mercoledì 28 ottobre 2020

Con la cultura non si mangia

 

L’ennesimo DPCM quello del 25 ottobre – meglio precisare perché ormai ce ne cade addosso uno a settimana, spesso contraddittorio con quello precedente – conferma lo stato confusionale del governo, peraltro ben spiegabile con la Caporetto sanitaria del paese di fronte alla seconda ondata.

Un decreto che è esito dei compromessi seguiti alle risse e polemiche tra ministri e tra i ministri e le regioni, ma soprattutto tra i diversi “portatori di interessi” economici, che conferma tuttavia una realtà ben chiara: il governo non ha fatto nulla per fronteggiare la seconda ondata e continuerà a non fare nulla.

Tutte le misure di prevenzione sono affidate ai singoli cittadini, che devono seguire una lunga serie di prescrizioni riguardanti soprattutto le loro attività non lavorative. Nessun aumento dell’impegno è previsto da parte dello Stato.

Nella sua irruzione radiotelevisiva nelle case degli italiani, all’ora di pranzo, Conte ha ribadito che “l’Italia non può permettersi un altro confinamento generalizzato”. Ci chiediamo di quale Italia parli Conte e troviamo una sola risposta: è la Confindustria che non può permetterselo per non mettere a repentaglio i profitti dei padroni.

Luoghi di lavoro mai ispezionati, trasporti pubblici sporchi e sovraffollati, ospedali nel caos, a tutto questo il governo non darà risposte. L’esatta ripetizione di quanto portò alla strage nella bergamasca che rischia di espandersi su scala nazionale.

I cittadini invece dovranno limitare la loro vita sociale, arrivando persino a non ricevere in casa persone non conviventi. Ma, soprattutto, saranno annullate le attività culturali e associative. Che la cultura in Italia sia considerata un orpello “improduttivo”, che i lavoratori del teatro e della musica non siano valutati come dei professionisti è una storia vecchia.

Tuttavia, il problema sta diventando enorme e insostenibile, a fronte della chiusura totale di cinema, teatri e sale da concerto. Chiunque abbia partecipato a un concerto o a una rappresentazione teatrale negli ultimi mesi, e io sono tra questi, ha verificato la cura che gli organizzatori hanno avuto nel rispetto stretto delle misure di sicurezza.

Fatica buttata al vento, visto il disprezzo che questo governo dimostra per la cultura, che è sempre il primo settore a essere colpito. In questo modo, si gettano sul lastrico le gestioni dei teatri, dei festival, delle stagioni concertistiche e le migliaia di attori, musicisti e tecnici che li animano.

Ciò che interessa è la “produzione”, intesa come industriale (con i suoi annessi finanziari), l’unica considerata da Conte e soci. Che anche il teatro, il cinema, la musica siano produzione, ma di idee, di cultura, di socialità, di progettualità, e non di beni materiali, questo non interessa.Anzi, forse preoccupa…

Purtroppo, il settore dei lavoratori dello spettacolo è tra l’altro caratterizzato da una situazione contrattuale particolarmente difficile, dove sono molto frequenti contratti a prestazione, stagionali, temporanei. Si tratta quindi di una fascia di lavoratori che subiranno in modo drammatico le conseguenze di un altro fermo. Inoltre, molte sale e rassegne rischiano la chiusura.

Insomma, che con la cultura non si mangia – come sfuggì di dire a un altro ministro dell’economia di nome Tremonti – rischia di diventare tristemente vero. Sarà un grave danno per tutti che pagheremo nei decenni a venire con un sensibile impoverimento della vita culturale.

Mi sia anche consentito citare la chiusura dei centri sociali, culturali e ricreativi. Forse al governo non è nota l’importanza che questi luoghi associativi hanno avuto e hanno per la creazione di reti di socialità, di educazione dei minori e degli adulti, di solidarietà e di mutualismo, anche in situazione d’emergenza e in sostituzione, a volte, di funzioni che dovrebbero essere assolte dagli enti pubblici. La grande maggioranza di questi centri si erano peraltro perfettamente attrezzati per il rispetto delle norme sanitarie.

Nell’ambito dello sport, ciò che viene salvato dal governo sono i settori dove più forti sono gli interessi economici. Gli impianti sciistici sono, in linea di principio, chiusi, ma saranno possibili delle deroghe e viene salvaguardato solo il settore dell’attività professionistica, cioè quello dove girano soldi e i cittadini sono spettatori.

