venerdì 27 febbraio 2015

CON LA "BUONA SCUOLA", RENZI CI SALVA DALL'ISIS

La propaganda di Renzi è basata su espedienti piuttosto elementari, tra cui il dire ad ognuno ciò che vorrebbe sentire. Per compiacere un po' gli insegnanti prima di rifilargli il bidone, Renzi ha anche dichiarato che bisogna smetterla di dare sempre la colpa agli insegnanti e mai ai ragazzi che non studiano. Con questo generico appello al rigore degli studi, Renzi può rifilare la fregatura, attraverso il solito slogan della "meritocrazia". Basta con l'ugualitarismo fra gli insegnanti, occorre premiare il "merito". Sapere cosa sia il "merito" non è affatto importante. Anzi, l'ineffabilità del concetto favorisce ancora di più la competizione fra i docenti, i quali imparano alla svelta che possono emergere soltanto cercando di mettere nei guai i loro colleghi, magari strumentalizzando allo scopo anche gli studenti, sempre entusiasti di accedere alla sensazione di potere offerta dall'opportunità di inserirsi nelle beghe degli adulti. La metafisica del merito riconduce quindi ad una pratica molto concreta: il mobbing reciproco.
Dalla Scuola pseudo-idillio di venti anni fa, si è passati all'attuale Scuola/inferno, inaugurata dal ministro Luigi Berlinguer con le leggi sulla autonomia scolastica e sullo "Statuto degli Studenti". Gli insegnanti si scannano fra di loro nella speranza di accedere allo staff dirigenziale, al quale si prospetta il futuro privilegio non solo di maggiori guadagni, ma soprattutto di non entrare in classe; oppure si scannano nella vana illusione di essere cooptati nell'Olimpo dell'istruzione para-universitaria.
Gli scopi di Renzi sono infatti chiaramente lobbistici. Si tratta di distruggere l'istruzione superiore pubblica e gratuita, per sostituirla con quei doppioni dei licei che sono i college all'americana, in modo che la vera istruzione di preparazione all'Università sia a pagamento o, meglio, a credito, per far sì che anche gli studenti italiani si riducano indebitati come quelli americani. Secondo la Federal Reserve, l'indebitamento studentesco negli USA ha raggiunto vette stratosferiche.
Se poi il business dell'istruzione finanziarizzata all'americana in Italia, te lo viene a gestire direttamente il Dipartimento di Stato USA, ancora meglio. Sarà rassicurante per molti sapere che l'ambasciata americana non sta lì solo per organizzare colpi di Stato, ma anche per venderci istruzione.
Un altro facile espediente per turlupinare gli insegnanti, è di alimentare la loro mitomania, facendo appello alle loro mirabolanti capacità di educatori. Renzi ha detto infatti che se tanti giovani europei si fanno attrarre dal terrorismo, è perché la Scuola non ha saputo integrarli ed educarli. Ecco una nobile missione su cui impegnare la "Buona Scuola": salvare i ragazzi dalla perfida influenza dell'ISIS, plasmando degli ideali cittadini "occidentali".
Da un anno i grandi quotidiani ci stanno raccontando che in Italia sono ormai tanti i giovani che si fanno attrarre dall'ISIS. Un organo governativo come il "Corriere della Sera" ce lo spiegava nell'agosto scorso.
Ma anche un organo di "opposizione" come "Il Fatto Quotidiano" nello scorso agosto ci narrava le stesse balle, a conferma che, quando si tratta degli interessi della NATO, l'opposizione non esiste. I giovani si convertirebbero all'Islam su Internet (sic!). In più ci veniva propinato un elenco delle subdole tecniche psicologiche con cui questi giovani verrebbero irretiti dall'ISIS. L'immaturità, la solitudine, il vuoto di valori, il bisogno di amore di questi ragazzi tra i venti e i venticinque anni, li renderebbe vulnerabili alle arti manipolatorie dei jihadisti. Tra questi motivi molto commoventi, non ci sarebbe mai il bisogno di soldi. Questa storia dei jihadisti europei rappresenta un significativo esempio di come la propaganda ufficiale, con puerili ingredienti narrativi, riesca a trasformare un'evidenza chiaramente contraria addirittura in un argomento a proprio favore.
La presenza di tanti giovani europei - peraltro neanche figli di immigrati - tra le file del jihadismo, costituisce un indizio certo del fatto che si tratti non di fanatici religiosi, bensì di mercenari, o "contractor", come si dice oggi. Nel 2012 la stampa turca diffondeva la notizia che, sullo stesso territorio turco, l'agenzia privata americana Blackwater addestrava i "ribelli" al regime siriano di Assad. La notizia, circostanziata, era stata ripresa da vari organi di stampa, e non è mai stata smentita. "Ribelli siriani" era il nome che allora la stampa occidentale attribuiva ai combattenti del sedicente califfato. Ma solo una minima parte di loro era siriana.
Oggi la Blackwater rivolge le sue accorate preghiere al governo USA perché i loro "contractor" vengano maggiormente utilizzati nella guerra contro l'ISIS. Possiamo quindi già immaginarci la messinscena di epiche battaglie campali, con gli eroici "contractor" schierati dall'una e dall'altra parte.
L'invenzione dello spauracchio-ISIS appare alquanto estemporanea, ed è probabilmente l'effetto del ripiego riguardo a bersagli più ambiti, come il regime siriano di Assad. La battuta d'arresto subita nell'aggressione contro Assad ed i rischi di un ritorno al gheddafismo in Libia, hanno comportato la ricerca di nuovi pretesti da parte della NATO per dispiegare truppe ed aviazione in Medio Oriente e nel Nord Africa. Eppure l'ISIS rappresenta un fantasma davvero congeniale ai pregiudizi ed al senso di superiorità morale ed intellettuale del "progressista" medio del sedicente Occidente. Mentre il "Sogno Occidentale" si rivela il mattatoio sociale del dispotismo dei banchieri, delle multinazionali e delle organizzazioni sovranazionali, lo spauracchio-ISIS offre un'altra, imperdibile, occasione di compiacersi della propria falsa coscienza di "occidentali

giovedì 26 febbraio 2015

Carceri, dalla cella zero al caos risarcimenti

Lo scorso 19 febbraio Internazionale ha pubblicato un reportage di Salvatore Esposito che raccoglie le testimonianze di alcuni detenuti passati per la “cella zero” del carcere napoletano di Poggioreale. La cella zero è una piccola stanza senza finestre né telecamere, all’interno della quale – a detta degli ex detenuti intervistati – avrebbero luogo violenze e pestaggi ai danni dei carcerati. Il reportage – unito al lavoro intitolato “L’inferno di Scampia” ad opera dello stesso Esposito – riapre il lungo discorso sulla violazione dei diritti essenziali dei detenuti nelle carceri italiane. Violazione che – in virtù dei risarcimenti imposti dall’UE - potrebbe costarci molti milioni di euro.
Il rispetto di questi diritti diventa dunque un problema anche economico, oltre che, chiaramente, di dignità umana e democratica. La CEDU – Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo – considera “trattamento inumano e degradante” la reclusione all’interno di uno spazio inferiore ai tre metri quadrati, condizione che – in un sistema sovraffollato e allo sfascio come quello italiano – si è ripetuta molte volte. La Corte Europea ha deciso per questo di obbligare l’Italia a risarcire i detenuti maltrattati, tanto che a partire dallo scorso agosto lo Stato ha pagato 8 euro al giorno ad ogni individuo vittima di trattamento inumano e degradante.
Questo provvedimento – oltre che essere lesivo dell’immagine del Paese – non è comunque sufficiente. Come ha ricordato l’Associazione Antigone, che da anni si batte per il miglioramento delle condizioni carcerarie italiane, “basta poco perché si torni ad una situazione grave che metta a rischio i diritti dei detenuti”. Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione, ha inoltre aggiunto: “Ricordiamo che sono ancora migliaia le persone in più nelle carceri rispetto ai posti disponibili”. Si tratta comunque di una legge importante, di un serio passo in avanti effettuato in un ambito spinoso e mai affrontato prima se non con soluzioni improvvisate e superficiali quali provvedimenti d amnistia ed indulto. Il passo successivo – a dire di Gonnella – è il cambiamento della legislazione in tema di droghe: bisogna “decriminalizzare la vita dei consumatori di droghe” e “intervenire su un codice penale ancora di epoca fascista, e dunque troppo vecchio”.
Va ricordato che – a pochi mesi dall’introduzione del decreto sul risarcimento – una levata di scudi si è alzata dalle fila di chi sostiene la causa dei detenuti. Come riportato da “Il Garantista”, ad inizio di ottobre 2014 erano stati emessi solamente due provvedimenti positivi, anche in virtù di un’interpretazione del decreto (a dire il vero assai “sibillino”) secondo la quale il trasferimento da un istituto carcerario “degradante” ad uno adeguato andrebbe ad annullare le condizioni necessarie per il risarcimento.
Al di là delle polemiche, è ancora Antigone a proporre soluzioni innovative: “è necessario aumentare le attività di reinserimento sociale del detenuto, così da concretizzare la funzione reintegrativa della pena prevista dall’articolo 27 della Costituzione”. Bisogna – in definitiva – attuare tutto l’attuabile affinché si esca dalla morsa delle sanzioni europee e della disumanità carceraria che fino ad oggi ha attanagliato il nostro Paese.

mercoledì 25 febbraio 2015

La missione della finanza internazionale: un debito perpetuo

Sempre più difficile risulta distinguere i fatti che avranno un impatto durevole sul futuro. Ci sembra giusto per questo segnalarne alcuni fra loro collegati, che dovrebbero creare un serio allarme sociale - cosa che non pare stia avvenendo, preoccupati come siamo dell'Isis alle porte, della crisi ucraina (davvero qualcuno se ne preoccupa?), della crisi del lavoro.
Ci sta sfuggendo un elemento essenziale, che aiuta a capire la visione del mondo degli uomini della finanza internazionale. Viene detto che il quantitive easing, la creazione di moneta dal nulla con cui la BCE stamperà oltre 1400 miliardi di euro è fatta per ridare fiato alle famiglie ed alle imprese, creando posti di lavoro e ripresa. Si tratta di un'affermazione del tutto falsa, la cui falsità è pienamente nota alle classi dirigenti europee che a quella finanza internazionale sono tenute a rispondere a livello politico.
Stampare moneta servirà solo ad estendere l'indebitamento generale dei Paesi, la sola maniera con cui il sistema bancario internazionale può assicurare la sopravvivenza della speculazione finanziaria che ha sostituito l'economia basata sul lavoro. I 1400 miliardi di euro che la BCE stamperà andranno a carico delle collettività; mentre della rendita finanziaria da essi generata beneficeranno gli istituti di credito ed i relativi apparati speculativi, nonostante le condanne da essi subite, anche in sede giudiziaria, per le malversazioni compiute durante la "crisi dei mutui", per le operazioni fraudolente compiute sui tassi di riferimento bancari, per le operazioni "opache" di riciclaggio di denaro sporco (si veda il caso HSBC), per le ripetute frodi fiscali - tutti procedimenti alle cui condanne molte banche riescono a sottrarsi grazie alla capacità di chiudere o procrastinare i relativi procedimenti con il semplice pagamento di multe o con accordi economici: nel più recente caso, della sola HSBC, sborsando 1,9 miliardi di dollari.
Ancora più importante, in questa nuova fase dell'irrisolta "crisi dei mutui" scoppiata nel 2008, è il fatto che questa immensa massa di denaro, creato dal nulla a fronte di una corrispondente nuova massa debitoria in capo ai popoli europei, si appoggerà a titoli di debito di durata sempre più prolungata, che avranno quindi in concreto l'effetto di estendere per decenni il debito per almeno una o due generazioni oltre quelle viventi.
Gli esempi già si contano numerosi: è il caso del Venezuela, di Spagna e Portogallo. La Spagna ha emesso un'obbligazione a 50 anni, raggiungendo un massimo storico di durata del suo debito. Il Portogallo ha emesso obbligazioni per 3,5 miliardi di euro con scadenza a 15 anni, nel tripudio degli istituti di credito interessati, i soliti Credit Agricole, Danske, Caixabi, Deutsche Bank, Morgan Stanley e Nomura, raccogliendo ordinativi per oltre 8 miliardi di euro.
L'Italia farà anch'essa la sua parte, dato che già a dicembre 2014 il tesoro ha comunicato, nelle sue linee guida 2015 per la gestione del debito, che "dopo un anno in cui la vita media del debito (...) ha sostanzialmente terminato la sua discesa, nel 2015 l'obiettivo è di incrementarla, sempre tenendo conto della dimensione assoluta dello stock dei titoli in circolazione, che tende a dilatare i tempi per il conseguimento di questo risultato". Chi ne sa qualcosa, come gli esperti di Unicredit, già sono pronti per l'emissione di obbligazioni a 30 anni, come relaziona accuratamente il Sole24Ore: "secondo le previsioni di UniCredit Research, nel 2015 il Tesoro raddoppierà il controvalore di nuovi titoli a 30 anni (da 7 a 13 miliardi) e a 10 anni (da 40 a 45), mentre ridurrà gli importi per i titoli a 3 anni (da 38 a 32) e a 5 anni (da 47 a 44)".
Nelle economie sane, il debito doveva essere sempre in qualche modo rapportato alla vita degli esseri umani che quei debiti alla fine dovrebbero pagare, per cui ogni certo numero di anni (venticinque, trenta, cinquanta al massimo), i debiti venivano azzerati, permettendo alle società di "ripartire". Fin dai tempi di Solone, nell'antica Grecia, il quale, per metter fine ai conflitti sociali, come prima cosa cancellò il debito, con la seisachteia, che non a caso voleva dire "alleviamento dei pesi". Nella società della fabbricazione del debito, invece, l'indebitamento perpetuo solamente può perpetuare il dominio del sistema della finanza sul lavoro dei popoli.
Le decisioni che vengono prese in questo senso in queste settimane dovrebbero essere oggetto di una decisione da parte dei rappresentanti del popolo, se la nostra democrazia fosse veramente tale; ancor meglio, dovrebbero essere le categorie economiche ad autorizzare o meno queste emissioni, in un apposito spazio deliberativo che ad esse dovrebbe essere accordato, coi relativi poteri di ultima istanza.
Chi non ha il coraggio di affrontare la crisi economica in questi termini, gli unici reali, gli unici a portata di essere umano, da qualsiasi pulpito parli, sta mentendo sapendo di mentire a tutti noi.

