martedì 23 giugno 2020

Usa: lo stato dell’Unione

Il 19 giugno del 1865 è stata abolita la schiavitù nell’ultimo Stato in cui vigeva, il Texas.
Era il culmine della “guerra civile” che aveva visto contrapposti gli Stati secessionisti del Sud – che avevano dato vita alla Confederazione – e gli Stati dell’Unione al Nord, con l’attiva partecipazione degli afro-americani, resisi protagonisti della propria liberazione.
Le truppe dell’Unione, entrate il giorno primo in Texas, di fatto decretarono la fine della guerra e dell’esperienza secessionista iniziata in Carolina del Sud il 6 dicembre del 1960.
Un quotidiano dell’epoca la definì: “la più grande rivoluzione politica e sociale di quel periodo”.
Prima del 1960 l’aristocrazia latifondista del Sud, ed il sistema schiavistico di cui erano espressione, tenevano saldamente in mano le redini del potere politico degli Stati Uniti con la ferma volontà di perpetuare un regime entrato complessivamente in crisi.
Quel sistema era fondamentale nella coltivazione di tabacco, caffè, canapa e soprattutto del cotone, vero “oro bianco” per i proprietari delle piantagioni, nonché una delle merci più esportate degli Stati Uniti a quei tempi.
Due terzi di tutto il cotone commerciato al mondo, l’80% circa della mastodontica industria tessile britannica, venivano coltivati nel Sud degli Stati Uniti.
Era una particolare forma di sfruttamento centrale nello sviluppo capitalismo dell’epoca, o come si espresse ai tempi un cronista di Montgomery, nell’Alabama: “l’istituzione dello schiavismo è semplicemente un ramo collaterale della grande questione politica del capitale e del lavoro”.
Negli Stati del Sud infatti una persona su tre era ridotta allo stato di schiavitù, circa 4 milioni di uomini; un regime in cui regnava il terrore, la negazione dell’istruzione ed un controllo capillare della vita degli schiavi che vivevano in baracche e che erano alla mercé del proprio padrone.
Una società comunque stratificata, quella del Sud, dove solo un quarto dei bianchi possedeva uno schiavo ed un padrone su otto – 46.000 persone in tutto – godeva del vantaggio competitivo datogli dal possedere almeno una ventina di schiavi.
Il rendimento del regime schiavistico era tre volte superiore, in termini di produttività, rispetto al “lavoro libero”, e questa particolare “merce” aveva un valore difficilmente immaginabile all’oggi.
L’elezione di Lincoln – il 6 novembre del 1860 – e l’affermazione del neo partito repubblicano cambiò l’ordine dei fattori, anche se proprio il nuovo presidente si dimostrerà pronto a tutto per salvare l’integrità degli Stati Uniti.
Nel giro di meno di un trentennio la sensibilità delle élites politiche del Sud era maturata al punto che, nella loro visione del mondo, era meglio separarsi dagli Stati Uniti piuttosto che vedere minato il proprio potere politico, anche solo in prospettiva; non intravedevano quindi più alcuna possibilità di compromesso, com’era avvenuto invece nel 1850.
La partita in gioco era quindi il mantenimento o la conquista della leadership sul corso politico degli Stati Uniti nel suo complesso, tra due differenti frazioni del potere economico.
Nella maturazione di questa scelta di rottura dei “sudisti” influivano molti aspetti della lotta abolizionista – fatta anche “armi in pugno” – che avevano particolarmente spaventato l’oligarchia sudista.
Lo sviluppo di quella che veniva chiamata “ferrovia sotterranea” era giunta ad un tale livello che i cacciatori di schiavi che andavano al Nord per riacciuffare i fuggiaschi – una pratica consentita dal “compromesso” del 1850 – venivano attaccati dai membri di quell’organizzazione interrazziale che assicurava la fuga al Nord e/o in Canada agli schiavi fuggiaschi.
La collera sudista raggiunse livelli parossistici quando in alcuni tribunali diverse giurie si rifiutarono di punire queste aggressioni.
Nel 1959 Il tentativo di lanciare una rivolta armata di bianchi e di neri contro la schiavitù in Virginia da parte di un abolizionista del New England, John Brown, nonostante il suo fallimento concretizzò uno degli incubi peggiori per l’oligarchia sudista: gli abolizionisti del Nord che fomentavano una sommossa di schiavi nelle proprie terre.
L’elezione di Lincoln, il 6 novembre del 1860, sembrava concretizzare questi incubi nonostante il nuovo presidente, come riporta uno dei maggiori storici della guerra civile – Bruce Levine – fosse “pronto a tutto per evitare la secessione”.
Dopo quel sanguinoso conflitto (1860-1865) iniziò il periodo detto della “Ricostruzione”, in cui gli afro-americani liberati cercarono di dare vita ad una società nuova con istituzioni proprie (scuole, chiese ed attività economiche, tra l’altro) e sviluppare appieno i propri diritti politici.
A questo si contrapposero l’omicidio mirato dei leader neri, il linciaggio e i race riots in cui squadre di bianchi, istigate dall’establishment politico locale “revanchista”, attaccavano ed uccidevano gli afro-americani.
Uno di questi episodi, forse il più famigerato, si verificò a Tulsa, circa 100 anni fa. La città dove Donald Trump ha voluto tenere il suo primo comizio elettorale dopo il lock-down. Il 19 giugno – che non è una festa federale – per la comunità afro-americana ha sempre avuto una importanza particolare e quest’anno, dopo le mobilitazioni successive alla morte di George Floyd, ha assunto una valenza ancora più rilevante.
Quel percorso di “integrazione”, iniziato allora, è di fatto tutt’ora incompiuto. Come ha affermato giustamente l’attivista ed intellettuale afro-americano Cornell West: “l’America è un esperimento sociale fallito”.
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Due eventi di cui avevamo già dato notizia restituiscono la dimensione dell’attuale polarizzazione politica negli Stati Uniti.
Da un lato il comizio di Donald Trump a Tulsa, cui è stata data abbondante esposizione mediatica, nonostante non sia stato particolarmente un successo come si augurava il presidente.

Trump a Tulsa

Dei 19.000 posti usufruibili, un terzo è rimasto vuoto, i suoi sostenitori che da giorni affollavano la città – per la stragrande maggioranza bianchi tra i 40 e i 60 anni – provenivano da altri Stati, nonostante proprio nell’Oklahoma Trump abbia vinto, distanziando i democratici 36 punti percentuali nel 2016.
Il suo discorso non ha fatto alcun riferimento a George Floyd, né al movimento che sta caratterizzando gli States, né al 19 giugno, né allo storico massacro di Tulsa, ma solo all’abbattimento delle Statue dei confederati, in senso ovviamente negativo…
Ha però rinfocolato la sua paranoia contro gli attivisti di sinistra secondo un canovaccio consolidato; ha parlato del “Kung Flu” – cioè del Covid-19 – con la sua forte declinazione anti-cinese ed ha spiegato di come sia stato fatto un lavoro eccellente nel suo contenimento.
In generale non proprio un discorso che passerà alla storia, se non per la sua stupidità.

