lunedì 31 agosto 2020

Riapertura delle scuole: i problemi vengono da lontano

 

A due settimane dalla riapertura delle scuole si susseguono le riunioni ministeriali, i vertici stato-regioni, le audizioni parlamentari su come si potrà ritornare negli istituti. Da tutta questa enorme congerie di riunioni, contatti e comunicati, in cui si parla di distanze, mascherine e banchi a rotelle, emerge un solo dato chiaro.

L’unico provvedimento che avrebbe diminuito significativamente i rischi di contagio e al contempo aumentato la qualità dell’insegnamento, cioè la riduzione del numero di alunni per classe, non è stato preso.

Questo perché il Ministero non ha voluto assumere un numero di insegnanti sufficiente, pasticciando con i concorsi e inventandosi una nuova categoria di supplenti – quelli a gettone – che saranno licenziati in caso di ritorno alla didattica a distanza.

A oggi si calcola che manchino circa 250.000 insegnanti per la ripresa in sicurezza della scuola, ma senza contare la diminuzione necessaria degli alunni per classe e a fronte, tra l’altro, della richiesta di molti insegnanti di non essere esposti ai rischi della pandemia, per età o perché affetti da patologie croniche.

Vedendo la questione della ripresa scolastica in una prospettiva ampia, ci si rende facilmente conto che tale scadenza sta portando al pettine, nella nuova situazione di emergenza, i nodi di scelte politiche compiute negli ultimi decenni, indifferentemente da governi di centro-destra o centro sinistra che fossero e che non riguardano strettamente la sola scuola.

Anzitutto, la riduzione degli organici nella scuola e la non risoluzione del problema del precariato Ciò si collega all’aumento del numero degli alunni per classe e all’abbattimento di molti vincoli, tra i quali, per esempio, quello di avere un solo alunno disabile per classe.

Una scelta che ha impoverito la qualità didattica e aumentato il carico di lavoro di un corpo insegnante sempre più anziano. Infatti, l’aumento dell’età pensionabile, avvenuto a più riprese, iniziando con il governo D’Alema sino alla legge Fornero, è alla base del fatto che oggi i lavoratori della scuola sono, mediamente, i più “vecchi” d’Europa, con un abbondante 40% sopra i 55 anni.

Ne consegue che molti di questi anziani insegnanti abbiano oggi timore di esporsi a condizioni di lavoro non sicure e chiedano di essere destinati ad altri incarichi. Questi lavoratori, ma non solo loro, sono talvolta anche portatori di patologie croniche che li pongono particolarmente “a rischio”.

Un elemento di grave incertezza che incombe sulla ripresa è quello della medicina preventiva. Si parla di medici che, dalla rispettiva ASL, dovranno vigilare sulle scuole, mediamente 23 per ciascuno di loro, una quantità impossibile per garantire un servizio reale.

Non dimentichiamo che un tempo esistevano i medici scolastici, regolarmente presenti nelle scuole e affiancati da infermieri che gestivano le “sale mediche”. Un altro dei servizi sacrificati sull’altare della riduzione della spesa pubblica nonostante la sua importanza nell’ambito della prevenzione sul territorio.

Anni di politiche di tagli hanno ridotto il patrimonio edilizio delle scuole in condizioni disastrose. E’ noto che in Italia esistono scuole che non hanno nemmeno la certificazione di agibilità. Impossibile in pochi mesi non solo rimediare a questa situazione e persino organizzare nuovi spazi per la didattica.

Nei diversi vertici in cui si consuma la guerriglia elettorale tra il governo e le repubblichine regionali più o meno autonome, queste ultime hanno insistito affinché si consentisse di far viaggiare i mezzi pubblici con capienze superiori a quelle indicate dal CTS della Presidenza del Consiglio.

Da anni i lavoratori e i pendolari denunciano di dover andare al lavoro in condizioni disumane, ammassati all’inverosimile in mezzi pericolosi e lenti. Pensare oggi di diminuire la capienza dei mezzi appare impossibile; anche il sindaco della città più “europea” d’Italia, il milanese Sala, ha dichiarato che non ci sono mezzi e personale per garantire un potenziamento delle corse.

Questo è l’esito della politica che ha privilegiato per decenni la capienza dei mezzi sulla loro frequenza, per ridurre il personale e il numero dei mezzi in circolazione.