martedì 24 febbraio 2015

Germania: creditore intransigente, debitore flessibile

È ben noto come la Germania abbia assunto un atteggiamento intransigente sulla questione del debito pubblico all’interno dell’eurozona e come essa tenda a spingere duramente perché i vari paesi adottino, per risolverlo, delle strette politiche di austerità, politiche che peraltro rischiano di uccidere il malato. Ne abbiamo avuto ancora una riprova con l’attuale crisi greca; nel corso dei negoziati i responsabili del paese teutonico sono stati i capifila e i portabandiera del partito dell’intransigenza, sino ad arrivare all’insulto verso un governo democraticamente eletto.
Ma da diverse parti, negli ultimi tempi, si tende a sottolineare come in passato il paese non sia stato quel campione di virtù che oggi cerca di apparire; in effetti, alcuni studiosi si sono chiesti quale sia stato in concreto, nel corso del tempo, il curriculum di tale paese sulla stessa questione ed hanno trovato degli elementi interessanti.
Si può cominciare ricordando come, certo, la gran parte dei paesi in tutte le regioni del globo sia passata attraverso una o più fasi di default, o comunque di ristrutturazione del proprio debito, nei confronti dei prestatori esteri, ma anche come la Germania sia stata tra i più assidui ad incappare in tale problema.
Apprendiamo così (Reinardt & Rogoff, 2009) che tra l’Ottocento e il Novecento dello scorso millennio lo stato tedesco, in effetti, ha fatto default o ha ottenuto degli alleggerimenti dei suoi debiti ben otto volte nel periodo, come del resto la Francia e contro una sola volta per l’Italia e cinque per la Grecia. Va peraltro riconosciuto che i campioni europei in questo sport sono stati gli spagnoli, con ben tredici volte. I tedeschi hanno comunque conquistato un brillante secondo posto a pari merito con il paese transalpino.
La rivalità franco-tedesca e le riparazioni dopo la grande guerra
In un certo senso, la Germania ha cercato di sottoporre la Grecia allo stesso trattamento inflitto alla Francia dopo la guerra franco-prussiana del 1870, quando i cittadini transalpini, dopo la veloce sconfitta, furono obbligati a pagare un grande volume di danni di guerra, 5 miliardi di franchi, pari al 20% del pil di allora del paese; esso dovette inoltre cedere l’Alsazia, una parte della Lorena e dei Vosgi, ai vincitori, che comunque occuparono una vasta area della Francia sino a che non fu effettuato l’intero pagamento del debito, ciò che avvenne, con molta solerzia, nel 1873. Sempre i francesi furono inoltre obbligati a concedere ai nemici la clausola della nazione più favorita.
E viene la prima guerra mondiale. Come è noto, questa volta, alla fine, si rovesciano le parti, la Francia si trova nel rango dei vincitori e la Germania invece in quella degli sconfitti.
L’obiettivo fondamentale del primo ministro francese del tempo, Georges Benjamin Clemenceau, fu allora quello di vendicarsi della sconfitta del 1870 e di annullare praticamente i progressi economici fatti dalla Germania dopo quella data. Egli riuscì ad imporre rilevanti perdite territoriali al paese nemico e cercò parallelamente, nella sostanza, di distruggere, o quantomeno di danneggiare al massimo, il suo sistema economico.
Ecco che lo statista francese riesce ad imporre alla Germania anche il pagamento di danni di guerra molto ingenti. La Gran Bretagna e gli Stati Uniti si accodarono alla fine alle richieste dell’alleato.
Il problema finanziario che si poneva era comunque abbastanza complesso. Da una parte stavano i prestiti interalleati fatti prevalentemente per acquistare le armi e gli equipaggiamenti relativi (la Gran Bretagna aveva preso a prestito dagli Stati Uniti, la Francia dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti), dall’altra il problema delle riparazioni tedesche a Francia e Inghilterra. Le somme in gioco erano enormi: i debiti interalleati erano stimati in circa 26,5 miliardi di dollari, la gran parte dei quali dovuti agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna, mentre la commissione per le riparazioni del 1921 fissò in maniera definita, dopo vari summit preliminari che andavano più o meno nello stesso senso, il debito della Germania in 33 miliardi di dollari, la gran parte dovuti a Francia ed Inghilterra (Aldcroft, 1993). Tali riparazioni avrebbero dovuto essere regolate in rate trimestrali a cominciare dal gennaio del 1922.
Mentre la Francia legava le due questioni, dichiarando che il paese avrebbe ripagato i suoi debiti quando gli sarebbero stati versati i proventi delle riparazioni, la Gran Bretagna e gli Usa avevano chiaro che gli indennizzi non potevano superare certi limiti.
I dubbi di Keynes e i vari tentativi di ristrutturazione del debito
Nel 1919 Maynard Keynes aveva 36 anni e aveva partecipato alla conferenza di pace come rappresentante del governo inglese per le questioni finanziarie. Ma egli si dimise presto, essendosi trovato in totale disaccordo con l’impostazione che gli alleati stavano dando alla sistemazione dell’Europa dopo la guerra.
Egli pubblicò così subito dopo “Le conseguenze economiche della pace”, un saggio molto polemico contro la follia della “pace cartaginese” che i vincitori della guerra stavano, a suo dire, imponendo alla Germania. Le riparazioni avevano un onere finanziario, affermò l’autore, che la Germania non era in grado di sostenere (egli calcolò a questo proposito che il paese avrebbe potuto restituire, grosso modo, solo un quarto della somma stabilita) e previde lucidamente che le conseguenze del trattato di pace sarebbero state molto dannose per il futuro del continente.
I tedeschi cominciarono a versare le prime rate, ma nel corso del 1922 la situazione economica del paese si deteriorò rapidamente, con l’accelerazione dei processi di inflazione e di svalutazione della moneta; i tedeschi chiesero dunque una moratoria dei pagamenti, ma essa fu loro negata. Ma la Germania non era più in grado di pagare (Aldcroft, 1993) e, comunque, non fece nessuno sforzo per tentare.
Nel gennaio del 1923, i francesi e i belgi, di fronte al fatto che i tedeschi non pagavano le somme richieste, decisero di occupare la Ruhr. Ma tale mossa concorse a completare il collasso economico e finanziario della Germania.
Si stabilì, a questo punto, di convocare una conferenza internazionale, che si tenne a Londra nel 1924 e che diede origine al piano Dawes, dal nome del presidente della conferenza, un banchiere americano. Secondo questo piano, la moneta tedesca avrebbe dovuto essere stabilizzata dopo l’enorme livello raggiunto dall’inflazione e le truppe francesi avrebbero dovuto essere ritirate dalla Ruhr. Un flusso di aiuti americani alla Germania avrebbe permesso a quest’ultima di rimborsare i suoi creditori. L’importo totale dei debiti della Germania veniva lasciato quale fissato nel 1921, ma venivano allungati i tempi di pagamento.
Così nel periodo 1924-1930 la Germania prese a prestito soprattutto dagli Stati Uniti circa 28 miliardi di marchi e ne restituì ai paesi alleati come danni di guerra circa 10,3 (Aldcroft, 1993).
Ma, quando nei tardi anni venti, i prestiti statunitensi smisero di arrivare e molte banche straniere richiesero la restituzione di prestiti precedenti, la situazione si fece di nuovo difficile.
Un ulteriore accordo venne così negoziato nel 1929; era il piano Young, dal nome di un altro plenipotenziario statunitense. Il piano proponeva ormai una riduzione del totale del debito tedesco e degli importi da pagare annualmente.
La situazione economica internazionale intanto non fece funzionare l’accordo che per due anni. Nel 1931 la moratoria Hoover sospese per un anno i pagamenti, ma di fatto si trattò di una moratoria definitiva.
Alla fine gli Stati Uniti avevano ricevuto in restituzione dagli alleati circa 2,6 miliardi di dollari, contro crediti per prestiti ed interessi di 22 miliardi. La Francia a sua volta aveva ricevuto in pagamento dalla Germania circa un terzo dell’importo stimato dei danni di guerra (Aldcroft, 1993).
Le riparazioni dopo la seconda guerra mondiale
E viene poi la seconda guerra mondiale. Anche in questo caso, dopo la fine delle ostilità, si trattava di sistemare la questione delle riparazioni.
La conferenza di Postdam nell’agosto del 1945 fissò subito il principio delle restituzione dei danni di guerra e un accordo di base in proposito venne ipotizzato per le zone occidentali del paese nel 1950. Intanto era stato avviato il piano Marshall, con il quale gli Stati Uniti concessero al paese rilevanti somme di denaro per far ripartire la loro economia.
Furono gli Stati Uniti a guidare tutta l’operazione dei risarcimenti nel 1953, consci che fosse necessario aiutare la ripresa della Germania e dell’Europa dopo una guerra devastante, evitando di commettere gli stessi errori del primo dopoguerra. Pesava fortemente, peraltro, anche la volontà degli Stati Uniti di fare della Germania Occidentale un baluardo contro il blocco sovietico.
Così nell’agosto del 1953, dopo trattative durante diversi mesi, ventuno paesi firmarono a Londra un trattato, noto come London Debt Agreement , che consentì alla Germania di suddividere la questione in due parti. La prima corrispondeva ai debiti accumulati fino al 1933, stimati in 16 miliardi di marchi; fu consentito di rateizzare il loro pagamento in 30 anni, a tassi di interesse molto bassi, ciò che equivaleva alla pratica cancellazione dello stesso. L’altra parte, corrispondente ad altri 16 miliardi di marchi e che faceva riferimento ai debiti dell’epoca nazista e della guerra, avrebbe dovuto essere ripagata, secondo modalità da concordare, dopo l’eventuale riunificazione del paese. Ma nel 1990, a processo di unificazione concluso, il governo tedesco si oppose alla rinegoziazione dell’accordo, a ragione in particolare dei costi che sarebbero stati necessari per risollevare economicamente la parte est del paese.
In ambedue le occasioni tra i creditori c’era anche la Grecia, che dovette accettare molto a malincuore tali decisioni.
La stessa Grecia ha sollevato a più riprese, ma invano, la questione dei danni di guerra subiti da parte della Germania. Tra l’altro, in effetti, nel corso delle vicende belliche il paese, occupato dai tedeschi, era stato costretto a prestare al Reich 476 milioni di reichsmark senza interessi. Tale somma corrispondeva ormai nel 2012, secondo alcuni calcoli, a circa 14 miliardi di dollari e a circa 95 miliardi se si calcolavano anche degli interessi al tasso molto ragionevole del 3% annuo. A fine 2014 la cifra totale dovrebbe aver superato i 100 miliardi di dollari.
La Germania si rifiuta a tutt’oggi di prendere in considerazione l’intera partita.