Lo sciopero dei portuali della Costa Ovest

L’altro avvenimento caratterizzante – di fatto ignorato dai media “liberal” che stanno dando molto spazio all’attuale movimento sorto dopo la morte di George Floyd – è stato lo sciopero di otto ore nei 29 scali della Costa Ovest, promosso dal sindacato dei lavoratori portuali dell’ILWU, la storica organizzazione degli scaricatori creata negli anni ’30.
Più di 10 mila lavoratori hanno incrociato le braccia nell’azione più significativa fatta dal movimento operaio in questa storica giornata – i lavoratori del sindacato dell’automobile si sono fermati per 9 minuti – che ha declinato praticamente la questione di “razza” in una più ampia questione di classe.
È stata superata quella “gabbia narrativa” che la stampa liberal ha voluto dare fin qui agli avvenimenti, ed è stato ribadito come l’azione dei lavoratori e delle lavoratrici sia uno dei perni su cui basare le proprie rivendicazioni complessive.
Questi lavoratori – come ha ricordato Angela Davis, che ha tenuto uno degli interventi più significativi nella mobilitazione a Oakland – si sono sempre caratterizzati per un sindacalismo che andasse per così dire oltre quello “bread and butter”, cioè legato a questione spicciole.
La fondazione della ILWU avvenne in seguito ad una mobilitazione di protesta per due portuali uccisi dalla polizia. È stato il primo sindacato a “de-segregare”, negli anni Trenta, le squadre di lavoro e ad imporre garanzie per il lavoro “a chiamata” che caratterizza l’organizzazione del lavoro portuale, attraverso l’istituzione della hiring hall, che non permette l’assunzione discrezionale da parte del padrone.
Ha manifestato contro l’internamento degli americani di origine giapponese durante la Seconda Guerra mondiale. Dalla parte di Martin Luther King jr e del movimento per i diritti civili, si è mobilitato contro l’Apartheid in Sud Africa ed in Palestina, contro la guerra in Afghanistan ed in Iraq e, più recentemente, al fianco di Occupy con il “Wall Street on Waterfront”.
Uno sciopero politico, quindi, che si inserisce in una tradizione di lotta quasi secolare e in un contesto dove ha cominciato forma un “nuovo movimento operaio” negli Stati Uniti.
Una conferma ed una rielaborazione del vecchio motto operaio: “un offesa fatta ad uno, è una offesa fatta a tutti!”.
Nel suo intervento ad Oakland, lo storico attivista ed artista afro-americano Boots Riley ha detto: “Qual è il prossimo passo? Una buona parte di questa domanda riguarda il potere. Il nostro potere deriva dal fatto che creiamo la ricchezza. La ricchezza è potere. Abbiamo la capacità di maneggiarlo. Abbiamo il potere di gestire il nostro lavoro, e shut shit down!
L’ex cantante dei The Coup non poteva essere più chiaro.

venerdì 19 giugno 2020

Il fantasma del “picco” del petrolio bussa alla porta

Conseguenze che non ti aspetti. La pandemia da Covid, tra le tante cose, ha drasticamente ridotto la domanda di petrolio e idrocarburi. Tanto che per un giorno il prezzo del greggio è diventato addirittura negativo (-37 dollari!) perché le cisterne dei depositi stavano scoppiando, e quindi si era disposti a pagare purché qualcuno se lo portasse via.
In questa situazione, le attese “logiche” sarebbero a favore di una maggiore disponibilità di petrolio per i prossimi anni, allontanando insomma la prospettiva del “picco di Hubbert” (raggiunto il massimo della produzione, la produzione comincia a scendere, sia a livello di singolo pozzo che a livello complessivo).
E invece, riporta il Financial Times citando le stime di Rystad Energy (un centro studi norvegese molto autorevole in questo campo), accadrà esattamente l’opposto: il temutissimo “picco”, causa crisi da coronavirus, si avvicina nel tempo di almeno tre anni.
La notizia potrebbe lasciare indifferenti i più, se quel giorno non fosse terribilmente vicino e l’energia petrolifera non fosse la principale risorsa del nostro stile di vita. Atteso prima per il 2030, ora dovrebbe essere toccato nel 2027. In tempi storici e produttivi, è come dire domattina.
Perché un utilizzo minore comporta un’accelerazione della scarsità?
E’ una delle tante follie del modo di produzione capitalistico, attento al “valore di scambio” e non a quello “d’uso”. Per cui va a sbattere contro i limiti delle risorse naturali non riproducibili. In assenza di una forte domanda, infatti, le compagnie petrolifere rinunciano a cercare di sfruttare nuovi giacimenti. Anche perché quel greggio che è rimasto “recuperabile” giace, è il caso di dirlo, a grandi profondità. Sotto terra o in fondo al mare.
E avviare una produzione industriale in quelle condizioni costa molto. Dunque ci si decide a perforare solo quando la domanda è tale da spingere in alto i prezzi del petrolio. E’ in fondo l’identica dinamica che ha fatto dello shale oilestratto “macinando e lavando” quantità mostruose di sabbia e roccia bituminose – una risorsa pericolosa sul piano finanziario (altissimo indebitamento sui mercati, bassa o nulla redditività, fallimenti facili).
Rystad avverte che la bassa domanda di greggio (e i bassi prezzi) sta mettendo un freno agli sforzi di esplorazione nelle aree offshore più remote e, di conseguenza, riducendo il petrolio recuperabile nel mondo di circa 282 miliardi di barili.
Sembrano tantissimi, ma equivalgono a circa sette anni di consumo globale, ai ritmi del 2016 (100 milioni di barili al giorno). Ossia intorno ai 3-4 anni, relativamente al “picco” (metà della produzione possibile).
Lo studio di Rystad chiarisce perfettamente la differenza tra “petrolio facile” (molto vicino alla superficie, con bassi costi di estrazione) e giacimenti “estremi”. I Paesi produttori con grandi disponibilità del primo hanno subito relativamente poco la crisi della domanda da coronavirus, mentre quelli dove i costi di estrazione sono più alti, per ragioni fisiche, stanno veramente soffrendo.
Vediamo com’è la situazione.
Dei circa 282 miliardi di barili di greggio “esistente ma non remunerativo da recuperare”, il 42% si trova in territorio OPEC, mentre il restante 58% si trova al di fuori dell’alleanza. Significa che i primi hanno risorse più semplici da sfruttare, quindi sono molto più “resilienti” rispetto alla crisi in atto.
Mentre Stati Uniti e Russia (i primi per lo shale oil, la seconda per il greggio dell’Artico e siberiano) se la stanno passando assai peggio.
Il continente americano in genere paga dazio, con riduzione delle “riserve disponibili” altissime per Stati Uniti, Canada, Messico e Brasile. Ma anche il Venezuela vede ridimensionato un patrimonio petrolifero comunque ciclopico.
In Europa, oltre la Russia, il maggior produttore è la Norvegia, che però contava molto sui giacimenti del mare di Barents, rivelatisi però molto meno promettenti e sicuramente costosi da sfruttare. Si capisce perciò l’attenzione di Rystad…
Alla fin fine, esce fuori che l’accordo Opec Plus è stato vantaggioso soprattutto per l’Arabia Saudita (che ha ancora il petrolio meno costoso da sfruttare, al pari di Libia, Iraq, Kuwait e Iran, che però sono sempre oggetto di guerra a aperta o di sanzioni penalizzanti).
Per chiudere, due parole sul “picco”, che è argomento controverso solo per il rifiuto degli analisti economici di accettare che esistano limiti naturali. Sul piano decisivo, che è quello fisico, non c’è alcun dubbio: il petrolio disponibile non “ricresce”. Le incertezze riguardano il calcolo di quanto ne sia mai esistito sul pianeta, quanto ne sia stato consumato finora e dunque quanto ce ne sia ancora prima si cominciare a vedere la produzione scendere per motivi fisici.
Le “riserve accertate”, per esempio, dipendono da “autocertificazioni” dei Paesi produttori. Quelli dell’Opec suddividono le rispettive quote produttive annuali in base al dato sulle riserve “accertate”. E spesso si visto questo dato levitare senza che fosse stato annunciato il ritrovamento di nuovi giacimenti di grandi dimensioni per poter ottenere revisioni al rialzo delle quote…
I consumi prima del 1950 sono segnalati più con “stime” che con dati, perché le statistiche su questo terreno sono state sviluppate successivamente.
Le iniziali previsioni dei geofisici segnalavano la possibilità del “picco” nei primi anni del nuovo millennio, ma prendevano in considerazione solo il greggio convenzionale, ossia liquido. Gli analisti economici hanno poi ironizzato sul fatto che non si è verificato, sui mercati, ma solo perché a quei livelli di prezzo (147 dollari al barile, nell’agosto del 2007) diventava finalmente conveniente estrarre lo shale oil e altre fonti “non convenzionali” (grandi profondità marine, ecc).
Lo shale ha però diversi difetti, oltre gli alti costi: bassa vita media dei giacimenti, altissimi danni ambientali (qualcuno addebita alla tecnica del fracking anche alcuni terremoti in aree non sismiche), altissimo rischio finanziario, ecc.
L’irruzione delle “risorse non convenzionali” sul mercato ha comunque fatto crescere la quantità delle “riserve accertate e sfruttabili”, allontanando – ma non cancellando – la data del “picco”. Che ora, anche secondo Rystad, torna ad essere davvero vicina.
Non si può dire che il capitalismo si sia fatto mancare niente. Oltre ai limiti “storici” al suo sviluppo (con il lavoro e la rendita fondiaria, poi anche con la finanza speculativa), sta incontrando in questo periodo anche quelli climatici, ambientali, sanitari ed energetici.
Ma non riesce a cambiare logica.

