lunedì 20 luglio 2020

Le cause economiche del declino demografico

L’ultimo rapporto demografico Istat sull’evoluzione della popolazione italiana certifica in modo evidente una tendenza in atto ormai da anni: il forte declino della popolazione residente in Italia. Vediamo infatti il crollo delle nascite, l’aumento dell’emigrazione all’estero con contestuale diminuzione dell’immigrazione e addirittura un tasso di mortalità in lieve aumento.
I dati ci dicono che negli ultimi cinque anni la popolazione dell’Italia è diminuita di ben 551mila unità. Una caduta davvero significativa su una popolazione di 60 milioni di persone. In particolare, nell’ultimo anno, diminuisce il numero di immigrati residenti (-8,6% dal 2018 al 2019) aumenta quello delle emigrazioni (+16,1% nell’ultimo anno) e dopo il minimo storico di nuovi nati già raggiunto nel 2018 il 2019 segna un ulteriore calo delle nascite del 4,5%.
Ogni estate, puntualmente, a seguito della pubblicazione del rapporto Istat, il triste dato del declino demografico italiano, tra i più intensi in Europa, viene commentato da molti con rassegnazione, come tendenza inarrestabile dovuta a stravolgimenti culturali irreversibili.
Pochi interpretano seriamente la variabile demografica come endogena rispetto al funzionamento del sistema socio-economico nel suo complesso. Al netto di invocazioni generiche dei politici di turno su un maggior sostegno alle famiglie, meno tasse per i nuclei familiari con figli, più asili nido per le classi meno abbienti e via elencando, manca una seria analisi della struttura sociale e culturale di fondo in cui viviamo che determina le scelte esistenziali più importanti (come quelle legate alla vita familiare o al luogo in cui si decide di vivere).
Ovviamente non vogliamo proporre un bieco inquadramento economicista della questione, che è intrinsecamente imbevuta di forti connotati sociali, e può variare nella sua fenomenologia a seconda dei diversi ambiti culturali e geografici. Tuttavia, nella lettura dei fenomeni demografici i fattori culturali, senza dubbio decisivi, si intrecciano in modo indissolubile con la struttura economica della società.
Chi punta il dito genericamente contro l’individualismo dilagante, la scarsa propensione a dedicare la propria vita alla famiglia e al sacrificio della cura dei figli dimentica totalmente quanto siano cruciali le condizioni materiali di vita nella determinazione delle scelte esistenziali.
Le trasformazioni che hanno portato al calo di natalità nelle nostre società occidentali sono a grandi linee classificabili sotto due differenti ambiti.
Da un lato, c’è stata una trasformazione della società a cavallo tra anni ’60 e ’70 con profondi cambiamenti della struttura familiare, un crescente accesso delle donne al mercato del lavoro, la possibilità di un maggior controllo della nascite. Tali cambiamenti sono la parte buona del processo che ci ha portato sino ai giorni odierni. Essi hanno consentito di liberare le donne, seppur in maniera graduale e ancora incompleta, dal giogo patriarcale che le voleva inquadrate solo in una ottica di mogli e madri recluse nelle quattro mura domestiche, intente a badare al focolare domestico.
Con l’ascesa del neo-liberismo lungo gli anni ’80 e ’90 si è però anche assistito ad un secondo fenomeno. Si sono infatti create e sviluppate le fondamenta di una società basata sulla precarietà e la discontinuità del lavoro, su orari di lavoro massacranti e su un’elevata disuguaglianza economica tra classi sociali.
Il crollo della natalità può dunque essere visto come il prodotto di questi due aspetti. Il primo non è preoccupante, anzi andrebbe sempre attentamente tutelato e rafforzato, consentendo così alle donne una piena realizzazione personale e tutelandone la libertà di scegliere se avere o no dei figli. La seconda invece è uno degli aspetti meschini sotto i quali l’ascesa del neoliberismo mostra i suoi effetti distruttivi.