Tra questi, l’immarcescibile “Serie A” e i suoi diritti televisivi. Il CT della nazionale di calcio, Roberto Mancini, ha scritto che lo sport è un diritto come la scuola. Probabilmente ha ragione, ma solo se si fa riferimento al diritto di praticare uno sport, come cultura della salute e della natura, non a quello di guardare milionari in calzoncini stando seduti sul divano con la famosa frittatona alle cipolle e la Peroni familiare.

Quello non è un diritto, è abbrutimento.

martedì 20 ottobre 2020

Chi vincerà le elezioni negli Stati Uniti?

 

Gli Stati Uniti entrano nel vivo del processo elettorale e nulla fa pensare che l’oliata macchina della democrazia “a stelle e a strisce” possa funzionare come un tempo.

Lunedì 19 aprile è stata la Florida ad iniziare la possibilità di votare direttamente ai seggi in anticipo e sarà seguita da altri Stati.

Le precedenti elezioni statunitensi erano state vinte da Donald Trump sebbene Hilary Clinton avesse ottenuto più voti.

Trump aveva perso il voto popolare con quasi 63 milioni di voti, contro i quasi 66 di Hilary, cioè il 45% dell’attuale presidente contro il 48% della sfidante democratica uscita vincitrice dalle primarie del partito su Bernie Sanders.

Con 2,7 milioni in voti in meno, Donald Trump è diventato l’inquilino della Casa Bianca.

Un apparente paradosso che mostra la prima “stortura” del sistema di rappresentanza negli USA che garantisce ad ogni Stato – qualsiasi sia il numero dei suoi abitanti – due “grandi elettori” per il Senato più un numero di eletti proporzionale agli abitanti alla Camera.

La soglia per vincere le elezioni è quella di 270 eletti su 538 alla Camera.

È una eredità – come la Corte Suprema – di un sistema basato sull’equilibrio dei poteri, con una architettura frutto del compromesso costituzionale tra Stati possessori di schiavi e non, avvenuto più di 230 anni fa.

Un sistema di check and balance che al Senato, nell’attuale congiuntura, favorisce i repubblicani tradizionalmente radicati negli Stati meno popolati, rurali e conservatori.

La California, con i suoi 39,5 milioni di abitanti, al Senato conta quanto il Wyoming che ne ha 580 mila.

Il processo elettorale, già di per sé complicato, è reso ancora più difficile dalla situazione pandemica.

Questa ha costretto a spostare la campagna elettorale dai comizi veri e propri al piano della comunicazione televisiva, in cui a farla da padrone è la capacità di acquistare spazi pubblicitari.

L’emergenza sanitaria – 47.601 nuovi contagi il 18 ottobre, cioè il 30% in più di due settimane fa – amplierà senz’altro il voto per corrispondenza in anticipo, su cui vigono regole differenti per singolo Stato in un quadro parecchio frammentato.

Vista l’importanza che assumerà in questa tornata elettorale, e la sua complessità – si tratta di un vero “rompicapo” per i non-addetti ai lavori –, occorre spiegare come avviene il voto per corrispondenza nei singoli Stati.

Innanzitutto – secondo un sondaggio pubblicato dal Washington Post e la catena ABC – sono per lo più repubblicani coloro che sceglieranno di recarsi alle urne il 3 novembre (il 64% contro il 32% di coloro che hanno dichiarato che voteranno Biden), mentre chi ha votato o voterà per posta o in anticipo ha affermato in maggioranza che sceglierà lo sfidante democratico (70% contro il 26%).

Nel 2020, 9 Stati più il distretto della Columbia (la capitale Washington) hanno fatto la scelta di inviare automaticamente i bollettini di voto per posta a tutti gli iscritti alle liste elettorali. Solo 5 Stati l’avevano fatto in precedenza. Tranne lo Utah sono tutti “Blue State”, cioè tradizionalmente democratici.

In 36 Stati gli elettori devono fare richiesta senza fornire spiegazioni, mentre in 5 viene richiesto di fornire un motivo accettabile per giustificare il fatto di non recarsi alle urne.

Questi ultimi 5 Stati che di fatto disincentivano la partecipazione al voto sono tutti “Red State”, cioè tradizionalmente repubblicani: Indiana, Louisiana, Mississippi, Tennessee e Texas.

Metà degli Stati considereranno validi i bollettini di voto arrivati entro e non oltre il 3 novembre, mentre per l’altra metà farà fede il timbro dell’United States Postal Service – il servizio postale nord-americano – considerando validi e quindi conteggiati i bollettini che arriveranno anche dopo l’Election Day.