lunedì 15 giugno 2020

La puzza di austerità che viene da Villa Pamphili…

Stati generali a porte chiuse. E se non è difficile capire il “clima” delle discussioni, c’è invece una blindatura molto severa sul “cosa” si stia discutendo lì dentro.
Sul piano politico, la scelta di Conte di mettere in scena una “dieci giorni” di confronto sulle scete economiche da fare nei prossimi mesi è sicuramente un tentativo di mettere al riparo l’esecutivo dalle tensioni quotidiane e perciò dalla perdurante icertezza sulla sua stabilità.
Per riuscirci, è stata convocata “L’Europa” – nelle persone di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione, e Cristine Lagarde, alla guiida della Bce. Ma anche il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, il segretario generale dell’Ocse, Ángel Gurría, e la direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Kristalina Georgieva.
Uscire dalle secche dello sterile battibecco tra deficienti, tipico dello scambio di battute quotidiane della “politica italiana”, era del resto l’unico modo per “alzare l’asticella” della discussione, chiarendo che la posizione dell’Italia è inchiavardata in un sistema internazionale che ne determina sia il destino che le scelte quotidiane.
Non è deto però che alla fine questa scelta sia anche quella giusta perché, sul “cosa” bisogna fare per “far ripartire” questo Paese, dagli ospiti più importanti sono arrivati ammonimenti e velate minacce, più che testimonianze di solidarietà.
La circostanza non è sorprendente, perché solo gli imbecilli che credono alle favole della “informazione mainstream” potevano cullarsi nell’illusione che stessero per arrivare un fiume di soldi a fondo perduto, con cui fare un po’ quello che ti pare. Ma soprattutto perché la comunità di riferimento cui l’Italia è sottomessa – per libera scelta di qualche decennio fa, ma sottomessa – non è affatto un “circolo di amici che si danno una mano”, a un insieme rissoso perché competitivo all’interno. Ossia fra partner che si fregano a vicenda.
Mettiamo in fila gli ammonimenti più seri.
Il governatore della Banca d’ Italia, Ignazio Visco, ha subito smontato il pilastro principale della narrazione ottimistica: “I fondi europei non potranno mai essere ‘gratuiti’: un debito dell’Unione europea è un debito di tutti i paesi membri e l’Italia contribuirà sempre in misura importante al finanziamento delle iniziative comunitarie, perché è la terza economia dell’Unione“.
Detto più cautamente, è quello che andiamo spiegando fin dall’inizio della discussione sul Recovery Fund: i “fondi europei” sono messi direttamente dagli Stati, oppure chiesti in prestito sui “mercati” con la garanzia che saranno gli stessi Stati a restituirli. Non nascono insomma dal nulla. Quindi l’Italia, come tutti gli altri Paesi, con una mano versa fondi dentro il “bilancio europeo” e con l’altra ritira una quota che può essere in tutto o in parte uguale a quella versata (secondo molti calcoli saranno almeno 14 miliardi in meno rispetto al contributo versato).
Il vero problema è che questa “restituzione del versato” non è affatto scontata, perché deve sottostare a condizioni precise e vincolanti poste dall’Unione Europea.
Non è un’illazione “sovranista”, ma quanto spiegato in modo neppure tanto soft da Paolo Gentiloni, ex premier Pd e ora Commissario europeo agli affari economici: “So che il governo italiano è pienamente consapevole che non si tratta di spese facili, tesoretti o libri dei sogni ma di un impegno che ci metterà alla prova”, ha commentato il commissario Gentiloni.
Ora dobbiamo dirci che queste ingenti risorse metteranno alla prova tanto la Commissione che il sottoscritto nelle sue responsabilità, quanto i singoli Paesi e governi. Per l’Italia si tratta di un’occasione irripetibile per riforme che eliminano le strozzature che hanno limitato la crescita e per investimenti per rendere l’Italia più competitiva. Si tratta di risorse senza precedenti”.
Insomma, quei soldi che saranno versati anche dall’Italia torneranno (in parte) indietro sotto forma di “fondi europei” se, e solo se, saranno effettuate quelle “riforme” che la stessa Ue pretende da molti prima che il coronavirus facesse strage e aprisse ufficialmente lo stato di crisi.
Nulla è cambiato, se non la tempistica con cui si chiedono “riforme” e “aggiustamento di bilancio”.
Altrettanto esplicita Christine Lagarde: “Il recovery fund raggiungerà il suo pieno potenziale solo se sarà saldamente inserito in riforme strutturali concepite e attuate a livello nazionale”.
Le raccomandazioni specifiche per l’Italia” stilate dalla Commissione Ue identificano “gli investimenti in infrastrutture digitali per l’istruzione e la formazione, la promozione della produzione di energia rinnovabile, lo sviluppo di modelli di e-business e la modernizzazione della pubblica amministrazione. Queste riforme sono indispensabili per capitalizzare questo momento”.
Inoltre “la mobilitazione degli investimenti richiede soprattutto un quadro economico favorevole alle imprese, con servizi pubblici e privati efficienti e flessibili, adeguate infrastrutture fisiche e digitali, un sistema giudiziario ben funzionante e un settore finanziario forte”.
Tutti obiettivi formalmente asettici, perché generici. Chi potrebbe contestare che infrastrutture digitali o la modernizzazione del diritti civile, per esempio, non siano obbiettivi desiderabili?
I problemi diventano più chiari quando di nominano il “quadro economico favorevole alle imprese”, o “il mercato del lavoro” (ampiamente massacrato nel corso degli ultimi 20 anni, tanto che non esistono praticamente più diritti esigibili).
Non si parla ancora di tagli, ufficialmente, ma dovrebbe suonare sinistramente la notizia che diversi giornali riportano stamattina: “Le pensioni decorrenti dal 1° gennaio 2021 avranno una quota contributiva più leggera. A stabilirlo è stato il decreto 1° giugno 2020 di revisione triennale dei coefficienti di trasformazione del montante contributivo”. Pochi spiccioli in meno, per ora, ma la direzione è chiara…
Qualcuno potrebbe pensare: “Sì, va bene, c’è un prezzo da pagare, però almeno saremo obbligati a fare quel che ci serve e altrimenti non faremmo…”.
E’ sempre la stessa idiozia ripetuta dal 1981 – quaranta anni fa! – quando il ministro Nino Andreatta decretà il “divorzio” tra la Banca d’Italia e il Tesoro, per vietare alla prima di comprare in asta i titoli di Stato emessi da Tesoro stesso; pratica che contribuiva a tenere alto il prezzo e quindi bassi gli interessi da pagare. L’intento era anche lì “virtuoso”; ossia “costringere lo Stato a spendere meno, eliminando sprechi e ruberie”.
Sprechi e ruberie sono rimasti, com’è noto. Sanità, pensioni e istruzione sono state massacrate e sue di loro si adensano altre nubi tempestose.
In ogni caso, ha spiegato Charles Michel, presidente del Consiglio europeo (il certice dei capi di Stato e di governo della Ue), “Vorrei mettere tutti in guardia dal sottovalutare la difficoltà dei negoziati che stanno per iniziare”.
Sul Recovery fund “c’è ancora strada da fare. Come sapete, su vari punti chiave del progetto esistono divergenze significative: sulla dotazione globale, sulla ripartizione tra prestiti e sovvenzioni, sui criteri di distribuzione delle risorse finanziarie, sulle condizioni di assegnazione dei fondi… Ora più che mai, questi negoziati sono irti di difficoltà, poiché costringono tutti gli Stati membri a riconsiderare determinati principi cui sono fedeli da così lungo tempo. Non tutti condividono la stessa interpretazione di cosa sia nel concreto la solidarietà. Così come non tutti sono istintivamente d’accordo sulle implicazioni pratiche che derivano necessariamente dal principio di responsabilità. Potremo riuscire solo se sia gli uni che gli altri faranno lo sforzo di mettersi nei panni dei rispettivi interlocutori”.
Niente è certo, tranne il fatto che le “condizionalità” per avere in prstito parte dei fondi che il Paese deve versare (o impegnarsi a farlo) potranno solo essere peggiori di quelle fin qui prospettate. Olanda, Austria, Finlandia e il “gruppo di Visegrad” (Polonia, Cechia, Slovacchia, Ungheria) pretendono infatti che nulla venga “regalato” ai paesi mediterranei. Per ragioni diverse, oltretutto. Perché i prmi tre paesi dovrebbero vesare un po’ di più di quel che riceverebbero; gli altri quattro perché vedrebbero in parte scendere il contributo europeo al loro sviluppo.
Ecco, dato questo contesto, la formulazione di un “Piano nazionale di riforme” – indispensabile per poter cominciare a chiedereed ottenere almeno la prima rata del Recovery Fund a gennaio (o più in là, probabilmente) – diventa per il governo Conte un letto di Procuste che quanto prima dovrà far vedere i chiodi al posto della pelliccia.
Decisamente, quanti ieri si sono presentati fuori Villa Pamphili per contestare un vertice-fregatura, hanno messo in campo l’unica risposta possibile: l’organizzazione di un fronte di lotta popolare, che unisca i settori sociali colpiti dalla crisi e che le politiche europee – che Conte chiama a protezione del suo governo – vogliono peggiorare oltre ogni immaginazione.

