venerdì 10 dicembre 2021

Pensionati! Vivrete da nababbi, l’anno prossimo!

 A leggere i titoli dei peggiori giornali di regime sembra che la “rivalutazione degli assegni pensionistici” a partire dal 1 gennaio produrrà effetti formidabili. E che naturalmente sia tutto merito di Mario Draghi e, a seguire, dei vari partiti della maggioranza totalitaria che lo sostiene.

Andiamo perciò a guardare le cose da vicino.

L’adeguamento è un fatto dovuto e, diciamo così, automatico. Dipende dal tasso di inflazione, che da qualche anno era a zero o quasi (in qualche momento persino sottozero) e dunque non aveva provocato alcun adeguamento.

Non che i prezzi fossero rimasti fermi, ma il “paniere Istat” (un certo elenco di merci e servizi ritenuti indispensabili) non comprende l’universo merceologico. Ragion per cui non ogni aumento veniva registrato come suscettibile di provocare un adeguamento anche delle pensioni.

Il 2021 ha rivisto crescere invece un tasso ufficiale di inflazione dell’1,8%, molto inferiore a quello reale sui beni indispensabili (il famoso “carrello della spesa), e non tiene ovviamente conto dei fortissimi rincari delle bollette che diventeranno visibili soltanto nel nuovo anno.

Dunque il meccanismo automatico di rivalutazione ha partorito un aumento dell’1,7%. Ovviamente si tratta di una percentuale cui bisogna applicare le detrazioni Irpef (nazionali, regionali e comunali), e dunque va considerata al lordo.

Un secondo meccanismo “positivo” dovrebbe essere rappresentato dalla riforma delle stesse aliquote Irpef, decisa dal governo e in via di approvazione da un Parlamento che non ha neanche il tempo di leggere i testi che deve votare.

E dunque sappiamo che fino a 15.000 euro lordi annui non cambia assolutamente nulla (23%). Lo scaglione compreso tra 15mila e 28mila euro passa invece dal 27% al 25%, mentre la fascia 28-50mila cambia aliquota dal 38% al 35%.

Scompare l’aliquota al 41% e resta al 43% quella per i redditi sopra i 50.000. 

Naturalmente queste aliquote si applicano per la quota di reddito eccedente lo scaglione precedente, altrimenti un reddito poco superiore – per ipotesi – ai 15.000 euro verrebbe falciato da una tassa maggiore e quindi, per assurdo, produrrebbe un reddito netto inferiore.

Calcoli relativamente complessi, ma che fanno dire ai giornali: “si sommano due meccanismi redistributivi, quindi gli assegni saranno più ricchi”.

Il problema è cosa si intendere per “ricchezza”, a questo mondo.

La pensione minima, per esempio, passerà dagli attuali 515,58 euro mensili a 524,34 euro, mentre l’assegno sociale sale da 460,28 a 468,10 euro mensili. Meno di 9 euro nel primo caso e meno di 8 nel secondo. Roma da darsi alla pazza gioia, no?

Appena sopra questa soglia da fame nera, i titolari di pensioni (o di salario) fino a 15.000 euro annui riceveranno soltanto l’adeguamento dell’1,7% lordo, perché per loro l’aliquota fiscale resta al 23%. Per capirci: chi prende 10.000 euro annui vedrà salire la cifra lorda a 10.170, cui vanno tolti 2.339 euro di Irpef, per un totale netto di 7.831 euro netti annui. Fin qui ne aveva presi 7.700: quasi 11 euro in più al mese, dunque. Come fai a non darti allo champagne?

Salendo nelle fasce di reddito gli effetti diventano leggermente migliori, ma non di tanto e comunque solo fino ai 2.062 euro mensili, quota oltre cui la “rivalutazione” dell’assegno pensionistico diventa minore (l’1,53% invece dell’1,7) e così via a salire.

Contemporaneamente c’è l’effetto della riforma fiscale, e quindi scende – di poco – anche la sottrazione dovuta all’aliquota, per un effetto finale di qualche centinaio di auro annui, al massimo.

Insomma, incrementi con i quali non si riuscirà nemmeno a far fronte all’aumento delle bollette, non parliamo poi del “carrello della spesa”.

In chiusura c’è da sottolineare il meccanismo profondamente ingiusto alla base di questa pseudo “redistribuzione”. Come abbiamo visto si concede una miseria alle fasce medie (stiamo parlando di lavoratori dipendenti o ex, non di “ceto medio” o piccola borghesia), e nulla a quelle più povere. Con automatismi che approfondiscono le diseguaglianze anche quando promettono di redistribuire.

Il prezzo di una qualsiasi merce, infatti, è uguale per tutti: poveri, “galleggianti”, benestanti e ricchi sfondati. Ma è il reddito a fare la differenza davanti allo stesso bancone. E i meccanismi esistenti, confermati e rafforzati anche dal governo Draghi, accentuano le differenze di reddito.