Un ritardo che in alcuni casi può raggiungere le tre settimane.

Questi Stati costituiscono i 2/3 dei “grandi elettori”, cioè il 66% degli eletti.

Ma i conteggi differiscono ulteriormente ed in 20 Stati potranno iniziare prima del 3 novembre, tra questi alcuni Stati-chiave, fondamentali nel 2016 per l’elezione di Trump: Florida, Arizona, Carolina del Nord, Ohio. Mentre nei tre “Swinging State” – Michigan, Pennsylvania, Wisconsin – lo sfoglio non potrà che iniziare dopo la chiusura dei seggi.

Tutto questo fa supporre che la chiusura delle urne non coinciderà affatto con la conoscenza del responso elettorale. Visto e considerato questo ginepraio di regole, non proprio concepito per incentivare la partecipazione, non è peregrino pensare che possano esserci contenziosi che aumentano il livello di insicurezza sull’esito del voto.

Vent’anni fa George W.Bush venne eletto dopo che la Corte Suprema – uno dei tre perni del potere politico statunitense – interruppe l’interminabile conta dei voti.

La media dei sondaggi monitorati dal New York Times”dà Biden avanti di 10 punti – il più prudente, e britannico, Financial Times, che si affida a “RealClear Politics”, 9 punti – con lo sfidante democratico in grado di minacciare potenzialmente addirittura alcuni Stati che sono in genere punti di forza dei repubblicani.

Ma l’incertezza regna sovrana anche perché Trump non ha mai dichiarato esplicitamente che accetterà l’esito delle urne e le undici settimane che separano l’Election Day dalla presa in carica ufficiale non aiutano. Non è detto che ci debba essere una transizione pacifica o quanto meno non traumatica dei poteri.

Le milizie dell’alt-right potrebbero intervenire in una situazione di incertezza, come lo stanno facendo sempre più spesso su input di Trump, che infatti non si sogna di prenderne le distanze, neanche quando sono stati scoperti i piani avanzati per il sequestro di una governatrice – Gretchen Whitmer, del Michigan – colpevole di avere imposto misure troppo strette per contenere il contagio!

Un altre elemento rilevante è la Corte Suprema, a maggioranza conservatrice, con tre membri su 9 nominati da Trump durante la sua amministrazione, tra cui l’ultima in ordine di tempo l’ultra-religiosa Amy Coney Barret, membro di People for Praise: 6 membri su 9 (il numero non è fissato da alcun codice legislativo) sono cattolici.

Bisogna ricordare che la Corte Suprema è stata determinante in passato nei casi di incertezza sull’esito del voto. Al , là della possibile sconfitta di Trump, essendo composta di membri incaricati “a vita”, deciderà su una serie rilevante di questioni per i tempi a venire, ipotecando non di poco le possibili scelte di Biden.

Ultimo ma non meno importante: il criterio di selezione del presidente, se non emergesse un verdetto chiaro, potrebbe favorire i repubblicani.

In quel caso – lo ha ricordato l’Associated Press – la Camera voterebbe per Stato e non per rappresentanti, con 26 Stati che sarebbero determinanti per il voto: nessuna autorità indipendente o federale convalida infatti i risultati nelle ore che seguono la chiusura delle urne elettorale!

Lo scorso anno la docente di diritto a Georgetown, Rosa Brooks, ha costituito un gruppo chiamato Transition Integrity Group per dare vita a simulazioni sullo stile dei “war games” sui possibili esiti di una ipotetica contesa sui risultati elettorali. In tutti gli scenari prefigurati, solo in un caso non porta alla conflagrazione degli Stati Uniti: un crollo di Joe Biden.

In questo quadro di imprevedibilità, la campagna elettorale si è concentrata sugli “Swinging State”; quelli dove l’esito del voto è più incerto ed il numero degli eletti è elevato, per la propaganda politica televisiva è stato spesa finora una cifra già tre volte superiore rispetto alle elezioni precedenti – 1,5 miliardi di dollari – con Biden che distanzia di parecchie lunghezze l’attuale presidente, in particolare proprio in questi Stati.

La Florida è lo Stato in cui i due sfidanti hanno speso di più, ma anche Michigan, Pennsylvania e Wisconsin, dove Trump si aggiudicò la vittoria per una manciata di voti.

La differenza tra lui e la candidata democratica in quegli Stati, nel 2016, era irrisoria: rispettivamente 0,3% (cioè meno di 10 mila voti di differenza), 0,7% (meno di 45 mila) e ancora 0,7% (poco più di 20 mila voti).