lunedì 23 febbraio 2015

Quello che la vicenda della Grecia ci insegna e quello che i media non ci dicono

La cronaca di quello che accade in Europa in queste settimane ci fornisce lo spunto per fare delle considerazione circa i principi e le nuove regole non scritte su cui sono basati di fatto il funzionamento degli Stati ed i rapporti fra questi ed il mercato.
Da ogni vicenda si possono ricavare degli insegnamenti . La vicenda attuale della Grecia è esemplare per comprendere chi detiene il vero potere al di sopra degli Stati e dei governi nazionali democraticamente eletti: abbiamo infatti assistito al ricatto attuato contro il nuovo governo greco a da parte della Bce con la minaccia esplicita di togliere liquidità al sistema bancario greco.
Un ricatto scritto e formulato anche dalla Commissione Europea (sotto dettatura della Germania) nella forma di “ultimatum”, una formula che non si sentiva in Europa dai tempi del 1914, quando fu l’Impero dell’Austria Ungheria ad inviare l’ultimatum alla piccola Serbia. Questo ci indica quale regresso ci sia stato nella storia del continente europeo in questi anni sotto la tela dei “nobili principi” proclamati dai sostenitori dell’integrazione europea che ha dato luogo a questa Europa espressa da Bruxelles e da Francoforte: l’Europa dei banchieri e dei potentati finanziari.
La Bce e la Commissione Europea, con la complicità della Germania, non permettono che siano interrotte le politiche di austerity neoliberiste, imposte al governo greco, le stesse che hanno fatto sprofondare una buona parte della popolazione greca nella miseria e nell’indigenza, con uno stato di grave violazione dei diritti umani (come accertato anche da una commissione ONU) . Sono le regole volute dal governo tedesco, il vero arbitro dell’Europa dell’euro, oltre che dai potentati finanziari sovranazionali e la BCE, con la sua azione ricattatoria, spalanca le porte agli organismi finanziari che vengono utilizzati come killer nei confronti del governo greco, come di qualsiasi altro governo che osi disobbedire (sulla base di un mandato elettorale) alle direttive economiche imposte dalla Troika. Quello che accade in Grecia costituisce un esempio un domani per la Spagna, poi per il Portogallo, per l’Italia e gli altri paesi indebitati.
Si è verificato di fatto uno svuotamento delle regole democratiche che permettevano (in linea teorica) in questi stati di far decidere ai cittadini, mediante le elezioni, quale linea scegliere e quali politiche intraprendere.
Questo dovrebbe fa capire, anche ai più ottusi, quello che molte volte su questo sito abbiamo cercato di spiegare: chi detiene il vero potere non sono più gli Stati nazionali ma il vero potere è passato nelle mani di entità sovranazionali, genericamente (impropriamente ) definite come “i mercati”.
Vale la pena di ricordare una citazione del vecchio finanziere di origine ungherese ,George Soros, il quale una volta dichiarò: “I mercati votano ogni giorno ed obbligano i governi a prendere le misure impopolari ma imprescindibili. Sono i mercati quelli che possiedono l’autentico senso dello Stato”.
Questa affermazione riflette la realtà attuale: in termini molto semplici significa che sono i mercati che comandano nel mondo e dettano le regole, ed a queste si devono uniformare i governi.
Nella realtà, dietro i mercati si muovono delle entità finanziarie come i grandi fondi di investimento, gli organismi sovranazionali come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, la Banca dei Regolamenti, la FED, il WTO, le grandi Banche che sono i rappresentanti del potere economico e le entità che dispongono concretamente del potere reale: quello economico e politico .
Attraverso questi organismi l’Elite mondialista si è assicurata il controllo dei governi delle aggregazioni come la UE, del commercio internazionale e soprattutto del movimento dei grandi capitali finanziari.
l’Elite utilizza un nucleo molto ristretto di istituzioni finanziarie e mega-società per dominare il pianeta. L’obiettivo è quello di averne il controllo dell’economia e del sistema finanziario. La strategia della Elite è quella di rendere tutti i governi schiavizzati dal debito appositamente gonfiato e che tutti gli esponenti politici dei paesi controllati siano sotto il loro controllo e schiavi degli ingenti contributi finanziari che vengono incanalati nelle loro campagne per la rielezione e di conseguenza siano ricattabili.
Un esempio di queste entità finanziarie è la Black Rock, che è uno dei principali fondi di rendita finanziaria fissa nel mondo. Consideriamo che, la sola Black Rock può muovere ogni giorno sui mercati circa 40.000 milioni di dollari di debiti e con questi ha la possibilità di far sprofondare economicamente qualsiasi Stato nazionale, che sia la Grecia, la Spagna, la Francia, l’Italia o qualunque altro, a propria discrezione o sotto la spinta di ambienti interessati alla speculazione finanziaria derivante da un crollo di un singolo stato.
Se volessimo analizzare da chi è composta questa elite finanziaria, potrebbe essere utile considerare lo studio fatto da James Petras, docente di sociologia presso l’Università Binghamton di New York, il quale ci spiega che, in base ad alcuni calcoli, il due per cento delle famiglie controlla l’80 per cento dell’intero patrimonio mondiale. All’interno di questa elite, una frazione ancora più ristretta risulta proprietaria e controlla il grosso degli “assets” mondiali e tende ad arrivare ad una ulteriore concentrazione di multinazionali e società finanziarie. Nel nucleo della classe dirigente finanziaria e politica, i leaders provengono quasi sempre da banche private, in pratica da Wall Street, in particolare dalla Goldman Sachs, da Blackstone, dalla J.P: Morgan Chase,dalla Barclays Plc, dal Carlyle Group ed altre banche d’affari.
Questi gruppi, secondo Petras, organizzano e finanziano i due maggiori partiti negli Usa e tutte le loro campagne elettorali. Sono loro stessi che esercitano pressioni sul Congresso USA , preparano proposte di legge e nuovi regolamenti, operano con strategie globali per imporre deregolamentazioni, liberalizzazioni e libera circolazione dei capitali a livello mondiale, premono sui governi per salvare banche o aziende in bancarotta, spingono perchè si arrivi al pareggio di bilancio tagliando spese sociali e welfare. Queste banche sono presenti in ogni settore dell’economia, in ogni regione del pianeta e possiedono quote del capitale di quasi tutte le più importanti multinazionali.
In conclusione si conferma che la gran parte dei capitali finanziari si trova nelle mani di banche di investimento, degli “hedge found “e di altre entità controllate dalla elite che guida la finanza mondiale. Questa elite possiede delle risorse che sono calcolate in totale per ben 20/25 volte il PIL mondiale, possono comprarsi personaggi di governo in ogni nazione, determinano le nomine dei principali componenti dei CDA nelle banche e nelle multinazionali, designano i loro fiduciari nei principali organismi internazionali (WTO, FMI, Banca Mondiale, ecc.), designano i loro lobbisti e fiduciari presso gli organismi dell’ Unione europea, costituiscono una cupola di comando che influenza ed orienta (si presume) le decisioni politiche anche dei governi di tutti i paesi occidentali.(2)
Naturalmente un crollo finanziario di un singolo stato non è necessariamente nei piani della elite finanziaria. Questo comporterebbe delle conseguenze che si riflettono sulla stabilità dei mercati e come tale non sarebbe gradito in generale poichè l’interesse principale di questi organismi è quello di avere una certa stabiltà sui mercati che permetta loro di fare profitti: meglio quindi far rientrare all’ordine quei governi che volessero discostarsi dalle regole, ecco di conseguenza il subentrare delle agenzie di rating e da queste si muove la leva dello spread, opportunamente manipolata, che può scoraggiare qualsiasi tentativo di “fare delle scelte in controtendenza con i mercati”.
Significativa a questo proposito la vicenda del “golpe bianco” attuato in Italia nel 2011 con le dimissioni forzate del governo Berlusconi (un governo eletto) per far entrare come nuovo capo del governo Mario Monti, fiduciario diretto dei potentati finanziari, nominato e non eletto da nessuno, sotto la minaccia dello spread sul debito italiano. Vedi: Un golpe bianco in Italia per far cadere Berlusconi ?
Chi detiene il potere di creare la moneta e le grandi risorse finanziarie, di fatto detiene il vero potere. Tutto quanto venga argomentato per nascondere questa realtà non conta nulla e si tratta di teorie e di chiacchiere vuote, fatte appositamente per confondere e distrarre l’opinione pubblica, grazie al possente apparato mediatico controllato dagli stessi detentori del potere finanziario.
Bisogna notare che coloro che detengono questo potere non sono quasi mai visibili, benchè si conoscano i nomi di alcune delle più grandi famiglie che detengono le più grandi ricchezze finanziarie (dai Rothshild ai Rockfeller, ai Gordon, ai Du Pont, agli Astor, Collins, Russel, ecc,) si tratta di una elite finanziaria i cui rappresentanti si riuniscono in Club Esclusivi come il Club di Bilderberg o la Trilateral Commission, il CFR, il Club di Roma ed altri organismi.
Tuttavia non sarebbe corretto ritenere che i capi delle maggiori banche centrali del mondo (come i Draghi, la Janet L. Yallen, o Mark Carney) siano essi stessi poteri effettivi nella finanza mondiale. Non lo sono. Piuttosto sono i tecnici e gli agenti dei banchieri d’investimento dominanti dei loro stessi paesi, che li hanno fatti salire a quegli incarichi e che sono perfettamente capaci di buttarli fuori. I poteri finanziari mondiali effettivi sono nelle mani di questi banchieri d’investimento che restano largamente dietro le quinte nelle loro banche private non incorporate. Essi formano un sistema di cooperazione internazionale e di dominio nazionale che è più privato, più potente e più segreto di quello dei loro agenti nelle banche centrali.”
Per capire come ragionano e quale visione del mondo abbiano questi personaggi, posti al vertice delle maggiori istituzioni finanziarie, risulta istruttivo riportare la frase rilasciata nel corso di una intervista da Lloyd Blankfein, n. 1 della Goldman Sachs, il quale, ad una domanda dell’intervistatore, circa quale fosse lo svolgimento delle sue funzioni, questi ha risposto: “il ruolo dei banchieri è quello di fare il lavoro di Dio” (the role of an investment bank as doing “God’s work.”). Vedi: Still ‘God’s work’? Blankfein defends Goldman
Il senso di quella frase sta nel fatto che questi personaggi si ritengono detentori di un potere che è al di sopra dei singoli stati e dei governi, loro sono consapevoli di essere “il vero potere”.
Da notare che alcuni dei maggiori esponenti dell'”establishment” politico ed economico europeo e statunitense sono usciti dalla Goldman Sachs, fra gli ex-dipendenti e gli ex consulenti più illustri, figurano i Segretari al Tesoro statunitensi Robert Rubin e Henry Paulson, il Governatore della Bank of England ed ex governatore della Bank of Canada Mark Carney, il Governatore della Banca centrale europea Mario Draghi e l’ex Presidente del Consiglio italiano Mario Monti, l’ex commissario europeo Romano Prodi.
Nessuno peraltro deve poter mettere in questione le ricette del sistema neoliberista ed i dogmi del monetarismo praticato in questo sistema. Coloro che occasionalmente lo fanno corrono dei seri rischi di essere in un primo tempo emarginati e definiti populisti e retrogradi, in un secondo tempo, qualora siano giudicati pericolosi, rischiano per la propria incolumità personale di essere coinvolti in qualche strano incidente o direttamente assassinati dai sicari di qualche servizio.
Vedi l’attuale esempio del governo ungherese di Orban che si è sottratto ad alcune regole neoliberiste e per questo è oggetto di una campagna di pressioni (incluso uno stano incidente a cui è scampato) e di demonizzazione guidata da precisi ambienti politici e finanziari. Vedi: L’Ungheria esce dalla recessione e caccia il Fmi
Tornando al discorso della Grecia, questa è considerata una economia problematica ed all’Europa delle centrali finanziarie conviene molto di più mantenerla all’interno del contesto dell’euro sistema in modo da poterla controllare, evitando che possa fare il “salto del muro” e passare sotto tutela della Russia o della Cina, paesi che si trovano in questo momento in contrasto con i poteri finanziari dominanti.
La Grecia è un piccolo Stato in Europa e non ha potere contrattuale, facilmente ricattabile, deve assoggettarsi alle regole e continuare nella strada che i signori di Buxelles gli hanno indicato, non deve costituire un “frattura” all’interno della UE.
D’altra parte la questione non riguarda soltanto la Grecia ma tutti gli Stati nazionali che stanno progressivamente svuotandosi di ogni potere e di ogni sovranità: Il potere effettivo è destinato a passare nelle mani delle grandi corporazioni internazionali e nelle istituzioni sovranazionali. Gli Stati nazionali sono considerati ormai come istituzioni non più necessarie ma anzi d’ostacolo verso il percorso destinato a creare un nuovo Ordine Mondiale, l’obiettivo finale delle forze mondialiste.