L’unico meccanismo parzialmente “redistributivo” sarebbe insomma l’aumento uguale per tutti, in termini assoluti (esempio: 100 euro al mese in più su ogni assegno, sia basso che medio-alto). Oppure a scalare, diminuendo man mano che il reddito sale. Ma non questa schifezza delle percentuali minime sul niente.

martedì 23 novembre 2021

Super green pass

 Dio confonde coloro che vuol perdere, si dice da qualche millennio… E i governi dell’Occidente neoliberista stanno facendo di tutto per dimostrare che è assolutamente vero, anche senza dèi di mezzo…

La pandemia ha rivelato molto sull’irrazionalità del nostro modo di produrre e vivere, ma anche sull’impossibilità di concepire un altro modo di stare al mondo, se l’unica direzione possibile è affidata alla ricerca del profitto e dunque “al libero mercato”.

In queste ore si va preparando ovunque una nuova “stretta” sulle attività e sulla circolazione degli esseri umani. L’autunno avanzato, e la vita al chiuso, hanno fatto risollevare le “curve” statistiche dei contagi, dei ricoverati e dei morti per Covid-19. E, come sempre, i governi si muovono troppo poco e troppo tardi.

Il perché è così semplice da fare impressione: non si vogliono “disturbare” le attività economiche, e quindi si comincia a prendere qualche misura sanitaria solo quando ormai i contagi crescono velocemente. Quando insomma – vista la dinamica di questa pandemia – i buoi sono scappati e girano impazziti.

Ora si parla di “super green pass”, differenziato escludendo i tamponi rapidi dalle condizioni per ottenerlo. In pratica, sarà concesso solo a vaccinati e guariti. 

Come i nostri lettori sanno, questo giornale aveva criticato fin dall’inizio quella strana commistione tra “condizioni di lunga durata” – vaccino o guarigione – e “fotografie istantanee” (i tamponi appunto) che permetteva di avere il green pass anche volendo schivare la vaccinazione. 

Una scelta oltretutto costosa per chi – lavoratori, in primo luogo – si sono ritrovati dal 15 ottobre a doversi pagare ogni 48 ore un tampone per poter entrare in quello stesso posto di lavoro in cui fino al giorno prima, magari, dovevano entrare anche se malati (i padroni considerano da anni la malattia come una “scusa dei pelandroni”).

Fa ridere e incazzare ascoltare le dichiarazioni di “governatori”, soprattutto quelli leghisti (Fontana, Zaia, Fedriga…), che hanno minimizzato in modo criminale la portata della pandemia fin da quando è esplosa ed ora – solo ora – chiedono misure drastiche subito… per non compromettere gli incassi del Natale.

Il criterio è solo quello. Della salute, a questa gente, non frega nulla.

Tra le pieghe dell’”indurimento” delle misure precauzionali fa ormai esplicitamente capolino anche l’obbligo vaccinale, fin qui ipocritamente escluso perché “siamo un paese libero”. Da febbraio sarà imposto in Austria, se ne parla ormai anche in Germania e altri paesi fin qui molto tolleranti con la sindrome no vax…

Anche in questo caso i nostri lettori sanno che abbiamo proposto l’obbligo vaccinale fin da quando i primi prodotti sono stati resi disponibili. E contestualmente abbiamo indicato la necessità di abolire i brevetti sui vaccini in modo da permettere a tutto il mondo di procedere a mettere in sicurezza la popolazione. 

Perché una pandemia non conosce confini, il virus “varia” e ritorna anche lì dove sembrava sconfitto. Con altri soggetti sindacali e politici – Potere al Popolo, Usb, ecc – abbiamo fatto per questo una manifestazione nazionale, il 22 gennaio.

Ora ci stanno arrivando anche Confindustria e la Cgil…. A dimostrazione che “i fatti hanno la testa dura”, e le furbate da azzeccagarbugli prepotenti non servono a niente. Se non ad aumentare il costo in vite umane.

Non ci sta arrivando ancora il governo, con quel codazzo osceno di presunte “forze politiche”, preoccupate solo di garantirsi una visibilità mediatica in vista di elezioni che nessuno vuole.

Perciò l’obbligo vaccinale – che sarebbe stato logico già un anno fa – viene, sì, evocato, ma subito ridotto a singoli comparti: forze dell’ordine, personale sanitario e della scuola, con la motivazione dell’esposizione frequente a contatti di massa.

Il che presenta sia aspetti incompatibili con la difesa della salute pubblica (se vuoi esser relativamente certo di contenere la diffusione del virus procedi in senso universale, non settoriale), sia seri problemi di legittimità costituzionale.

Questo ultimi non sono quelli evocati da un Massimo Cacciari in debito di ossigeno, ma quelli chiaramente scritti della Carta all’art. 32: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”

Facciamo notare insomma che la vaccinazione può essere imposta, ma occorre farlo con una legge. E una pandemia mondiale è l’esempio tipico di una necessità del genere.

