanto via aria, ma anche mediante l’uso di forze speciali di terra quando necessario», al fianco degli “elementi moderati” sul terreno (“moderati” come quelli che fecero uso di armi chimiche per poi incolpare della strage il regime). «Questo approccio – continua O’Hanlon – consentirebbe di trarre vantaggio dagli ampi spazi aperti desertici siriani che consentirebbero la creazione di zone cuscinetto che si potrebbero tenere sotto costante controllo per riconoscere in tempo ogni possibile segno di attacco nemico». L’obiettivo intermedio, aggiunge lo stratega del Brookings Insitute, sarebbe «una Siria confederale, costituita da varie zone largamente autonome», cioè sottoposte a una forza occidentale «che addestri e equipaggi ulteriori reclute, in modo che le zone possano essere stabilizzate ed eventualmente espanse».
«Non è questa la strategia di fondo che vediamo in gioco in Siria già adesso?», si domanda Whitney in un post su “Counterpunch” tradotto da “Come Don Chisciotte”. «E’il caso di notare come O’Hanlon non considera mai neanche un attimo le implicazioni morali di cancellare una nazione sovrana, di uccidere decine di migliaia di civili e di sradicarne altrettanti dalle loro dimore. Questo genere di cose sono semplicemente indifferenti per gli esperti che concepiscono queste strategie imperiali. E’ solo altra farina da macinare». Whitney fa notare inoltre che l’autore dello studio si riferisce a “zone cuscinetto” e “zone sicure”, ovvero «i medesimi termini che sono stati usati ripetutamente nell’ambito dell’accordo Usa-Turchia sull’uso da parte degli americani della base aerea di Incirlik». La Turchia ha chiesto agli Usa di assistere nella creazione di queste “zone sicure” lungo il confine Nord della Siria, in modo che fungano da “santuari” per l’addestramento delle cosiddette forze moderate da Michael O'Hanlonimpiegare nella “guerra contro l’Isis”. Questo è il piano di O’Hanlon per frammentare lo Stato in milioni di enclaves disconnesse tra loro, «ognuna retta da un manipolo di mercenari armati, affiliati ad Al Qaeda o signori della guerra locali».
«Ecco il sogno di Obama di una “Siria liberata”, uno Stato fallito precipatato nell’anarchia con una bella spruzzata di basi americane sopra, così che si potranno arraffare ed estrarne tutte le risorse senza impedimenti», aggiunge Whitney. «Quello che Obama vuole evitare a tutti i costi è un altro imbarazzante flop come l’Iraq, dove la rimozione di Saddam ha lasciato un vuoto di potere e una sensazione di insicurezza che ha portato a violenta e protratta rivolta che è costata cara agli Usa in termini di sangue, finanze e credibilità internazionale». Ecco la strategia oggi è diversa: «Gli obiettivi non sono mai cambiati, cambiano solo i metodi». Il piano, ammete lo stesso O’Hanlon, «non sarebbe diretto soltanto contro l’Isil, ma in parte anche contro Assad, senza mirare a rovesciarlo direttamente, ma piuttosto a negargli ogni possibilità di tornare a governare i territori su cui potrebbe aspirare a riottenere il controllo». Le “zone autonome” sarebbero “liberate” «con l’esplicito intendere che non torneranno mai sotto controllo di Assad o eventuale successore». E attenzione: «Se Assad continuasse a rifiutare di accordarsi per l’esilio, prima o poi si ritroverebbe vicino a costanti minacce al suo potere, se non alla sua persona».
Tutto questo, conclude Whitney, significa che «la Siria è designata come laboratorio per la gran strategia per i cambi di regime di O’Hanlon, una strategia nella quale Assad figura come porcellino d’India da esperimenti numero uno». E’ lo stesso O’Hanlon a spiegare che questo piano «scoraggerebbe chi possa pensare che Washington si accontenti di tollerare il governo Assad in quanto male minore». In pratica, per come la vede O’Hanlon, la Casa Bianca dovrebbe «abbandonare la pretesa di stare combattendo l’Isis e ammettere esplicitamente che l’imperativo è “Assad deve sparire”», chiarisce Whitney. Secondo O’Hanlon, «questo aiuterebbe a sistemare le cose con altri membri della coalizione che hanno dubbi rispetto alle reali intenzioni di Washington». L’uomo del Brookings Institute parla chiaro: «Squadre di supporto multilaterali, divise in forze speciali di terra e unità di difesa aerea devono essere sempre pronte al dispiegamento nelle diverse parti della Siria ogni volta che le forze di opposizione riescano a conquistare e mantenere nuove postazioni sicure. Questa chiaramente sarebbe la parte Assadpiù delicata, e il dispiegare squadroni sarebbe sempre pericoloso. Non bisognerebbe mai ordinare missioni in fretta e furia, ma farlo in maniera ponderata, tuttavia è parte indispensabile dello sforzo».
Traduzione di Whitney: «Stivali americani marceranno sul suolo della Siria, possiamo scommetterci. Va benissimo fare il miglior uso della carne da cannone jihadista per condurre la carica e indebolire il nemico, poi al momento giusto basta mandare la prima squadra e si è chiuso l’affare. Questo vuol dire invio di forze speciali, “no fly zone” su tutta la Siria, basi militari sul campo e una bella campagna di propaganda per continuare a convincere la “sheeple” (sheep+people, popolazione gregge) che per difendere la sicurezza nazionale Usa occorre necessariamente distruggere la Siria». Tutto questo, aggiunge Whitney, diventerà chiaro nella “fase due” della guerra, che è sul punto di intensificarsi. Per O’Hanlon, nonostante i rischi, il livello di coinvolgimento militare diretto degli Usa «non sarebbe particolarmente più sostanziale di quello che è stato necessario in Afghanistan durante l’ultimo anno».
Per cui, «sarebbe auspicabile che il presidente Obama non guardasse alla questione come un problema da lasciare in eredità al successore, ma piuttosto come una crisi urgente che richiede tutta la sua attenzione e la definizione di una nuova strategia al più presto». Ed ecco dunque il piano per «fare a pezzi la Siria, precipitarla in una crisi umanitaria anche peggiore di quella in cui già si trova e fare crollare Assad senza dover andare in prima persona a rimuoverlo dall’ufficio», scrive Whitney. «Un bel po’ di massacro e distruzione», in un mini-saggio di appena 1.100 parole. «Complimenti all’autore per le doti di sintesi. A noi non resta che domandarci se questi cervelloni stretegici pensano mai a quanto dolore comportano le loro grandi strategie, se gliene freghi almeno qualcosa delle conseguenze». Il piano, peraltro, sembra già in marcia. Subito dopo l’accordo con l’Iran, Obama ha promosso la “no fly zone” sul Kurdistan siriano: prima mossa dell’atroce risiko di cui parla O’Hanlon.