Peraltro, come si può oggi pensare di limitare la capienza dei mezzi al 75-80% (cifra già molto alta per garantire la sicurezza) quando c’è un solo agente a bordo, cioè l’autista, che deve pensare a guidare e non a contare i passeggeri?

Questi sono solo alcuni dei problemi che, connessi alla ripresa della scuola, fanno comprendere che per affrontare efficacemente l’emergenza Covid si sarebbe dovuto intervenire cambiando la direzione a 180 gradi rispetto al passato, cosa che né il MIUR e il governo nel suo insieme, né le varie regioni hanno la minima volontà di fare.

Tutti i problemi che oggi sono sul tappeto e che si pongono con drammatica urgenza, peraltro, erano noti da mesi. Probabilmente si sarebbe potuto fare di più, certamente di meglio, ma il MIUR si è trastullato in iniziative inutili, quali la costituzione della Commissione di esperti per la riapertura della scuola presieduta da Patrizio Bianchi che ha costituito solo una perdita di tempo.

Ancora, ci si è concentrati sulla questione dei banchi a rotelle, non certo prioritaria e che ha assorbito una mole di fondi che potevano essere spesi meglio. Tra l’altro, appare un’ irritante presa in giro che la prima consegna dei nuovi banchi sia stata effettuata nelle scuole di Codogno, primo comune colpito dalla pandemia, ma soprattutto ad Alzano e a Nembro, centri della Val Seriana dove la mancata dichiarazione di “zona rossa” ha provocato una strage, quasi si volesse risarcire ciò che risarcibile non è oppure dimostrare un’attenzione ormai troppo tardiva.

Le scuole riapriranno, dunque, in una situazione preoccupante, rispetto alla quale possiamo solo sperare che si levi forte la voce dei lavoratori per cercare di trovare vie d’uscita più degne di quelle proposte da un Ministero che sinora non li ha voluti ascoltare, con un atteggiamento di un autoritarismo intollerabile.

giovedì 20 agosto 2020

Bielorussia. “Se nulla è chiaro, fai un’analisi di classe”

 

Nei giorni in cui ricorre il 29° anniversario di quel tardivo, goffo e verticistico tentativo di scongiurare la fine dell’URSS, attuato da “gli otto del GKČP” (Gosudarstvennyj Komitet po Črezvyčajnomu Položeniju: Comitato statale per lo stato d’emergenza) per prevenire la firma dell’accordo che doveva stravolgere l’URSS, la cosiddetta “vittima” per antonomasia di quel Comitato, Mikhail Gorbačëv, ha detto che l’errore fondamentale di Aleksandr Lukašenko è stato quello di aver fatto appello troppo tardi agli operai.

Da che pulpito viene la predica”, si potrebbe dire; anche se, in questo caso, difficile dare torto all’ex primo e ultimo Presidente dell’URSS. In ogni caso, questa è solo una parte della “verità” e non la principale.

Se non si vuol ripetere la storiella diffusa a piene mani a destra e a (certa) sinistra del dittatore da una parte e di tutto un popolo dall’altra, si dovrebbe innanzitutto analizzare chi rappresenti Lukašenko: quale classe o quali settori di classe, quantomeno quali strati sociali siano espressi nella figura de “l’ultimo dittatore d’Europa”.

Si dovrebbero indagare (non è questo il luogo per farlo e le capacità di chi scrive non arrivano a tanto) i movimenti passati e attuali nella società bielorussa. Troppo facile e troppo comodo ripetere: “là c’è un dittatore e di qua ci sono i milioni che subiscono la dittatura di quel singolo despota”.

Il minimo che i leninisti sono tenuti a fare, è chiedersi sempre quali siano le classi in lotta nella data situazione, come siano strutturate tali classi, da chi siano rappresentate e, subito dopo, domandarsi quali direzioni possano assumere i diversi movimenti delle diverse classi, a quali risultati, quali conseguenze possano portare queste o quelle azioni.

Ricordate la polemica di Lenin con Kautsky, a proposito del fatto se, per dittatura, debba intendersi il potere assoluto di un singolo, o se invece una classe sociale intera possa esercitare, e eserciti, nei fatti, la propria dittatura?