venerdì 12 giugno 2020

Trump ha adottato la strategia del “viva la morte”

Mentre le proteste contro la violenza della polizia razzista colpiscono il Paese, il fascismo arriva alla Casa Bianca con Trump e la pandemia di COVID-19 persiste, questo Paese è in un momento cruciale.
Ho parlato di questo momento cruciale della storia con Noam Chomsky, noto come il padre della linguistica moderna, che è uno degli intellettuali più importanti del mondo e autore di oltre 100 libri, tra cui Hegemony o Survival, Failed States, Optimism Over Despair, Speranze e prospettive, Masters of Humankind e Chi sono i padroni del mondo?
Nella seguente intervista, Chomsky fornisce informazioni su come possiamo affrontare meglio il momento attuale e prepararci per un futuro che fa riflettere.
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George Yancy: Prima di chiederti del COVID-19, vorrei iniziare chiedendoti una tua riflessione sull’orribile omicidio di George Floyd e su cosa pensi delle proteste che sono avvenute negli Stati Uniti e nel mondo. Sono particolarmente interessato alla tua risposta alla retorica di Trump di schierare i militari per reprimere una cosiddetta insurrezione.
Noam Chomsky: “L’omicidio orribile”, è vero. Cerchiamo di essere chiari sugli omicidi dei neri americani in atto proprio ora. La brutalità di alcuni poliziotti razzisti a Minneapolis costituisce una piccola parte del crimine.
È stato ampiamente notato che i tassi di mortalità per la pandemia sono molto più alti tra i neri. Uno studio recente ha scoperto che “gli americani che vivono in contee con popolazioni nere sopra la media hanno una probabilità tre volte maggiore di morire di coronavirus rispetto a quelli nelle contee bianche”.
Questo massacro dei neri è in parte il risultato di come le risorse sono state dedicate alla gestione della crisi, principalmente “in aree che sono risultate più bianche e più ricche“. Ma è radicato più profondamente in una storia orribile di 400 anni di razzismo violento.
Questa piaga ha assunto forme diverse da quando è stato istituito il più vizioso sistema di schiavitù nella storia umana – una base fondamentale per l’industria, la finanza, il commercio e la prosperità generale del Paese – ma al massimo è stata tamponata, non ha mai portato nemmeno lontanamente a una cura.
La schiavitù americana era unica non solo in termini di cattiveria, ma anche in quanto legata al colore della pelle. All’interno di questo sistema, ogni faccia nera era contrassegnata con l’emblema: “La tua natura deve essere schiava“.
Altre etnie sono stati trattate duramente. Ebrei e italiani erano così temuti e disprezzati, un secolo fa, che la legge sull’immigrazione razzista del 1924 fu progettata per vietare loro l’ingresso nel Paese, destinando così molti ebrei ai forni crematori. A sostegno, i razzisti dell’epoca sostenevano che dovevamo proteggerci dagli ebrei e dagli italiani che gestivano i principali sindacati criminali, da creature come Meyer Lansky e Al Capone e Bugsy Siegel. Ma alla fine furono assimilati. Lo stesso è successo con gli irlandesi.
Con i neri, tuttavia, è diverso. Sono considerati permanentemente inassimilabili in una società maledetta dal razzismo e dalla supremazia bianca. Per le vittime, gli effetti sono aggravati dai permanenti divari socioeconomici generati dal razzismo, intensificati dall’assalto neoliberista degli ultimi 40 anni, un grande vantaggio per la ricchezza estrema, un disastro per i più vulnerabili.
Il massacro dei neri americani procede sotto silenzio. Il presidente Trump, la cui malvagità non ha limiti, ha sfruttato il focus sulla pandemia per perseguire gli interessi del suo principale collegio elettorale, grande ricchezza e potere aziendale.
Un metodo è l’eliminazione delle normative che proteggono il pubblico ma non danneggiano i profitti. Nel mezzo di una pandemia che colpisce le vie respiratorie come mai prima, Trump si è mosso per aumentare l’inquinamento atmosferico, il che rende COVID-19 molto più mortale, al punto che decine di migliaia di americani potrebbero morire di conseguenza, riporta la stampa economica.
Come al solito, i decessi non sono distribuiti casualmente: “I più colpiti sono le comunità a basso reddito e le persone di colore“, coloro che sono costretti a vivere nelle aree più pericolose.
È fin troppo facile continuare. I manifestanti lo sanno molto bene. Non hanno bisogno di studi. Per molti è la loro esperienza vissuta. Le proteste non chiedono solo la fine della brutalità della polizia nelle comunità nere, ma una ristrutturazione dalle fondamenta delle istituzioni sociali ed economiche.
E stanno ricevendo un notevole sostegno, come vediamo non solo dalle azioni in tutto il Paese, ma anche dai sondaggi. Un sondaggio di inizio giugno “ha scoperto che il 64% degli adulti americani era ‘solidale con le persone che stanno protestando in questo momento’, mentre il 27% ha dichiarato di non esserlo e il 9% non aveva un’opinione.”
Possiamo paragonare questa reazione a un’altra occasione in cui si sono verificate simili proteste: nel 1992, dopo l’assoluzione degli agenti di polizia di Los Angeles che hanno picchiato Rodney King a morte. Seguì una settimana di rivolte, con oltre 60 morti, infine represse dalla Guardia Nazionale sostenuta dalle truppe federali inviate dal Presidente Bush. Le proteste erano per lo più limitate a Los Angeles, nulla rispetto a quello che stiamo vedendo oggi.
Trump ha una preoccupazione principale, il proprio benessere: come posso usare questa tragedia per migliorare le mie prospettive elettorali istigando le componenti più razziste e violente della mia base elettorale? I suoi istinti naturali richiedono violenza: “i cani più rabbiosi e le armi più minacciose che abbia mai visto“. E vuol mandare i militari a insegnare alla “feccia” una lezione che non dimenticheranno mai.
Il piano di Trump di “dominare” la popolazione con la violenza ha suscitato una rabbia diffusa, inclusa un’amara condanna da parte dell’ex capo dello Stato Maggiore congiunto. L’ammiraglio Mike Mullen ha infatti scritto: “In quanto uomo bianco, non posso rivendicare una perfetta comprensione della paura e della rabbia che gli afroamericani provano oggi…. Ma come qualcuno che è in giro da un po’, ne so abbastanza – e ne ho visto abbastanza – per capire che quei sentimenti sono reali e che sono dolorosamente fin troppo fondati“.
I cambiamenti negli ultimi due decenni sono forse un segno che ampie parti della popolazione stanno arrivando a riconoscere verità a lungo nascoste sulla nostra società, un raggio di luce nei tempi bui.
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Ci viene spesso detto che gli Stati Uniti sono il Paese più potente del mondo. Siamo nutriti con una dieta di “eccezionalità americana”. Eppure, a livello globale, abbiamo il maggior numero di decessi dovuti a COVID-19. Eravamo sistematicamente impreparati. Come spieghi questa incongruenza e quale ruolo gioca Trump in tutto questo?
La mancanza di preparazione ha tre cause fondamentali: la logica capitalista, la dottrina neoliberista e il carattere della leadership politica. Vediamoli brevemente.
Dopo il contenimento dell’epidemia di SARS del 2003, gli scienziati erano ben consapevoli che era probabile una nuova pandemia e che poteva essere causata da un altro coronavirus. Sapevano anche come prendere le misure per prepararsi.
Ma la conoscenza non è abbastanza. Qualcuno deve usarla. Il candidato ovvio sono le compagnie farmaceutiche, che dispongono di tutte le risorse necessarie e di enormi profitti, in gran parte grazie ai brevetti esorbitanti concessi negli accordi etichettati come di “libero scambio”. Ma furono bloccati dalla logica capitalista. Non ci sono profitti nel prepararsi a una possibile catastrofe e, come l’economista Milton Friedman ha declamato all’alba dell’età neoliberista, 40 anni fa, l’unica responsabilità di una società privata è quella di massimizzare il valore per gli azionisti (e la ricchezza della gestione).
Fino al 2017, le principali compagnie farmaceutiche hanno respinto una proposta dell’Unione Europea per accelerare la ricerca sui patogeni, incluso il coronavirus.