Ma proprio per questo è molto problematico fare una legge “ad categoriam”, che prescrive il vaccino per alcuni e non per altri. Volendo restare alle “categorie più esposte”, insomma, non si capisce perché escludere le cassiere dei supermercati, le badanti, gli impiegati in uffici chiusi, i lavoratori di tante attività davvero poco “distanziate”, ecc.

Ma questo governo, come gli altri dell’Occidente neoliberista, intende procedere in via “eccezionale” anche quando l’emergenza reale – la pandemia appunto – richiederebbe che si procedesse senza eccezioni.

Una via “eccentrica”, insomma, più che una scelta razionale.

L’unica vera razionalità rintracciabile in queste mosse è perciò quella solita: creare divisioni, differenziazioni cervellotiche – già si parla di “un green pass differenziatoche permetta ai vaccinati e ai guariti di continuare a svolgere le normali attività anche in zona arancione o rossa”, mentre magari non varrebbe per frequentare bar, ristoranti, teatri, cinema e stadi oltre che a palestre, piscine e impianti sciistici – e “regnare” sulla guerra tra fessi, favorendo in tutto e per tutto le imprese.

Dio confonde coloro che vuole perdere… e questi si sono persi ormai da due anni.

mercoledì 10 novembre 2021

Il governo Draghi all’assalto dei servizi pubblici locali

 Era atteso da tempo. Faceva parte delle stringenti “condizionalità” richieste dalla Commissione Europea per accedere ai fondi del Next Generation Eu. Era uno degli assi portanti per i quali Draghi è stato definito da Confindustria “l’uomo della necessità”. Era fortemente voluto dalle lobby finanziarie. Ed è arrivato. Il disegno di legge sulla concorrenza e il mercato. Un nuovo bastimento carico di privatizzazioni.

Mentre i media mainstream ancora una volta dirottano l’attenzione (colpiti i tassisti, risparmiati i concessionari degli stabilimenti balneari etc.) nessuno mette l’accento sulla sostanza del provvedimento, concentrata nell’art. 6: la privatizzazione dei servizi pubblici locali e la definitiva mutazione del ruolo dei Comuni.

Un provvedimento vergognoso che, sin nelle finalità espresse all’art. 1, sembra aver completamente accantonato quanto la pandemia ha evidenziato oltre ogni ragionevole dubbio: il mercato non funziona, non protegge, separa persone e comunità.

Senza alcun senso del ridicolo si dice che il provvedimento ha lo scopo di “promuovere lo sviluppo della concorrenza e di rimuovere gli ostacoli all’apertura dei mercati (…) per rafforzare la giustizia sociale, la qualità e l’efficienza dei servizi pubblici, la tutela dell’ambiente e il diritto alla salute dei cittadini”.

Se dalle finalità generali passiamo allo specifico articolo sui servizi pubblici locali, va subito notato il salto di qualità messo in campo dal governo Draghi: per la prima volta si parla di tutti i servizi pubblici locali senza alcuna esclusione. Come si evince dall’unico passaggio – paragrafo d – in cui sono menzionati i servizi pubblici locali a rilevanza economica in merito alla necessità di una loro ottimale organizzazione territoriale, il resto del provvedimento supera i precedenti tentativi di privatizzazione per la globalità dei servizi coinvolti. Ad ulteriore conferma di questa estensione, valga il richiamo (par. o) alla normativa relativa al Terzo Settore.

Ribaltando a 360 gradi la funzione dei Comuni e il ruolo di garanzia dei diritti svolto storicamente dai servizi pubblici locali, il ddl Concorrenza (par. a) pone la gestione dei servizi pubblici locali come competenza esclusiva dello Stato da esercitare nel rispetto della tutela della concorrenza. E ne separa (par. b) le funzioni di gestione da quelle di controllo.

I paragrafi successivi sono un vero capolavoro di ribaltamento della realtà.

Mentre all’affidatario privato viene richiesta (bontà sua) una relazione annuale sui dati di qualità del servizio e sugli investimenti effettuati, ecco il tour de force che deve affrontare il Comune che, malauguratamente, scelga di gestire in proprio un servizio pubblico locale: dovrà produrre “una motivazione anticipata e qualificata che dia conto delle ragioni che giustificano il mancato ricorso al mercato” (par. f); dovrà tempestivamente trasmetterla all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (par.g); dovrà prevedere sistemi di monitoraggio dei costi (par. i); dovrà procedere alla revisione periodica delle ragioni per le quali ha scelto l’autoproduzione.

Per quanto riguarda i servizi pubblici a rilevanza economica (par. d), ovvero acqua, rifiuti, energia, e trasporto pubblico, si prevedono inoltre incentivi e premialità che favoriscano l’aggregazione (leggi multiutility).

Non contento di puntare alla privatizzazione delle gestioni, il Governo prevede anche (par. q) una revisione della disciplina dei regimi di proprietà e di gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni, nonché di cessione dei beni in caso di subentro, anche al fine di assicurare un’adeguata valorizzazione della proprietà pubblica, nonché un’adeguata tutela del gestore uscente.