mercoledì 19 agosto 2015

Obama: ambiente pulito, affari sporchi

Che il Pianeta goda di cattiva salute è un dato di fatto, anche i grandi sporcaccioni se ne sono accorti, almeno dal 1992: Summit della Terra (Conferenza Onu di Rio de Janeiro). Ma a parte le chiacchiere, poco o nulla hanno fatto. E la situazione diventa sempre più pericolosa. Qualche ingenuo potrebbe pensare che Obama cerchi di porre rimedio a una possibile catastrofe, in cui verrebbero coinvolti anche padroni e politicanti. In realtà, neppure di fronte alla catastrofe, i padroni dimenticano il profitto.
L’iniziativa di Obama è una furbata. E sporca. Non per nulla i media europei sono stati abbastanza tiepidi. A ben vedere, è una crociata contro il carbone che non tocca assolutamente il nucleare, energia tutt’altro che pulita.
Il Piano Energia pulita non è altro che un tentativo di devalorizzare una quota significativa del capitale fisso Usa, eliminando le centrali elettriche a carbone e parte delle miniere. Solo una parte, poiché alcune sono in fase di dismissione (o sono già dismesse) altre, ristrutturate, da alcuni anni indirizzano la loro produzione di carbone verso il Regno Unito, la Germania, l’Olanda, la Corea del Sud e il Giappone (dopo il disastro nucleare di Fukushima).
La devalorizzazione darebbe spazio a forti investimenti nello sviluppo delle cosiddette energie pulite: nucleare (ovviamente sicuro!), fotovoltaico/solare, eolico e, dulcis in fundo, il magico fracking (shale oil), sulla cui sicurezza sussistono forti dubbi.
Sono tutte tecnologie in cui gli Usa sono all’avanguardia (quando non ne hanno il monopolio) e, inoltre, rispetto ad altri Paesi (come l’Europa), godono di una posizione privilegiata per la disponibilità di vaste aree poco abitate in cui impiantarle. Salvo creare qualche inconveniente per le aree agricole.
Sul piano competitivo, gli Usa potranno trarre importanti vantaggi, soprattutto nei confronti della Ue, stretta tra spinte produttivistiche e preoccupazioni ambientaliste. Preoccupazioni, queste ultime, che invece toccano molto marginalmente i Paesi del Terzo Mondo, in primis Cina e India, che, per restare al passo della «globalizzazione», condanneranno le loro popolazioni e vivere (e morire) in un ambiente sempre più mefitico. Dove, tra l’altro, proliferano le più sporche produzioni che il civile Occidente delocalizza.
Ma anche i proletari yankee avranno poco da viver sani e felici, poiché il progetto di Obama non tocca assolutamente anzi, implicitamente, esalta una produzione industriale mortifera, come per esempio le tante acciaierie tipo Ilva di Taranto, che producono acciaio per automobili che appestano lande sempre più cementificate. E nei luoghi di lavoro, gli operai continueranno a sputar sangue, per la maggior gloria del profitto. Nonostante l’energia pulita.
Questo è il mondo proposto da Obama. Ma il diavolo potrebbe metterci la coda, facendo crollare il piano ancor prima di decollare. Nonostante sia un intervento tutto sommato modesto, il Piano Energia pulita si infila in un ginepraio di interessi contrastanti e potrebbe creare sciagure peggiori di quelle che vorrebbe evitare.

martedì 18 agosto 2015

Una società disumana dove gli ultimi non trovano più posto

Il 5 agosto, in Piazza Umbria, alla periferia nord di Torino, l’umanità non c’era, come troppo spesso capita in questo mondo sempre più arrogante e violento contro gli indifesi, i semplici, quelli che per la società sono solo scorie, rifiuti a cui non è dato alcun rispetto.
Quel giorno è morto Andrea Soldi, un uomo di 45 anni affetto da disturbi psichici; un colosso buono che passava i giorni su una panchina a far ridere mamme e bambini con i suoi versi, sempre gentile e con un sorriso per tutti.
Alle volte smetteva di prendere i farmaci che tenevano lontana la sofferenza del suo male, la schizofrenia, allora il padre doveva chiedere per lui il Tso, il Trattamento Sanitario Obbligatorio, e tutto continuava come sempre. Quel giorno è stato diverso, quel giorno è morto, senza un perché né una giustificazione che non sia la totale mancanza di rispetto e di umanità.
Tre agenti della polizia municipale, guidati da uno psichiatra, lo hanno serrato al collo, bloccato e steso a terra, ammanettato che era già cianotico e infine caricato su un’ambulanza faccia in giù senza alcun riguardo, malgrado le rimostranze dei volontari del 118. È morto poco dopo l’arrivo in ospedale.
Adesso è stata aperta un’inchiesta, ad occuparsene è il sostituto Raffaele Guariniello che ha indagato i tre agenti e lo psichiatra per omicidio colposo, ed ora valuta anche l’omissione di soccorso.
L’autopsia ha già dimostrato che i vigili avrebbero preso Soldi al collo fino a farlo svenire, e continua dicendo che si sarebbe comunque potuto salvare se non fosse stato ammanettato e lasciato a faccia in giù sulla lettiga. Un’agonia durata dieci minuti, forse di più, nel più assoluto disinteresse dei presenti. Anzi: secondo quanto riportato da alcune registrazioni telefoniche, dinanzi alle rimostranze dei volontari del 118, è stato lo psichiatra ad ordinare di tenerlo così, e i vigili a spalleggiarlo intimidendoli.
Adesso che Andrea non c’è più, è cominciato il solito rimpallo di responsabilità, lo scarica barile, le prese di distanza da un episodio che parla solo di una spaventosa brutalità. C’è solo da sperare che le due inchieste, quella giudiziaria e quella del Ministero della Salute, giungano presto ad una conclusione che faccia giustizia, ma quella vera, malgrado i cavilli della legge e regolamenti volutamente contorti.
Resta la tristezza per Andrea, la cui unica colpa era il suo disagio; resta la rabbia per un Sistema ipocrita, che ha messo fine alla vergogna dei manicomi ma nulla ha fatto per quegli sventurati, considerati un peso per la società, abbandonando loro e le loro famiglie; resta il disgusto per tutta quella gente – e sono tanti, troppi – arrogante e brutale contro chi è indifeso, debole, diverso ai suoi occhi.