venerdì 20 febbraio 2015

La guerra che piace a Re Matteo

Venerdì scorso (la notte), la Camera dei Depu­tati — senza le oppo­si­zioni che ave­vano abban­do­nato l’aula — ha modi­fi­cato, nell’ambito della riforma della seconda parte della Costi­tu­zione, anche l’ex arti­colo 78, quello che norma le moda­lità della dichia­ra­zione dello «stato di guerra». Ora basterà, con la modi­fica appro­vata, un voto della Camera dei Depu­tati (e non più, anche del Senato), con la mag­gio­ranza asso­luta dei com­po­nenti. Addi­rit­tura in una prima ver­sione, il governo aveva pre­vi­sto la mag­gio­ranza sem­plice, cioè dei pre­senti.
I depu­tati paci­fi­sti ave­vano pro­po­sto che la mag­gio­ranza fosse qua­li­fi­cata, almeno dei due terzi. Visto che l’articolo 11 della Costi­tu­zione ci dice che «l’Italia ripu­dia la guerra come stru­mento di offesa», se que­sta deve essere dichia­rata (evi­den­te­mente in casi ecce­zio­nali, estremi e solo per motivi di difesa dei con­fini), allora che sia una deci­sione il più con­di­visa pos­si­bile. I loro emen­da­menti sono stati bocciati.
Per­ché la modi­fica di venerdì notte è gra­vis­sima? Per­ché la riforma costi­tu­zio­nale è affian­cata da una riforma elet­to­rale (l’Italicum) che pre­vede il pre­mio di mag­gio­ranza al par­tito vin­ci­tore delle ele­zioni. Il com­bi­nato dispo­sto delle due riforme dà di fatto ad un par­tito poli­tico (che potrà avere la mag­gio­ranza asso­luta alla Camera anche con una mag­gio­ranza rela­tiva dei voti dell’elettorato) il potere e la respon­sa­bi­lità di dichia­rare lo «stato di guerra». Un’aberrazione.
AFGHANISTAN: 2 MILITARI SCOMPARSI,MANCANO DA IERI SERA
Pare che que­sta modi­fica sia stata for­te­mente voluta dai ver­tici delle Forze Armate e dalle mini­stre Roberta Pinotti e Maria Elena Boschi, assi­stite dagli acca­de­mici molto «agguer­riti» della Fon­da­zione Magna Charta, quella di Gae­tano Qua­glia­rello, una cima del pen­siero costi­tu­zio­nale.
Dal 1947 il Par­la­mento non ha mai dichia­rato lo «stato di guerra», anche se di guerre — pre­sen­tate come inter­venti uma­ni­tari e in nome dei diritti umani — ne ha fatte tante: Iraq, Kosovo, Afgha­ni­stan e ora forse tra qual­che giorno la Libia. Mai l’articolo 11 della Costi­tu­zione è stato così disat­teso. L’ex arti­colo 78 era di fatto un arti­colo «sim­bo­lico», che dava comun­que al Par­la­mento un ruolo per una deci­sione così dram­ma­tica: la riforma costi­tu­zio­nale voluta da Mat­teo Renzi ha fatto di que­sto arti­colo il sim­bolo di un’altra cosa, la pre­do­mi­nanza del governo sul parlamento.
Mat­teo Renzi sem­bra avere seguito le orme del vec­chio Sid­ney Son­nino quando invo­cava: «Tor­niamo allo Sta­tuto». Il vec­chio Sta­tuto Alber­tino infatti dava al Re il potere di dichia­rare guerra. La modi­fica dell’ex arti­colo 78 di venerdì notte — simil­mente — dà que­sto potere al governo e al suo nuovo

giovedì 19 febbraio 2015

Fine della sovranità popolare, è l’autunno della democrazia

L’articolo 1 della Costituzione, comma II, recita: “La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Anche molte altre costituzioni iniziano, più o meno, con la stessa dichiarazione di appartenenza della sovranità al popolo. Ed è proprio questa una delle norme più tradite dell’ordinamento giuridico: fra i popolo e la sovranità si frappongono molti ostacoli vecchi e nuovi, che vanificano in gran parte il valore. Fra gli ostacoli di sempre, prima fra tutti, c’è la tendenza oligarchica del ceto politico in tutte le sue forme. Nell’ordinamento liberale classico (retto a collegio uninominale) era un ceto notabilare a sollecitare, sulla sola base della fiducia personale, una delega piena che avrebbe speso a sua totale discrezione. Si pensò che il rimedio sarebbe stato la democrazia dei partiti, basata su una robusta e continua partecipazione popolare. L’eletto non sarebbe stato più solo nell’esercizio quinquennale del suo potere di rappresentanza, avrebbe dovuto render conto agli organi di partito, eletti con metodo democratico e rinnovati con frequenza molto meno che quinquennale. La voce della “base” si sarebbe fatta sentire di continuo.
Per qualche tempo, pur imperfettamente, il meccanismo funzionò, correggendo le tendenze elitarie del sistema di democrazia rappresentativa; ma, dopo un po’, il metodo si corruppe: i partiti si dettero potenti apparati funzionariali costituiti da una casta Sovranità popolaredi professionisti, che subito si integrò con quella degli “eletti a vita” (parlamentari o consiglieri di enti locali). La burocrazia di partito ebbe buon gioco a rendere sempre più formale il potere della “base” e costituirsi in casta privilegiata ed autoreferenziale. Il meccanismo dei congressi, in cui i delegati di primo livello che sceglievano quelli di secondo che ne eleggevano di terzo livello, che avrebbero poi votato gli organi dirigenti del partito, assicurava che, della voce della base, alla fine restasse solo un debolissimo alito di vento. Nell’intervallo fra un congresso e l’altro, la pratica della distribuzione selettiva delle risorse assicurava al gruppo dirigente la fedeltà di parte degli iscritti per il successivo congresso. Poi, l’assenza di controlli esterni contribuì a pratiche quali il tesseramento gonfiato, i falsi congressuali, la corruzione dei delegati.
A dare il colpo di grazia venne la crescente passivizzazione della base fra una scadenza e l’altra e la confisca di tutte le tribune di partito da parte del ceto politico che impediva la nascita di potenziali concorrenti. La a democrazia interna di partito venne definitivamente seppellita. In definitiva, un rimedio quasi peggiore del male. E ci sono sempre stati anche altri diaframmi fra il popolo e la sovranità: la burocrazia di alto livello dello Stato, i diplomatici, i militari, tutti custodi gelosi del loro potere settoriale e del segreto di Stato. E come potrebbe un sovrano esercitare il suo potere se gli si negano le informazioni necessarie? A questa situazione già non brillante, la globalizzazione neoliberista di ostacoli ne ha aggiunti di nuovi: lo strapotere della finanza e l’emergere di una tecnostruttura internazionale che espropria gli Stati e che non risponde in nessun modo al potere Giannulipopolare. Anche nella fase precedente a quella attuale, il potere economico è sempre stato il contraltare del potere politico, e quindi della democrazia.
E si pensi solo a quanto si riduca l’area della sovranità popolare se gli si sottrae il controllo della politica monetaria. Oppure a quanto pesi il mondo della finanza nel controllo degli organi di informazione. La globalizzazione neoliberista ha esasperato queste tendenze creando super-poteri finanziari che fanno ballare interi Stati al ritmo dello spread, che determinano l’andamento del credito, che controlla la rete di distribuzione e il sistema informativo e, di conseguenza, condiziona la politica sin nei minimi particolari. Siamo all’autunno della democrazia rispetto al quale occorre ripensare complessivamente il modello, muovendosi su due direttrici iniziali: una robusta dose di democrazia diretta da innestare sul sistema rappresentativo e la realizzazione di forti spazi di democrazia economica.

mercoledì 18 febbraio 2015

L’ISIS in Libia: di cosa bisogna veramente avere paura?

La rapida ed improvvisa avanzata dell’ISIS in terra di Libia ha suscitato una serie di nuove paure in Europa ed in Italia in particolare. Vediamo, in quest’articolo, di soppesarle una per una in modo da saggiarne l’attendibilità.
La prima è che l’ISIS possa sommergerci d’ondate umane e migratorie, di barconi carichi di poveri disperati tra i quali potrebbero infiltrarsi anche i suoi uomini allo scopo di seminare lo scompiglio anche da noi. Per quanto non impossibile, resta comunque un’ipotesi piuttosto improbabile. L’ISIS sicuramente gradirebbe approfittare di una simile possibilità, ma l’Italia già alla fine degli Anni ’90 ha dimostrato di saper affrontare una simile situazione. A quell’epoca il governo italiano inaugurò un’operazione che portò all’affondamento di molte imbarcazioni direttamente nei porti albanesi, allo scopo di prevenire le partenze dall’Albania verso la Puglia. La strategia, malgrado tutto, funzionò; e del pari funzionò anche l’operazione, avviata sempre in quegli anni, mirata a stroncare il passaggio tra le due sponde dell’Adriatico dei contrabbandieri albanesi e montenegrini, che erano ormai giunti ad un tale livello di potenza da minacciare seriamente l’ordine pubblico e la sicurezza in alcune aree del paese. Il nostro paese potrebbe quindi replicare, su vasta scala, quest’operazione già attuata con successo quasi vent’anni fa, affondando le imbarcazioni direttamente nei porti libici in maniera da prevenire o quantomeno minare alle radici la tratta dei migranti. Certo, non sarebbe un’operazione semplice, per due immediati motivi. Il primo è che la Libia non è l’Albania, avendo una costa ed un numero di porti e quindi anche d’imbarcazioni di gran lunga superiore, il che richiederebbe pertanto uno sforzo ed un’organizzazione altrettanto maggiori. Il secondo è che in Albania c’era pur sempre un governo abbastanza solido e presente sul territorio, per quanto corrotto e viziato dalla presenza e dall’interferenza di mafiosi vari, mentre in Libia l’autorità statale è in pratica assente, ed al suo posto ci sono gruppi di fondamentalisti che aspirano per motivi religiosi ed ideologici allo scontro coi nostri uomini, cosa che aumenterebbe il livello di rischio della missione. Pertanto quest’ultima non si presenterebbe come un’operazione facile ed indolore, e men che meno di semplice attuabilità. Ma, se vorremo evitare una proliferazione degli sbarchi, molto probabilmente ci troveremo costretti ad aprire una riflessione sull’opportunità di metterla in pratica.
La seconda paura è che gli uomini dell’ISIS possano raggiungere Misurata e da lì giungere con gran facilità anche a Tripoli. Premesso che prendere Misurata non è uno scherzo, visto che si trova sotto il controllo di milizie ben agguerrite e che rappresentavano la spina nel fianco anche per l’esercito di Gheddafi, giungere a Tripoli è probabilmente ancora più difficile. Al momento a Tripoli l’ISIS è infiltrata coi suoi uomini e gode anche di tifosi e sostenitori che scorrazzano per le strade agitando le sue bandiere, ma di qui a parlare di un controllo effettivo della capitale ce ne corre. Qualora gli uomini dell’ISIS dovessero realmente impadronirsi di Tripoli, in termini pratici non vi sarebbero cambiamenti sostanziali, giacché il governo legittimamente riconosciuto della Libia già da tempo s’è rifugiato a Tobruk e quello “ribelle” insediato nella capitale non gode della fiducia e dell’ascolto della cosiddetta “comunità internazionale”. E’ però vero che a Tripoli c’è un bel po’ d’armamenti che potrebbero cadere nelle mani dell’ISIS, a cominciare da una buona frazione dei caccia dell’aviazione militare libica, ereditati dalla Jamahiriya. Qualcuno ha già insinuato l’ipotesi che a quel punto gli uomini dell’ISIS potrebbero usarli per compiere qualche spedizione sull’Italia. Mi si permetta di dire che anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una paura tanto eccessiva quanto immotivata. Gli aerei in questione sono vecchi e malandati, ed in ogni caso per guidarli in maniera presentabile è richiesto un addestramento di ore ed ore che gli uomini dell’ISIS non hanno. Qualora quest’ultimi avessero il coraggio di decollare alla volta dell’Italia, o anche dell’Egitto o dell’Algeria, verrebbero prontamente abbattuti senza troppo problemi: ammesso poi che riescano anche solo ad avvicinarsi alla meta. Casomai, questi aerei potrebbero usarli per scopi interni, per esempio per bombardare i loro nemici delle fazioni opposte o le milizie gheddafiane attestate nel sud del paese. Era ciò che facevano anche i Talebani coi vecchi caccia lasciati dai sovietici e dalla defunta aviazione afghana a Kabul: partivano dalla capitale per sorvolare e colpire maldestramente le postazioni dell’Alleanza del Nord. Quando giunsero gli americani, quei caccia ovviamente rimasero fermi sulle piste, poiché intuibilmente i Talebani non avrebbero avuto alcuna possibilità di sfidare i ben più preparati piloti occidentali. Nel caso dell’ISIS in Libia, succederebbe la stessa cosa: qualora nel paese entrassero gli egiziani, o la NATO, i vecchi caccia ereditati da Gheddafi rimarrebbero a terra.
Forse un po’ più temibili potrebbero essere i missili, anche in questo caso vecchi e malandati, di cui la Libia possiede una grande quantità. Anche questi sono un retaggio della Jamahiriya, di cui nel nostro paese viene sopravvalutata la pericolosità. Il fatto è che siamo stati segnati dalla rappresaglia del 1986, ovvero dai due missili scagliati dalla Libia subito dopo il bombardamento aglo-americano su Tripoli e Bengasi. Per questo motivo viviamo con l’ossessione che possano arrivarne altri. Ma la realtà è che anche in questo caso difficilmente l’ISIS potrà tirarci addosso qualcuno di quei vecchi “petardoni”. Già nel 1986 essi non riuscirono a raggiungere Lampedusa, inabissandosi prima, ed erano belli nuovi; come potrebbero farcela adesso, che sono in avanzata fase d’obsolescenza? C’è il rischio che possano esplodere per strada, o addirittura alla partenza. Inoltre sono tecnologicamente molto vecchi e possono essere intercettati e neutralizzati con gran facilità. Già nel 2011, proprio per questi motivi, ne tirarono pochi.
In definitiva, l’ISIS almeno per il momento non deve farci paura per la sua capacità di pilotare aerei o di lanciare missili, quanto piuttosto per altre cose. Una di queste è la sua capacità d’ispirare simpatie ed adesioni anche nel cuore dell’Europa, presso strati della società che, sentendosi rifiutati o non integrati nella loro civiltà d’appartenenza, finiscono per cercarsene un’altra altrove, magari proprio nel Califfato. E che quindi possono, ovviamente non tutti, darsi anche alla lotta armata ed al terrorismo. O per le capacità di comunicazione, in grado di suscitare nell’opinione pubblica europea un’inquietudine per non dire un panico costanti, complici in questo caso anche i nostri media che devono battere il tamburo di guerra per indurre la popolazione a tifare per la guerra. O ancora per la capacità di distorcere e strumentalizzare la religione, seminando incomprensioni e scavando solchi che dividono ancor di più le componenti di una società come la nostra, ormai sempre più lacerata e sfilacciata, e fomentando quello scontro di civiltà che del resto anche i nostri governi alimentano tanto volentieri.

martedì 17 febbraio 2015

Il dramma delle serrande abbassate. Dal 2008 ben 82 mila aziende hanno chiuso i battenti.