In questo contesto, il richiamo (par. t) alla partecipazione degli utenti nella definizione della qualità, degli obiettivi e dei costi del servizio pubblico locale suona come la presa per i fondelli finale.

Un attacco feroce e determinato ai diritti delle persone, ai beni comuni e alle comunità locali. Di questo si tratta. Portato avanti da un governo che non ha mai fatto mistero di essere al servizio dei grandi interessi finanziari e che ha preteso un Parlamento embedded per poter avere mano libera su tutte le scelte fondamentali di ridisegno della società.

“La zavorra dei vincoli e del debito ci impedisce qualunque movimento. Non avere alcuna agibilità sul bilancio significa impattare enormemente sulla qualità di vita dei cittadini. E’ impossibile governare la città se non possiamo mettere risorse”. Così ha tuonato pochi giorni fa Gaetano Manfredi, nuovo sindaco di Napoli.

La risposta del governo Draghi è che non vi è alcun bisogno di governare i Comuni e le città: basta mettere tutto sul mercato.

venerdì 5 novembre 2021

La manovra di Draghi: l’emergenza non passa, l’austerità resta

 Il Consiglio dei Ministri del 28 ottobre scorso ha approvato il disegno di legge di bilancio (DLB) per il 2022, il più importante atto di politica economica di un Governo. Dopo mesi di elucubrazioni sulla “vera natura” di una compagine governativa che unisce praticamente tutto l’arco parlamentare, da LeU alla Lega, guidata da una equipe di cosiddetti tecnici siamo alla prova dei fatti.

La legge di bilancio, infatti, ci dice, senza possibilità di equivoci, quale sarà la posizione del Governo nei principali campi dell’organizzazione sociale ed economica del Paese per il prossimo anno.

Studiare una legge di bilancio significa concentrare l’attenzione su due aspetti dell’intervento pubblico in economia: da un lato, l’ammontare delle risorse stanziate; dall’altro, come e dove queste sono allocate.

Il primo aspetto si studia attraverso la Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (NADEF) e il Documento Programmatico di Bilancio (DPB), che stabiliscono il perimetro della manovra – il DLB – in termini di saldi di bilancio pubblico.

Il secondo aspetto, il contenuto della manovra, si evince dalla legge di bilancio, un provvedimento appena definito nei suoi aspetti salienti (con il relativo disegno di legge, per l’appunto), ma che sarà oggetto di numerose revisioni da qui alla fine dell’anno nel suo iter parlamentare.

Il primo aspetto da analizzare è dunque il suo peso specifico: a prescindere dal contenuto delle misure fiscali, il Governo decide di spendere molto o poco? Rispondendo a questa domanda, saremo in grado di valutarne, a grandi linee, l’impatto macroeconomico, cioè il suo effetto sulle grandezze aggregate dell’economia, in primis il PIL e l’occupazione.

Il contesto entro cui si decide l’attuale manovra è quello della lenta ma progressiva fuoriuscita dall’emergenza pandemica, con il PIL che è caduto all’incirca del 10% nel 2020 e si risolleva del 6% nell’anno in corso, nonostante la precedente legge di bilancio (2021) avesse attutito il colpo, realizzando un disavanzo del 9,6% del PIL.

Ciò significa che il crollo del PIL del 2020 è stato così profondo da non essere stato recuperato nonostante un ricorso alla spesa pubblica maggiore di quanto sia stato sottratto all’economia attraverso le tasse.

Come abbiamo avuto modo di ripetere, persino la manovra del 2021 è stata inadeguata rispetto alla gravità della crisi pandemica, come dimostra ampiamente il crollo del 10% dell’occupazione (espressa in termini di unità lavorative annue), spia di un drastico abbassamento dei livelli di attività e della capacità di spesa del settore privato.

In parole povere, lo sforzo fiscale si è rivelato insufficiente a recuperare i livelli di attività pre-crisi.

Bene, e cosa programma il Governo Draghi per il 2022? Ovviamente, riduce il deficit pubblico drasticamente, portandolo da quel 9,6% al 5,6%: il Governo decide di dimezzare uno sforzo già insufficiente, riportando il Paese sulla via dell’austerità, ossia verso il rispetto di quei vincoli di bilancio che hanno messo in ginocchio l’intera periferia d’Europa.

Questo è il primo dato da considerare nella nostra analisi: la NADEF prima e il DPB dopo sanciscono un sensibile contenimento del disavanzo pubblico, dunque un minore stimolo pubblico alla domanda interna.

Sappiamo poi che la variabile più utile a soppesare l’impatto della manovra di bilancio su PIL e occupazione è il saldo primario di bilancio, che considera il disavanzo al netto della spesa per interessi sul debito pubblico (una spesa che va direttamente ad alimentare i profitti finanziari di grandi banche e ben difficilmente può stimolare l’economia reale).