In Florida, il successo dell’attuale presidente era stato un poco più netto, con il 48,6% contro il 47,4%, con più di 110 mila voti di differenza.

In sintesi, meno di 200 mila voti, concentrati negli Stati “giusti”, avevano deciso la partita.

Anche Texas ed Arizona rappresentano dei fattori d’incertezza, nonostante siano tradizionalmente “red State”, per il cambiamento nella composizione etnica dei votanti. Qui i latinos – prima “minoranza etnica” per abitanti e votanti, avendo superato gli afro-americani – hanno assunto un peso maggiore.

I latinos nel complesso sono un raggruppamento non omogeneo, sia per collocazione (urbana o rurale), sia per orientamento elettorale e vivono per 2/3 in 5 stati: California, Texas, Florida, New York, e Arizona.

Ma i loro voti sono importanti anche nei tre Swinging State dove le elezioni presidenziali si decisero per 77.744 voti; la Pennsylvania ha 521 mila potenziali elettori latinos, 261 mila il Michigan e 183 mila il Wisconsin.

Durante le primarie, in alcuni Stati Bernie Sanders aveva fatto il pieno di voti tra di loro, in specie tra i più giovani, mentre in Florida un terzo degli ispano-americani è di origini cubane e tradizionalmente filo-repubblicana.

Secondo le statistiche, lo scorso anno erano diventati 60 milioni – di cui poco meno di un terzo con meno di 18 anni – cioè 24 milioni in più che nel 2000.

Secondo i sondaggi, le tre principali preoccupazioni dei latinos sono la pandemia, l’assicurazione sanitaria e, ben distanziata, l’immigrazione.

La Pandemia non a caso è stato l’argomento principale della campagna pubblicitaria di Biden, che ipoteticamente può contare sul loro voto, specie fra i più giovani e le donne, ed è in generale certo di fare incetta di voti afro-americani.

I repubblicani al potere hanno cercato in tutti i modi quest’anno di annullare il voto afro-americano – nel 2016 solo l’8% votarono per Trump -, cancellandoli dalle liste elettorali, sopprimendo seggi, imponendo criteri restrittivi nei confronti degli ex-detenuti, come in Florida, di fatto invertendo – grazie ad una decisione della Corte Suprema – una delle maggiori conquiste del periodo dei diritti civili, il Voting Rights Act del 1965, che aveva dato piena cittadinanza politica ai “Neri” sopprimendo le pratiche elettorali degli Stati segregazionisti ex-Confederati.

Sullo sfondo di una tripla crisi: sanitaria, economico-sociale e di legittimità politica, si stanno svolgendo le elezioni di quella che era la prima potenza mondiale ormai al tramonto.

Forse solo un periodo può sembrare più cupo, per il sogno americano: quando ad un anno dall’elezione di Franklin Delano Roosevelt, che traghetterà poi gli USA dalla Grande Crisi del ’29 al New Deal e poi alla partecipazione e la vittoria della Seconda Guerra Mondiale, circa 100 mila cittadini nord-americani fecero richiesta per lavorare nell’URSS.

Per tornare alla metafora iniziale dell’oliata macchina che sembra in panne: occorre ricordare che come dice l’adagio: se le cose non si possono aggiustare, probabilmente si romperanno

martedì 6 ottobre 2020

La fine dell’esorbitante privilegio del dollaro

 

Davanti alla parola crollo i marxisti devono drizzare le orecchie e diffidare. Troppe volte infatti una “crisi” dell’assetto capitalistico, più o meno grave, è stata interpretata come anticamera del crollo del modo di produzione capitalistico. Che avrebbe ovviamente consegnato il mondo, quasi senza colpo ferire, ad ogni ipotesi di trasformazione. Ma una rivoluzione – la nascita di un altro assetto nell’organizzazione sociale –  richiede travaglio, progetto, azione politica. Altrimenti non si verifica.

Ma è anche vero che i crolli avvengono, e che una potenza egemonica collassi lasciando spazio o al successore o, temporaneamente, alla Rivoluzione (se le forze che la perseguono hanno massa critica e cervello strategico sufficiente).

Normale dialettica, insomma, che costringe sempre a guardare la realtà per coglierne la dinamica specifica e – solo dopo – azzardare un giudizio, ipotizzare modifiche più o meno sostanziali agli scenari utilizzati, suggerire iniziative sociali e/o politiche.