L’altro candidato è il governo, che ha anche le risorse necessarie e ha svolto un ruolo significativo nello sviluppo della maggior parte dei vaccini e dei farmaci. Ma quel percorso è bloccato dalla dottrina neoliberista che ha prevalso da quando Reagan ci ha informato che il problema è il governo – ciò significa che le decisioni non devono essere prese dal governo, che è in qualche misura influenzato dai cittadini, ma lasciate alle innumerevoli tirannie private che sono gli agenti primari (e i beneficiari) del trionfo neoliberista. Quindi anche il governo è escluso.
Il terzo fattore sono le singole presidenze. Restando negli Stati Uniti, il presidente George H.W. Bush aveva istituito un Comitato dei consiglieri per la scienza e la tecnologia (PCAST) per tenere il presidente al corrente di importanti questioni scientifiche. Uno dei primi atti del presidente Obama, assunto l’incarico nel 2009, è stato commissionare uno studio PCAST ​​su come affrontare una pandemia. Fu fornito alla Casa Bianca poche settimane dopo. L’amministrazione Obama, orientata alla scienza, ha proceduto alla realizzazione di un’infrastruttura di pandemia che ha pianificato una risposta precoce alle minacce di malattie infettive.
Ciò è avvenuto fino al 20 gennaio 2017, quando il presidente Trump è entrato in carica e in pochi giorni ha iniziato a smantellare l’intera infrastruttura scientifica del ramo esecutivo, compresi i preparativi per la pandemia, e in effetti è passato a rifiutare in generale il compito della scienza di informare la politica, cancellando le iniziative bipartisan che dalla Seconda guerra mondiale avevano consentito lo sviluppo della moderna economia dell’alta tecnologia.
Oltre a ciò, Trump ha cancellato i programmi in cui gli scienziati lavoravano con i colleghi cinesi per indagare sui coronavirus. Ogni anno, ha tagliato i finanziamenti ai Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC). Ciò è continuato con la sua proposta di bilancio del febbraio 2020, mentre la pandemia infuriava, chiedendo ulteriori tagli al CDC (aumentando allo stesso tempo i sussidi alle industrie dei combustibili fossili).
Gli scienziati sono stati sistematicamente sostituiti da funzionari del settore che avrebbero assicurato che il profitto privato fosse massimizzato qualunque fosse l’impatto sul pubblico. Le decisioni di Trump concordano con il giudizio del suo esperto preferito, Rush Limbaugh, a cui ha assegnato la Medaglia presidenziale della libertà. Ci insegna che la scienza è uno dei “quattro angoli dell’inganno”, insieme al mondo accademico, ai media e al governo, che “sussistono in virtù dell’inganno“.
La massima guida dell’amministrazione fu articolata in modo più eloquente dal principale generale di Franco nel 1936: “Abbasso l’intelligenza! Viva morte!
Di conseguenza, gli Stati Uniti erano “sistematicamente impreparati” quando è arrivata la pandemia.
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A febbraio, Trump ha detto che COVID-19 sarebbe semplicemente scomparso, che “un giorno, come un miracolo, sparirà”. Si sbagliava profondamente e quindi incolpava la Cina, anche “razzializzando” la malattia. Alcuni affermerebbero che Trump ha del sangue sulle mani a causa della sua grave cattiva gestione di COVID-19. Quali sono le tue idee riguardo a questo?
Decine di migliaia di americani sono morti a seguito dell’impegno dedicato da Trump al suo collegio elettorale primario: quello che possiede la ricchezza estrema e potere aziendale.
La sua malevolenza è persistita dopo che la malattia ha colpito. Alcune settimane dopo la scoperta dei primi sintomi lo scorso dicembre, gli scienziati cinesi hanno identificato il virus, sequenziato il genoma e fornito le informazioni all’OMS e al mondo. I paesi dell’Asia e dell’Oceania hanno reagito immediatamente e la situazione è ampiamente sotto controllo. Altri hanno agito in modo diverso.
Trump è arrivato per ultimo. Per due mesi cruciali, i funzionari dell’intelligence e della salute degli Stati Uniti hanno cercato di catturare l’attenzione della Casa Bianca, invano.
Infine, Trump se ne è accorto – probabilmente quando il mercato azionario si è schiantato. Da allora è stato il caos.
Non sorprende che Trump e i suoi servi si siano scontrati disperatamente per trovare un capro espiatorio da incolpare per i suoi crimini contro gli americani, ignaro di quante altre persone massacrasse. Scartare e poi ritirarsi dall’OMS [Organizzazione mondiale della sanità] è un colpo sadico contro gli africani, gli yemeniti e molte altre persone povere e disperate che erano state protette dalle malattie dilaganti dall’assistenza medica dell’OMS, anche prima che il coronavirus colpisse, e che ora affrontano nuove catastrofi in aggiunta. Possono essere lasciate indietro se questo migliora le sue prospettive elettorali.
L’accusa di Trump contro l’OMS, che è troppo ridicola per essere discussa, è che sia controllata dalla Cina. Tirandosene fuori, aumenta l’influenza cinese. Ma è ingiusto criticarlo dicendo che è un folle. Il risultato sottolinea solo il fatto che non si è mai preoccupato di tutto ciò.
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Parlando di responsabilità e sangue sulle proprie mani, una certa interpretazione dei diritti individuali sembra prevalere su una responsabilità sociale collettiva per molti negli Stati Uniti che non osservano le raccomandazioni dell’OMS e del CDC, incluso un palese rifiuto di indossare mascherine. Cosa ne pensi? sta alimentando questa rabbia e mancanza di responsabilità nei confronti della salute e della sicurezza degli altri?
I repubblicani hanno una totale fiducia nel presidente, non importa quanto le sue azioni li danneggino. La sua immagine divina è amplificata da coloro che lo circondano, grazie alla sua campagna di successo per sbarazzarsi di tutti tranne i fedelissimi, come il secondo segretario di Stato Mike Pompeo, che sostiene che Dio potrebbe aver inviato Trump sulla Terra per salvare Israele dall’Iran.
I compagni evangelici di Pompeo, la più grande base di sostenitori di Trump, probabilmente sono d’accordo. E sentono quasi le stesse cosette dal Partito repubblicano, che ha praticamente abbandonato qualsiasi briciolo di integrità e adorato in modo abietto qualunque cosa faccia. Lo stesso vale per la sua camera di eco dei media. Gli studi hanno dimostrato che la principale fonte di informazione per i repubblicani sono Fox News, Limbaugh e Breitbart.
In effetti, si è sviluppata una diade interessante: Trump emette alcune dichiarazioni casuali, è osannato da Sean Hannity come una scoperta rivoluzionaria e la mattina successiva Trump si rivolge a Fox News per scoprirne le opinioni.
I sondaggi dell’opinione pubblica svelano le conseguenze. Un sondaggio di Pew ad aprile, quando la responsabilità di Trump per il disastro in crescita è andata al di là di un serio dibattito, ha rivelato che l’83 percento dei repubblicani e dei sostenitori repubblicani ha giudicato la risposta di Trump allo scoppio eccellente o buona (rispetto al 18 percento dei democratici e dei sostenitori democratici).
Stanno ascoltando un presidente che ha paragonato il virus all'”influenza regolare” e che a metà aprile ha twittato le istruzioni ai suoi sostenitori per “LIBERARE LA VIRGINIA, e salvare il grande secondo emendamento. È sotto assedio!” Il secondo emendamento non ha la minima rilevanza, ma Trump sa quali pulsanti premere. Stava, chiaramente, sollecitando le sue truppe a prendere le armi, parte dei suoi più generali tentativi di incoraggiare i manifestanti armati a violare gli ordini negli stati con governatori democratici (come la Virginia), in un momento in cui c’erano quasi 50.000 morti registrate.
Uccidiamo più americani, non solo yemeniti e africani, se miglioreranno le mie prospettive elettorali. “Abbasso l’intelligenza! Viva morte!
Quando escludiamo le operazioni di Astroturf (una tecnica di marketing, NdT) e la fervente lealtà della base elettorale, non è chiaro se sia rimasto qualcosa di un appello ai “diritti individuali” in qualsiasi senso.