lunedì 17 agosto 2015

Dal Fmi a Renzi, curare la polmonite tagliando una gamba

Dunque mettiamola così: il medico che per curarti la polmonite ti ha amputato una gamba ora ti guarda perplesso. Dannazione, la polmonite non è passata. Dunque propone di amputarti l’altra gamba. Sembra una storiella per chirurghi, e invece è la storia del prodigioso Fondo Monetario Internazionale, quello che di fatto gestisce e controlla l’economia mondiale, un medico che se lavorasse in corsia farebbe più morti della peste del Seicento. La nuova vulgata ora è questa: bravini, avete fatto qualche sforzo nella direzione da noi indicata (traduco: vi siete tagliati una gamba), ma non basta. Per essere felici e tornare a correre nelle praterie del benessere dovrete tagliarvi pure quell’altra. Quasi tutti riportano con grande enfasi le parole dell’illustre medico, invece di rincorrerlo, come sarebbe più comprensibile, con un martello molto pesante. E dunque ecco: per riavere il tasso di occupazione pre-crisi, l’Italia dovrà aspettare ancora una ventina d’anni, e questo se tutto va bene e si fanno le riforme che il Fondo Monetario prescrive.
Tra queste, tenetevi forte, la contrattazione decentrata di secondo livello (in italiano: basta contratti nazionali, ogni fabbrica discuta col proprio imprenditore), rivedere i modelli retributivi (in italiano: guadagnare tutti un po’ meno), cambiare il sistema Alessandro Robecchieducativo (in italiano: trasformare la scuola in una fabbrica di mano d’opera). Siamo ancora lì: invece di alzarsi e cominciare a inveire, come farebbero in ogni ospedale del mondo i parenti del degente, al ministero dell’economia dicono che insomma, loro quelle cose le stanno già facendo. Disperante. Fortunatamente, nota qualcuno, non è raro che il Fondo Monetario prenda della cantonate, ma pare che questo non infici in alcun modo il fatto che le sue ricette vengano accolte come sacre e inviolabili. Insomma: la politica economica degli Stati la fanno quei signori lì, e gli stati si adeguano.
Ne fa in qualche modo fede l’accanirsi del ministero del lavoro sui dati dell’occupazione, diffusi a piene mani anche con criteri un po’ risibili. Esempio: se nella famiglia Brambilla lavorava solo il padre e ora, avventurosamente o per merito, ha trovato lavoro anche il figlio, è possibile rintracciare i titoloni sui giornali: “Brambilla: raddoppiata l’occupazione!”, segue dibattito. Invece si dice poco e male che i contratti a tempo indeterminato (si fa per dire, perché senza articolo 18 sono tutti a termine a Giuliano Poletti, ministro del lavorocapriccio del padrone) sono quasi tutti sostitutivi di altre posizioni, cha la disoccupazione resta mostruosa, che l’80 per cento e più dei nuovi contratti è a tempo determinato, cioè il vecchio caro precariato che si voleva (ehmm…) sconfiggere.
Sono numeri che schiantano il paese, ma che in qualche caso – solo per osservatori attenti – sotterrano anche una certa retorica farlocca dispiegata a piene mani. Basta pensare all’enfasi con cui si propugna come vincente e risolutiva la figura dell’imprenditore. Non c’è talk show, pagina economica o rotocalco che non abbia in bella vista il geniale imprenditore (delle salsicce, dei gelati, delle giacche a vento in piuma d’oca) che tiene la lezioncina su quanto è bello fare i padroni, con conseguente invito ai “giovani”: dai fatelo anche voi! Risultati devastanti. Da un lato frustrazione per chi non ha un papà finanziatore. Dall’altro gradi applausi per piccole, a volte geniali, start-up, salvo poi andare a vedere e scoprire che fatturano milioni e hanno un dipendente: la segretaria (se va bene). Creare valore per sé e non lavoro e benessere per tutti, insomma, è considerato modernissimo e à la page. Sempre in attesa, ovviamente, che il medico dica: perbacco, nemmeno tagliare un’altra gamba ha fatto passare questa fastidiosa polmonite, propongo di amputare un braccio. Applauso del paziente.

domenica 16 agosto 2015

Washington non ha impedito l'ascesa dell'Isis di proposito.

Michael Flynn, ex capo della Defense Intelligence Agency (DIA): "Penso che sia stata una decisione. Penso che sia stata una decisione volontaria"
Gli Stati Uniti non hanno impedito l'ascesa di gruppi jihadisti anti-governativi in Siria poi degenerato nello Stato islamico. A parlare è l'ex capo della Defense Intelligence Agency americana, che in un rapporto segreto del 2012 aveva accuratamente predetto la loro ascesa.
In un'intervista a Mehdi Hasan, il tenente generale in pensione Michael Flynn, ex capo della Defense Intelligence Agency (DIA) conferma i sospetti iniziali che Washington stava monitorando gruppi jihadisti emergenti come opposizione in Siria.
Flynn ritiene che il governo degli Stati Uniti non ha ascoltato la sua agenzia di proposito.
"Penso che sia stata una decisione. Penso che sia stata una decisione volontaria ", ha detto l'ex capo della DIA.
Il rapporto della DIA presentata nel mese di agosto 2012 affermava che "i salafiti, i Fratelli Musulmani, e AQI [Al-Qaeda in Iraq] erano le forze principali che guidavano l'insurrezione in Siria," sostenute da "Occidente, Paesi del Golfo e la Turchia . "
Il documento recentemente divulgato attraverso il Freedom of Information Act (FOIA), analizza la situazione in Siria, nell'estate del 2012 e prevede: "Se la situazione degenera, vi è la possibilità di stabilire un principato salafita dichiarato o non dichiarato in Siria orientale ... e questo è esattamente ciò che i poteri di sostegno all'opposizione vogliono, al fine di isolare il regime siriano ".
Il rapporto mette in guardia da "terribili conseguenze", perché permetterebbe di Al-Qaeda di riconquistare le sue posizioni in Iraq e unificare le forze sunnite jihadiste in Iraq, la Siria e il resto dei sunniti nel mondo arabo contro tutte le altre minoranze musulmane essi considerano dissidenti.
"ISI (lo Stato Islamico dell'Iraq) potrebbe anche dichiarare uno Stato islamico attraverso la sua unione con altre organizzazioni terroristiche in Iraq e Siria, che creerà un grave pericolo per quanto riguarda la possibilità di unificare l'Iraq e la protezione del suo territorio", il rapporto DIA aveva previsto correttamente.
A differenza del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, che si precipitò ad etichettare il memo DIA declassificati come poco rilevanti subito dopo il suo declassamento, l'ex capo della DIA ha espresso piena fiducia nella relazione del 2012.
Quando Hasan di Al Jazeera ha chiesto Flynn perché non ha cercato di fermare gli Stati Uniti rispetto ai trasferimenti di armi verso gli estremisti islamici, il generale in pensione, ha detto: "Odio dire che non è il mio lavoro, ma il mio lavoro è stato quello di garantire la precisione della nostra intelligence ", ha detto Flynn, che è stato anche direttore dell'intelligence per il Joint Special Operations Command (JSOC) durante la ricerca degli Stati Uniti a Bin Laden.