O ancora, chiedersi: quali forze stiano dietro alle azioni di determinate “masse”; di chi facciano il gioco quelle azioni: vanno nell’interesse delle “masse” che le intraprendono, oppure delle forze che le spingono? Ricorderemmo Kronštadt; ma è troppo lontana; così come ci è lontana anche solo l’idea di voler vestire bats’ka dei panni del “comunista” e dipingere l’opposizione bielorussa come una massa che chiede “i soviet senza i comunisti”, secondo gli slogan dell’emigrazione bianca che incitava i marinai del Baltico – in quel momento, per lo più piccoli contadini e piccola borghesia – nel marzo del ’21.

Non è necessario andare così indietro nel tempo. Sarebbero forse sufficienti, per dire, proprio quei 29 anni che ci separano dall’agosto 1991, da quelle tre (proprio come i manifestanti bielorussi) vittime sacrificali – Ilja Kričevskij, Dmitrij Komar, Vladimir Usov – nelle strade di Mosca. Ricordiamo benissimo le centinaia di migliaia di persone che accompagnarono i loro funerali; ci ricordiamo benissimo le decine e decine di migliaia di persone che, sempre a Mosca, pochi mesi prima, manifestavano “per la libertà, la democrazia, contro i comunisti”…

C’erano anche allora, da una parte, le masse che “anelavano alla libertà” e, dall’altra, una “dittatura” che privava i cittadini delle delizie del libero mercato?

Ricordiamo chi appoggiasse quelle migliaia di “oppositori” per la libertà (quantunque, ciò in parte contraddicesse con il plauso per il “beniamino dell’Occidente”: era ancora al potere Gorbačëv) e li spronasse ad andare avanti.

Nel giro di due anni di “libertà e democrazia” e “contro i comunisti” (c’era ormai così tanto poco di comunista negli epigoni di quel periodo in Russia, quanto poco ce n’è in quel che resta della “più prospera tra le ex Repubbliche sovietiche” per istruzione, sanità, industria, ecc., targata Lukašenko), invece dei tre morti, ce ne furono decine alla torre della televisione il 3 ottobre del ’93 e centinaia di fucilati il 4 ottobre dietro il Parlamento, dopo essersi arresi agli sgherri eltsiniani.

Fu la prima delle tante “majdan” del dopo URSS.

Ogni volta che si parla di lotta della “opposizione” contro “un dittatore”, sembra che si dimentichi (intenzionalmente o meno) cosa abbiano significato i risultati di quella lotta, in termini di lutti, di contrapposizioni, di conflitti, e poi di disoccupazione, miseria, distruzione anche degli ultimi rimasugli delle realizzazioni sociali del periodo sovietico.

Si dimenticano le decine di milioni di morti (finanche per miseria, per non essere in grado di alimentarsi a sufficienza, o di potersi pagare cure non più gratuite), la chiusura e la distruzione materiale dei più grossi impianti, l’accaparramento di terra, miniere, risorse naturali svendute ai privati, le “riforme” dettate dal FMI, gli aumenti di prezzi e tariffe: in Ucraina, in Russia, ovunque nello spazio ex sovietico, l’emigrazione in cerca di occupazioni meno che dignitose, l’istruzione divenuta, come volevasi, solo d’élite e la conseguente “fuga di cervelli”.

Troppo facile parlare di “un dittatore”: aiuta molto bene a nascondere l’essenza di classe della questione, ma non dice nulla su quali forze si muovano sulla scena e dietro le quinte. Da un lato della barricata c’è “il dittatore” e dall’altro ci sono le masse: ovvio che si debba stare dalla parte delle masse. Tanto più se quel “dittatore” manda ancora qualche lontano olezzo di “statalismo”.

E dunque: “Lukašenko vattene!” è lo slogan urlato a destra e a (certa) “sinistra”. Certo che bats’ka se ne dovrà andare prima o poi; ma non certo per i motivi cari a Bruxelles, Varsavia, Washington. Non certo perché sia “l’ultimo dittatore” fatto passare per “comunista”.

Dunque, è il caso di chiedersi dove andrebbe non la “Bielorussia senza Lukašenko”, ma la Bielorussia della “opposizione democratica”, di cui sono noti programmi e linee; anche se bats’ka stesso ha già da tempo messo mano alle stesse“riforme”.

Stabilito questo, è ovviamente il caso di discutere quale sia una politica che, senza bats’ka, metta al primo posto le esigenze sociali dei lavoratori bielorussi e non quelle della borghesia “compradora”, legata, a seconda dei casi, o al grosso capitale occidentale o a quello russo.

