mercoledì 23 settembre 2020

La neverending lotta di classe di Confindustria

 

La lettera che il neopresidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha inviato ai presidenti delle associazioni confederate ha fatto capolino sulle pagine dei giornali, attirando l’attenzione anche dei sindacati, per il provocatorio riferimento ai “nuovi contratti rivoluzionari” che gli industriali vorrebbero firmare.

L’espressione ha fatto giustamente scalpore, ma una lettura complessiva della lettera fa emergere, in maniera ancora più limpida, la visione di Confindustria nella sua interezza, e ci suggerisce quali saranno i temi su cui lottare nel prossimo futuro e quali i fortini da difendere.

L’armamentario retorico padronale, infatti, emerge in tutta la sua limpidezza – condito dalle parole d’ordine dell’antistatalismo e del parassitismo, che da sempre contraddistinguono il capitalismo italiano – ma è sulle relazioni sociali e sulla struttura istituzionale del mercato del lavoro che Bonomi indugia con particolare interesse.

Cogliendo l’occasione di criticare il blocco dei licenziamenti e l’estensione della Cassa Integrazione, strumenti di tutela dei lavoratori invisi ai capitalisti e ai loro portavoce politici, Bonomi richiede un’accelerazione della riforma degli ammortizzatori sociali.

Richiede dunque, il completo passaggio – in buona parte, a dire il vero, già compiuto dal governo Renzi – da un sistema di ammortizzatori sociali cosiddetto in costanza di rapporto di lavoro ad un sistema basato interamente sulle politiche attive e sulla ricerca di un nuovo lavoro da parte del disoccupato.

Fare un po’ di ordine ci servirà non solo a scopo esplicativo, ma anche al fine di segnalare quali sono gli interessi che si vogliono intaccare dietro la retorica edulcorata del “riformismo” del mercato del lavoro.

Prima del Jobs Act, infatti, il sistema di assicurazione sociale contro la disoccupazione in Italia era sostanzialmente basato su forme di trasferimento – cassa integrazione guadagni (CIG) e indennità di mobilità – non condizionate alla ricerca del lavoro, e che mantenevano comunque il lavoratore in prossimità del proprio posto di lavoro.

Questa logica è stata superata quasi definitivamente dal Jobs Act che, con la NASPI, ha introdotto clausole stringenti per cui si perde il diritto al sussidio e ha spezzato il legame tra lavoratore e posto di lavoro. Prima del Jobs Act, infatti, il sistema di assicurazione sociale contro la disoccupazione in Italia era sostanzialmente basato, oltre che sulla cassa integrazione guadagni, sull’indennità di mobilità per i lavoratori licenziati.

L’indennità di mobilità non era condizionata alla ricerca di un’occupazione e manteneva comunque in vita la possibilità del reintegro nel rapporto di lavoro, in quanto per i primi sei mesi dalla cessazione i lavoratori avevano una sorta di “diritto di prelazione”, avendo l’azienda l’obbligo, in caso di nuove assunzioni, di assumere prima i lavoratori in mobilità.

Questa logica è stata superata quasi definitivamente dal Jobs Act, che con la NASPI, oltre ad aver eliminato il diritto di prelazione, ha introdotto clausole stringenti, in base alle quali se il lavoratore non accetta determinate offerte di lavoro, perde il diritto al sussidio. In tal modo, la riforma ha contribuito a rendere più labile il legame tra lavoratore e posto di lavoro.

Inoltre, sono state introdotte condizionalità anche per i beneficiari di CIG con una sospensione o riduzione superiore dell’orario di lavoro superiore al 50%.

Ammortizzatori sociali e sussidi di disoccupazione, così come le tutele contro il licenziamento e i contratti a tempo indeterminato, sono da anni sotto costante attacco da parte delle Istituzioni internazionali ed europee e dunque dei governi nazionali.

Unitamente alla riduzione delle tutele sul licenziamento, sussidi e ammortizzatori hanno subìto uno drastico ridimensionamento (nelle eligibilità e nelle prestazioni) poiché si ritiene, in accordo con la teoria economica dominante, che sussidi troppo generosi possano indurre il lavoratore a permanere nello stato di disoccupazione.