Quella che poteva essere una transizione storica verso un modello di famiglia diverso da quello patriarcale, basato sulla parità dei sessi ma non per questo caratterizzato da un crollo della natalità, è divenuta una transizione verso un mondo con culle sempre più vuote, con un conseguente invecchiamento progressivo della popolazione, prima, e un vero e proprio declino demografico, poi, a partire dagli anni più recenti anche a dispetto dell’aumento dei flussi migratori.
Quando si parla di declino demografico, lo si fa spesso strumentalmente spesso per denunciare la presunta insostenibilità dei sistemi previdenziali pubblici invocando il necessario taglio delle pensioni e l’aumento dell’età pensionabile come unici antidoti agli squilibri generazionali. Non si attaccano mai le cause profonde del fenomeno, ovvero la disoccupazione e la precarietà di massa che in alcuni settori anche qualificati raggiunge in Italia livelli così elevati da scoraggiare molti giovani a rimanere nel proprio Paese.
A livello politico-economico quel che conta è la scelta deliberata della stagnazione causata dall’austerità e dalla distribuzione del reddito a sfavore dei lavoratori. Questo porta, come conseguenza collaterale un declino demografico dovuta alla bassa natalità e all’emigrazione.
Si dimentica o si vuole dimenticare che occupazione e stato sociale da un lato, e scelte esistenziali dall’altro (dalla procreazione al luogo in cui vivere), sono tutte facce di una stessa medaglia e sono tutti aspetti legati ad un’unica matrice. Disoccupazione e assenza di servizi pubblici, causate da una carenza cronica della domanda aggregata dovuta a precise scelte di politica economica, non possono che influenzare profondamente le più importanti scelte di vita degli individui.
É forse pensabile che un sistema che, a dispetto dello straordinario progresso tecnologico avvenuto negli ultimi decenni, costringe le persone a dedicare la gran parte della propria giornata al lavoro, possa davvero stimolare la libera crescita delle famiglie? Quale tempo di vita dedicare ai figli negli anni più delicati dell’inserimento lavorativo schiacciati dalla frenesia della ricerca continua di un lavoro o di una posizione stabile e dalla precarietà di lavori sottopagati e discontinui?
Invertire l’ordine dei fattori ci permette di ristabilire una verità semplice eppure ogni giorno impietosamente insultata o ignorata: la buona e piena occupazione unita ad una drastica riduzione degli orari di lavoro e ad una maggior realizzazione effettiva sul lavoro libererebbe tempo ed energie fisiche e mentali da dedicare alla vita e quindi anche alla famiglia come sua componente essenziale.
Si immagini che a ciò si accompagni un contestuale mutamento culturale favorito dagli stessi cambiamenti economici dove al mito individualistico dell’affermazione economica si sostituisca la valorizzazione del lavoro e delle competenze di ciascuno e la solidarietà interpersonale e alla visione di un’economia che si muove per il profitto si sostituisca quella di un’economia che soddisfa i bisogni.
Tutto questo, insieme, favorirebbe senza dubbio scelte orientate alla conciliazione tra vita personale e lavoro e darebbe la possibilità di pensare e progettare una famiglia grazie alla stabilità economica.
In conclusione, se si vogliono davvero meno culle vuote e meno emigrazioni forzate, fuori dai moralismi parziali e dagli economicismi angusti, si cominci a prendere il toro per le corna e a combattere per un sistema di relazioni economiche e sociali radicalmente diverso rispetto a quello presente.