Dati drammatici quelli relativi alle imprese italiane. Dall’inizio della crisi nel 2008 ad oggi ne sono fallite in Italia 82 mila. Per un milione di posti di lavoro persi. Dati che emergono dal dal Cerved. Il picco dei fallimenti, 15 mila, si è registrato proprio lo scorso anno. Se si tiene conto anche delle procedure concorsuali non fallimentari e le liquidazione volontarie il dato sale a 104 mila l’anno scorso. Una crisi che sembrerebbe dovuto soprattutto al costo elevatissimo dell’occupazione con l’anno peggiore per i lavoratori dipendenti nel 2013 quando in 176 mila hanno perso il lavoro. I posti di lavoro persi sono comunque più che raddoppiati rispetto al 2008: un incremento percentuale del 136 per cento. A livello geografico, l’area più colpita nel 2014 è il Nord Ovest.

lunedì 16 febbraio 2015

L’ITALIA È LA BOMBA A OROLOGERIA DELL’EUROPA

Nel lungo periodo, siamo tutti morti, ma che differenza fa se siete dentro l’eurozona? Potreste anche essere già morti. Infatti, sembra quasi impossibile, ma da quando è stato creato l’euro, 16 anni fa, l’Italia è cresciuta solo del 4 per cento, in totale. Peggio della Grecia.
Comunque, dall’Europa non arrivano solo brutte notizie. Nel quarto trimestre del 2014 non è solo la Germania ad essere cresciuta a un ritmo annuale più veloce del previsto, del 2,8 per cento, ma anche la Spagna (una ripresa così a caro prezzo che chiamarla ripresa è dir tanto, ci sentiamo di precisare, ndt) . Anche il Portogallo è cresciuto ad un ritmo del 2 per cento. Questo è bastato perché l’eurozona nel suo complesso crescesse ad un ritmo “almeno-non-è-una-recessione” dell’ 1.2 per cento. Ma questi barlumi di buone notizie sono appunto solo questo – dei barlumi. L’ultima prova di forza della Grecia sull’austerità ha preoccupato così tanto le sue banche e le sue imprese che la ripresa appena accennata si è trasformata in uno 0,8 per cento di contrazione. E se l’Italia non è andata in recessione, non è nemmeno cresciuta.
E non va affatto meglio se si guarda ad un periodo più lungo. Come si può vedere dal grafico, in 16 anni il Portogallo è cresciuto solo del 7,2 per cento, la Grecia poco più del 4 per cento, e l’Italia giusto del 4 per cento. Che cosa è andato storto? Be’, tutto. Hanno tutti problemi di offerta e di domanda. Per quanto riguarda il primo aspetto, ciò significa che è troppo difficile avviare un’impresa, troppo difficile farla crescere e troppo difficile licenziare i dipendenti (va detto però che gli effetti perversi delle riforme del lavoro sono noti, ndt). Questo rende le loro economie sclerotiche anche nei periodi di prosperità, e le condanna nei periodi di crisi. Ma queste fasi di crisi sono state peggiori di quello che avrebbero dovuto essere, perché la BCE non ha fatto il suo lavoro e non ha mantenuto l’inflazione vicino al 2 per cento. In realtà, ha addirittura peggiorato le cose aumentando i tassi per due volte nel 2011 per combattere un’inflazione immaginaria. Né è stato d’aiuto il fatto che questi paesi siano stati costretti a cercar di tagliare i deficit del bilancio pubblico tutti contemporaneamente. Il risultato è stato una doppia recessione che li ha ricacciati tutti indietro, al punto in cui erano quando è iniziato l’euro – e ha peggiorato anche i loro problemi di debito.
Però il vero problema qui è l’Italia. Sia la Grecia che il Portogallo sono molto indebitati e sono entrati entrambi in un programma di “salvataggio”, ma almeno stanno iniziando la ripresa (per la Spagna si è già detto, per la Grecia si tenga presente che quando c’è fame anche le briciole sembrano un lauto pasto, ndt) e sono abbastanza piccoli perché l’Europa possa extend-and-pretend, allungando le scadenze e facendo finta che un giorno che non arriverà mai il debito sarà ripagato. Ma l’Italia non è affatto in ripresa, e il suo debito è troppo grande per essere ignorato. Quindi, come minimo, avrebbe proprio bisogno di cominciare a crescere più dello 0,25 per cento l’anno. La questione è se il popolo italiano rinuncerà alla speranza che questo possa accadere all’interno dell’euro.
In questo caso, chi potrebbe biasimarli?

venerdì 13 febbraio 2015

Reato di negazionismo: gli storici lo rifiutano

La repressione penale delle opinioni ha conseguenze esplosive. L'approvazione in prima lettura da parte del Senato del reato di negazionismo apre molti più problemi di quelli che vorrebbe risolvere. Gli storici la rigettano, da sempre.
di Pino Cabras - Il recente voto parlamentare sul "negazionismo", in pieno revival di una potente campagna sui reati d'opinione, fa fare un salto deleterio alla nostra Repubblica. Per sommo e aberrante paradosso, una legge presuntamente antifascista è il nido in cui farà l'uovo lo Stato etico, la tipica base liberticida e totalitaria del fascismo. Un fascismo di tipo nuovo, politically correct.
Dopo tanti tentativi, contro i quali - come vedremo - c'è stata una forte opposizione di tanti valenti storici antifascisti - anche in Italia la repressione penale delle opinioni si è fatta strada in Parlamento, con conseguenze esplosive. L'emendamento approvato nella Commissione giustizia del Senato - relatrice la PD Rosaria Capacchione - con i voti di PD, PDL, Scelta Civica, SEL e i senatori Cappelletti e Gianrusso del M5S, prevede tre anni di reclusione (sette anni e mezzo con le aggravanti) e multe fino a diecimila euro da comminare a chi "nega o minimizza crimini di genocidio" come ad esempio la Shoah.
L'idea di contrastare con la legge penale le opinioni - per quanto infondate e profondamente sbagliate - apre scenari pieni di pericoli.
Legare l'interpretazione della Storia a una legge penale sarebbe come cristallizzare una conoscienza scientifica aperta al dibattito - ad esempio le scoperte di Newton- in una norma sigillata dal dogma dello Stato (e un domani di un governo o di un regime politico contingente). Una volta aperto un varco così grande a questo modo di procedere, potrebbero presentarsi abusi drammatici su ogni interpretazione controversa degli eventi storici: la Storia è sempre controversa. Un articolo di Francesco Santoianni descrive con molta chiarezza vari casi di arresti e condanne penali avvenuti negli ultimi anni in tutta Europa, compreso il caso dell'austriaca Sylvia Stoltz, che fu condannata a tre anni e mezzo di reclusione nell'esercizio della sua funzione di avvocato difensore durante il processo a un "negazionista". Le norme qui in Italia non ci sono ancora, ma la tempesta sì: contro Piergiorgio Odifreddi, che si è dichiarato contrario all'approvazione della legge, è già in corso una campagna d'intensità maccartista. Molti di coloro che vorrebbero dire pubblicamente che Odifreddi deve potersi esprimere liberamente non lo faranno, perché il manganello mediatico fa già male. Figuriamoci il clima che avremo con un manganello penale.
Lo storico Franco Cardini, nel 2009, scrisse un articolo molto ricco di argomentazioni sui rischi di una legge penale in materia. Tra queste, c'è un'argomentazione sottile e importante:
«Cresce il numero di chi in pubblico afferma una cosa e in privato sostiene esattamente il contrario. E sapete perchè? Per il fatto che se ne perseguitano i sostenitori e che li si condanna senza dar loro il diritto di parlare e senza controbattere. Ma in questo modo si crea nell'opinione pubblica la crescente sensazione che se ne abbia paura, e che essi stiano dicendo cose vere: e, questo sì, può costituire la premessa a una nuova ondata di pregiudizio antisemita, anche se è difficile immaginare sotto quali forme potrebbe presentarsi.»
Le motivazioni per opporsi a un simile provvedimento sono già state formulate molto bene nel 2007 da molti storici italiani (tra cui molti studiosi con profonde radici familiari e intellettuali nell'ebraismo italiano), quando si opposero fermamente all'allora ministro della giustizia Clemente Mastella, che - fotocopie alla mano - voleva introdurre nel nostro ordinamento una legge analoga alla francese Fabius-Gayssot. L'appello degli storici italiani è un documento di straordinaria attualità, che condivido dalla prima all'ultima riga, e che propongo qui sotto all'attenzione dei lettori.
Mentre Giorgio Napolitano, fra una larga intesa e l'altra, esorta sovranamente i parlamentari ad approvare le nuove norme penali, i lettori potrebbero esortarli più sovranamente ancora a non approvarle, consigliando loro di leggere l'appello degli storici. Magari recapitandolo nelle loro caselle e-mail.

giovedì 12 febbraio 2015

Con la scusa dell'antiterrorismo...

Chi è che non vuole esser protetto dai "terroristi"? Chi è che non è disposto a sacrificare un pezzetto di privacy pur di garantirsi uno scudo efficace contro il "nemico esterno"?
Sono queste le premesse psicologiche di massa - quindi immediatamente politiche - che faciltano la concentrazione dei poteri in poche mani, sempre meno pubbliche e note; nonché la dfinizione di "fattispecie di reato" decisamente affidate alla libera interpretazione dei governanti, della magistratura, delle innumerevoli polizie di questo paese.
Su queste premesse il governo Renzi ha elaborato e imposto in forma di decreto legge un nuovo pacchetto di "misure antiterrorismo". Manca un articolato, per il momento, ed anche il sito del governo - nella pagina dedidcata a queste misure - è decisamente (quindi pericolosamente) generico. Vediamo i dettagli resi noti e facciamoci qualche domanda.
Il provvedimento prevede sul piano penale:
l’introduzione di una nuova figura di reato destinata a punire chi organizza, finanzia e propaganda viaggi per commettere condotte terroristiche (reclusione da tre a sei anni);
Già qui si pone il problema di definire con chiarezza cosa si intenda per "organizzare, finanziare e propagandare viaggi". Se la finalità è davvero "commettere condotte terroristiche" la pena da tre a sei anni appare addirittura poca cosa. Se le finalità sono altre (non vengono dichiarate, in questo passo) allora 3-6 anni potrebbero essere decisamente troppi.
la punibilità del soggetto reclutato con finalità di terrorismo anche fuori dai casi di partecipazione ad associazioni criminali operanti con le medesime finalità (attualmente, l’art. 270-quater c.p. sanziona solo il reclutatore);
In apparenza qui si dice che si intende punire il "reclutato", oltre che il "reclutatore" (figura già prevista e sanzionata da un articolo di legge). Di fatto, si apre una voragine che solo l'interpretazione soggettiva - quindi politica - del repressore potrà riempire. Cosa vuole dire infatti "punibilità del soggetto reclutato con finalità di terrorismo anche fuori dai casi di partecipazione ad associazioni criminali operanti con le medesime finalità"? Come può esser definito - preventivamente, oltretutto - " terrorista" un individuo che non partecipa ad alcuna organizzazione "terroristica"? In teoria,questo punto sembra destinato a colpire i cosiddetti "lupi solitari". Ma questi "solitari" - come nel caso francese - sono tali solo come terminali locali di organizzazioni ramificate. Se si introduce insomma la "punibilità" per il "singolo disorganizzato" è abbastanza semplice prevedere una serie di arresti in assoluta mancanza di prove (a meno di non reperire armi ed esplosivi), decisi in base alla sospettosità di questo o quel funzionario.
la punibilità, sul modello francese, di colui che si “auto-addestra” alle tecniche terroristiche (oggi è punito solo colui che viene addestrato da un terzo – art. 270-quinquies c.p.);
Idem come sopra. Anche se, in questo caso, ci dovrebbe almeno essere la presenza fisica di armi e/o esplosivi, altrimenti l'"addestramento" sarebbe semplicemente indimostrabile.
l’introduzione di specifiche sanzioni, di ordine penale ed amministrativo, destinate a punire le violazioni degli obblighi in materia di controllo della circolazione delle sostanze (i cd. “precursori di esplosivi”) che possono essere impiegate per costruire ordigni con materiali di uso comune.