Emerge quell’odioso approccio al problema della disoccupazione la cui “colpa” ricadrebbe interamente sul lavoratore. Secondo questa logica, dunque, ridurre la durata del sussidio, accompagnarlo a clausole di condizionalità e alla ricerca ‘attiva’ di una nuova occupazione ridurrebbe l’azzardo morale del lavoratore e lo incentiverebbe a trovare un nuovo lavoro – indipendentemente dal fatto che tale lavoro ci sia o meno.

Proprio le clausole di condizionalità, vale a dire l’obbligo di partecipare alla formazione professionale e di non rifiutare un’offerta di lavoro ‘congrua’ (che spesso e volentieri non è affatto adeguata al percorso professionale e alle legittime aspirazioni dei lavoratori), rappresentano un vero e potente strumento di indebolimento del potere contrattuale del lavoratore.

Il rischio di perdere il sussidio, infatti, impedirà di continuare la ricerca di un impiego meglio retribuito costringendolo ad accettare un lavoro indipendentemente dalle proprie aspirazioni.

Il corollario di tali misure – e qui entriamo nel campo dell’inganno semantico – sono le famigerate politiche attive del lavoro a gran voce richieste da Bonomi. Esse, lungi dall’essere la panacea per i mercati del lavoro saturi di disoccupati, rappresentano il modo in cui la fiscalità generale si fa carico della formazione professionale dei lavoratori secondo l’interesse delle imprese, nella vana speranza che ciò serva a creare posti di lavoro, quando invece non si fa altro che fornire manodopera formata con soldi pubblici al servizio dei profitti privati.

Su di esse fa particolare affidamento proprio chi dà una spiegazione della disoccupazione dal lato dell’offerta, vale a dire chi ritiene che la disoccupazione dipenda dalle caratteristiche proprie del disoccupato, e che basterebbe dunque avere caratteristiche in linea con la domanda di lavoro per essere occupati.

Ma quando la domanda di lavoro stagna a causa di una domanda aggregata azzoppata dalle rigide regole di bilancio e dal contenimento dei salari, langue, non vi è speranza di aumentare l’occupazione.

Il mondo padronale naturalmente stravede per queste misure e, per voce di Bonomi, ne richiede addirittura un’ulteriore modifica affinché, si legge, venga nettamente distinta una parte del suo importo di natura assicurativa e una parte strettamente condizionata all’attività formativa.

Non solo superare completamente quel “retaggio novecentesco” rappresentato dalla CIG ma aggravare le condizionalità che gravano sulle spalle dei lavoratori.

Come gran parte della letteratura accademica di stampo liberista e del suo corollario politico, Bonomi chiede esplicitamente di rifarsi alle riforme Hartz, che tra il 2002 e il 2005 misero prepotentemente mano al mercato del lavoro tedesco.

Oltre a favorire la diffusione dei mini-job (lavori ultraprecari, mal pagati e privi di qualsiasi tutela previdenziale), l’obiettivo di tali riforme è stato quello di ridurre il costo del lavoro tedesco per favorire la competitività delle merci: uno dei metodi attraverso cui ciò è stato perseguito è stato la riduzione delle prestazioni dei sussidi e l’aggravamento delle clausole di condizionalità, logica pedissequamente seguita nel 2014 dal governo Renzi.

Mentre l’evidenza ha ormai smentito l’utilità di tali riforme nel determinare un miglioramento delle dinamiche occupazionali, è ben chiaro cosa esse abbiano prodotto in termini di distribuzione del reddito e di dinamica salariale. La quota salari tedesca, vale a dire la parte del prodotto nazionale che va al lavoro, è diminuita nei primi anni successivi alla riforma, tra il 2002 e il 2008, di ben 4 punti percentuali e ha recuperato il livello del 2001 solo nel 2018, segnando da allora un nuovo trend di decrescita.

Una dinamica speculare è stata seguita dal costo del lavoro per unità di prodotto (Il rapporto tra il costo e la produttività del lavoro) diminuito di 6 punti percentuali fino al 2008 e tornato ai livelli precedenti soltanto nel 2018.

È la logica della deflazione salariale che le politiche europee vogliono estendere a tutta Europa, che il Jobs Act ha decisamente implementato in Italia e che Bonomi invoca prepotentemente. Invocazione che viene condita dalle lagnanze di chi si lamenta per un Paese bloccato poiché i padroni non sono liberi di implementare la “riorganizzazione industriale” (tradotto, licenziare) né di effettuare investimenti.

È il ben noto scambio tra riduzione delle tutele e aumento degli investimenti, da sempre promesso, ma, come è logico aspettarsi, verificatosi solo in una direzione: quella della precarizzazione del lavoro.