Né è chiaro che i manifestanti prevalgono sulla responsabilità sociale. Evidentemente non la vedono così. Sarebbero sconvolti dall’idea che ciò che stanno facendo sia simile alle persone con fucili d’assalto che corrono per le strade sparando a caso, anche se il confronto è appropriato. Non pensano di mettere in pericolo nessuno. Piuttosto, stanno seguendo il loro riverito leader nel protestare contro uno sforzo della “sinistra radicale”, forse “su istruzioni della Cina”, di “distruggere i loro diritti elementari” e persino di portar via le loro armi.
Questi sono tutti ulteriori segnali del fatto che il Paese è in gravi difficoltà – e alla luce del potere degli Stati Uniti, il mondo con esso.
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A parte l’incompetenza di Trump, cosa bisogna fare a livello globale per poter prevenire un’altra pandemia e cosa dobbiamo fare per prepararci meglio in futuro?
Non credo che “incompetenza” sia la parola giusta. È abbastanza competente nel perseguire i suoi obiettivi primari: arricchire i ricchi, accrescere il potere e il profitto aziendale, mantenere la sua base ferma mentre li trafigge alla schiena e concentra il potere nelle sue mani, smantellando il ramo esecutivo e intimidendo i congressisti repubblicani che accettano timidamente quasi tutto. Non ho sentito da loro nessuna critica quando Trump ha licenziato lo scienziato responsabile dello sviluppo del vaccino per aver osato mettere in discussione una delle cure ciarlatane che sta promuovendo.
Vi è un silenzio tombale da questi ranghi mentre egli porta avanti una epurazione degli ispettori generali, che impongono alcuni controlli sulla palude che ha creato a Washington, insultando anche uno dei più rispettati senatori repubblicani, l’86enne Chuck Grassley, che ha dedicato la sua lunga carriera alla creazione di questo sistema.
È un risultato impressionante.
Ciò che deve essere fatto a livello globale è seguire i consigli che gli scienziati stanno fornendo. È probabile una nuova pandemia, probabilmente peggiore di questa a causa del riscaldamento globale, che potrebbe diventare arrostimento climatico con altri quattro anni di peste di Trump.
Devono essere fatti dei passi per prepararsi, tipo quelli che erano stati raccomandati nel 2003 e che erano stati perseguiti in piccola parte fino a quando Trump ha iniziato a usare la sua palla da demolizione.
Dovrebbe esserci una cooperazione internazionale nella ricerca di coronavirus e altri potenziali pericoli, sviluppando le conoscenze scientifiche necessarie per un rapido sviluppo di vaccini e farmaci per alleviare i sintomi e implementando piani di emergenza da attuare se una pandemia colpisse ancora.
Per gli Stati Uniti in particolare, ciò significa estromettere dalla società il dogma neoliberale, che ha avuto amare conseguenze nel campo della salute (e molti altri). Il modello di business per gli ospedali, senza sprechi o capacità inutilizzata, è un invito al disastro. Più in generale, il sistema sanitario privatizzato altamente inefficiente è un onere gravoso per la società, con il doppio dei costi di altri paesi sviluppati e alcuni dei risultati più scarsi.
Un recente studio di Lancet stima che il suo costo annuale sia di quasi 500 miliardi di dollari e 68.000 morti in più. È scandaloso che gli Stati Uniti non possano salire al livello di altre società e si affidino invece al sistema di assistenza sanitaria universale più crudele e costoso: i pronto soccorso. Se riesci a trascinarti ad un pronto soccorso, puoi forse ottenere una cura, seguita da una fattura da saldare.
Lo stesso dogma neoliberista impedisce al National Institutes of Health di andare oltre la ricerca e lo sviluppo essenziali per i farmaci ed arrivare ai test e alla distribuzione, aggirando le società private e implementando le disposizioni del diritto degli Stati Uniti, costantemente ignorate, che richiedono che i farmaci prodotti con l’assistenza del governo (praticamente tutti) debbano essere disponibili al pubblico a costi ragionevoli. Gli studi più accurati su questi argomenti che conosco sono di Dean Baker, che stima enormi risparmi senza alcuna perdita di innovazione se vengono introdotte tali misure (vedi il suo libro Rigged, disponibile gratuitamente).
Questo è solo un semplice inizio. Ci sono profondi problemi sociali, culturali e istituzionali che dovrebbero essere affrontati.
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Supponendo che le elezioni di novembre siano prossime, credi che Trump utilizzerà lo strumento dei brogli per rimanere al potere? Se ciò dovesse accadere, cosa prevedi in termini politici?
Trump e soci stanno già spingendo energicamente quella truffa, e non per la prima volta. Sanno di essere a capo di un partito di minoranza e devono ricorrere all’inganno e alla frode per mantenere il potere politico. E per loro è in gioco molto. Altri quattro anni consentirebbero loro di garantire che le loro politiche di estrema destra prevarranno per una generazione, indipendentemente da ciò che la popolazione vuole.
Questo è stato l’obiettivo della strategia McConnell di mettere la magistratura, dall’alto fino il basso, nelle mani di giovani giuristi di estrema destra che possono bloccare programmi di interesse pubblico. La perdita delle elezioni potrebbe condannare il loro progetto.
Per Trump, personalmente, le prospettive di sconfitta possono essere gravi, anche se psicologicamente è in grado di accettarlo come un normale essere umano. Potrebbe essere vulnerabile a gravi accuse legali in caso di perdita dell’immunità. E con il Partito repubblicano che si è arreso alla sua autorità, in stile nordcoreano, deve affrontare pochi ostacoli. Possiamo lasciare il resto all’immaginazione.
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Mi rendo conto che questo sembra distopico, ma chi può dire che Trump, per pura brama di potere, non galvanizzerà una milizia per sostenere il suo desiderio di rimanere al potere? Qualche idea?
Non può essere escluso. Come ampiamente riconosciuto, il Paese sta affrontando una crisi costituzionale a lungo termine. Il Senato è un’istituzione radicalmente non democratica, in misura minore il collegio elettorale. Per ragioni demografiche e strutturali, una piccola minoranza di elettori suprematisti bianchi, cristiani, rurali, tradizionali, spesso bianchi, può mantenere il controllo in misura anche al di là di ciò che i democratici meridionali razzisti esercitavano prima che la “strategia meridionale” di Nixon li portasse nell’ovile repubblicano.
E questo è praticamente immutabile dall’emendamento costituzionale. Non è impossibile che nelle mani di Trump, la crisi imminente potrebbe precipitare molto rapidamente.
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Noam, so che preferisci non parlare molto di te, ma a 91 anni come stai affrontando personalmente il nostro surreale momento storico sotto il COVID-19?
In termini strettamente personali, non è una grave difficoltà per me e mia moglie. Per molti altri, è una storia radicalmente diversa. Il momento è davvero surreale. Il futuro sarà modellato dal modo in cui emergeremo dalla crisi. Le forze che ne sono responsabili, responsabili per l’assalto neoliberista alla popolazione – che è stato evidentemente intensificato- non tornano indietro in silenzio.
Stanno lavorando incessantemente per garantire che ciò che emergerà sia una versione più dura e più autoritaria di ciò che avevano creato nel loro stesso interesse. Ci sono forze popolari che cercano di cogliere le attuali opportunità per invertire le catastrofi del recente passato e di avanzare in un mondo molto più umano e dignitoso. E, soprattutto, affrontare le crisi molto più gravi che si profilano.
Ci riprenderemo dalla pandemia, ma a un costo terribile. Non ci riprenderemo dal continuo scioglimento delle calotte polari e dalle altre conseguenze dell’arrostimento della terra, che renderà invivibili molte delle aree del pianeta in tempi non troppo lunghi, se continuiamo nel nostro corso attuale. Altri quattro anni di malignità di Trump aumenteranno drasticamente le difficoltà nell’affrontare questa imminente catastrofe – anche se sfuggiamo alla minaccia della guerra nucleare terminale che Trump sta intensificando, smantellando il regime di controllo degli armamenti che offriva protezione e corse per sviluppare nuovi e altri pericolosi mezzi di distruzione che minano la nostra sicurezza.