Se diventa una "prova" il possesso dei "precursori di esplosivi", anzi addirittra la loro circolazione, ci sembra inevitabile dare un colpo drammatico all'economia nazionale. Tra i "precursori" sono annoverabili infatti alcune decine di componenti chimici utilizzati in tutti i rami produttivi (dall'agricoltura all'industria, ma finache in cucina). Il magistrato che volesse perseguire questo possesso - o addirittura la circolazione - si troverebbe in grave imbarazzo operativo oppure libero di interpretare le intenzioni recondire del possesso - poniamo - di zucchero.
Sul piano degli strumenti di prevenzione, le misure contemplate comprendono:
la possibilità di applicare la misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai potenziali “foreign fighters”;
Non c'è necessità di avere grandi esperienze giuridiche per immaginare come può funzionare la misura della "sorveglianza speciale" (controlli domiciliari, obbligo di firma, divieti di circolazione fuori di una certo territorio, ecc). Più problematico è individuare un "potenziale foreign fighter" da sottoporre a queste misure.
la facoltà del Questore di ritirare il passaporto ai soggetti indiziati di terrorismo, all’atto della proposta di applicazione della sorveglianza speciale di p.s. con obbligo di soggiorno. Il provvedimento è sottoposto a convalida dell’Autorità Giudiziaria;
E infatti si arriva subito al punto repressivo reale: la facoltà della polizia di sequestrare i passaporti. Resta da definire cosa significa, concretamente, "indiziato". Se, come dicono i codici attuali, è una persona iscritta al registro degli indicati e raggiunta da comunicazione giudiziaria, non c'è alcun cambiamento rispetto alla legislazione in vigore; e non si capirebbe perché inserirlo in un nuovo decreto. Se invece è un semplice "sospetto" degli inquirenti, è un potere devastante attribuito ad capocchiam.
l’introduzione di una figura di reato destinata a punire i contravventori agli obblighi conseguenti al ritiro del passaporto e alle altre misure cautelari disposti durante il procedimento di prevenzione
Un semplice corollario del punto precedente.

Inoltre, lo schema di decreto si incarica di aggiornare gli strumenti di contrasto all’utilizzazione della rete internet per fini di proselitismo e agevolazione di gruppi terroristici. In particolare, vengono previsti:
aggravamenti delle pene stabilite per i delitti di apologia e di istigazione al terrorismo commessi attraverso strumenti telematici;
la possibilità per l’Autorità Giudiziaria di ordinare agli internet provider di inibire l’accesso ai siti utilizzati per commettere reati con finalità di terrorismo, compresi nell’elenco costantemente aggiornato dal Servizio Polizia Postale e delle Telecomunicazioni della Polizia di Stato. Nel caso di inosservanza è la stessa Autorità Giudiziaria a disporre l’interdizione dell’accesso ai relativi domini internet.
Il problema, si deve dire chiaramente, non è la commissione di "reati" attraverso Internet. Questi sono già individuati dalle leggi esistenti, che non distinguono troppo - giustamente - dal medium attraverso cui un determinato reato viene commesso.
Il punto essenziale investe invece tutta la logica di questo provvedimento: cos'è "terrorismo"?
Prendiamo il caso dei "foreign fighters", che appare relativamente semplice. Diciamo che è un "terrorista" chiunque rientri dall'aver combattuto in un paese straniero? All'uomo comune, ovvero disinformato, verrà detto che questa misura riguarda coloro che hanno combattuto o stanno combattendo in formazioni jihadiste. Ma una legge che parla di "combattenti all'estero" non contiene questa specificazione.
E allora cosa facciamo con quei cittadini italiani - fascisti dichiarati - che stanno combattendo nelle formazioni collaterali all'esercito di Kiev? Alcuni nomi sono già circolati, alcuni sono già tornati. Li arresterete subito? Oppure comincerete a distinguere tra la parte belligerante con cui l'Italia e l'Unione Europea sono politicamente schierate? Che succederà invece con quanti magari hanno deciso di sostenre le Repubbliche Popolari del Dombass? E quei cittadini che, in nome di una religione diversa e/o di una doppia cittadinanza, sono andati a prestare servizio militare - combattendo - nell'esercito israeliano?
La domanda è in fondo semplice: se "terrorismo" equivale a "combattimento", sarà necessario specificare chi sono "i nostri" e chi sono "i loro". Ma così facendo "terrorismo" equivale a "nemico". Quello di turno. Oggi è Tizio, domani Caio; mentre Tizio torna "alleato". Che è poi il nostro convincimento profondo...
Ulteriori misure comprendono:
la semplificazione, nel rispetto del Codice della privacy, delle modalità con le quali le Forze di polizia effettuano trattamenti di dati personali previsti da norme di regolamento, oltre a quelli contemplati da disposizioni di rango primario;
Fuori dal burocratese poliziottesco, qui si dice che i dati che riguardano tutti noi sono a disposizione delle forze di polizia. Se prima ne veniva fatto un uso improprio o illegale (comunque molto difficile da scoprire e denunciare, per un semplice cittadino), ora quello stesso uso diventa legale (un poì come l'economia informale dopo il "pacchetto Treu" e la "legge 30").
l’ampliamento delle “garanzie funzionali” riconosciute agli appartenenti ai Servizi di informazione, escludendo la punibilità di una serie di condotte in materia di terrorismo (diverse dai reati di attentato o di sequestro di persona), commesse dal personale delle Agenzie di intelligence per finalità istituzionali e previa autorizzazione del Presidente del Consiglio dei Ministri.
la possibilità per il personale dei Servizi possa deporre nei procedimenti giudiziari, mantenendo segreta la reale identità personale;
Servizi segreti, nomi segreti, libertà d'azione al di fuori di ogni regola, libertà di commettere reati anche gravissimi (dobbiamo far notare sono esclusi solo l'attentato e il sequestro di persona, ma non l'omicidio o la tortura). Un bellissimo mondo di uomini-ombra svincolati dalla possibilità di essere puniti. Non vi sentite già tutti più "sicuri"? No, eh? Magari vi sentite già un po' meno liberi...
la possibilità per le Agenzie di intelligence, consentendo loro, previa autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria, di effettuare, fino al 31 gennaio 2016, colloqui con soggetti detenuti o internati
, al fine di acquisire informazioni per la prevenzione di delitti con finalità terroristica di matrice internazionale;
l’attribuzione al Procuratore Nazionale Antimafia di funzioni di coordinamento, su scala nazionale, delle indagini relative a procedimenti penali e procedimenti di prevenzione in materia di terrorismo.
Et voilà... L'Antimafia diventa antiterrorismo. Smetterà di occuparsi della prima per dedicarsi solo al secondo? Non c'è scritto. Ma il sospetto - qualche volta sorge anche in noi - aleggia...

mercoledì 11 febbraio 2015

si ricordano le vittime delle foibe: quando ricorderemo i briganti?

Il 10 Febbraio è il “Giorno del ricordo”, istituito nel 2004 con una legge dello Stato Italiano, per ricordare le vittime italiane dei partigiani jugoslavi che volevano scacciare i nazisti e i fascisti dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia. In quell’occasione persero la vita circa 11mila persone, fascisti e antifascisti, anticomunisti, civili, militari, donne, bambini; insomma si ammazzava senza alcuna discriminazione, e i corpi venivano per lo più gettati nelle foibe, ossia grossi pozzi, alcuni enormi, tipici della Venezia Giulia. Successivamente la questione fu ridotta in Italia a uno scontro tra comunisti, che per anni hanno negato quei massacri, e neofascisti, che spesso e volentieri ricordavano soltanto i fascisti e la utilizzavano come argomento di difesa (del tipo “anche voi siete degli assassini”) quando si parlava dei campi di concentramento nazisti: la solita Italia, per capirci.
Premettendo che le vittime e la violenza sono tali e non hanno colore, ancora una volta reputo opportuno ricordare – perché sono ancora pochi coloro che lo fanno – che a oltre 150 anni di distanza i massacri compiuti ai danni di uomini, donne e bambini del Sud non trovano spazio né sui libri di storia, né nelle aule del Parlamento, né sui principali giornali e televisioni nazionali. Molto spazio è dato alla “Giornata della memoria”, dedicata alle vittime del nazismo (anche se quasi sempre si dimenticano che nei campi di concentramento non c’erano solo gli ebrei), un po’ meno alle “Foibe”, nessuno ai massacri di Pontelandolfo e Casalduni, Auletta, Ruvo del Monte e altri, accusati di essere briganti quando erano normali cittadini o uomini che combattevano contro l’esercito italiano invasore, sì, perché nei fatti il Piemonte nel 1860 invase il Mezzogiorno senza dichiarazione di guerra. Al contrario, invece, i loro feroci assassini come Enrico Cialcidi e Nino Bixio sono stati onorati intitolando loro strade, piazze, caserme e scolpendo i loro busti da apporre in luoghi pubblici.