Fatta la doverosa premessa, bisogna cominciare a fare i conti con il sempre più possibile crollo del dollaro. Che non è una moneta qualsiasi, battuta da una potenza qualsiasi, distrattamente quotata e trattata sul mercato, ma il baricentro dei mercati globali da 75 anni. Il vero pilastro – insieme agli armamenti – dell’egemonia Usa.

Già diversi analisti – tra cui Gianfranco Bellini, La bolla del dollaro, Odradek 2013 – avevano colto i sinistri scricchiolii prodotti da una situazione pesantemente sbilanciata (un Paese che poteva permettersi di acquistare qualsiasi merce sul pianeta pagando con la propria moneta nazionale, “stampata” a volontà e dal valore sempre più incerto).

Ma Bellini, si diceva negli angoli bui, “è un vecchio comunista”; dimenticavano i decenni passati a lavorare per Barclays, a Londra, cioé a tenere mani e mente ben dentro il mercato finanziario reale.

Ora però l’annuncio arriva da tutt’altra sponda. Da Stephen Roach, senior fellow all’università di Yale, ma soprattutto ex presidente di Morgan Stanley Asia, ramo orientale della potentissima banca d’affari che fa e disfa mercati e governi. Uno che si preoccupa per questa eventualità, non uno che ne gode auspicandola…

Quella di Roach non è infatti una “previsione” fondata su presupposti teorici diversi da quelli in uso sui “mercati”: è un calcolo che prende in esame i fondamentali. Ossia tasso di risparmio privato e partita dei conti correnti di un Paese. Gli Usa.

Secondo quel calcolo, Washington è sideralmente fuori di qualsiasi parametro di sostenibilità, sommando un altissimo debito privato e, necessariamente (dopo due crisi finanziarie ravvicinate come quella dei mutui subprime e l’attuale da pandemia), uno stellare debito pubblico.

La Storia, e l’abitudine, dicono che finora gli Usa hanno rifinanziato il loro debito senza problemi, e a tassi bassi, grazie al dollaro. Ora il gioco non può più riuscire.

I possibili finanziatori – di fronte all’identica domanda proveniente da tutte le parti del mondo, tranne la Cina e pochi altri – saranno costretti a chiedere interessi più alti o una valutazione “più obbiettiva” del valore del dollaro. Una svalutazione radicale, insomma.

Anzi, visto che la Federal Reserve dice chiaramente che non toccherà i tassi (a zero) per molti anni, saranno i mercati stessi a svalutare la moneta Usa.

Perché, banalmente, il dollaro non è più l’unica moneta di riserva al mondo. Ci sono alternativa, alla faccia di TINA. Si chiamano euro e renmimbi (yuan, cinese), ma anche criptomonete private (che sono asset speculativi, ma paradossalmente svolgono alcune funzioni della moneta di riserva, sia pure con livelli spaventosi di volatilità).

La parola crollo la usa Roach. Le conseguenze economiche, sociali, politiche, geostrategiche, ecc, sarebbero – o saranno, se ha fatto bene i calcoli – ciclopiche. Perché il livello di sviluppo e di interconnessione del mondo non era mai stato così elevato.

Bisogna ragionarci molto e bene, senza prendere scorciatoie fantasiose.

Ma intanto allacciamo le cinture.

venerdì 2 ottobre 2020

Il seme della guerra civile

 

La fine della politica, nell’Occidente capitalista, è ormai un dato di fatto generale. E sarebbe ora di capire perché.

In questi giorni, grande è lo scandalo per la miseria del dibattito tra Trump e Biden, che segna il punto più basso nella storia degli Stati Uniti. Ma nessuno – perlomeno nel mainstream – si chiede come sia possibile che ciò accada nella superpotenza fin qui egemone sul pianeta, senza concorrenti a far data dal 1989-91, quando crollò lo storico antagonista del ‘900, l’Unione Sovietica e il “socialismo reale”.

Sarebbe da idioti concentrare l’attenzione sui due squallidi protagonisti di uno scambio di insulti degno di un saloon stile Hateful Eight. Quelli, infatti, sono la risultante di una selezione interna alla “classe politica”.

Quindi bisogna guardare a cosa sia ridotta “la politica” in quel Paese, dopo un trentennio di “pensiero unico”, in cui nessun leader o partito aveva più bisogno di interrogarsi davvero su come gestire la complessità dello sviluppo contemporaneo.