Se ci concentriamo sul saldo primario di bilancio, scopriamo che il Governo Draghi lo porta dal -6% del 2021 al -2,7% per il 2022: anche questo viene più che dimezzato. Nel contesto pandemico, ciò rappresenta una vera e propria misura di austerità che va nella direzione di riportare l’Italia verso la rigida disciplina di bilancio, nonostante la drammatica situazione economica e sociale in cui versa il Paese.

Questo dato stride fortemente con tutta la retorica sul Recovery Fund e sulla sua articolazione italiana, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR): mentre disoccupazione, povertà e precarietà devastano il tessuto sociale, lo Stato riduce il suo sostegno all’economia, senza che questo arretramento del settore pubblico trovi una qualche compensazione nelle politiche europee.

Difatti, la Tabella III.1-16 del DPB mette nero su bianco che le sovvenzioni del Recovery Plan (l’unica componente che non va ad alimentare il debito pubblico, e dunque l’unica che non entra nel computo del disavanzo di bilancio) peseranno nel 2022 per lo 0,7% del PIL: nulla, davanti alla riduzione del disavanzo primario del 3,3% (dal 6% al 2,7%) decisa dal Governo Draghi rispetto alla scorsa finanziaria.

Una riduzione di risorse che potrebbe andare a finanziare sanità, istruzione, spesa sociale e previdenziale e tutte quelle emergenze che lavoratori e disoccupati sperimentano quotidianamente sulla propria pelle. Senza dimenticare la lunga lista di condizioni capestro che il Recovery Fund si porta appresso.

Non ci siamo ancora addentrati nei contenuti della manovra, eppure già inizia ad affiorare chiaramente il profilo di politica economica scelto dal Governo Draghi: una drastica riduzione dell’intervento pubblico emergenziale messo in campo per fronteggiare la pandemia.

Draghi deve ricondurre il Paese entro quei vincoli di bilancio che assicurano la progressiva distruzione dello stato sociale ed il parallelo ampliamento dei margini di sfruttamento dei lavoratori italiani: eccola, la “vera natura” dell’attuale esecutivo.

Passiamo ora ad analizzare il disegno di legge di bilancio (DLB), che contiene maggiori dettagli sulle specifiche misure varate dal Governo per il prossimo anno. La cosiddetta “manovra”, ovvero la differenza tra le spese e le entrate già previste per il 2022 dai governi passati e le nuove spese ed entrate introdotte dal Governo in carica, ammonta (tra maggiori spese e minori entrate) a circa 24 miliardi di euro.

La voce più consistente è quella che va ad incidere sul fronte delle imposte e delle tasse. Il DLB stanzia 6 miliardi di euro per una vaga riforma fiscale, che si vanno ad aggiungere ai 2 già previsti sul medesimo capitolo: un investimento consistente, che secondo l’art. 2 dovrebbe incidere in particolare su IRPEF e IRAP.

Tuttavia, nulla viene specificato in merito alla suddivisione di quelle risorse tra quelle destinate alla riduzione delle imposte sulle persone fisiche (IRPEF), che gravano principalmente sui redditi da lavoro, e quelle destinate alla riduzione dell’IRAP, l’unica imposta che si riesce ancora a far pagare alle imprese dato che il sistema di tassazione dei redditi da capitale offre milioni di possibilità di elusione.

La battaglia per le risorse destinate alla riforma fiscale è appena iniziata, con Confindustria che martella quotidianamente sulla riduzione dei contributi a carico delle imprese, puntando a fare il pieno di queste risorse: se così fosse, ai lavoratori non rimarrebbe davvero nulla di quei 6 miliardi.

Inoltre, nel paragrafo del DLB dedicato alla riduzione dell’IRPEF si parla sia dell’opportunità di ridurre alcune aliquote marginali.

L’ipotesi più in voga è un’aggiustatina al ribasso della terza aliquota (misura che andrebbe a vantaggio dei redditi medi, in quanto coinvolgerebbe i redditi dai 28.000 euro annui in su), sia di una revisione del sistema delle detrazioni: il rischio è di togliere con la mano sinistra, riducendo le detrazioni, quello che si dà con la mano destra, abbassando una o più aliquote.

Il capitolo della manovra dedicato al fisco prevede anche 2 miliardi di euro per contenere l’aumento dei costi di energia.

Secondo quanto recita l’art. 134 del DLB, il meccanismo dovrebbe sortire l’effetto desiderato, ossia calmierare l’aumento delle bollette, attraverso una riduzione degli “oneri generali” da parte dell’Autorità per la regolazione di reti, energia e ambiente (ARERA).

Ciò significa che, mentre il mercato elettrico sta aumentando i suoi margini di profitto attraverso l’aumento dei prezzi delle forniture, lo Stato, anziché impedirlo regolando il prezzo dell’energia e ponendo dei paletti ai profitti delle multinazionali del settore, si fa carico di una parte di questo aumento.