sabato 15 agosto 2015

CGIL: «L’ABOLIZIONE DI TASI E IMU È UN REGALO AI PIÙ RICCHI»

L'abolizione delle tasse promesse da Renzi faranno risparmiare ai poveri 55 , mentre per un milione di contribuenti più ricchi il risparmio sarà in media di circa 827 euro. Il segretario confederale Cgil Danilo Barbi: «Le mancate entrate saranno coperte da tagli sui servizi fruiti dai cittadini»
L’abolizione della tassa sulla prima casa pro­messa urbi et orbi dal pre­si­dente del Con­si­glio Renzi varrà per 8 milioni di con­tri­buenti, quelli delle due fasce di ver­sa­mento più basse, circa 55 euro pro-capite, men­tre per un milione di con­tri­buenti più ric­chi il rispar­mio sarà in media di circa 827 euro.
Lo sconto per 35.700 pro­prie­tari di case di lusso arri­verà a circa 1.940 euro. Lo ha cal­co­lato l’ufficio fisco e finanza pub­blica della Cgi secondo il quale l’operazione «for­nirà bene­fici molto limi­tati a chi ha già poco, cioè la mag­gio­ranza di lavo­ra­tori e pen­sio­nati, men­tre saranno molto più cospi­cui per chi pos­siede pro­prietà di mag­gior valore».
Se per le per­sone a basso red­dito i van­taggi saranno, a giu­di­zio della Cgil, mode­sti, rile­vanti saranno invece gli svan­taggi: «le man­cate entrate deri­vanti dall’abrogazione di Tasi e Imu — sostiene il segre­ta­rio con­fe­de­rale Danilo Barbi — saranno coperte da tagli sui ser­vizi nor­mal­mente fruiti da que­sti cit­ta­dini». Si parla dei tagli da oltre 2 miliardi di euro per il pros­simo trien­nio alla Sanità: «un ulte­riore impo­ve­ri­mento del ser­vi­zio sani­ta­rio pub­blico che ridurrà il diritto uni­ver­sale alla salute».
Per quanto riguarda la tas­sa­zione sulle imprese, nel 2016, le misure strut­tu­rali di ridu­zione fiscale dovreb­bero rag­giun­gere 10 miliardi annui, por­tando ad un’aliquota del 24% nel 2017. In que­sto pac­chetto non biso­gna tanto meno dimen­ti­care la decon­tri­bu­zione sui nuovi «con­tratti a tutele cre­scenti», pre­vi­sti dal Jobs Act.
La Cgil stima una spesa effet­tiva di 5 miliardi in tre anni per la crea­zione com­ples­siva di 200mila unità di lavoro nel set­tore privato.
Un’impresa vana, di fronte a una disoc­cu­pa­zione che resterà sta­bile tra il 12 e il 13% nei pros­simi anni. La ridu­zione di Ires e Irap sulle imprese è «l’ennesimo prov­ve­di­mento ‘a piog­gia che pre­scinde, ad oggi, da inve­sti­menti, inno­va­zione, pro­dut­ti­vità e mag­giore occu­pa­zione» sostiene Barbi.
Per il 2018, Renzi ha annun­ciato la ridu­zione dell’Irpef. La radio­gra­fia del sin­da­cato di Corso Ita­lia ha cal­co­lato un rispar­mio annuo per un red­dito di 18mila euro di 970 euro; per uno di 35mila euro di 2.950; per uno di 150 mila di 11.800 euro. In pra­tica il Pd e Renzi agi­scono come un Robin Hood alla rove­scia: danno ai più ric­chi ciò che hanno tolto ai più poveri, rove­sciando ogni cri­te­rio di pro­gres­si­vità della tas­sa­zione e, anzi, age­vo­lando la legge prin­ci­pale della disu­gua­glianza con­tem­po­ra­nea: la ric­chezza pre­mia sem­pre il ver­tice della pira­mide sociale. In basso «sgoc­cio­lano» sem­pre meno risorse.
L’analogia tra le poli­ti­che fiscali di Ber­lu­sconi e Tre­monti e quelle di Renzi e del Pd non è una sem­pli­fi­ca­zione di comodo. Per la Cgil si tratta della stessa poli­tica: «Evoca una riforma dell’Irpef con due sole ali­quote, non garan­ti­rebbe più la pro­gres­si­vità del sistema tri­bu­ta­rio. Il rispar­mio fiscale sarà così tanto più rag­guar­de­vole, quanto mag­giore è il reddito».
Non solo: sono poli­ti­che che non ser­vono all’aumento dell’occupazione, che non sia quella «dro­gata» da incen­tivi che tutt’al più tra­sfor­mano i con­tratti esi­stenti in quelli a «tutele cre­scenti». «Cia­scuna di que­ste nuove misure fiscali non favo­rirà l’occupazione, e tanto meno sti­mo­lerà la cre­scita del Paese» con­ferma Barbi.
Il pac­chetto «taglia-tasse» del governo pre­ve­de­rebbe una revi­sione della spesa pub­blica com­ples­siva di circa 26 miliardi. Una pro­spet­tiva che pre­oc­cupa il sin­da­cato che pro­pone un’altra strada: la crea­zione diretta di occu­pa­zione e inve­sti­menti pub­blici che avrebbe un bene­fi­cio sul Pil quat­tro volte supe­riore rispetto ad un taglio gene­ra­liz­zato delle tasse