Tutto al contrario, il volano della crescita economica e occupazionale del Paese è una vigorosa ripresa della spesa pubblica, al di fuori della logica dei vincoli europei, e la ripresa di una grande stagione di contrattazione salariale che restituisca ai lavoratori il potere di acquisto e i diritti perduti e rimetta in discussione la distribuzione del reddito tra salari e profitti.

A ricordarci quanto ciò sia cruciale del resto è proprio Bonomi. Quella sua roboante, ma in fondo laconica richiesta di contratti rivoluzionari slegati dalla logica novecentesca salario-orario di lavoro, suona come un avvertimento ai lavoratori e ai sindacati: dopo più di un decennio di blocco sostanziale della contrattazione, per cui tra il 2005 e il 2018 le retribuzioni reali sono cresciute di circa il 2%, non illudetevi di vedere aumenti significativi nei vostri salari. Confindustria è pronta e decisa a non consentirlo, e anzi, continua a chiedere al Governo sgravi e sussidi, oltreché il famigerato taglio del cuneo fiscale.

Una posizione emersa con ancora più chiarezza nell’incontro con i sindacati confederali della settimana scorsa in cui il presidente di Confindustria ha chiuso a qualsiasi ipotesi di riduzione dell’orario di lavoro e ha rilanciato una vecchia battaglia: coniugare aumenti salariali e produttività. Come se quest’ultima dipendesse dai lavoratori e non dalla dinamica economica del Paese e dunque dagli investimenti delle imprese.

La lettera di Bonomi, dunque, ci indica a suo modo la via, ricordandoci che i padroni non hanno mai deposto le armi della lotta di classe e indicandoci quali siano i nostri interessi da difendere: tutela contro i licenziamenti, contrattazione salariale e tutela del reddito dei disoccupati.

Allo stesso modo ci chiarisce anche il quadro economico istituzionale in cui queste battaglie troveranno terreno più fertile: un quadro in cui lo Stato riprenda in mano le fila dell’azione economica e si impegni in politiche pubbliche per la piena occupazione. Un quadro senza dubbio inconciliabile con quello attuale.

venerdì 18 settembre 2020

Storie da colonna infame. Renziani e salviniani a difesa di Confindustria

 

In caso di accertamento di infezione da Covid-19 in occasione di lavoro, il datore di lavoro è escluso da ogni responsabilità, civile e penale, anche ai fini dell’adempimento dell’obbligo di cui all’articolo 2087 del Codice civile”. E’ questa la sostanza dell’emendamento che Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Italia Viva presentano al “decreto agosto”  che dovrebbe diventare legge entro il mese prossimo.

Questa “brillante” idea, già accennata ai tempi del piano Colao su forte “suggerimento” di Confindustria, si fa strada oggi tra le fila dell’opposizione e definisce le posizioni del partito di Renzi, in aperta opposizione alle forze di governo.

Se fino ad oggi il governo era riuscito in un qualche modo a frenare questa istanza, rimettendosi a pareri inconcludenti dell’INAIL, oggi, grazie anche alla presa di posizione dei renziani, ci sono tutte le condizioni per cui venga introdotto il principio di deresponsabilizzazione delle imprese nei confronti della gestione della prevenzione al contagio, lasciando i lavoratori privi di ogni garanzia.

L’emendamento, in sostanza, inverte l’approccio alla responsabilità dell’imprenditore, che secondo il codice civile dovrebbe garantire e tutelare “l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, ma che potrebbe invece ora liberare il padronato da ogni responsabilità, fatto salvo il caso di “gravi violazioni” delle norme sulla prevenzione.

Quale sia poi il limite tra la “grave violazione” e la sostanza delle condizioni di lavoro di migliaia di lavoratori, soprattutto nei settori meno tutelati e, guarda caso, più colpiti dal contagio, non è dato sapere.

Il governo Conte si troverà presto quindi di fronte a una scelta politica di campo: cercare di insabbiare la discussione, ricorrendo alla fiducia, o emendare il decreto a favore di Confindustria, come già successo in piena pandemia, quando il braccio Conte-Confindustria si tradusse in una chiusura non-chiusura delle aziende, con tutte le conseguenze che ben ricordiamo sulla diffusione del virus.