venerdì 17 luglio 2020

Cassa Depositi Prestiti e Aspi: “questa non è una nazionalizzazione”

In un suo celebre quadro, il pittore surrealista belga René Magritte dipingeva una pipa con una sottointestazione che recitava “questa non è una pipa”, giocando sull’illusione provocata dalla relazione linguaggio-immagine di avere a che fare con l’oggetto pipa, quando in realtà si trattava solo di una rappresentazione, per definizione non “vera” (non si può fumare il quadro) della pipa stessa.
Analogamente si potrebbe titolare, come facciamo, sulla vicenda Stato-Autostrade-Benetton.
Partiamo dalla fine: Cassa depositi e prestiti (Cdp) non è la nuova Iri e Autostrade non è stata nazionalizzata, come peraltro “ammettono” sia la maggior parte dei quotidiani nazionali, sia le quotazioni in borsa della holding Atlantia, tornate ai valori pre-rischio revoca.
La questione ruota attorno al ruolo che ha assunto Cdp nel corso dell’ultimo venetennio e dell’iter che porterà la famiglia Benetton fuori da Autostrade per l’Italia (Aspi).
Partiamo dal secondo. Cdp dovrà sottoscrivere un aumento di capitale in Aspi per una quota equivalente a poco più del 30% del valore attuale, cifra che oscilla intorno ai 2,5-3 miliardi, e che sarà stabilita con precisione in seguito alla valutazione della società (stimata in circa 10 miliardi; 8,8 quindi in mano ai Benetton e il resto tra la tedesca Allianz e la cinese Silk Road), che farà scendere la partecipazione di Atlantia in Autostrade.
Contemporaneamente (parliamo di un arco temporale di alcuni mesi), i Benetton dovranno cedere parte delle proprie quote a investitori graditi a Cdp, fino a diluire il proprio controllo intorno al 40% delle azioni società, momento in cui Aspi sarà ufficialmente quotata in borsa, decretando lo spacchettamento di un’altra parte di proprietà dei Benetton, fino a raggiungere la soglia che ne impedirà l’ingresso nel Consiglio d’amministrazione; ossia circa il 10%.
E già qui si evidenziano le prime dissonanze con la retorica del “ritorno dello Stato”, almeno nel senso pieno del termine.
Aspi infatti, in quanto società quotata in borsa, anche se avente una controllata pubblica come azionista di maggioranza, risponderà alle valutazioni del mercato in termini di sostenibilità e bilancio, legandosi a doppio filo al dogma del profitto che in finanza si traduce nello “stacco della cedola” agli azionisti, indipendentemente dalla qualità dei servizi offerti alla popolazione (ai “clienti”).
Inoltre, tra gli investitori graditi a Cdp già si fanno i nomi di Macquarie o Blackstone, due tra i più grandi fondi finanziari operanti in tutto il mondo. Obiettivi e partecipazioni che rimandano in pieno a una logica tutta mercatistica, in cui lo Stato assume – sì – un ruolo, ma che tuttavia vede ancora, per dirla in maniera semplice, subordinate le ragioni politico-sociali a quelle economiche.
La partecipazione statale in Aspi allora ha tutto il sapore del riassestamento dell’infrastruttura lasciata deperire dalla gestione Benetton fino a oggi, senza che questi paghino né il deprezzamento del capitale fisso, né le conseguenze che questo ha avuto nella tragedia del Ponte Morandi – la “famiglia del maglioncino” per anni ha speso poche migliaia di euro annui per la manutenzione (33.000, in media).
È singolare infatti che a dispetto dei conti effettuati della Ragioneria dello Stato sull’ammontare da versare ai Benetton in caso di esproprio, nessuno nomini il fatto che da quel calcolo si dovrebbero stornare tutti mancati investimenti in manutenzione o miglioramento dei servizi di cui una rete autostradale comporta, bottino finito invece nelle tasche degli azionisti. Per non parlare dei veri e propri danni arrecati all’infrastruttura e che ora tocca riparare…
Venendo al ruolo di Cdp, invece, la faccenda crediamo si inserisce pienamente nella gestione delle risorse pubbliche per come si è evolute negli ultimi trent’anni.
La distanza dalla funzione originaria, come strumento di raccolta del risparmio attraverso la rete di sportelli postali per il finanziamento degli enti territoriali, è oramai considerevole. La storia di Cdp è invece espressione delle trasformazioni economiche e sociali del nostro paese, analizzate attraverso il ruolo e le funzioni della finanza pubblica.
Bisogna risalire alla privatizzazione del 2003, realizzata dall’allora ministro dell’economia Giulio Tremonti, che nel pieno della sua stagione di finanza creativa trasformava Cdp in Società per azioni (SpA), conferendone al tempo il 30% delle azioni nelle mani di 65 fondazioni bancarie, elevando il mercato e la redditività d’impresa a guida della sua funzione, arricchendo il patrimonio di intervento al sistema infrastrutturale a rete e lasciando spazio alle banche private, tramite le rispettive fondazioni, negli assetti di potere interni, anche se con percentuali minoritarie.