Tutto era stato infatti risolto con il crollo dell’antagonista. Bastava assecondare il sistema delle imprese, in primo luogo quelle multinazionali che dominavano la “globalizzazione”, ridurre al minimo lo “stato sociale” e i salari, bombardare qualche vecchio complice che si montava la testa (Noriega, Saddam, Osama, ecc), smembrare Stati d’ostacolo a qualche progetto di sfruttamento locale (Libia, Somalia, ecc) e accaparrarsi tutte le risorse utili possibili, al bisogno.

Anche sul piano economico e finanziario i problemi non esistevano più. “I mercati” avevano raggiunto una potenza di fuoco tale che nessuno Stato – nemmeno gli Stati Uniti, in definitiva – poteva coltivare ambizioni differenti.

Specie negli Usa, la “classe politica” veniva velocemente sostituita da manager di multinazionali o finanziarie (Condoleeza Rice da Chevron, Dick Cheney da Halliburton, gli stessi petrolieri Bush padre e figlio, Lawrence Summers dalla Banca Mondiale, ecc), che passavano velocemente da cariche private a quelle pubbliche e viceversa.

Restava qualche spazio, nell’establishment, per avvocati di grido capaci di emergere come capacità retorica (i Clinton, Obama), ma ovviamente senza alcuna autonomia possibile rispetto al “potere centrale” (quello dei “mercati”).

A tenere insieme il tutto, anche nei momenti critici, c’era il dollaro, autentica moneta dell’impero, l’unica a poter ricoprire tutte le funzioni: unità di misura del valore di tutte le merci, moneta di riserva internazionale, mezzo di pagamento interno e internazionale. Basta stamparne le quantità necessarie, e nessuno si porrà il problema se accettarlo o no. Un privilegio unico, senza rivali.

In quel mondo, ormai alle nostre spalle, “pensare le alternative” era una fatica inutile. La mediazione tra interessi diversi era l’unica possibilità purché avvenisse all’interno dei margini sistemici concessi.

Tutto era già dato. Bastava seguire i percorsi prefissati.

La decadenza della politica, e dei “funzionari della politica”, è stata una conseguenza inevitabile. Non servivano più “statisti”, bastavano attori capaci di recitare qualsiasi parte (si era già cominciato con Ronald Reagan, ricordiamo), furbi in grado di districarsi nelle budella del potere, attenti solo a non combinare guai e pestare i piedi sbagliati.

Nel frattempo la società si polarizzava, le disuguaglianze si moltiplicavano, la guerra tra poveri – ultima risorsa quando si smette di “distribuire briciole” – seminava o rinfocolava contrasti mal ricoperti da una patina politically correct.

Conquistare consensi e voti, in questo mood, significa abbassare al minimo la complessità dei messaggi, “parlare alla pancia”, promettere l’impossibile, alimentare l’irrazionalità, inventare nemici ad hoc.

Ne sappiamo qualcosa in Italia, dall’irruzione di Berlusconi in poi, che ha sdoganato l’indicibile e l’impensabile come “nuova normalità popolare”. E se ci sembra folle che in piena pandemia ci sia la rissa continua tra governo centrale, regioni e sindaci sulle misure da adottare, ognuno interessato solo al suo spazio di visibilità, basta volgere lo sguardo altrove per vedere le stesse cose.

In Spagna, per esempio, l’assessore alla Sanità della regione di Madrid, Enrique Ruiz Escudero,  e la sindaca della capitale, Isabel Diaz Ayuso (entrambi “popolari”, mentre il governo è “socialista”), si oppongono alle nuove limitazioni perché l’epidemia nell’area sarebbe entrata in una fase “stabile” e ci sono “primi segnali di miglioramento”. Solo ieri, a Madrid, sono stati registrati 4.000 contagi, il doppio che in tutta Italia…

Così, non sembra neanche strano che negli Usa un isterico Donald Trump si rifiuti di prendere le distanze dal Ku Klux Klan e minacci di non accettare il risultato delle elezioni.

Sono saltati i parametri che davano stabilità alla “democrazia parlamentare”, a cominciare dalla comune accettazione delle regole del gioco e dell’alternanza. Ovvero quel “gioco truccato” da decenni, in Occidente, stritola le alternative di sistema riconducendole sempre al “meno peggio”, in una corsa al centro senza fine.

E’ stato in definitiva ri-piantato e ben innaffiato il seme della guerra civile, nel cuore dell’imperialismo stesso.

Se dovesse aver ragione Stephen Roach, economista statunitense che da tempo vede possibile una “brutale crisi del dollaro”, quel seme avrebbe un grande terreno su cui germogliare…