Ma al di là della battaglia interna ai partiti dell’imbroglio, che da Lega a M5S al PD collaborano su vari fronti ad un piano antipopolare contro gli interessi della popolazione, il dato che emerge dalla politica di palazzo in questo Paese, è che ancora una volta la salute dei lavoratori e dei cittadini viene messa in ultimo piano rispetto ai privilegi riservati alle classi imprenditoriali.

Bisogna produrre, se crepate non fa niente…

giovedì 10 settembre 2020

Su Roma 2021 l’ipoteca del “Patto all’amatriciana”

 

L’eurodeputato ed ex vicepresidente della Regione Lazio, Massimiliano Smeriglio, in una intervista a Il Tempo, quotidiano storico della destra romana, è tornato ad evocare un “Patto per Roma” in vista delle elezioni comunali del prossimo anno.

Un patto con la destra e il M5S, che dovrebbe riguardare “risorse, governance dell’area metropolitana, autonomia dei Municipi e poteri legislativi”.

Per capire di cosa stiamo parlando e della inquietante ipoteca che evoca sul destino della Capitale, è necessario, soprattutto per i non romani, dare qualche informazione in più.

La storia politica di Massimiliano Smeriglio inizia nella “Pantera”, cresce nei centri sociali, passa per Rifondazione Comunista, poi Sel/Sinistra italiana, vicepresidente della Regione Lazio con Zingaretti ed ora eurodeputato indipendente eletto nel PD al parlamento di Strasburgo.

Nel tempo è stato parlamentare (con Prc e Sel), presidente di municipio, assessore della Provincia, vicepresidente e assessore alla Regione, ideatore di progetti e organismi per “l’incontro di domanda e offerta nel mercato del lavoro” come Porta Futuro, Torno Subito, Fondo Futuro. Un deus ex machina di molti passaggi e svolte nella politica della “sinistra” a Roma.

La metafora del “Patto dell’amatriciana” che evochiamo nel valutare la proposta di Smeriglio sulle prossime comunali a Roma, ha anch’esso una storia politica della città.

Sono noti infatti “Il Patto della Coda alla Vaccinara”, stipulato nel 2008 dall’assessore regionale Di Carlo (ambientalista nel centro-sinistra, recentemente deceduto) con l’affarista Cerroni sulla gestione dei rifiuti a Roma (una gallina dalle uova d’oro).

Venne poi il “Patto della Carbonara” siglato nel 2012 tra la destra di Alemanno, in quel momento al governo della città, e il PD romano, per una gestione non conflittuale di alcuni passaggi istituzionali ma che ebbe ricadute anche su alcuni settori economici, a cominciare dal cambio di gestione della “Città dell’altra economia” fino all’affarismo trasversale emerso nell’inchiesta su Mafia Capitale.

Veniamo così a quello che si profila come un nuovo patto trasversale per la gestione delle risorse di Roma Capitale. Conseguentemente alla storia politico/gastronomica romana, lo abbiamo definito come “Patto dell’Amatriciana”, che ancora non si è consumato ma solo evocato.

Il senso del patto veniva indicato da Massimiliano Smeriglio già a maggio del 2017, sempre sulle pagine de Il Tempo, in previsione delle elezioni regionali dell’anno successivo. Smeriglio scriveva che “chiunque si candiderà alla premiership del Paese e alla presidenza della Regione Lazio sottoscriva un ‘Patto’ per rimettere al centro la ‘questione romana’. Chiunque avrà nei prossimi anni ruoli di governo apicale dovrà assumere impegni precisi sul destino della città”.

Adesso il nostro torna a rinverdire quellì’ipotesi, nuovamente attraverso le pagine de “Il Tempo”, riportato sulla sua pagina facebook affinché il messaggio arrivi chiaro e forte agli interlocutori del patto per Roma, ovvero la famelica “destra de panza e de governo” della Capitale.

“Esistono tre-quattro temi su cui non si capisce perché non si possa stipulare un patto tra le diverse coalizioni. Dovremmo dire e mettere per iscritto che su alcune cose si lavora insieme per il bene di Roma. Su queste cose chi perde sostiene convintamente il vincitore”, sostiene Smeriglio nell’intervista.

Ma questa ricostruzione ci serve solo per contestualizzare il segno di questa proposta, a nostro avviso irricevibile, che richiede una replica immediata e la concretizzazione di una alternativa politica, visibile e credibile, da parte dei movimenti sociali e delle forze popolari della sinistra romana.