L’apertura all’azionariato privato fu una scelta imposta dalle necessità di rispondere al “dettato europeo” circa il ridimensionamento del debito pubblico, apertura che permise (e permette) a Cdp di emettere buoni fruttiferi postali (titoli di debito) senza pesare sul debito del paese, di fatto scorporandone una quota consistente dal computo totale.
In questo quadro, i risparmi postali dei pensionati residenti in Italia – vera fonte della ricchezza di Cdp – servono da base materiale di garanzia per l’internazionalizzazione delle imprese italiane, che Cdp assume come mission principale attraverso i suoi servizi finanziari, ergendola ormai a banca d’affari per piccole, medie e grandi imprese che investono in giro per il pianeta.
A questo riguardo, se da una parte la gestione di Cdp è per l’84% in mano al Mef (il restante 16% è sezionata tra le fondazioni di cui sopra) –, dall’altra la Commissione parlamentare di vigilanza è solo una dei tre collegi che si affiancano ai sei Comitati interni, con funzioni consultive e propositive nei confronti dei nove membri del Consiglio di amministrazione dell’Istituto di via Goito.
In più, i profili dei membri ai piani alti dell’organigramma sono tutti legati a quella “governance imprenditoriale” imprintata dalla formazione bocconiana o da esperienze lavorative in J.P Morgan, Morgan Stanley, McKinsey, Confindustria ecc. Insomma, per essere il braccio finanziario dello (e per lo) Stato, ci aspetteremmo qualcosa di più “organico”.
E qualcosa di più in effetti c’è, anche se in senso opposto. Una delle possibili soluzioni, emersa in questi mesi per tentare di far ripartire il sistema-Italia, è quella di convogliare l’enorme ammontare del risparmio privato dei residenti, fermo e improduttivo nei conti correnti, nel circuito di circolazione del capitale in modo da sostenere gli investimenti di cui necessita il paese senza passare dai pericolosi meccanismi del mercato, il quale lega i rating di solvibilità di un titolo pubblico alle dinamiche internazionali; dove la salute della nostra economia, valutata in pericolo, rende il rischio di rientro più elevato della media – si legga, il costo dell’indebitamento più alto.
Tuttavia, il cittadino dello stivale è storicamente (e giustamente) restio all’investimento in borsa, e gli ultimi dati registrati in piena pandemia testimoniano un aumento del risparmio di più di 30 miliardi di euro. Il che significa che in una situazione di incertezza si preferisce tenere il denaro sotto i moderni materassi, piuttosto che affrontare il rischio della turbolenza finanziaria, foriera di sbalzi tanto pericolosi quanto remunerativi, a seconda dei tempi e delle scelte d’investimento.
In questo quadro, la scelta di inserire Cdp (che gestisce circa 250 miliardi di euro di libretti delle Poste) in qualsiasi operazione che richiederebbe un ruolo dello Stato – da Alitalia all’Ilva, solo per citare gli ultimi esempi – sembra allora svolgere la funzione di iniettare almeno una parte dei 4.300 miliardi di ricchezza finanziaria inutilizzata nei conti nel ciclo economico, non essendo possibile (ancora) costringere i risparmiatori ad acquistare titoli di debito emessi dallo Stato.
Inoltre, come scrive Angelo De Mattia su Milano Finanza, se l’articolazione tentacolare dell’intervento di Cdp sembra erigerla a una «nuova Iri sotto mentite spoglie», tuttavia a differenza di quest’ultimo l’operato della Cassa non è soggetto al coinvolgimento del Parlamento.
Il che testimonia tutta la differenza tra una SpA a partecipazione pubblica che risponde a logiche di libero mercato, con funzioni di supporto finanziario e diretta da volponi della finanza, e un Istituto pubblico che risponde invece a logiche politiche (che ovviamente non si traducono immediatamente negli interessi della popolazione), con funzioni di politica industriale la cui gestione rimanda al dibattito parlamentare e a una logia di programmazione di lungo periodo.
Se così non fosse, non si spiegherebbe perché, nell’alveo politico-industriale odierno, di una “nuova Iri” c’è una paura fottuta, mentre a questa Cdp si continuano a chiedere compiti straordinari e spesso incoerenti.
Su questo, le posizioni assunte nel dibattito da uno come Matteo Renzi aiutano nella comprensione di quanto “singolari” possano essere. Anche dello sviluppo (tutt’altro che concluso) dell’affaire Autostrade.