giovedì 11 giugno 2020

Cambia il direttore della Sanità lombarda: cosa significa

Sono state consegnate al tribunale di Bergamo le prime cinquanta denunce preparate dal Comitato “Noi denunciamo” composto dai familiari di vittime bergamasche della pandemia. Persone che nei mesi scorsi – ha dichiarato l’avvocatessa Consuelo Locati, legale del comitato – hanno visto morire in casa un proprio congiunto senza che gli venisse prestata alcuna assistenza. Si prevede che le denunce arriveranno a oltre duecento.
Mentre a Bergamo si consegnavano le denunce, arrivava la notizia di un avvicendamento improvviso ai più alti livelli della sanità lombarda: Luigi Cajazzo, ex poliziotto della Mobile di Lecco, nominato nel 2018 direttore generale della Sanità lombarda, braccio destro dell’assessore Gallera, viene destinato all’incarico di vicesegretario generale della Regione con delega all’integrazione sociosanitaria.
Luigi Cajazzo sarebbe, tra l’altro, responsabile della decisione di riaprire l’Ospedale di Alzano Lombardo senza che vi fossero attuati i provvedimenti necessari e con il parere negativo del Direttore dello stesso, dopo che vi era stato diagnosticato un Caso di Covid. Una decisione su cui sta indagando la Magistratura.
Al suo posto è stato nominato Marco Trivelli, manager storico della sanità lombarda, con incarichi direttivi prima al Niguarda di Milano poi ai Civili di Brescia.
L’avvicendamento ai vertici della Sanità ha evidentemente il significato di scaricare su un funzionario, seppure di alto livello, delle responsabilità che sono soprattutto politiche, mettendo in salvo la giunta, il presidente Fontana e il “sistema Lombardia”. Quanto all’assessore Gallera, il suo destino appare più incerto e legato al riassetto degli equilibri nella giunta.
Esiste però anche un’altra possibile ragione nell’avvicendamento ai vertici della Sanità lombarda, cioè quello di riaprire un dialogo con le opposizioni, con cui attualmente i rapporti sono pessimi, offrendo la testa di un dirigente non all’altezza per nominare al suo posto un manager “affidabile” e di lunga esperienza nella gestione sanitaria come Trivelli.
Inoltre, nelle intenzioni del presidente Fontana, Trivelli sarebbe la persona giusta per riaprire un dialogo con i medici di base, i quali – mandati allo sbaraglio durante la pandemia – non hanno lesinato critiche e proteste contro la Regione.
Tuttavia, c’è un problema: Marco Trivelli, di fede ciellina, è uno dei manager della Sanità cresciuti durante la lunga presidenza del detenuto Formigoni, di cui condivide le scelte e la politica sanitaria, continuata in seguito con le gestioni Maroni e Fontana. È poco credibile, quindi, che la sua nomina possa essere qualcosa di più di un escamotage politico.
Concludiamo segnalando che da oggi il nuovo Ospedale della Fiera, l’opera di propaganda della giunta lombarda realizzata sprecando tra 21 e 26 milioni – il montante esatto non si conosce ancora – di donazioni private e di fondi pubblici non ospita più nemmeno un paziente.
Del futuro di questo ospedale, che ha un solo reparto – la terapia intensiva – non si sa nulla, anche perché sembra non rispondere ai requisiti stabiliti dal governo per la riserva di posti letto che ogni regione deve avere per una eventuale recrudescenza autunnale dell’epidemia.