Il nodo, chiaramente, è la debolezza delle organizzazioni sociali comuniste o di sinistra, che, oltretutto, non sono state trattate esattamente coi guanti di velluto da bats’ka negli ultimi anni. Nei giorni scorsi, Aleksandr Buzgalin si chiedeva se a protestare davvero in Bielorussia siano le masse, oppure chi sta dietro di esse e invia loro istruzioni via internet da Lituania, Polonia, Ucraina, Repubblica Ceca, Ungheria, Gran Bretagna, ecc. e auspicava che nelle piazze si avanzino non solo astratti slogan su “nuove elezioni”, ma si lavori concretamente per un dialogo tra potere e società civile, su temi sociali ed economici.

In caso contrario, il rischio è quello dell’ennesima “rivoluzione arancione”, già tentata negli anni scorsi e ora ripresa con più forza, più mezzi e con più esperienza.

Anche perché, ciò che sta accadendo oggi in Bielorussia, si è verificato due anni fa anche in Armenia, scrive il leader del partito “Adekvad” Artur Danieljan: stesse “tecniche, stessa propaganda, idee, utilizzate oggi in Bielorussia. Ovviamente, c’era insoddisfazione, ma questa era alimentata da strutture ben determinate, anche con l’aiuto dei media”.

Dopo il cambio di potere, “non è successo niente di buono: gli oligarchi si stanno arricchendo a spese della popolazione. Fratelli bielorussi, debbo deludervi: indipendentemente dall’esito delle proteste, vi attende un periodo in cui tutti gli indicatori cadranno, dato che la radice dei vostri e nostri problemi è che stiamo giocando un gioco, le cui regole sono scritte oltreoceano”.

Appelli arrivano anche da Kiev: su realtribune.ru, l’attivista ucraino per i diritti umani Volodymyr Čemeris ammonisce a non fidarsi della borghesia compradora bielorussa, legata all’Occidente e alla Russia; “i programmi dei concorrenti di Lukašenko includono privatizzazioni, vendite di terreni, riforme neoliberiste, decomunistizzazione. Sia che Lukašenko cada, sia che rimanga, quei programmi saranno portati avanti nel prossimo futuro. Questo è l’interesse del capitale transnazionale, per il quale la Bielorussia, come l’Ucraina, non è altro che un’appendice di materie prime, un mercato di vendita, un serbatoio di manodopera a basso costo. Le riforme sociali non verranno attuate né in Bielorussia né in Ucraina”.

Oltretutto, “non esiste un movimento sociale di sinistra con un programma sociale che possa prendere il potere e attuare riforme nell’interesse della classe operaia… Alle manifestazioni dei lavoratori, non si odono quasi per niente richieste sociali serie, tranne, forse, alcune generali e amorfe“.

Il 17 agosto, il canale televisivo di stato Belarus 1 ha trasmesso un servizio sul programma dell’opposizione “Pacchetto di riforme di rianimazione per la Bielorussia”. Il politologo Andrei Mančuk ha notato che quel programma è una copia di quello ucraino apparso nel 2014 dopo majdan: “Questo è un programma per la rinascita economica di una futura Bielorussia libera… La coalizione che lo promuove è un clone del Pacchetto di riforme di rianimazione ucraina: nemmeno i nomi sono stati cambiati. Questa è la struttura che fornisce al governo ucraino riformatori ed esperti neoliberisti – con un’enfasi sulla privatizzazione, la denazionalizzazione dell’economia, la promozione degli interessi delle strutture finanziarie internazionali e delle società transnazionali”.

D’altra parte, scrive la direttrice dell’Istituto di strategie russe, Elena Panina su iarex.ru, “Lukašenko è come caduto in uno stato di sindrome di Stoccolma. Vede l’Occidente, che lo ha attanagliato, non come un occupante, ma come un liberatore. La penetrazione occidentale nella classe politica bielorussa è già piuttosto ampia, ma finora manca la cosa principale: il controllo sulle istituzioni”.

In ogni caso, rimane l’obiettivo dell’inserimento della Bielorussia nelle strutture UE e NATO, per stravolgere l’intero equilibrio missilistico nucleare ai confini russi; in fondo, armate di tutto punto Romania, Polonia, Paesi baltici, la Bielorussia rimane l’unico corridoio aperto da cui Mosca può contrapporre a USA e NATO il proprio potenziale missilistico.