lunedì 13 luglio 2020

Lombardia: “crimini contro l’umanità” per Fontana e Gallera

Ulteriori sviluppi, in Lombardia, della vicenda legata alla fornitura alla Regione di una grossa partita di camici, calzari e cuffie da parte della Dama, ditta di proprietà del cognato (e in parte della moglie) del presidente regionale Fontana.
Infatti, mentre il presidente Fontana continua a rifiutarsi di riferire sulla questione al Consiglio regionale, sono sempre più insistenti le voci che sostengono ci sia stato un “suggerimento” di Fontana al cognato nella trasformazione della fornitura da vendita a “donazione”, dopo che il Fatto Quotidiano e Report avevano cominciato a occuparsi del caso.
Inoltre, la Magistratura vuole capire perché, dopo che avvenne tale singolare trasformazione nella causale della fornitura, la ditta Dama interruppe le consegne. Tra l’altro, negli archivi della Regione si trova lo storico della proposta di vendita da parte di Andrea Dini, amministratore della Dama e cognato di Fontana e del successivo ordine da parte di Aria, agenzia regionale per gli acquisti, ma non risulta nemmeno iniziata una procedura di donazione. Infatti, fare una donazione a un ente pubblico come la Regione implica una serie di passaggi burocratici e amministrativi precisi di cui, al momento, non si trova alcuna traccia.
Nel frattempo, è giunta notizia che il Direttore Generale di Aria, Filippo Bongiovanni, indagato insieme a Dini, ha chiesto alla Regione di essere destinato ad altro incarico. In pratica, delle dimissioni, seppure formulate in modo inusuale, che sembrano annunciare una presa di distanza dell’alto funzionario dalla gestione della sanità lombarda.
Bongiovanni potrebbe essere interrogato dai magistrati milanesi anche sulla trasparenza di altri acquisti fatti da Aria, che durante l’emergenza Covid furono effettuati per un montante di miliardi e quasi tutti, data l’urgenza, senza bando di concorso. La Guardia di Finanza ha già acquisito un’ampia documentazione su tali acquisti durante la perquisizione effettuata presso la sede della regione Lombardia.
Acque sempre più agitate anche per l’assessore Gallera, ormai in palese difficoltà, vengono dalla tragica vicenda dei pazienti Covid positivi ricoverati nelle RSA. Infatti gli investigatori del nucleo di polizia economico finanziaria, durante una perquisizione al Pio Albergo Trivulzio, su ordine della Magistratura milanese, hanno raccolto documenti secondo cui tali pazienti non sarebbero stati 147, come sostiene Gallera, ma molti di più.
Il Pio Albergo Trivulzio, durante i mesi più duri della pandemia, operava da centro di smistamento dei pazienti che venivano dimessi dagli ospedali, perché ormai senza sintomi, ma ancora con carica virale, quindi potenzialmente contagiosi. Tali pazienti sarebbero stati almeno 7500, di cui 4700 positivi a bassa intensità e 2800 negativi (ma senza essere stati sottoposti alla prova del doppio tampone).
Resta da accertare quanti di questi pazienti siano stati effettivamente dirottati nelle RSA e in altre strutture sanitarie, ma è evidente che la cifra di soli 147 non è assolutamente credibile. Questo trasferimento, deciso con un’ordinanza regionale dell’8 marzo ha provocato la strage di anziani nelle RSA lombarde, poiché pazienti ancora contagiosi sono stati posti in strutture in cui si trovavano persone a rischio, evidentemente senza le tutele sanitarie opportune.
E’ normale che di fronte a tutto ciò aumenti l’inquietudine e l’insoddisfazione dei pazienti della vittime, che temono che tutto possa finire con inchieste addomesticate, come quella della Commissione Regionale sul Pio Albergo Trivulzio, sulla quale le famiglie dei deceduti hanno espresso il loro totale dissenso, precisando la loro solidarietà ai lavoratori e la critica alla gestione sanitaria regionale.
Anche per questo il Comitato “Noi denunceremo”, che raggruppa famiglie di deceduti della bergamasca, ha deciso di inoltrare una lettera alla Presidente della UE Von der Leyen e al Presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo, Robert Ragnar Spanò perché, sostengono, nella vicenda bergamasca e lombarda si potrebbero configurare reati ascrivibili a “crimini contro l’umanità”.