Come è noto, in molti ambiti in questi mesi c’è un silenzioso ma frenetico lavorìo per capire ed eventualmente intercettare il fiume di finanziamenti europei che dovrebbero arrivare nei prossimi mesi.

Governo, regioni e amministrazioni delle città metropolitane dovranno concordare come spartirli, su quali progetti investire e come cogestirli con il variegato e vorace mondo delle imprese private.

Roma Capitale non può che essere uno degli snodi di questo flusso di finanziamenti e investimenti e, ad occhio, potrebbero essercene per tutti. Quindi perché farsi la guerra? Meglio una concertazione preventiva – un patto, appunto – che consenta a vinti e vincitori delle elezioni comunali di portare comunque qualcosa a casa e dare riscontro della propria “utilità politica” ai propri interessi sociali di riferimento.

Una prima mappatura degli interessi sociali da concertare nel Patto dell’Amatriciana porta a dire che le imprese guardano alla destra e alla Meloni, i piccoli imprenditori nei servizi guardano al M5S, l’accresciuto terzo settore delle imprese no profit, delle cooperative e dell’associazionismo, ecc, guarda al Pd e alle sue strutture collaterali.

Quindi infrastrutture, servizi alle imprese e welfare privatizzato si configurano come i segmenti ai quali dare priorità negli investimenti su Roma Capitale.

Se il Patto dell’Amatriciana evocato da Smeriglio riuscisse ad assicurare ad ognuno di questi settori una parte dei finanziamenti europei in arrivo, agirebbe anche sul piano locale quella stessa logica che sta puntando a sostituire Conte con Draghi in nome di una “unità di scopo”, per gestire i soldi in arrivo senza troppi conflitti.

Da questa prima ed ancora approssimativa – ma non improbabile – radiografia, appare evidente come dal Patto su Roma evocato, resteranno ancora una volta esclusi lavoratori, servizi pubblici e da ripubblicizzare, periferie, settori popolari e ceti impoveriti prima dall’austerity e poi dall’emergenza Covid.

Ad essi pare destinato solo l’eventuale “effetto sgocciolamento”: diamo i soldi in alto e qualcosa, prima o poi, arriverà anche in basso. Una concezione pienamente liberista, e devastante, alla luce delle conseguenze sociali che ha prodotto.

Roma va riscattata socialmente e culturalmente in alternativa a un modello imprenditoriale vorace e di visione corta, che agisce in alto ma anche in basso, ormai e troppo spesso anche in alcuni settori della “compagneria”.


E’ anche per questa ragione, e magari per mandare di traverso l’Amatriciana al patto tra imprese private e imprenditori “sociali” del no profit e delle cooperative sociali, riteniamo che la sfida sulle elezioni di comunali di Roma, ma anche in altre aree metropolitane come Milano, Torino, Napoli, Bologna, non potrà che puntare sulla rottura e l’alternativa verso questa nefasta eredità sul piano economico, sociale ed ideologico.

Potere al Popolo è nato e sta crescendo anche per dare concretezza a questa aspettativa.

lunedì 7 settembre 2020

Il futuro del Giappone dopo l’uscita di scena di Abe

 

Yoshihide Suga sarà con ogni probabilità il successore di Shinzo Abe, il premier giapponese dimessosi a fine agosto per motivi di salute, che ha aperto un “vuoto” significativo nella direzione complessiva della politica giapponese.

Il 71enne Suga è stato una figura rilevante durante gli otto anni della leadership di Abe, come Capo di Gabinetto.

Sul nome del successore convergono quattro su cinque delle frazioni del Partito Liberale, e tale nomina avverrà con il 18 settembre.

Suga ha già abbondantemente dichiarato che a livello economico si muoverà nel solco del suo predecessore – la cosiddetta Abenomics -, e non modificherà gli accordi esistenti tra governo e Banca del Giappone.

L’ex primo ministro Abe ha guidato il Giappone dal 2012, dopo che si erano succeduti 6 primi ministri in sei anni, dando stabilità di governo ed un profilo internazionale più marcato, ma ha notevolmente mancato gli obiettivi economici che si era preposto, tra cui il portare l’inflazione al 2%.

L’emergenza pandemica e il rinvio delle Olimpiadi previste a Tokyo quest’anno hanno ulteriormente complicato la fase politica, caratterizzata da una rinnovata volontà del Giappone di tornare ad essere un soggetto economico di spicco e allo stesso tempo un soggetto geopolitico influente a livello regionale.