Sebbene questo possa, nell’immediato, alleviare il costo sociale dei rincari, nel medio termine questa misura non può funzionare, in quanto significa assecondare gli aumenti dei prezzi delle forniture da parte delle multinazionali, finanziando così l’aumento dei profitti privati a discapito della gestione e della manutenzione dell’infrastruttura (pubblica) della rete elettrica.

Infine, vengono stanziati 650 milioni per rinviare ulteriormente l’introduzione di due imposte, la sugar tax e la plastic tax (finalizzate a disincentivare l’abuso di materie prime inquinanti e dannose per la salute), il cui peso dovrebbe gravare interamente sulle imprese; dovrebbe, perché lo Stato continua a rimandare l’entrata in vigore della misura.

La seconda voce più consistente della manovra, dopo il capitolo fisco, è quella esplicitamente destinata a sovvenzionare le imprese private: ben 4,1 miliardi di euro dedicati a finanziare l’internazionalizzazione delle imprese, i contratti di sviluppo (soldi alle imprese, anche estere, che realizzano grandi investimenti in Italia), gli acquisti di beni strumentali (costi delle imprese che vengono trasferiti allo Stato) ed un fondo per la liquidità alle piccole e medie imprese.

Una pioggia di denaro che viene messa a servizio del profitto privato: questo è dunque il capitolo di spesa più rilevante della manovra Draghi, un regalo alle imprese che vale più del doppio dei 2 miliardi di euro destinati al Fondo Sanitario Nazionale.

Per questo Governo, i profitti privati vengono prima dell’investimento in sanità, con buona pace di tutta la retorica governativa sull’emergenza pandemica.

L’ultimo, rilevante tassello di questo DLB è quello dedicato al Reddito di Cittadinanza (RdC). Sebbene con l’art. 19 la misura sia marginalmente rifinanziata, con uno stanziamento di 1 miliardo per il 2022 che garantisce per quell’anno il raggiungimento delle stesse risorse del 2021 (circa 8,8 miliardi), il Governo provvede ad un’importante “riforma” dello strumento.

L’art. 20 incide in maniera significativa sul funzionamento del RdC, che rende particolarmente stringenti le condizioni per il suo accesso e mantenimento.

In primo luogo, i soggetti potenzialmente occupabili vedranno ridursi il reddito di 5 euro al mese a partire dal sesto mese, a prescindere dalla ricezione o meno di offerte di lavoro. E se qualche offerta di lavoro dovesse arrivare, peggiorano molto le condizioni che il percettore di RdC è costretto ad accettare: non potrà rifiutare più di due offerte di lavoro (fino ad oggi erano tre), che potrebbero essere a tempo determinato fino a 80 km dalla residenza, o in somministrazione, o part-time.

Se dovessero essere a tempo indeterminato, potrebbero essere in tutta Italia a partire dalla seconda offerta. Se rifiuti, perdi il beneficio.

Inoltre, quello stesso beneficio, che prima era trasferito al datore di lavoro che assumeva il percettore di RdC a tempo indeterminato, gli verrà ora trasferito anche se assume part-time, a tempo determinato e addirittura in apprendistato.

Il Governo pensa anche ad oliare la macchina: il 20% del beneficio verrà trasferito, in caso di occupazione, alle agenzie di collocamento private, che hanno così tutto l’interesse a gettare il percettore di RdC in pasto alle fasce più basse del mercato del lavoro, con offerte di occupazione a condizioni misere che potranno essere rifiutate solo a costo di perdere il sussidio.

In questo modo, il Reddito di Cittadinanza si trasforma progressivamente in un moltiplicatore di precarietà, che rischia di amplificare la tendenza delle imprese a sostituire lavoratori stabili con lavoratori precari: tale effetto moltiplicativo appare infatti direttamente proporzionale alle risorse che il Governo promette alle imprese capaci di occupare percettori di RdC.

La manovra, analizzata per sommi capi, indica chiaramente la via scelta dall’esecutivo per uscire dalla crisi pandemica: una difesa a tutto campo del profitto privato portata avanti estendendo l’area dello sfruttamento del lavoro ed erodendo ulteriori margini di stato sociale.

Ci sono dentro tutte le richieste di Confindustria e tutte le pretese delle istituzioni europee: l’Italia riprende la via dell’austerità, ed i pochi soldi a disposizione vengono indirizzati alle imprese.

Questa perfetta sintesi tra gli interessi del capitale nazionale e quelli del capitale europeo è forse la più chiara rappresentazione del compito politico affidato a Draghi, “mirabilmente” svolto con la sua prima manovra finanziaria.

mercoledì 3 novembre 2021

Contestato Bolsonaro

 Bolsonaro è stato eletto presidente del Brasile nel 2018, in un’elezione falsata dall’arresto e dall’esclusione illegittima dell’ex-presidente Lula, e da allora rappresenta una minaccia per la democrazia brasiliana e per tutte le forze politiche progressiste e i movimenti sociali che la animano.