martedì 7 luglio 2020

Venditori di fumo

Ogni giorno veniamo bombardati da una serie di notizie, provenienti dai vari mezzi di informazione, che dovrebbero fornirci gli strumenti per orientarci nel marasma di una situazione economica e sociale, già preoccupante da prima, figuriamoci ora con l’effetto moltiplicatore del Covid.
L’informazione viaggia però su linee che spesso si discostano poco le une dalle altre – parliamo di sostanza, non di titoli ad effetto – e il risultato è che viene proposta una lettura sui vari argomenti che risponde più alla necessità di sostenere una tesi precostituita piuttosto che fornire chiavi di lettura adeguate alla realtà delle cose.
In questi giorni ci è capitato spesso di imbatterci in operazioni del genere e crediamo utile metterle in evidenza per tentare di sottrarci ad un dibattito basato sul niente e cercare di formarci un’opinione il più possibile aderente alla realtà.
Il primo caso che ci aveva colpiti ha riguardato l’annosa questione del reddito di cittadinanza, spesso indicato come la realizzazione del premio per i nullafacenti, trascurando il fatto reale rappresentato dalla massa sempre crescente di persone povere o in prossimità di povertà.
Il titolo lanciato dai maggiori quotidiani citava il giudizio formulato dalla Corte dei Conti che dichiarava sostanzialmente fallito l’obiettivo che tale misura si proponeva.
Il primo pensiero è stato che si intendesse dire che tale misura era insufficiente nelle quantità erogate, o magari nel numero di persone che ne avevano beneficiato, salvo poi scoprire che la critica al provvedimento era relativa al fatto che solo il 2% dei percettori avevano poi trovato un lavoro; da qui poi discendeva una critica al ruolo dei “navigator” pagati per non fare nulla.
Quindi si sostiene che non funzionano i centri per l’impiego, e quindi se non c’è lavoro, quando c’è è precario, sottopagato, sfruttato e cottimizzato, non funziona neanche un timido meccanismo di sostegno alle persone in difficoltà, pur sapendo che tale misura, ben più ampia e strutturata, esiste in tutta Europa.
E, di grazia, quando è apparso con tutta questa enfasi lo stato vergognoso dei centri per l’impiego?
Forse un po’ di numeri aiutano a capire meglio la situazione, ma soprattutto a riconoscere, nel piagnisteo di chi si lamenta dell’inefficiente sistema di ricollocazione al lavoro della sempre crescente massa di disoccupati, inoccupati e precari, l’ipocrisia di chi sa benissimo come stanno le cose ma se ne ricorda quando fa comodo.,
Bene, in Italia ci sono circa 8.000 dipendenti dei centri per l’impiego, in Francia 54.000 mentre in Germania il numero sale a 110.000. La Germania spende per ogni disoccupato la somma di € 3.700, la Francia € 1.300 e l’Italia “ben” € 100.
Quindi non è il reddito di cittadinanza a impedire l’incontro tra disoccupati e lavoro, ma l’accoppiata devastante tra un’economia che arranca e una struttura inadeguata da sempre, mai affrontata in modo adeguato, neanche negli anni tremendi della crisi del 2008. Ma fa più comodo raccontarla diversamente.
E che dire dell’altro colpo di genio che ha visto la stampa nazionale distinguersi in una scoperta degna del più navigato degli investigatori?
Hanno consegnato al Paese la madre di tutte le rivelazioni: il Covid è il responsabile del blocco dell’”ascensore sociale”.
Stupiti e basiti ci siamo dovuti rimangiare le nostre convinzioni: non è il modello liberista che determina l’aumento esponenziale delle disuguaglianze, non è la guerra nei confronti delle conquiste sociali che stanno facendo arretrare il paese, costringendo a salti mortali per fronteggiare le difficoltà in campo economico, sanitario e abitativo.
Non è neanche la speculazione finanziaria che se ne frega del fatto che la domanda interna sia bloccata… No, è la pandemia!
Se non fosse da piangere ci sarebbe da ridere. Sappiamo solo che per continuare a vivere in mezzo a frescacce travestite da verità serve la pazienza di Giobbe e la memoria di un elefante.
Per fortuna siamo ben forniti di entrambe.