venerdì 14 agosto 2015

Istat, Inps e Governo, sul lavoro una babele di numeri solo italiana

I numeri sul lavoro, essendo stato que­sto il prin­ci­pale punto di scon­tro tra par­titi e sin­da­cati e den­tro i par­titi, si sono cari­cati di signi­fi­cato poli­tico come mai era acca­duto
E’ diven­tato lo spet­ta­colo dei numeri. Il 27 Luglio nella nota flash del mini­stero del Lavoro si sot­to­li­nea che a giu­gno sono stati atti­vati 822 mila nuovi con­tratti di lavoro e sic­come ne sono ces­sati 760 mila ci sono 62 mila con­tratti in più. Il 31 luglio l’Istat comu­nica che a giu­gno ci sono stati 22.297 mila occu­pati, 40 mila in meno dello scorso anno. Ma il 10 ago­sto arriva l’Inps a dirci che i nuovi rap­porti di lavoro a tempo inde­ter­mi­nato nei primi sei mesi del 2015 sono aumen­tati del 36% rispetto ad un anno fa. Il let­tore non si pre­oc­cupi, non intendo pro­se­guire con altri numeri, né dimo­strare chi ha ragione e chi ha torto.
Anzi voglio ras­si­cu­rarli: tutti i numeri citati sono giu­sti e tutti i for­ni­tori hanno ragione. D’altra parte si tratta di enti pub­blici e di numeri cer­ti­fi­cati, che nascono da rile­va­zioni che, anche se aggior­nate, esi­stono da anni. Ed allora? Cosa c’è di nuovo che pro­voca ogni mese un fio­rire di arti­coli e dichia­ra­zioni di otti­mi­sti della ripresa e di gufa­tori di professione?
C’è che i numeri sul lavoro, essendo stato que­sto il prin­ci­pale punto di scon­tro tra par­titi e sin­da­cati e den­tro i par­titi, si sono cari­cati di signi­fi­cato poli­tico come mai era acca­duto. C’è che mai come adesso ave­vamo avuto un comu­ni­ca­tore come Renzi che sem­bra disporre di algo­ritmi logici gene­ra­tori auto­ma­tici di tweet e post che si pre­stano a diven­tare titoli di agen­zie e tv da ampli­fi­care con mal­ce­lata sim­pa­tia per lo spi­rito che le anima. C’è anche il fatto che, anche se i dati sono stati sem­pre pro­dotti, mini­stero del lavoro ed Inps, oggi, lo fanno con una enfasi alla quale non sem­bra estra­neo il fatto che il mini­stro Poletti ha tutto l’interesse ad uti­liz­zare i dati per con­fer­mare la vali­dità delle sue scelte sul lavoro e che il pre­si­dente dell’Inps Boeri è addi­rit­tura l’ideatore del con­tratto a tutele cre­scenti. In altri tempi, avremmo par­lato di con­flitto di inte­ressi, in que­sti dob­biamo pre­ci­sare che si tratta di inte­ressi poli­tici e non materiali.
Ma, e così arri­viamo a noi, gente di sini­stra, c’è anche il fatto che ad ogni uscita pom­pata dal trio Renzi, Poletti, Boeri le voci cri­ti­che sono costrette a rin­tuz­zarne le for­za­ture comu­ni­ca­tive, a con­te­starne gli effetti stra­bi­lianti e subi­scono due destini: quello di essere igno­rate o, forse peg­gio, quello di essere con­si­de­rate scon­tate e, quindi, inu­tili ed inefficaci.
E così il nuovo Piran­dello rie­sce anche ad asse­gnare i ruoli a tutti i per­so­naggi del suo spet­ta­colo poli­tico media­tico, amici e nemici che siano, ed a nes­suno di essi è con­sen­tita una vita vera ed auto­noma dall’autore.
Pur­troppo però la realtà è più tri­ste della com­me­dia e c’è biso­gno urgente di fer­mare le repli­che men­sili di que­sto tri­ste spettacolo.
É tri­ste che men­sil­mente l’Istat sia come brac­cato prima e dopo l’uscita dei suoi dati da due organi del ser­vi­zio sta­ti­stico nazio­nale che pro­du­cono dati come sot­to­pro­dotto delle loro atti­vità ammi­ni­stra­tive. Inten­dia­moci niente di male o di ille­cito. Ma per­ché dare a que­sti dati che col­gono solo aspetti par­ti­co­lari del mer­cato del lavoro, e nes­suno dei quali misura effet­ti­va­mente l’andamento dell’occupazione com­ples­siva, signi­fi­cati gene­rali che essi non hanno?
Certo non si può impe­dire ad Inps e mini­stero del Lavoro di ren­derli pub­blici, e nem­meno a Renzi di tra­smet­terci il suo entu­sia­smo, ma è troppo chie­dere, che essi ven­gano messi insieme tra loro con quelli dell’Istat per for­nire una let­tura inte­grata del mer­cato del lavoro che parta dal dato gene­rale del numero di occu­pati e scenda poi a vedere se sono a tempo deter­mi­nato o inde­ter­mi­nato, se figli di nuove assun­zioni o di minori ces­sa­zioni e così via?
In quale altro paese euro­peo esi­ste que­sta babele? Non vor­remo per caso espor­tare in Europa oltre all’Italicum anche il caos sta­ti­stico? Un primo invito, allora, alla sini­stra par­la­men­tare: chie­dere che ogni tre mesi l’Istat pre­senti al par­la­mento un Rap­porto nel quale si foto­grafi il mer­cato del lavoro inte­grando in una visione uni­ta­ria ed orga­nica le infor­ma­zioni pro­ve­nienti dalle diverse fonti.
Ma, rivol­gen­domi a let­tori di sini­stra, c’è qualcos’altro che va detto. Se Renzi ed i suoi sono bra­vis­simi comu­ni­ca­tori è anche vero che a sini­stra siamo messi maluc­cio. Il pro­blema non è di avere argo­menti per con­te­stare la let­tura gover­na­tiva dei dati (que­sto gior­nale lo fa egre­gia­mente), ma del mes­sag­gio che arriva all’opinione pubblica.
Provo a par­tire da una affer­ma­zione pro­vo­ca­to­ria: che aumen­tino i con­tratti a tempo inde­ter­mi­nato è un fatto posi­tivo, anche se quello che loro chia­mano a tempo inde­ter­mi­nato lo è solo per tre anni. Non è un caso che tra gli indi­ca­tori di Benes­sere equo e soste­ni­bile (Bes) vi sia la per­cen­tuale di tra­sfor­ma­zioni da lavori insta­bili a lavori sta­bili. La sini­stra non può non dirsi con­tenta per que­sto. Ma con la stessa one­stà deve ricor­dare che esi­stono tanti altri indi­ca­tori da per­se­guire (tassi di occu­pa­zione, tassi di man­cata par­te­ci­pa­zione, tassi di infor­tuni, sod­di­sfa­zione nel lavoro, lavo­ra­tori con bassa paga, lavoro fem­mi­nile ed asim­me­tria…) e chie­dere che il Rap­porto Istat sul lavoro for­ni­sca una visione com­pleta e misuri le azioni di policy col metodo dei costi-benefici.
Per tor­nare alle tra­sfor­ma­zioni a tempo inde­ter­mi­nato incen­ti­vate for­te­mente, la sini­stra dovrebbe chie­dere di valu­tare il rap­porto costo dei bene­fici ero­gati ed effetti occu­pa­zio­nali otte­nuti (magari pro­vando a fare da sé qual­che cal­colo ed a dare i suoi numeri) e pro­porre, anche in vista della replica del bonus assun­zione, che esso sia fina­liz­zato alle assun­zioni delle donne, a quelle vere che incre­men­tano il numero degli occu­pati, a quelle al Sud di cui si parla solo quando esce il rap­porto Svi­mez. Penso che con posi­zioni più con­crete e pre­cise come que­ste sia più cre­di­bile la cri­tica ai numeri e più effi­cace la cri­tica da sinistra.