L’invecchiamento della popolazione mina alla base qualsiasi progetto di rilancio, sia economico che politico, mentre lo sviluppo di altri attori rilevanti nel quadrante Asia-Pacifico ha limitato le sue ambizioni.

Ci è sembrato utile, nel quadro di estrema incertezza che caratterizza il Paese – nonostante per ora l’establishment politico-economico abbia optato per la continuità in mancanza di una altra valida ipotesi sul tappeto – tradurre questa analisi di Gideon Rachman, pubblicata dal Financial Times, che fa un bilancio della politica estera di Abe.

L’ex primo ministro non è riuscito – più per fattori esterni che per resistenze interne – ad imprimere una decisa accelerazione alla politica internazionale del Giappone stravolgendo gli assunti contenuti nella Costituzione “pacifista”, nonostante abbia fatto riemergere prepotentemente la matrice nazionalista.

L’analisi ha come asse principale del ragionamento il rapporto tra Giappone e Cina e la relazione tra il premier nipponico uscente e Xi Jinping; non ha caso si intitola: “Shinzo Abe and his Struggle with Xi Jinping”.

Una lotta che, anche per la differente gestione dell’emergenza pandemica e dei suoi riflessi economici ci sentiamo di affermare, è stata persa da Abe e vinta da Xi, o meglio persa da un sistema politico-sociale e vinta da un altro; anche per il fatto che un Paese una visione strategica avanzata. l’altro no.

“Abe ha fatto molte mosse strategiche per il suo paese, ma lascia l’incarico senza sapere se i suoi sforzi saranno alla fine coronati dal successo. Rispondere all’ascesa della Cina è una sfida generazionale per il Giappone” afferma l’autore.

martedì 1 settembre 2020

Scuola e Trasporti: un nodo decisivo per la riapertura

 

L’imminente riapertura delle scuole mette in subbuglio l’intera organizzazione della società.  Un nodo decisivo riguarda certamente i trasporti. È evidente che approntare un complesso sistema di monitoraggio, distanziamento e messa in sicurezza delle scuole – ammesso e per nulla concesso che si stia facendo – per poi non avere altrettanta cura e attenzione nell’organizzazione del trasporto pubblico locale, grazie al quale si muove una parte consistente dell’utenza scolastica almeno dalla secondaria di primo grado in su, oltre che una percentuale  importante del personale lavorativo delle scuole, significa non avere veramente a cuore la salute e la sicurezza della popolazione di questo Paese.

Usb Scuola e Usb Trasporti intendono lanciare una campagna su questi temi e ragionare su forme comuni di mobilitazione, perché studenti e lavoratori non sono carne da macello e per loro, come per tutti, dobbiamo pretendere diritti e sicurezza.

A pochi giorni dalla riapertura delle scuole, le varie aziende di TPL non hanno strategie e mezzi per poter garantire le misure di sicurezza necessarie. Le stime dimostrano che servirebbero circa 20 mila autobus in più per poter rispondere alle esigenze minime di sicurezza anti-contagio a bordo dei mezzi pubblici.  

È necessario un incremento del 70% nel servizio urbano e del 42% di quello extraurbano, e questo è un primo grosso problema.

Altro problema, ancora più incisivo, riguarda il distanziamento sociale a bordo dei mezzi con le percentuali massime di carico stabiliti dai protocolli sicurezza. Chi controlla e verifica il rispetto di questi limiti? I conducenti non hanno autorità e possibilità di limitare l’accesso a bordo dei mezzi.

È necessario un intervento politico su questi temi, che preveda nel primo caso, in via emergenziale, il coinvolgimento di numerose aziende private presenti sul territorio nazionale a supporto del TPL e l’assunzione di personale che controlli e sensibilizzi l’utenza al rispetto delle capienze massime.

Questi interventi sono assolutamente indispensabili e necessari per affrontare concretamente il problema.

Chiediamo a gran voce un rapido intervento su queste questioni, che sono in concreto quello che potrà arginare l’enorme disagio, il caos sociale e il contagio virale che si prospetta nell’imminente futuro.

Se a tutto questo non ci saranno risposte, USB non escluderà iniziative di protesta nazionali congiunte di due settori di servizi essenziali come Scuola e Trasporti, e ribadisce la necessità dei due giorni di sciopero della scuola del 24 e del 25 settembre.