mercoledì 1 luglio 2020

Dl Semplificazioni, politica ai piedi degli industriali

C’è una sola linea di politica economica, in questa zona del mondo. E’ folle, distruttiva, devastante e la detta Confindustria. Il cosiddetto centrosinistra e la destra la condividono in pieno, battagliando – chi sguaiatamente, chi meno – semplicemente sul chi debba gestirla e incassare un dividendo.
La prova si con il “decreto semplificazioni”, la cui bozza sta circolando in queste ore. L’ha elaborata il governo giallo-rosé, con la partecipazione addirittura della “sinistra” targata Leu, ma avrebbe potuto benissimo presentarla la Lega o Forza Italia (da soli o in consorzio con la Meloni).
Chi ricorda più le proposte di Salvini, sul “zero burocrazia”, “modello Genova” (la ricostruzione del ponte senza gare e in affidamento diretto ad una impresa, la solita Salini Impregilo), “aprire tutti i cantieri”?
Fatto! L’unica limitazione è l’entità degli appalti pubblici. Fino a 150.000 euro sono liberamente firmabili da ogni amministrazione pubblica (vista la cifra, riguarda soprattutto i piccoli Comuni), mentre al di sotto dei 5 milioni di euro si procede lo stesso senza gara ma interpellando almeno cinque imprese diverse.
La destra avrebbe fatto di più, certo, ma parliamo di dettagli. La logica complessiva è identica: “per far ripartire l’economia bisogna permettere alle imprese private di fare quello che vogliono”. In tema di appalti, vincoli ambientali, corruzione, controlli e – va da sé, anche se non c’è ancora scritto – in materia di contratti e condizioni di lavoro.
Controlli zero e “andrà tutto bene”. E’ la stessa logica sotto cui stanno marcendo per l’epidemia Usa, Brasile, Gran Bretagna, Russia e in genere i fautori dell’ultra-liberismo.
Basta vedere quel che avverrà in termini di “burocrazia” in difesa dell’ambiente. Com’è noto alcune grandi opere infrastrutturali, prima di iniziare realmente, debbono attendere il Via (la “valutazione di impatto ambientale”).
La procedura è sicuramente farraginosa, i tempi sono spesso assai lunghi, anche perché intorno a questa “valutazione” si accalcano spesso esperti di ogni genere, rappresentanti diretti o indiretti (palesi o occulti) delle aziende. Basta vedere quel che è accaduto tra epidemiologi, virologi e persino anestesisti in materia di coronavirus…
Ma c’è modo e modo per sciogliere certe ruggini. Quello scritto nella bozza è certamente uno dei peggiori. Riprendiamo direttamente il commento entusiasta di Italia Oggi:
Per conseguire la certezza dei tempi di chiusura del procedimento si propone: previsione dell’obbligo di presentazione sin dall’avvio del procedimento da parte del proponente del progetto di fattibilità o del progetto definitivo (in luogo degli attuali elaborati progettuali); riduzione dei termini attualmente previsti; esercizio del potere sostitutivo in caso di inerzia nella conclusione del procedimento.
Insomma, il titolare del potere sostitutivo deve provvedere all’adozione del provvedimento entro un termine prefissato; è anche prevista la creazione di una procedura speciale accelerata (fast-track) dedicata all’espletamento delle procedure Via delle opere ricomprese nel Programma Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC).
Ma anche la “digitalizzazione della pubblica amministrazione” è interpretata in maniera singolare, quando si tratta di rapporti con le imprese. Queste infatti potranno “autocertificare via app” la liceità o non pericolosità di quel che vogliono fare, e solo dopo, a babbo morto, ci potrà essere un’attivazione dei controlli da parte degli organi pubblici di controllo (spesso svuotati di personale e senza reali poteri).
Non manca neppure un vecchio classico dei tempi democristiani e berlusconiani: il condono edilizio. Per gli “abusi leggeri” sarebbe prevista solo una mini-sanzione.
Un paradiso dell’iniziativa privata, libera come mai prima, senza vincoli né controparti. Era questa in fondo, l’idea di “democrazia negoziale” nella testa del neo presidente di Confindustria, Carlo Bonomi. Con sullo sfondo la gestione delle decine di miliardi che potrebbero arrivare dai fondi europei per la “ricostruzione”, dal Mes, ecc.