Lo scrittore German Sadulaev, in un post su facebook, scrive che “Nella Bielorussia salvata da dio e scelta da dio, i lavoratori delle fabbriche sussidiate dallo stato partecipano a manifestazioni a sostegno della signora Tikhanovskaja, che ha scritto nero su bianco nel programma che, appena arrivata al potere, avrebbe tagliato i sussidi e affidato le imprese non redditizie alle mani di manager efficienti che le avrebbero ottimizzate. Non bisogna mai sottovalutare il grado di idiozia del cosiddetto uomo comune“.

Anche se il punto, commenta Ivan Andreev su svobodnaja pressa, non è solo l’idiozia. Siamo tutti idioti qui. Come dice Sherlock Holmes nell’omonima serie TV cambogiana: “Se nulla è chiaro, fai un’analisi di classe“.

Anche Gautama Buddha, nel X millennio prima della nostra era, disse: “Nel gioco sociale, la classe che sarà in grado di convincere la società che i suoi ristretti interessi di classe sono generali, nazionali o anche umani universali, vince“.

Da allora nulla è cambiato. In Bielorussia, la grande e media borghesia straniera, semi-straniera e compradora è riuscita a convincere una parte significativa della classe operaia e della piccola borghesia che i suoi interessi siano gli interessi dell’intero popolo. E ora “tutto il popolo” va sotto i manganelli della polizia per il bene della propria classe sfruttatrice.

L’economista Elena Veduta, figlia del celebre economista-cibernetico Nikolaj Veduta, dice su realtribune.ru di capire l’insoddisfazione “della gente nei confronti del presidente, ma sorge la domanda: dove viene indirizzata tale insoddisfazione? Sembra che nessuno chieda a bats’ka di cambiare il vettore dello sviluppo economico nell’interesse del miglioramento della vita delle persone. Questo argomento non viene sollevato. Si sono semplicemente stancati di lui, oltre che del modello della sua gestione, credendo ingenuamente che tutta la faccenda consista nel privatizzare le proprietà statali”.

L’oligarchia finanziaria mondiale trova facilmente quegli eletti che sono pronti a servirla per denaro e non sono contrari ad arraffare pezzi di proprietà statale. Questi prescelti sono i coordinatori delle azioni della folla strategicamente non pensante. Perché la folla è per lo più giovane? Alexandr Grigorievič, Lei si è mai preoccupato di ciò che viene loro insegnato? Dia un’occhiata ai loro libri di testo di economia e scienze politiche. Guardi cosa scrivono alcuni dei Suoi insegnanti. Dove condurranno i giovani? In piazza, contro di Lei.

Per troppi anni è stato loro ripetuto il mantra del mercato e sono diventati zombi del mercato. È colpa Sua. Lei si è assunto la piena responsabilità per il futuro del paese; quindi i giovani La incolpano per tutti i problemi del paese.

E, dietro la loro sincera indignazione, ci sono le spade di coloro che sono venuti a distruggere il futuro della Bielorussia, per arricchimento personale: oligarchi tedeschi, polacchi, russi e altri. Non mi sorprende, quindi, che alcuni amministratori di grandi imprese, desiderosi di diventarne i proprietari, oggi La tradiscano, usando cinicamente i loro lavoratori contro di Lei, e domani priveranno questi stessi lavoratori di tutti i diritti. Ecco perché, Alexandr Grigorievič, sono per Lei”.

Non mancano nemmeno gli appelli caustici a una majdan bielorussa, e se ne indicano, fotografie alla mano, i risultati già acquisiti in Russia e Ucraina: “Si dice che alcuni gruppi di lavoratori in Bielorussia sostengano le proteste di destra e stiano cercando di organizzare scioperi di destra nelle loro fabbriche. Benissimo! Lo stabilimento di trattori di Volgograd esprime piena solidarietà e si unisce allo sciopero! Vero è, che già da tempo siamo in sciopero a tempo indeterminato e, forse, per sempre! Anche la fabbrica di autobus di L’vov è dalla vostra parte, fratelli bielorussi di majdan! E anche la compagnia di navigazione del mar Nero è in sciopero! 30 anni fa, era la più grande d’Europa e la seconda al mondo, con quasi 300 navi, senza contare le navi ausiliarie. Ora, di tutto quell’antico splendore, c’è solo questo rimorchiatore adagiato su un fianco sulla spiaggia di Odessa. Ma anche quello sciopera! Urra! Continuate così! Avanti verso l’Europa! Non un passo indietro! Così vinceremo! E alla fine, senza dubbio, le rovine delle fabbriche bielorusse si uniranno presto alle rovine di quelle ucraine e russe. Si dice che anche lo stabilimento di Odessa “Krajan”, famoso produttore di gru industriali, abbia espresso la sua solidarietà agli scioperanti. Forza! Il tiranno deve andarsene!