martedì 10 febbraio 2015

Obama si riarma

Mentre la stampa atlantista ha salutato la nuova dottrina statunitense di sicurezza nazionale come una volontà di esplorare mezzi non militari per risolvere i conflitti, Thierry Meyssan vi ha letto una professione di fede imperialista e una dichiarazione di guerra al mondo. I lettori potranno fare riferimento al documento originale, scaricabile in fondo a questa pagina, per verificare che ha ragione.
Il presidente Obama ha appena reso pubblica la sua Dottrina di Sicurezza Nazionale (National Security Strategy), un documento che esplicita le ambizioni del suo paese, e di cui si è a lungo attesa la pubblicazione. Mentre cela i significati usando un "gergo legnoso", vi definisce la sua visione dell'imperialismo. Qui leggerete la decrittazione:
A- Gli otto ostacoli alla dominazione imperiale
Il primo ostacolo è la riduzione delle spese militari. «La forza non è la prima scelta degli Stati Uniti, ma talvolta sceglierla è necessario»; devono inoltre mantenere la loro schiacciante superiorità in materia [il loro budget militare supera quello di tutti gli altri Stati del mondo messi insieme] e devono smetterla di farvi economie.
Il secondo è il pericolo interno di rivolta armata. Dopo gli attentati dell'11 settembre, la paura del terrorismo ha permesso di sviluppare la sorveglianza dei cittadini. Così, il Patriot Act ha «protetto degli individui vulnerabili nei confronti di ideologie estremiste suscettibili di spingerli ad attentati sul suolo» statunitense.
Il terzo è il terrorismo transnazionale che gli Stati Uniti hanno creato e che devono ininterrottamente padroneggiare. Affinché la lotta contro questo ostacolo non sia deviata per regolare dei conti interni, sarà sempre compiuta nel rigoroso rispetto delle leggi USA [ma non del diritto internazionale, in quanto l'organizzazione del terrorismo è un crimine internazionale].
Il quarto è l'aumento della potenza russa e incidentalmente le provocazioni della Repubblica democratica popolare di Corea, conosciuta con il nome di Corea del Nord, a ricordare che gli Stati Uniti non l'hanno ancora vinta e che possono sempre riprendere questa guerra.
Il quinto è la possibile adesione di nuovi Stati allo status di potenza nucleare, che consentirebbe loro di resistere a Washington. L'opinione pubblica internazionale pensa in questo caso all'Iran, ma il presidente Obama in realtà pensa alla Corea. E non importa che egli non abbia mai mantenuto le sue promesse di denuclearizzazione, né che la NATO serva a violare gli impegni firmati nel Trattato di non proliferazione.
Il sesto è il cambiamento climatico, che spinge le persone a migrare e quindi minaccia lo status quo.
La settima è la messa in discussione del controllo esclusivo degli Stati Uniti sulle aree comuni.
In primo luogo, il cyberspazio: gli Stati Uniti, giacché sono sia i proprietari di Internet sia gli utilizzatori finali di un gigantesco sistema di intercettazioni illegali, non si aspettavano che alcuni utilizzassero questo mezzo per non pagare le royalties per i brevetti, i diritti d'autore e gli altri diritti dei marchi che costituiscono oggi una rendita, la prima fonte di reddito.
Poi lo spazio: Gli Stati Uniti sostengono il progetto europeo di Codice di condotta in materia di attività spaziali, che è un modo per sfuggire al progetto russo-cinese di Trattato di divieto di collocazione di armi nello spazio.
Infine, l'aria e il mare. A partire dalla Carta Atlantica, gli Stati Uniti e il Regno Unito si sono autoproclamati come la polizia dell'aria e del mare. Essi garantiscono la libera circolazione delle merci ed estendono quindi la loro talassocrazia.
L'ottavo è il rischio di un'epidemia. Da un anno in qua, gli Stati Uniti hanno istituito con trenta di loro alleati la Global Health Security Agenda, che mira a individuare e contenere le epidemie, nonché rispondere al bio-terrorismo.
B- Gli obiettivi economici
In primo luogo si tratta di far lavorare gli statunitensi, non perché possano vivere con un tenore di vita migliore, ma perché garantiscano la potenza economica del paese.
In secondo luogo, gli Stati Uniti affrontano un problema di sicurezza energetica non perché avrebbero difficoltà ad approvvigionarsi - sono ormai in eccedenza grazie al petrolio messicano di cui si sono discretamente impossessati - ma perché la Russia pretende di seguire il loro esempio controllando il mercato mondiale del gas.
In terzo luogo, la leadership degli Stati Uniti nel campo della scienza e della tecnologia non deve più basarsi sull'immigrazione di cervelli, che tende a scarseggiare, ma sul proprio sistema scolastico.
In quarto luogo, il nuovo ordine economico deve fare degli Stati Uniti la prima destinazione degli investimenti nel mondo. Perciò ogni loro incoraggiamento ad aumentare gli investimenti qua e là è puramente formale.
In quinto luogo, gli Stati Uniti devono utilizzare la povertà estrema nel mondo per imporre i propri prodotti.
C- L'ideologia
Gli Stati Uniti sono irreprensibili in materia di «Diritti dell'Uomo». Questa espressione deve essere intesa nel senso anglosassone di protezione degli individui di fronte all'arbitrio degli Stati, ma soprattutto non nel senso dei Rivoluzionari francesi, per i quali il primo «Diritto dell'uomo e del cittadino» non sta nell'eleggere i dirigenti in seno alle élites, bensì nell'essere il dirigente di se stesso.
L'amministrazione Obama ha messo fine alla pratica della tortura e garantisce i diritti dei suoi prigionieri. Poco importa che i membri della CIA che abbiano praticato esperimenti sui prigionieri non siano perseguiti per i loro crimini, né che nessuna indagine sia stata condotta sulle 80mila persone che furono illegalmente detenute in acque internazionali su imbarcazioni della US Navy durante l'era Bush. Allo stesso modo, ci si prega di credere che la NSA non raccolga alcuna informazione per reprimere opinioni politiche, né che trasmetta le sue informative all'Advocacy Center al fine di favorire le aziende USA in occasione di gare d'appalto internazionali.
Gli Stati Uniti difendono principi universali: la libertà di espressione [ad eccezione delle televisioni serbe, irachene, libiche e siriane che sono state distrutte], la libertà di culto [ma non la libertà di coscienza] e di riunione, la possibilità di scegliere i propri leader democraticamente [tranne che per i siriani che hanno eletto Assad con l'88% dei voti], e il diritto a un processo e un sistema giudiziario equo [ma solo per quanto riguarda il diritto penale in casa d'altri]. Difendono le comunità più vulnerabili, come le minoranze etniche e religiose [ma non gli yazidi, né i cattolici o gli ortodossi del Medio Oriente], i disabili, i LGBT [solo perché questo non costa loro nulla], gli sfollati [tranne i messicani cercano di attraversare il confine] e i lavoratori migranti.
Gli Stati Uniti sostengono le democrazie emergenti, specialmente dopo la primavera araba. Ecco perché hanno sostenuto al-Qa'ida nella sua rivoluzione contro la Jamahiriya araba libica e ancora la sostengono contro la Repubblica araba siriana. Lottano altresì contro la corruzione, sapendo che non hanno nulla di cui vergognarsi perché i membri del Congresso non ricevono i soldi di nascosto per cambiare i loro voti, ma lo dichiarano in un registro.
Gli Stati Uniti continueranno a sovvenzionare associazioni all'estero, scegliendo i propri interlocutori in modo da camuffare i loro colpi di stato in forma di "rivoluzioni colorate".
Infine, gli Stati Uniti lavoreranno per impedire massacri di massa [senza in pratica impedirlo a se stessi come per il massacro dei 160mila libici per i quali avevano ricevuto il mandato di proteggerli e che bombardarono]. Per far ciò, sosterranno la Corte penale internazionale [a condizione che non persegua funzionari USA].
D- Il nuovo ordine regionale
Estremo Oriente: Benché la Cina sia in competizione con gli Stati Uniti, eviteranno il confronto e «cercheranno di sviluppare una relazione costruttiva» con Pechino. Tuttavia, siccome non si è mai abbastanza prudenti, continueranno lo schieramento delle loro truppe verso l'Estremo Oriente e si preparano già ora alla guerra mondiale.
Europa: Gli Stati Uniti continueranno a fare affidamento su quell'Unione europea che hanno imposto agli europei, il loro principale cliente. Non mancheranno di usare l'UE, il loro «partner indispensabile», contro la Russia.
Vicino Oriente: Gli Stati Uniti garantiscono la sopravvivenza della colonia ebraica di Palestina. Per far ciò, continueranno a dotarla di un importante vantaggio tecnologico militare. Soprattutto, continueranno a costruire un'alleanza militare tra Israele, la Giordania e i paesi del Golfo guidati dall'Arabia Saudita, il che seppellirà definitivamente il mito del conflitto arabo-israeliano.
Africa: Gli Stati Uniti sovvenzioneranno i "Giovani leaders" che aiuteranno a essere democraticamente eletti.
America Latina: Gli Stati Uniti lotteranno per la democrazia in Venezuela e a Cuba, che continuano a resistergli.
E- Conclusione
Concludendo la sua esposizione, il presidente Obama sottolinea che questo programma potrà adempiersi solo ripristinando la cooperazione tra repubblicani e democratici, il che è un modo di ricordare la sua proposta di aumento delle spese militari.
Per essere compresa, la nuova dottrina della sicurezza nazionale deve essere vista nel proprio contesto. Nel 2010, il presidente Obama aveva abbandonato la teoria della «guerra preventiva», cioè il diritto del più forte ad uccidere chiunque gli pare. Stavolta, abbandona il progetto di «rimodellamento del Medio Oriente allargato». Alla luce dei principi sopra esposti, si può concludere che gli Stati Uniti spingeranno Daesh verso la Russia, che in ultima analisi non riconosceranno l'indipendenza del Kurdistan iracheno, e che affideranno la sicurezza di Israele alla Giordania e all'Arabia Saudita, non alla Russia come previsto nel 2012.
La Dottrina Obama passerà alla storia come la constatazione di un fallimento e l'annuncio di una catastrofe: Washington abbandona il suo progetto di riorganizzazione militare e si lancia di nuovo nello sviluppo delle sue forze armate. Nel corso degli ultimi 70 anni, il bilancio militare del paese è stato sempre in aumento, tranne nel periodo 1991-1995, quando pensavano di conquistare il mondo attraverso la sola via economica, e nel 2013-14, quando presero coscienza della propria disorganizzazione. In effetti, da molti anni, più mettono soldi nelle loro forze armate, meno queste funzionano. Nondimeno, nessuno è riuscito a riformare il sistema, né Donald Rumsfeld né Chuck Hagel. Pertanto, occorrerà sempre di più nutrire il Moloch, sia dal punto di vista del bilancio sia offrendogli delle guerre da scatenare.