mercoledì 12 agosto 2015

Lo sporco gioco delle grandi Banche Europee che trasferiscono gli utili nei paradisi fiscali

Una informativa della Richard Murphy FCA Consulting per il gruppo Verde/Ale del Parlamento Europeo, a cui ha avuto accesso “Publico”, rivela che, giganti come Deutsche Bank, la Royal Bank of Scotland o l’ olandese Rabobank Group ed altre mega banche europee, dichiarano buona parte dei loro utili a Malta, in Finlandia o a Curacao per sottrarsi alle imposte da pagare nel loro paese d’origine.
Le stesse grandi banche europee, quelle per intenderci a cui la Grecia deve pagare gli interessi sul debito, visto che la Troika proibisce di tagliare il debito pubblico, si dedicano a trasferire centinaia di milioni di euro dei loro utili nei paradisi fiscali per evadere le imposte corrispondenti alle Finanze dei rispettivi paesi.
Le cinque prime banche della lista di questa gigantesca elusione fiscale (Royal Bank of Scotland, Deutsche Bank, Rabobank Group, Standard Chartered e Barclays) sono fra le maggiori beneficiarie dell’enorme livello di spread che si è applicato allo Stato greco durante la crisi finanziaria globale, in cui alcune di quelle banche hanno dovuto essere riscattate con decine di migliaia di milioni delle stesse casse pubbliche che adesso stanno defraudando.
Queste sono le conclusioni dell’informativa affidata alla Richard Murphy FCA Consulting dal gruppo dei Verdi/Ale dopo un lunga ricerca effettuata dal Comitato Speciale sulle Imposte del Parlamento Europeo (TAXE Committee), al cui contenuto abbiamo avuto accesso.
Le manovre della Grande Coalizione per affossare il controllo sulla Banca Europea
I primi indizi su queste pratiche fraudolente che sottraggono dalle casse pubbliche di ogni stato membro della UE quantità gigantesche di imposte non pagate, erano sorti dallo scandalo LuxLeaks, notizie filtrate per cui erano venuti alla luce che il Governi del Lussemburgo- di cui Jean C. Junker era il presidente- aveva chiuso accordi segreti con con più di 300 grandi multinazionali per ottenere che queste sceglessero il Lussemburgo come sede della capogruppo in cambio di benefici sulle imposte che venivano ridotte all’1% contro le imposte societarie regolari corrispondenti al 30% circa che avrebbero dovuto pagare nei paesi europei di provenienza.
In ragione di questo scandalo. i gruppi di sinistra ed ecologisti, oltre alla Lega ed il Fronti National francese, hanno cercato di impedire la nomina di Junker come presidente della CE CCommissione Europea) e di creare un Comitato di Indagine sulle imposte per sviscerare queste mnovre occulte di ingegneria fiscale in Lussemburgo, Olanda e Irlanda che squilibrano le finanze pubbliche del resto dei paesi. Tuttavia la Grande Coalizione (dei popolari, socialisti e liberali ) ha imposto Junker come presidente della CE ed ha solo permesso di creare una commissione speciale, che ha molti meno compiti che non un comitato di indagine, ricorda Ernest Urtasun, un eurodeputato della ICV ed uno dei 45 parlamentari di tutti i paesi che lavorano adesso in questo comitato.
In realtà hanno dovuto accettare che venisse creato un comitato speciale perchè era accaduto qualche cosa di simile a quanto avvenuto per il TTIP, il trattato di libero commercio fra gli UE-USA, spiega Urtasun. “Ci sono stati molti socialisti che si sono sottratti agli ordini della cupola dei loro partiti, hanno firmato la proposta ed alla fine si è ottenuto di formare il comitato.
Tuttavia adesso abbiamo chiesto gli atti del gruppo di lavoro sulle informazioni fiscali, in cui gli Stati membri si interscambiano le informazioni a porta chiusa, ma non hanno voluto darcele”.
Di Fatto,molti paesi non stanno collaborando con il comitato, come ad esempio la stessa Spagna e l’Italia , sottolinea Urtasun: “Gli Stati che ci hanno passato le informazioni sono la Finlandia, i Lussemburgo, il Regno unito, la Slovacchia…e non tutti i documenti. Altri Stati come Spagna e Italia hanno frapposto ostacoli. Se continueranno a farlo per ottenere le informazioni, ci riserviamo di presentare al Parlamento Europeo una richiesta di un comitato di indagine, con l’autorità per reclamare il materiale ad ogni Governo, e questa volta la pressione politica sarà molto forte”.
Nonostante questi ostacoli, il comitato ha già ottenuto di riunire sufficiente materiale documentale per incaricare dell’informativa la European Bank’s Country-by-Country Reporting de Richard Murphy FCA Tax Research LLP Report, che dimostra come le grandi banche europee “hanno provveduto a sopravalutare i loro utili nelle giurisdizioni sottoposte a basso livello di imposte o in luoghi identificati come paradisi fiscali, nel momento in cui sottovalutavano tali rendite dove dispongono dei loro maggiori centri operativi”.
Fino ad ora l’indagine ha identificato un movimento di evasione di imposte superiore ai 100 milioni di euro, quantità che sembra piccola soltanto perchè la maggior parte delle banche non informano circa le transazioni all’interno del proprio gruppo bancario, in modo che occultano questa fuga di capitali verso luoghi dove hanno propri sedi operative private.
Secondo le conclusioni preliminari del Tax Research LLP Report, le 26 maggiori banche dell’Unione Europea fanno transitare le loro rendite attraverso di almeno 30 giurisdizioni nazionali per travasare i loro utili verso paradisi fiscali come Singapore, Hong Kong, Emirati, Jersey, Malta, Curacao, Mauritius e Isola di Man. Tuttavia risulta che portano anche in stati della UE che in realtà funzionano come “coperchi”, visto che hanno regimi fiscali speciali con tassazione societaria minima, come l’Irlanda, l’Olanda, il Belgio o lo stesso Lussemburgo. (…………………………………….).
Ad esempio il colosso finanziario tedesco Deutsche Bank, con entrate annuali di 33.000 milioni di euro, invia il conto dei suoi utili all’isola di Malta-un conosciuto paradiso fiscale delle multinazionali tedesche- e l’informativa calcola ce potrebbe aver evaso in questo modo circa il 18% dei suoi guadagni, che si aggirano sui mille milioni di euro all’anno. Questo gigante Bancario, con sede a Frankfurt (come la BCE) ed operazioni in 70 paesi, ha dovuto saldare l’anno scorso multe per un valore di 2.500 milioni di euro, per impsoste alle autorità degli USA e del Regno Unito per aver manipolato i tassi di interesse di riferimento.
Come in questo caso ci sono altre situazioni simili che riguardano la Royal Bank of Scotland (RBS), i cui utili prima delle imposte si sono duplicati fino a superare i 3.7000 milioni di euro solo nei primi sei mesi di quest’anno e che, secondo l’informativa, ridistribuisce i suoi guadagni in paesi inaspettati come ad esempio la Finlandia, per evadere le imposte.
Sorprende pertanto che gli stessi governi ,che si dimostrano implacabili con la restituzione dei debiti pubblici di paesi come la Grecia, si dedicano poi ad ostacolare le indagini sulle fortune che queste grandi entità finanziarie, beneficiate da detta politica economica, stanno di fatto defraudando le finanze dei loro stati di appartenenza. Sembra che i governanti delle potenze economiche della UE non vogliano difendere gli interessi dei propri cittadini e dei loro Stati, ma piuttosto quelli delle grandi banche in sfavore delle casse pubbliche ( salvo poi ad esigere politiche di austerità e di tagli sociali).
(………………………………)
Nota: In Italia le autorità di governo ed il PD in particolare, il partito che difende gli interessi della grande finanza ed è totalmente succube alle direttive di Bruxelles, sostengono che molti dei problemi dell’economia italiana potrebbero essere risolti individuando l’evasione fiscale che, secondo loro, è essenzialmente dovuta ai ristoratori, ai tappezzieri, agli idraulici, algli artigiani, ecc. mai però prendono in esame l’evasione e l’elusione dei grandi gruppi bancari e finanziari che sono spesso i loro stessi sponsor.