Per concludere, sostegno alla “lotta contro il dittatore” è venuto anche dall’Ucraina golpista, dove si arruolano volontari tra veterani dal Donbass e “NatsKorpus” per “compiti al di fuori dei confini ucraini”. Gli oppositori di Lukašenko non dovrebbero ripetere gli errori della majdan ucraina, ha detto Andrey Stempitskij, successore di Dmitro Jaroš a capo del neonazista “Pravyj Sektor”.

Richiamando l’attenzione sull’imponenza e sul carattere di massa e a lungo termine delle proteste in Bielorussia, ne concludiamo che gli eventi bielorussi hanno molto in comune con la majdan ucraina. Ciò considerato, facciamo appello ai manifestanti a non ripetere gli errori degli ucraini nel 2014! Dopo aver cacciato il dittatore Lukašenko, non lasciate il potere ai liberali e alle persone che sono indifferenti alla Bielorussia e al suo popolo. Gli ucraini sono con voi e sono sempre pronti a prestarvi le proprie spalle”.

È tutto.

lunedì 3 agosto 2020

Stazione di Bologna: dai depistaggi all’invenzione della Storia

Dopo 40 anni, è necessario provare a dire perché sulla strage della stazione di Bologna, come su tutte le altre stragi “fascio-statuali”, è pressoché impossibile arrivare a una conclusione condivisa e si è tuttora obbligati a fare “controinformazione”, smentendo la pioggia di “ricostruzioni ufficiali”.
I “misteri”, in queste stragi1, non esistono. Ci sono buchi nelle indagini, palesi e spesso scoperti tentativi di depistaggio, interferenze continue praticamente “firmate” da servizi segreti – italiani, americani, israeliani, persino francesi – testimoni che scompaiono o muoiono in circostanze più che dubbie. Ma nulla che sia davvero “inconoscibile”.
Da Piazza Fontana in poi (in realtà si potrebbe risalire a Portella delle Ginestre e ai vari accenni di golpe messi in programma più volte), ci sono state più chiavi di lettura, tutte riconducibili a due campi politici molto chiari. Sul fronte opposto ad entrambi sta la ricerca della verità, storica e politica, tentata quasi in solitaria dal “movimento antagonista” – finché ha avuto forza e capacità di discernimento, sia individuale che collettivo – e da alcuni (pochi) storici o giornalisti.
I due campi principali sono facilmente distinguibili. Quello sedicente “progressista” – capeggiato un tempo dal Pci, poi dalle sue innumerevoli conversioni – ha spesso condotto le indagini attraverso magistrati “di area”, trovando sulla sua strada resistenze e depistaggi messi in atto, oggi diremmo, dal deep state. Ovvero dagli apparati, spionistici e mediatici, che quelle stragi avevano organizzato e poi coperto.
In teoria, la “guerra” tra questi due campi avrebbe dovuto essere assoluta e senza possibili compromessi. Nella realtà, com’è avvenuto nella sfera propriamente politica, questo conflitto è andato lentamente spegnendosi nell’accomodamento compromissorio, tanto nelle sentenze di tribunale quanto nelle “ricostruzioni storiche”, infarcite di “dietrologia” rumorosa, ma senza conseguenze politiche minimamente apprezzabili.
Il fronte sedicente “progressista” muoveva infatti da un’esigenza politica che lo inchiodava fin dall’inizio a cercare un compromesso impotente: non poteva parlare di stragi di Stato, ma solo di stragi fasciste. Il linguaggio tradisce sempre una visione d’insieme, una “concezione del mondo”. E l’ipotesi strategica su cui muoveva il Pci fin dal dopoguerra era quella della democrazia progressiva, per cui il problema era semmai “liberare” parti dello Stato dalle fedeltà indicibili a poteri innominabili.
Insomma: se il “progetto” era quello di governare lo Stato che c’è, rispettando di conseguenza le obbedienze o “alleanze” sovranazionali, la critica poteva essere diretta solo contro singole “mele marce” (magari molto “ramificate”), non certo contro l’apparato statuale dei servizi in quanto tale o l’antagonista politico ufficiale (la Democrazia Cristiana).