lunedì 9 febbraio 2015

L'Impero USA: torture e guerre segrete in mezzo mondo

Il recente rapporto del Senato Americano sulle torture che la CIA ha commesso in questo decennio di lotta al terrorismo ha scandalizzato solo coloro che ancora credono alle favole servite dalla maggioranza dei giornali e delle TV. Informazioni senza memoria storica, che ignorano volutamente i fondamenti stessi della Geopolitica, delle trame, dei golpe, di quelli attentati o "disastri aerei" troppo frettolosamente archiviati nonostante le numerose domande senza una risposta, domande da parte di chi rifiuta le versioni ufficiali dei fatti perchè palesemente incomplete e deficitarie.
Documenti dal passato, del secolo scorso ci mostrano i coivolgimenti degli Stati Uniti in numerosi Colpi di Stato nella Nazioni centro e sud americane, il fiasco della guerra del Vietnam, i finanziamenti ai ribelli afghani, poi divenuti Al Qaeda. Come fidarsi ed accettare per buone le campagne presenti in medio oriente ? Siamo forse al cospetto di una redenzione collettiva da parte di un'amministrazione, quella americana, che continua a sbaragliare i concorrenti nelle spese militari? Gli aiuti umanitari sono l'ultimo pensiero ma la prima scusa di un Impero che vuole solo controllare il mondo e le sue risorse. Ovviamente anche altre superpotenze non stanno a guardare, sono nello stesso scacchiere geopolitico. Dobbiamo partire dall'assioma che la guerra nasce dalla menzogna, la guerra è solo un immenso gioco per il potere e per il denaro.
Amnesty International da sempre dalla parte dei diritti umani e contro ogni tipo di abuso ha chiesto a gran voce che i paesi Europei denuncino le intromissioni e le torture della CIA perpetrate nei rispettivi paesi. Chi sà deve fare i nomi, perchè questi crimini non rimangano impuniti. Julia Hall, esperta di terrorismo e diritti umani è ancora più esplicita:" Senza l'aiuto europeo gli Stati Uniti non sarebbero stati capaci di incarcerazioni segrete e di torture per così tanti anni." (Avete letto o ascoltato in TV questa notizia?!)
Amnesty sottolinea come nel corposo rapporto del senato americano siano indicati presunti luoghi segreti di detenzione illegali in Polonia, Lituania, Romania. Tutto questo con l'appoggio logistico di Germania, Regno Unito, Macedonia, per un giro di affari da svariati milioni di dollari.
La conferma ci viene anche dal premio Pulizer e giornalista del "New York Times" Mark Mazzetti e dal suo libro " Killing Machine", dove si racconta la metamorfosi della CIA, soprattutto dopo gli attentati negli Usa dell'11 settembre. L'attività della CIA si mischia con quella del Pentagono in un concerto militar-spionistico che modella un nuovo modo americano di fare la guerra.
Nick Turse, giornalista investigativo e collaboratore del NYT e del Los Angeles Times, riporta che la forze speciali statunitensi (SOF) sono presenti in un numero inimmaginabile di Paesi, spesso in incognito. 133 per la precisione, il 70% delle Nazioni del pianeta. Lo conferma arriva dal Tenente colonnello Robert Bockholt, funzionario del SOCOM ( US Special Operation Command). Il meglio del meglio delle forze speciali americane impegnate in operazioni che vanno dall'addestramento di soldati locali a vere e propri "cattura ed elimina" presunti nemici/terroristi. Tutte queste missione non sono seguite dai Media tradizionali, quindi i canali di informazione sono gli organi di stampa militari, soffiate di qualche gola profonda nella Casa Bianca, ex soldati o funzionari in vena di rivelazioni.
Il nuovo Generale del SOCOM (United States Special Operation Command) il comando statunitense che si occupa delle operazioni speciali, è Joseph Votel III, diplomato a West Point e Ranger dell'esercito. Questo comando ha visto duplicare i suoi funzionari dal 2001, 33000 contro i 70000 oggi.
Nick Turse ci accompagna in un viaggio molto dettagliato nella struttura di questa Organizzazione Militare.
La parte del leone del SOCOM la fanno i Rangers i Berretti Verdi seguiti dall'Air Force, dalla Marina
( i SEALs), altri reparti speciali ed un piccolo gruppo di Marines. Questo comando del SOCOM ha numerosi sotto reparti dislocati per il pianeta: il SOCAFRICA, il SOCEUR (contigente europeo), il SOCKOR (unicamente per la Corea), il SOCPAC che copre il resto delle regioni asiatiche e del Pacifico, il SOCSOUTH, specifico per Caraibi, Centro America e Sud America, il SOCCENT per il Medio Oriente, il SOCNORTH, specifico per la difese del suolo americano, il JOSC, una elite delle forze speciali per eliminare cellule terroristiche in qualsiasi parte del pianeta. " Gli assassini segreti di Obama" come li ha definiti Naomi Wolf in un articolo sul "The Guardian", che continua :" Un gruppo speciale fuori da ogni legalità e immune da ogni legge marziale." Per capirci sono gli stessi che hanno "eliminato" il nemico N.1 del momento Osama Bin Laden.
"Lo scopo è quello di creare una sorta di cooperazione militare internazionale, con un interscambio tra le diverse forze speciale di ogni singola Nazione." continua Turse. Queste "speciali operazioni di interscambio" (denominate SOLOs) sono già presenti in 14 Ambasciate di altrettanti Paesi alleati: Australia, Brasile, Canada, Colombia, El Salvador, Francia, Israele, Italia, Giordania, Kenia, Polonia, Perù, Turchia e Regno Unito. L'obiettivo è di espandere queste "collaborazioni" a 40 Paesi entro il 2019. L'abbreviazione JSOTF-P, per esempio, rientra nel supporto che l'esercito americano con le sue forze speciali forniscono nelle Filippine, per sconfiggere presunte cellule jihadiste. Circa 600 funzionari e militari USA a supporto delle milizie locali. In tutto questo c'è anche un accordo decennale stipulato tra gli Stati Uniti e Filippine che permette ai primi di utilizzare le basi militari in loco per i propri Jet da guerra in modo da controbilanciare il pericolo Cinese, non è un film ma la realtà. Un'altra Unità speciale è quella, adesso bandita, che doveva supportare e proteggere la sovranità del Governo Afghano (Special Operations Joint Task Force-Afghanistan), con operazioni notturne, catture ed uccisioni anche di civili. Solo nel 2014, dopo una decina di anni, il Pentagono ha ammesso l'esistenza di questo gruppo speciale.
In aggiunta a questo già ampio dispiegamento di forze più o meno ufficiale per il globo c'è anche il gruppo denominato "Special Operations Command Forward" (SOC FWD) in cui piccoli gruppi di soldati svolgono azioni di supporto e sostegnoin particolari situazioni di combattimento. Il SOCOM ha rifiutato di confermare la presenza di questa ennesima unità d'assalto. Ma esistono già numerosi articoli e documenti che provano l'esistenza di questi gruppi di militari: Pakistan, Yemen, Libano, SOC FWD Est Africa, SOC FWD Africa Centrale e SOC FWD Ovest Africa. Un esempio recente di esercitazioni ed intrusioni nei vari Governi Africani, viene dall'ultimo Colpo di Stato in Burkina Faso: l'ufficiale africano Isaac Zida, autore del rovesciamento governativo, aveva ricevuto nel 2012 un corso di controterrorismo in Florida, come riporta il "Washington Post". Esercitazioni Statunitensi in Trinidad and Tobago, in Suriname, Berretti Verdi che insegnano agli eserciti Dominicani. Lo scorso settembre 1200 soldati USA hanno partecipato con le forze speciali Olandesi, Polacche, Ceche, Lituane, Finlandesi, Britanniche, Norvegesi, Svedesi a esercitazioni con combattimenti corpo a corpo, assalti notturni, liberazioni di ostaggi, tiratori scelti e cosi via.
"Posso garantirvi che quello che succede in America Latina influenza l'ovest Africa che a suo volta influenza il sud Europa che di conseguenza condiziona il sud est asiatico, tutto è connesso." Questa la dichiarazione dell'ammiraglio americano William McRaven ex comandante del SOCOM e del JSOC, fatta ad un convegno del settore nel 2013. Ma tra scandali e torture, Colpi di Stato ed intromissioni nelle varie sovranità delle Nazioni, budget immensi per le spese militari, guerre mai vinte ma anzi esplose come un virus senza controllo, il contribuente non ha il diritto di conoscere queste operazioni che di fatto condizionano libertà presenti e future.
Nel 2001, secondo Turse, c'erano 23 Gruppi Terroristici da Hamas all'IRA, così catalogati dal Dipartimento di Stato Americano. I membri di Al Qaeda era non più di 1000 sopratutto in Afghanistan e Pakistan. Oggi dopo più di un decennio di guerre segrete, sistemi di sicurezza sofisticatissimi, e miliardi di dollari sperperati, i Gruppi Terroristici sono quasi 40, molti figliastri di Al Qaeda, diffusi dallo Yemen alla Nigeria, al Mali, alla Tunisia, al Marocco, alla Somalia, al Libano, senza contare l'ISIS ed i suoi 30000 affiliati. Gli affari per le forze speciali americani vanno a gonfie vele, alla faccia del terrorismo globale.
Nella sola Italia l'esercito americano ha investito più di due miliardi di dollari dalla fine della guerra fredda, trasformando il paese in una piattaforma strategico/logistica per le varie guerra in medio oriente. Basi militari, accordi commerciali, esercitazioni, alloggi, armi, il 15% delle forze USA in Europa risiedono in Italia con oltre 50 basi dislocate delle Alpi alla Sicilia. (Articolo apparso sulla Stampa)
Questo tipo di informazione rientra in quella categoria definita "scomoda" perchè potrebbe indurre il cittadino a pensare che siamo una colonia degli Stati Uniti, che nonostante la Costituzione siamo direttamente complici di guerre e massacri di civili in mezzo mondo, che il Governo si piega sempre più spesso alla richieste di Washington pena la perdita di accordi commerciali e di appalti in Medio Oriente. Che nonostante la crisi economica e la depressione che attraversa l'economia italiana e occidentale in genere, i soldi per le spese militari sono sempre garantiti ed anzi aumentano (per l'anno 2015 sono previsti quasi 18 miliardi) per nuovi aerei per difenderci dai terroristi che proprio gli Stati Uniti vanno a cacciare in incognito in mezzo mondo o forse sarebbe meglio dire che prima li addestrano e poi li combattono ed eventualmente li torturano, come la Storia continua ad insegnarci se non ci fossero organi di disinformazione che ci dicono tutto fuorchè le scomode verità..

domenica 8 febbraio 2015

UE shock: “Nel 2015 in Italia più disoccupazione

Tutto va ben, madama la marchesa, continua a ripetere Renzi agli italiani. “Stanno arrivando i primi segnali della ripresa. L'Italia sta ripartendo, finalmente”, ha dichiarato ieri il Premier all’Ansa. Ma a riportare tutti con i piedi per terra ci pensa l’Unione Europea, che tramite un report scioccante afferma: “Nel 2015 in Italia aumenterà la disoccupazione”. Tutto va ben, madama la marchesa...

L’agenzia Reuters ha riportato le parole pronunciate il 5 febbraio dal commissario Ue per gli Affari economici Pierre Moscovici in conferenza stampa a Bruxelles.
Parole non certo incoraggianti per l’Italia: “Il debito pubblico è atteso in calo a partire solo dal 2016, con una stima al 133,0% del Pil per quest'anno e al 131,9% per il prossimo”.
Secondo gli analisti della Commissione Europea nel 2015 l'Italia andrà in deflazione, con una stima di -0,3%, “sotto il peso del calo dei prezzi dell'energia, anche se dall'anno successivo si dovrebbe tornare su un più solido +1,5%”.
Senza una vera ripresa economica, ovviamente, il mercato del lavoro contiuerà a soffrire “con la stima sul tasso di disoccupazione 2015 al 12,8%. Il numero degli occupati dovrebbe salire limitatamente nel 2015 e rafforzarsi solo nel momento in cui la ripresa prende forza nel 2016" scrive la Commissione, sottolineando però “che l'ingrossamento della forza lavoro lascerà probabilmente il tasso di disoccupazione su livelli storicamente alti".
"La principale sfida che ha davanti l'economia italiana è ancora il livello molto alto di debito pubblico, insieme a una crescita nominale debole" ha affermato Moscovici.

"Continuiamo a incoraggiare il governo italiano a fare le riforme che ancora ci aspettiamo. Ci attendiamo che (il governo) specifichi ulteriormente l'agenda di riforme economiche e che rispetti gli impegni di bilancio per il 2015" ha aggiunto, presentando le stime di inverno della Commissione.
Ricapitolando: la Commissione Europea sta ancoa aspettando le famose riforme promesse da Renzi, riforme che evidentemente – nonostante quanto vada blaterando nei talk – sono lontanissime dall’essere realizzate; il debito pubblico “è atteso in calo a partire solo dal 2016, con una stima al 133,0% del Pil per quest'anno e al 131,9% per il prossimo” e la disoccupazione resterà su “livelli storicamente alti”.

C’è chi potrebbe vedere il bicchiere mezzo pieno e guardare al 2016 e chi, invece, ragionare lucidamente e capire che la ripresa viene di anno in anno posticipata. L’aspetto più paradossale riguarda però la continua e mielosa propaganda che i giornaloni nostrani fanno del premier e il premier fa di sè stesso: “Stanno arrivando i primi segnali della ripresa. L'Italia sta ripartendo, finalmente”, ha dichiarato all’Ansa.

venerdì 6 febbraio 2015

MATTARELLA, PRESIDENTE PER GRAZIA DELLA NATO

Il fumo mediatico ha spacciato l'elezione di Mattarella come l'ennesimo trionfo personale di Matteo Renzi. In realtà in Italia non si diventa presidenti della Repubblica senza l'investitura della NATO. La prova la si può trovare nella nostra "bellissima Costituzione", la nostra "Costituzione Fiaba", come dice Benigni. Dietro le fatine ed i principi azzurri, vi si annidano però non solo mefitici "Draghi", ma anche terribili orchi. Come nell'articolo 87, dove ci viene detto che, tra le altre cose, il presidente della Repubblica presiede il Consiglio Supremo di Difesa, "costituito secondo la Legge". Le leggi in oggetto sono quelle del 1950, del 1999 e del 2010, e configurano una commissione mista, costituita dai principali ministri e dai vertici militari. Lo stesso segretario del Consiglio è un militare. Davvero una bella trovata quella di inserire di straforo nella Carta Costituzionale un organismo dai poteri imprecisati, che configura una specie di governo di emergenza che non ha alcun obbligo di rispondere al parlamento. Alla faccia degli "equilibri istituzionali".
E come sarebbe venuta ai nostri "Padri Costituenti" questa bella ponzata? Non dovevano sforzare molto la fantasia, perchè nello stesso anno in cui veniva scritta la nostra "bellissima Costituzione", il 1947, il presidente Truman aveva inventato negli USA un organismo analogo. Il National Security Act del luglio del 1947 istituiva infatti il National Security Council, un supergoverno composto dai vertici civili e militari. La NATO sarebbe stata costituita solo due anni dopo, nel 1949, eppure pare che aleggiasse nell'aria, visto che i "Padri Costituenti" già adeguavano la forma istituzionale della Repubblica italiana alle esigenze dell'alleanza militare con gli USA.
Quindi sarà del tutto casuale che l'attuale presidente della Repubblica sia anche il ministro della Difesa che aveva gestito l'aggressione della NATO contro la Serbia nel 1999. Deve considerarsi assolutamente casuale anche il fatto che Mattarella appartenga ad una delle dinastie più importanti del potere in Sicilia, cioè la regione più militarizzata d'Italia e d'Europa. Come pure è una mera coincidenza che le sue prime parole da neo-eletto siano state sulla questione del "terrorismo" e delle "dittature" che minaccerebbero il Sacro Occidente. Anche in questa circostanza Sergio Mattarella non doveva sforzare granché la fantasia, visto che la priorità della "minaccia terroristica" era già stata individuata dal Consiglio Supremo di Difesa, nella sua riunione del 15 ottobre scorso. Non ci vuol molto sforzo neppure a prevedere che, in una delle prossime riunioni del Consiglio di difesa, ad essere evocato sarà il fantasma del "dittatore" Putin.
Nei prossimi anni il Consiglio Supremo di Difesa avrà parecchio da lavorare. Un'agenzia di stampa statunitense, vicina al Pentagono, "Global Security", ci avvisa infatti che l'Italia ha in programma un aumento delle spese militari di qui al 2017, perciò il costo della nostra "alleanza" NATO dovrebbe superare l'1% del PIL. Meno male che queste notizie ce le danno gli Americani. Del resto, se non le sanno loro.
Tra le facili profezie si potrebbe annoverare anche un aggravarsi della nostra sudditanza atlantica nei prossimi anni. Una nuova "bolla finanziaria", simile a quella dei mutui del 2007, starebbe per scoppiare negli USA. Stavolta si tratta della bolla dei prestiti agli studenti, secondo quel saggio sistema che si sta importando anche in Italia, di costringere i ragazzi ad indebitarsi a vita per sostenere i sempre più onerosi studi superiori. Le insolvenze però crescono, così come i rischi di una generale ricaduta negativa sui consumi.
Questa crisi incombente potrebbe costituire la spinta definitiva per la già attesa liquidazione dell'euro. Si può essere certi che anche questa prossima crisi finanziaria verrà gestita come le precedenti, cioè presentandola come una felice occasione per estorcere ulteriori "cessioni di sovranità". Ma, stavolta, a presentarsi a riscuotere, probabilmente non sarà un'ormai estenuata Unione Europea, ma la NATO in prima persona.