martedì 11 agosto 2015

Roma, la vecchia faccia della nuova mafia

Per capire quello che sta avvenendo a Roma sia sul piano giudiziario che su quello politico e istituzionale è necessario capire da subito che il fenomeno criminale di Mafia Capitale non solo era prevedibile, ma che si è costruito in decenni di imperdonabile disattenzione e spesso, come emerge dalle carte della Procura di Roma, di complicità.
In molti ci hanno raccontato che la Banda della Magliana era finita con la morte di Enrico De Pedis nel 1990 e che con lei si fosse chiusa la possibilità che si costituisse nella Capitale un’organizzazione criminale di matrice mafiosa. Altri addirittura datavano la fine della Banda con l’arresto nell’85 di Pippo Calò. Perfino la preziosissima relazione della Commissione Antimafia presieduta da Gerardo Chiaromonte e pubblicata nel 1992 sposava questa tesi. Purtroppo in troppi ci hanno creduto. Di conseguenza questa narrazione ci ha portato oggi, davanti al progressivo svelamento dell’organizzazione criminale che farebbe capo all’ex terrorista dei Nar e uomo della Banda Massimo Carminati, ad affrontare, capire e interpretare il fenomeno del potere mafioso nella Capitale con almeno 20 anni di ritardo. Mafia Capitale (questo il nome dato dagli inquirenti a questa quinta mafia alla matriciana) è figlia della Banda, del mondo dell’eversione nera e in particolare dei Nar e degli intrecci consolidati in almeno quarant’anni fra “romani” e Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra.
La Banda della Magliana non è mai morta, ma si è inabissata esattamente come ha fatto Cosa nostra dopo le stragi del ‘92 e ‘93 e con il tempo si è trasformata, diluita e infine riorganizzata in altro. Gli enormi capitali che i membri dell’organizzazione avevano accumulato sono rimasti pressoché intoccati. Molti membri di quella organizzazione sono tornati in libertà. A fine pena non si sono certo rassegnati alla vita da pensionati. Inoltre il ruolo di raccordo e mediazione fra tutte le organizzazioni criminali presenti sul territorio - ottenuto spesso con la violenza dell’intimidazione o delle armi - si è riproposto in chiave più moderna con l’organizzazione di Carminati. Tutti, in un modo o nell’altro, a Roma hanno dovuto fare i conti prima con la Banda e poi con “er cecato” - il soprannome di Carminati che ha perso un occhio in uno scontro a fuoco con i carabinieri -, anche chi a Roma c’era già a partire dai primi anni ‘70 come tutte le organizzazioni mafiose del Paese si erano radicate e avevano avviato una serie di relazioni di collaborazione con ambienti della destra eversiva, con pezzi deviati dello Stato e dei servizi e con la politica nazionale e locale.
In nessun’altra città italiana si è arrivati a una forma organizzativa e imprenditoriale della criminalità come a Roma. Qui la definizione di Mafie spa trova conferma. Anzi, per capire quale è la forma del potere criminale che ha in pugno la Capitale d’Italia sarebbe più corretto parlare di una Associazione Temporanea d’Impresa. Con mediatore e broker Massimo Carmianti.
Altro da Mani Pulite
L’attenzione mediatica - le regole della cronaca sono altro dalle regole dell’inchiesta giornalistica - è tutta puntata sui fenomeni della corruzione sia a livello romano che nazionale. Lo sgocciolio degli atti giudiziari, le liste dei politici comprati con poche migliaia di euro, i funzionari corrotti, i regali, i partiti, in questa fase il PD sia a livello nazionale che sopratutto a livello locale, stretti nella morsa degli arresti e degli avvisi di garanzia, delle intercettazioni, delle prime ammissioni, dei documenti: tutto ci porta indietro a Mani Pulite, al sisma che apparentemente archiviò la Prima Repubblica e ci regalò la Seconda.