Quell’esigenza politica partorì pertanto la barzelletta tragica dei “servizi deviati”, sorta di narrazione a doppio livello tra un servizio segreto “democratico e fedele alla Costituzione”, che veniva omaggiato ufficialmente, e una “struttura deviata” fatta in genere risalire al passato fascista di molti funzionari dei “servizi”, con qualche aggancio a strutture Cia, anche loro in qualche misura “deviate” rispetto alle istituzioni statunitensi.
Una barzelletta, dicevamo, riassumibile con la battuta che il pur ottimo Robert Redford era obbligato a dire nel film I tre giorni del condor, come fosse una rivelazione: “C’è del marcio nella Cia” (notoriamente un collegio per educande, no?).
Si sorvolava insomma tranquillamente sul fatto storico incontrovertibile della subordinazione della sovranità nazionale2 agli Stati Uniti, che aveva determinato la stessa ricostruzione dei servizi segreti italiani (non fu per caso che l’ex fondatore e capo dell’Ovra fascista, Guido Leto, invece di venire arrestato o fucilato, fu nominato invece capo delle scuole di polizia della “Repubblica nata dalla Resistenza”…), oltre che ovviamente dalla posizione gerarchica nella Nato.
Sul fronte opposto, dopo la caduta del Muro (1989), il normale potere dominante ha pensato di poter rovesciare velocemente 30 anni di storiografia antifascista e antimperialista, tirando fuori persino dei “dietrologi di destra” (come l’ex missino Fragalà, che metteva il Kgb  al posto della Cia nelle ricostruzioni dietrologiche “progressiste”) oppure inventando “piste di sinistra” o “internazionali” per allontanare al massimo la ricerca della verità, dei colpevoli e delle responsabilità politiche per le stragi.
Un “rovesciamento della Storia” che ha padrini e mandanti potenti. Gli stessi, di fatto, che avevano preparato la strage di Piazza Fontana per attribuirla ad un gruppo di anarchici totalmente innocenti ma comunque preventivamente infiltrati.
Proprio la più grave e recente delle stragi, quella di Bologna, fatta in apertura della stagione di “Restaurazione” del potere capitalistico sulla forza lavoro italiana, dopo oltre un “decennio rosso” (dal 1968 all’occupazione della Fiat, che proprio in quei giorni cominciava ad essere preparata per la ripresa autunnale), è stata l’occasione per provare a girare la frittata, ossia la “narrazione”.
Da allora in poi – a Muro caduto… – sono state proposte “piste palestinesi” (addirittura mobilitando, tra i primi, una “firma” de il manifesto), “tedesche” e via fantasticando. Roba che non ha mai retto neanche alla prima indagine esplorativa, ma che viene riproposta ad intervalli regolari come un mantra che prima o poi entrerà nella testa collettiva (scuola Goebbels, un classico!).
Tutta roba “cucinata” con il supporto del Mossad, oltre che della Cia e dei servizi italiani. E a proposito vale la pena di leggere gli altri contributi che oggi pubblichiamo (sugli esplosivi usati per la strage e sullo stretto legame tra i terroristi fascisti con i cristiano-maroniti libanesi, fino alle cure prestate al neonazista Alessandro Alibrandi, teoricamente antisemita… negli ospedali di Israele!).
Qui si crea, a nostro avviso, quel “circuito infernale” tra fallacie di una magistratura “progressista” che “deve” circoscrivere la ricerca dei colpevoli a dei fascisti “ordinari” – lasciando fuori, come sempre, quelli “atlantizzati”, ossia arruolati nei servizi o comunque da questi attivabili – e controffensiva del fronte reazionario “vincente” dopo l’89.
Alcune prime conclusioni processuali non sono risultate completamente convincenti, e questo ha lasciato praterie aperte ad ogni obiezione di “opposta dietrologia”. I “colpevoli giudiziari” (Mambro, Fioravanti, Ciavardini, Cavallini) hanno trovato facilmente chi ha abbastanza esperienza da vedere i buchi probatori nella storia processuale; e su questo varco si infilano da anni le carogne dei vari servizi (o al servizio dei vari “servizi”) incaricati di costruire una “narrazione alternativa”. Anche senza prove.