Non si è mai preoccupato di nascondere il suo apprezzamento verso la dittatura militare che dal 1964 al 1985 ha governato il paese grazie a tortura e repressione, ha attaccato la comunità LGBTQI+ (le indagini sull’omicidio dell’attivista e consigliera comunale di Rio de Janeiro Marielle Franco sono arrivate a coinvolgerlo), ha promosso politiche neoliberiste contro i lavoratori e le lavoratrici e le classi popolari del Brasile, ha portato avanti la distruzione di terre e aree della foresta pluviale amazzonica scagliandosi contro i popoli indigeni, incoraggiando furti, attacchi alle comunità e uccisioni, e sostenendo il mondo dell’agribusiness, gestito da multinazionali che per produrre ed esportare cibo (soia e carne in primis) distruggono senza alcuno scrupolo le basi materiali della vita di milioni contadini ed interi ecosistemi

Senza contare che il modo in cui Bolsonaro e il suo governo hanno gestito la pandemia ha portato il Brasile a contare oltre 20 milioni di contagi e ad essere il secondo paese al mondo per decessi (oltre 600.000).

Proprio pochi giorni fa, mentre la sindaca di Anguillara preparava la cerimonia di lunedì 1 novembre, una commissione del Senato brasiliano presentava un rapporto in cui si afferma che Jair Bolsonaro deve essere accusato di crimini contro l’umanità per la risposta all’epidemia di Covid che ha provocato uno stratosferico numero di decessi, oltre che per uso illegale di fondi pubblici, falsificazione di documenti e promozione di false cure.

Già un anno fa, nel settembre 2020, questa situazione aveva prodotto una mobilitazione internazionale, promossa da numerose organizzazioni politiche, sindacali e sociali brasiliane con lo slogan “Fora Bolsonaro!

martedì 26 ottobre 2021

Il Governo programma il ritorno alla legge Fornero

 Il Governo Draghi si conferma il Governo della Restaurazione, e quale campo migliore per confermarlo se non quello della previdenza sociale? A riprova di ciò, le cronache di questi giorni ci parlano con insistenza della prossima modifica alla legislazione sulle pensioni che anima i dibattiti nella maggioranza.

Prima l’ipotesi di ‘quota 102’ estesa ai prossimi anni; poi l’allargamento dell’APE sociale ad una platea più vasta ma pur sempre limitata di lavoratori; ora si torna al balletto delle quote: ‘quota 102’ per il 2022, ‘quota 104’ dal 2023, e poi situazione da valutare per l’anno successivo con sicuro ritorno alla norma dei 67 anni.

Numeri e numeretti dietro i quali si cela ormai palesemente la chiara volontà di tornare alla legge Fornero dichiarando però di non volerci tornare. Un giochino ideologico sin troppo plateale per essere creduto anche dai più distratti e dai meno inclini a fare le somme.

Il ritorno alla legge Fornero, infatti, è scritto nelle cifre del Documento Programmatico di Bilancio (DPB) inviato a Bruxelles che il Governo non intende smentire. Tali cifre sono talmente esigue (600 milioni per il 2022; circa 500 per i successivi due anni) da mettere nero su bianco che si tratterà dell’ennesima toppa e non di una riforma onnicomprensiva. Il problema, come al solito, è che la toppa è peggio del buco. Vediamo perché.

Quota 102 significa poter andare in pensione con la combinazione di 64 anni e 38 di contributi. Ovvero uno scatto di due anni anagrafici rispetto a quota 100 a parità di età contributiva. Quota 104 che scatterebbe, nell’ipotesi tracciata dal Ministro dell’Economia Michele Franco, dal 2023, si tradurrebbe nel binomio 66 anni di età e 38 di contribuzione come doppio requisito di accesso alla pensione.

Lo status quo stabilito dalla legge Fornero, invece, che tornerebbe a valere in caso di abolizione sic et simpliciter di quota 100, porterebbe già dal 2022 l’età di pensionamento di vecchiaia a 67 anni (e almeno 20 anni di contributi), ferma restando la possibilità della cosiddetta “pensione anticipata”, ovvero la possibilità di accedere al pensionamento con 42 anni e 10 mesi di carriera per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne, senza requisiti anagrafici.

Insomma, con quota 104 a regime, ovvero tra soli 14 mesi, si tornerebbe ad un solo anno di distanza da quei requisiti rigidissimi che le leggi pensionistiche del periodo 2011-2012 avevano definito per gli anni a venire prevedendo peraltro aumenti automatici dell’età pensionabile legati all’aumento della vita media attesa.

E dal 2024 il probabile ritorno diretto allo status quo delle leggi Sacconi-Fornero, ovvero a quella normalità tanto raccomandata da tutte le linee guida europee, dall’OCSE e da tutta la corte di economisti esperti al servizio permanente dello smantellamento dello stato sociale.