lunedì 10 agosto 2015

L’inganno del lavoro e la vita dignitosa

Il Fondo monetario internazionale ha sentenziato che l’Italia avrà bisogno di venti anni per tornare ai livelli occupazionali pre-crisi. Ma ci sta prendendo in giro perché sa bene che di lavoro questo sistema non ne creerà più. Semplicemente perché non è il suo obiettivo, non è la sua missione come piace dire a chi vive l’economia come una religione. La missione di questo sistema è garantire profitto alle imprese e ai suoi azionisti. Quanto al lavoro è solo un costo da contenere e poco importa se dietro al così detto mercato del lavoro ci sono persone in carne e ossa, con una dignità, una vita, dei diritti da salvaguardare. Per il mondo degli affari il lavoro è solo una merce, è del tempo da comprare al prezzo più basso possibile. E poiché la legge di mercato sancisce che il prezzo scende quando c’è più offerta che domanda, per fare scendere il prezzo del lavoro bisogna creare più offerenti lavoro di quanto siano i posti disponibili.
Il capitalismo può essere raccontato come la storia di un sistema che si è organizzato per creare disoccupazione e assicurarsi costantemente lavoro a buon mercato. Fra le strategie utilizzate, c’è prima stata l’estromissione dei contadini dalle terre comuni, poi la sostituzione degli umani con le macchine, infine la globalizzazione. Strategie in continuo cambiamento per ottenere un numero crescente di persone in sovrappiù che tengano basso il prezzo del lavoro.
Un progetto definito da papa Francesco come l“economia dello scarto”, e se fino a ieri gli scartati eravamo abituati a vederli nel Sud del mondo, oggi li troviamo sempre più nelle nostre case, a giudicare dalla crescita dei poveri e dei disoccupati. Fosse onesto, il sistema ci racconterebbe apertamente che l’esclusione fa parte della sua natura. Invece tenta di farci credere che lui, poverino, vorrebbe tanto dare un lavoro a tutti, ma per riuscirci ha bisogno di crescita, perché che volete, il lavoro lo creano le aziende e le aziende assumono solo se vendono di più. Peccato che ogni volta che si creano nuove opportunità di lavoro le aziende preferiscano le macchine alle persone e al tempo della globalizzazione, oltre ad assistere alla guerra fra lavoratori da un capo all’altro del pianeta, si assiste anche alla guerra dei robot contro gli umani. Lo stanno sperimentando anche cinesi da che hanno osato alzare la testa per chiedere migliori condizioni di lavoro.
Ma la bugia più grave rispetto alla crescita è che ormai non è più compatibile con lo stato comatoso raggiunto dal pianeta. E mentre geologi, agronomi, climatologi ci informano che le risorse si stanno riducendo al lumicino e che i rifiuti ci stanno sommergendo facendo cambiare equilibri millenari come il clima, succede che industriali, politici, sindacalisti ed economisti, tutti insieme acclamino la crescita come l’unica via per tirarci fuori dai guai. E noi ci crediamo. Presi da quell’impellente bisogno di lavoro, anche noi corriamo dietro alla leggenda, finendo per sdoppiare la nostra personalità: pro sobrietà in nome dell’ambiente, pro crescita in nome del lavoro.
Prima o poi scopriremo che la schizofrenia non ci porta lontano e che la sobrietà è l’unica strada per garantirci un futuro. Ma la buona notizia è che sobrietà non è sinonimo di vita di stenti né di disoccupazione dilagante. Al contrario è occasione di libertà, sovranità e inclusione. L’importante è convincerci che il lavoro è un falso problema. Nella storia dell’umanità, l’obiettivo non è mai stato il lavoro. L’obiettivo è stato vivere bene nel senso di avere di che mangiare, vestirsi, viaggiare, istruirsi, curarsi. Solo noi, figli del mercato, abbiamo trasformato il lavoro in idolo e non perché siamo impazziti, ma perché viviamo in un sistema che ci offre l’acquisto come unica via per soddisfare i nostri bisogni e ci offre il lavoro salariato come unica via per accedere al denaro utile agli acquisti.
Per questo il lavoro è diventato una questione di vita o di morte e in suo nome siamo tutti diventati partigiani della crescita. L’unico modo per uscirne è smettere di concentrarci sul lavoro e concentrarci sulle sicurezze. La domanda giusta da porci non è come creare lavoro, ma come garantire a tutti la possibilità di vivere dignitosamente utilizzando meno risorse possibile, producendo meno rifiuti possibile e lavorando il meno possibile. La strada è ridurre la dipendenza dal lavoro salariato, in modo da interrompe la schiavitù dalla crescita delle vendite. In altre parole l’alternativa è l’autoproduzione in ambito individuale, per i piccoli bisogni personali e familiari, e in ambito collettivo per i beni e servizi fondamentali che richiedono strutture produttive organizzate.
Quando ciò che ci serve lo potremo ottenere senza denaro grazie al lavoro non retribuito nostro e degli altri, in quel momento il lavoro smetterà di essere un costo e si trasformerà in ricchezza. In quel momento non ci sarà più interesse ad escludere, ma a ottenere la collaborazione di tutti. E se dovesse risultare che siamo troppi, potremo sempre dare una bella sforbiciata all’orario di lavoro con somma soddisfazione di tutti perché con meno lavoro potremo avere lo stesso livello di sicurezze.
Capito che l’inclusione passa attraverso il ridimensionamento del mercato e il rafforzamento della solidarietà collettiva, la prima cosa da fare è arrestare la demolizione di ciò che ci è rimasto di pubblico. Basta con la politica delle privatizzazioni. Basta con il taglio alle spese sociali. Basta con una politica di bilancio che dà priorità al servizio del debito. Sì, invece, a una seria lotta all’evasione e ai paradisi fiscali. Sì a una tassazione progressiva dei redditi e in particolare delle rendite finanziarie. Sì a una ristrutturazione del debito. Sì a una sovranità monetaria al servizio dell’occupazione in ambito pubblico. C’è bisogno di politica nuova, ma potremo trovarla solo se saremo capaci di gettare il pensiero oltre il muro del sistema imperante.