La “pista internazionale”, quella che dovrebbe fare di Bologna “un altro libro” e non l’ennesimo capitolo delle stragi di Stato, si radica in questo vuoto di riscontri sufficientemente solidi. La coglionaggine dei “progressisti liberali”, come sempre, apre la strada alla reazione più infame.
Ne viene fuori, in controluce e per elementi inevitabilmente indiziari, una liason davvero interessante, che porta interessi abbastanza (ma non troppo) diversi a convergere in una “ricostruzione-depistaggio” continuativa e arrogante. Perché difendere i fascisti accusando qualcun altro equivale ormai chiaramente a difendere i servizi segreti italiani ed atlantici.
Le stragi avvenute in Italia – tutte – sono di Stato e fasciste. Volute e protette dallo Stato, realizzate sempre dai secondi. Che però, anche loro, si sono storicamente divisi tra diverse obbedienze.
La narrazione progressista, di fronte a questa controffensiva reazionaria, ha smobilitato con lentezza, ma “progressivamente”. E’ ormai diventata poco più che un vezzo retorico, buono per i discorsi dal palco degli anniversari, ma subito dimenticato quando si scende dai gradini.
Del resto, lo si era capito da quando un “comunista” era diventato ministro dell’interno. Con Giorgio Napolitano al Viminale, e poi per nove anni al Quirinale, non un documento è stato fatto uscire dagli archivi più nascosti. Si vede che non c’era nulla “da pulire”, ma tutto da accettare.
A riprova che il “doppio stato” non è mai esistito e che i “servizi” sono perfettamente rettilinei, senza alcuna “deviazione”.
Note:
1 Usiamo il termine strage nello stesso senso del codice penale vigente, secondo cui si dà reato di strage quando vengono “posti in essere atti idonei a porre in pericolo la pubblica incolumità”. In termini concreti, quando vengono fatte esplodere bombe in luoghi pubblici o privati, esponendo dunque al rischio di morte chiunque si trovi casualmente in quel posto.
L’imputazione di strage, dunque, scatta in seguito all’uso di esplosivo e di circostanze di luogo. Se ne deriva la morte anche di una sola persona la pena prevista è quella dell’ergastolo; se non ci sono vittime la pena è invece di 15 anni.
La sciatteria giornalistica, nel corso del tempo, ha esteso il termine a tutti i casi in cui si è verificata la morte di più persone con uso di armi da fuoco. Per questi casi, invece, il codice penale parla di omicidio plurimo, e la pena prevista è l’ergastolo anche in questo caso.
In pratica, la differenza tra strage e omicidio plurimo è determinata dai mezzi usati (esplosivo o armi individuali) e dall’intenzionalità di chi agisce. Se l’obbiettivo sono persone precisamente individuate (per nome o funzione) e si usano armi, si parla di omicidio plurimo; se invece la vittima può essere chiunque e vengono usati esplosivi, allora viene definita strage.
Per fare degli esempi storici concreti: gli attentati a Falcone e Borsellino, così come la stazione di Bologna o Piazza Fontana, sono delle stragi, il sequestro di Aldo Moro rientra invece nel caso di omicidio plurimo e come tale è stato trattato nei processi.

2 Il concetto di “sovranità nazionale”, prima di essere messo all’indice dal pensiero “europeista”, era pane quotidiano della sinistra comunista internazionale. Era infatti il fondamento di ogni movimento di liberazione del Secondo Dopoguerra (dal Vietnam all’Angola, da Cuba alla Bolivia o al Mozambico, ecc) e perfettamente compatibile con la prospettiva internazionalista (solo chi si è liberato dal guinzaglio imperialista può relazionarsi alla pari con chiunque, Cuba e Vietnam docent).
La bibliografia in materia è praticamente sterminata, ma ci piace qui riprendere – con chiaro intento sfottente – un titolo di una coppia di “dietrologi” del Pci, per decenni giornalisti de l’Unità: Sovranità limitata. Storia dell’eversione atlantica in Italia.