Una presa in giro così sonora che tutto il mondo sindacale confederale, in genere poco incline ad opporsi con decisione al destino ineluttabile delle riforme neoliberiste del mercato del lavoro e dello stato sociale, ha dovuto mostrare il suo pieno disappunto fino a definire la misura un vero e proprio sfottò ai danni dei lavoratori.

Del resto, il livello di derisione della misura viene mostrato con chiarezza dalla platea ristrettissima di potenziali beneficiari di quota 102, e ancor di più di quota 104. Si parla di circa 10.000 lavoratori coinvolti (8.524 nel 2022 e 1.924 nel 2023). Una cifra che definire “esigua” è riduttivo.

Se si considera che i beneficiari potenziali di quota 100 nel 2019 erano più di 300.000 lavoratori, si capisce molto bene l’impatto restrittivo del passaggio, che ha peraltro l’esplicito obiettivo di tornare nel giro di due anni massimo alle durezze della legge Fornero, ovvero ad un numero pari a 0 di beneficiari di misure di flessibilità in uscita.

Alla beffa generale si aggiunge la volontà di abolire ‘Opzione donna’, quella misura che consentiva alle donne (particolarmente penalizzate dalla misura del 2012, in cui si equiparò l’età pensionabile maschile e femminile provocando di fatto uno scalone improvviso per le donne) di andare in pensione con 58 anni di età e almeno 35 di contributi calcolando però la pensione con il solo computo contributivo anche per la residua quota retributiva (dunque con forte penalizzazione sull’assegno previdenziale).

Si abolirebbero così tutte le residuali forme di flessibilità in uscita ad oggi ancora esistenti.

Nell’arco politico di sostegno al Governo delle larghissime intese di Mario Draghi, solo la Lega con timidezza e palese velleitarismo si dichiara “contraria” al meccanismo proposto; ma si tratta, come sempre, di pure dichiarazioni di intenzioni.

Ricordiamo a chi avesse la memoria corta che fu proprio la Lega a volere la misura di quota 100 come un mero esperimento a termine di carattere triennale, ben sapendo che ciò avrebbe significato nel volgere di pochissimo tempo il ritorno alla ‘tanto odiata’ legge Fornero, senza per altro averne mai stravolto la logica.

Peraltro, il presunto alter ego della Lega nella maggioranza di Governo – il PD di Enrico Letta, che pure si dichiara contrario ai meccanismi proposti – lo fa in una maniera altrettanto odiosa.

Le parole di Letta, infatti, chiariscono quale sia l’obiettivo. Non solo tenere in piedi la legge Fornero, ma riattivarla il prima possibile, già dal 2022, pur mantenendo alcune opzioni di flessibilità, tra cui Opzione donna, che verrebbero tuttavia spazzate dall’introduzione di Quota 102 prima e Quota 104 poi.

È evidente come le sorti delle lavoratrici e dei lavoratori non hanno speranza di migliorare, qualsiasi opzioni passi; è altrettanto palese come la vecchia tecnica di mettere i lavoratori gli uni contro gli altri sia ancora viva e vegeta.

Checché ne dicano Letta o Bonomi, infatti, non vi è modo di attribuire alle varie forme previste di anticipazione dell’età pensionabile la colpa di “penalizzare giovani e donne”.

Il problema è l’esatto opposto: le misure di austerità, di cui l’innalzamento dell’età pensionabile rappresenta una faccia odiosissima, condannano giovani e donne alla disoccupazione e a stipendi da fame, rendendo altresì un miraggio il raggiungimento di una pensione dignitosa.

Pur senza nominarla mai, dunque, il ritorno alla legge Fornero è accettato da tutti.

Non dirlo esplicitamente rappresenta solo diversivo ideologico per non mostrarsi troppo allineati a quella che è diventata nel tempo un vero e proprio simbolo della carneficina pensionistica del fu governo Monti.

A parole sono tutti o quasi tutti (si distingue forse Italia Viva per fedeltà ideologica al liberismo ostentato) per superare lo scalone che il ritorno allo status quo pre-Quota 100 implicherebbe dal 1° gennaio 2022.

Nei fatti, le proposte per superare lo scalone, lungi dal prevedere una stabilizzazione duratura di meccanismi di uscita flessibile, ambiscono a trasformare lo scalone in un paio di scalini che porteranno punto e daccapo alla legge Fornero dal 2024.

Insomma, tutti spingono per tornare alla legge Fornero, ma cercano il modo più presentabile di farcelo sapere e il modo meno traumatico di farlo digerire a milioni di lavoratori cornuti e mazziati. L’eterna lezione del Gattopardo che non muore mai.

Il sistema pensionistico e l’intero corpus ferito e moribondo del nostro stato sociale meritano invece ben altro: una rivisitazione radicale della logica di computo delle pensioni che superi le angustie del sistema contributivo, riportando le pensioni ad un livello dignitoso per tutti e, contestualmente, garantendo meccanismi non penalizzanti di ampia flessibilità di uscita.