venerdì 5 giugno 2020

Le periferie di New York e le nostre (che Saviano ignora

Sono giorni molto particolari, quelli che stiamo vivendo oggi: in Italia dopo la grande paura collettiva ed il lockdown si prova, tra mille cautele, a riprendere con la vita “normale”. Una normalità che sembra però diventata una chimera, in una realtà diventata ancora più cruda di quanto fosse prima.
Questo con sullo sfondo uno scenario internazionale in continuo mutamento, dove irrompono con forza le proteste negli Stati uniti a seguito dell’ennesimo assassinio per mano poliziesca di un afroamericano.
La morte di George Floyd, avvenuta durante un arresto nella città di Minneapolis, è solo l’ultima di una lunga e triste storia che comincia con le deportazioni degli africani verso il continente americano.
Sappiamo benissimo che la segregazione razziale non è finita con l’abolizione della schiavitù: i grandi proprietari erano sempre lì, pronti ad infilarsi cappucci bianchi o neri e ad appendere per il collo i loro ex schiavi alla luce di croci fiammeggianti.
Alla segregazione si accoppia il classismo di una società basata sulla competizione. Gli Stati uniti hanno costruito la propria fortuna a scapito degli “altri” meno dotati militarmente ed economicamente; se poi la pelle è anche di un altro colore meglio ancora, il destino manifesto dell’uomo bianco è di dominare indiani, neri e latinos.
Con la crisi sociale causata dall’epidemia, però, queste contraddizioni secolari degli States vengono a galla e si esplicitano in un movimento variegato e complesso, giustamente anche violento ed incazzato dopo secoli di oppressione.
E qui scatta il “riflesso d’ordine” che distingue progressisti (che perseguono o comunque accettano i cambiamenti) e conservatori (nascosti spesso dietro la maschera della “legalità”).
Nelle ultime ore, per esempio, su la Repubblica è comparso un articolo di Roberto Saviano che si scaglia contro i saccheggiatori di New York, dove lo scrittore vive da tempo.
Sono righe che sanno davvero tanto di vecchio e stantio. Nel suo racconto manifestamente scritto affacciato a una finestra dei piani alti, ci sono i manifestanti “buoni” e quelli “cattivi”, la grande maggioranza pacifica e i pochi saccheggiatori criminali che fanno gli interessi del “potere”. Una narrazione tossica, ben conosciuta a chi frequenta i movimenti:
Saviano si concentra sulla “5th avenue”, a Soho, la via dello shopping e delle grandi marche: per lui i looter (saccheggiatori) sono mossi solo da avidità e voglia di accedere a merci cool, come le Nike o i Rolex. Non ha mai parlato con uno di loro, ma attribuisce a quella gente l’identità che fa comodo a lui e quelli come lui.
Un passaggio che mi ha colpito: prima di andare a vivere negli Stati Uniti Saviano non concepiva cosa fosse la paura della polizia. E questo a causa del lungo elenco degli afroamericani uccisi. Benissimo, è legittimo, per uno straniero appena arrivato.
Ma viene da chiedersi dove abbia vissuto Saviano prima di trasferirsi oltreoceano: quanto messo nero su bianco dallo scrittore partenopeo è di una pericolosità che forse lui stesso non comprende.
Saviano non viveva forse nello stesso Paese di Stefano Cucchi o Federico Aldrovandi? O di Giuseppe Uva? O di Davide Bifolco? Di quest’ultimo Saviano dovrebbe conoscere peraltro bene sia la città che il contesto.
Forze armate e di polizia in Italia hanno una storia che parla soprattutto di colonialismo interno: non è un caso se ci sono tanti militari sardi, tanti carabinieri campani e tanti marinai pugliesi. La divisa in Italia significa soprattutto stipendio, e viene sempre utilizzata contro il disagio sociale.
Abbiamo imparato a nostre spese ad aver “paura” di polizia e carabinieri: capelli troppo lunghi, jeans troppo strappati, tatuaggi troppo in vista e nella testa di chi ti controlla sei automaticamente uno spacciatore (o un sovversivo, fa lo stesso).
Tra i sedici e i venti anni rischiare di essere perquisito è sempre stata la normalità, così come lo è per migliaia di giovani in tutta Italia. Perché, anche se si sostiene di essere “puliti”, «dalla faccia non sembra», per usare un’espressione ricorrente.
È questa la società che Saviano difende con le sue parole, la sciando sottintendere che “in Italia non succede”. Ma ai giovani di Tor Bella Monaca o dello Zen, che solo per essere nati in quei quartieri conoscono perfettamente la paura della polizia, che risposte dà quella società difesa da Saviano?
Se questi giovani scendessero in piazza e iniziassero a spaccare le vetrine di Nike e Rolex per impadronirsi della merce, probabilmente il “famoso scrittore” direbbe la stessa cosa che dice dei loro coetanei nordamericani: che lo fanno per accedere a merci cool, per vestirsi “fichi”.
Se lui vede un gesto avido e controproducente dalle vetrine distrutte sulla “5a strada”, chi conosce la vita della periferia non può che vederci un grido di libertà, stavolta reale, da parte di un popolo sfinito.
Ci hanno raccontato che tramite il “libero mercato” avremmo potuto avere tutto, ma purtroppo avevamo già le ginocchia del classismo a premere sul nostro collo.
È l’ora, almeno negli Usa, di invertire le priorità  e di andare a prendersi quel tutto. Con ogni mezzo necessario.

giovedì 4 giugno 2020

Tangentopoli, ed ora il Covid 19. Le maledizioni di uno sviluppo distorto

Tangentopoli nel 1992 ed oggi la diffusione del Covid 19 sono due eventi del tutto diversi, dirimenti nella storia del nostro paese, ma che hanno un punto in comune: si sono materialmente manifestati a Milano e nel Nord ovvero nell’area più sviluppata del paese.
Per capire se c’è un “filo rosso” che li unisce, bisogna andare più a fondo nell’analisi di un modello di sviluppo che ha caratterizzato il nostro Stato nazionale fin dalla sua costituzione. Infatti il dualismo Nord/Sud che caratterizza il paese è stato costruito dalla monarchia Sabauda ed è stato perseguito dalla grande borghesia italiana, lasciando al Sud il ruolo subalterno di serbatoio della forza lavoro e gerarchizzando le funzioni produttive delle diverse regioni italiane.
Su questo aspetto ovviamente non entriamo nel merito, in quanto la verità storica è stata detta ed analizzata, in generale e nel pensiero comunista, con il contributo decisivo di Gramsci e con il ruolo che il PCI ha avuto negli anni ‘50 nell’organizzazione delle masse contadine al Sud.
In apparente controtendenza è stato il periodo del secondo dopoguerra, dove sono stati fatti tentativi di sviluppo del meridione con l’intervento pubblico e l’industrializzazione, per altro devastando l’agricoltura che fino a quel momento aveva sostenuto le economie locali. Naturalmente gli interessi del capitale privato sono rimasti sempre al centro delle attenzioni dei governi democristiani come è accaduto, ad esempio, con la nazionalizzazione dell’energia elettrica e la nascita dell’Enel, la quale in realtà ha salvato i capitali dei padroni delle imprese in crisi di quel settore (nascerà così la Montedison) e successivamente “nazionalizzato”.
Quei governi però avevano dovuto mediare anche con il conflitto politico e sociale che si andava delineando dai primi anni ’60 – già dalla caduta dell’esecutivo Tambroni sostenuto dai fascisti del MSI – quando la lotta di classe che si era sviluppata nel paese andava contenuta tenendo conto anche dello scontro internazionale tra le due superpotenze dell’epoca: Usa e Urss. Dunque un paese di frontiera come l’Italia non poteva essere lasciato alle prese con contraddizioni sociali troppo esplosive, pena l’affermazione sempre più forte dei comunisti in tutta la società.
Il tentativo di industrializzare il Sud e di caratterizzare in modo diverso l’economia nazionale entra in crisi negli anni ’70 e in una nuova fase strettamente legata alle dinamiche internazionali. Infatti la crisi economica di quel decennio è una crisi da sovrapproduzione di merci, dove le fabbriche hanno una capacità produttiva che va ben oltre le possibilità di assorbimento del mercato, all’epoca limitato solo all’occidente capitalistico.
Di conseguenza i profitti, accumulati nella precedente fase di boom economico, non possono essere reinvestiti nell’economia reale ma nella speculazione finanziaria ed da lì che si sviluppano i processi di finanziarizzazione che partono dagli USA e si estendono nel corso degli anni ’80 al resto dell’occidente.
Si è entrati così nella “classica” fase in cui ci si aspetta che dal denaro nasca denaro e la speculazione diviene l’asse portante dell’economia internazionale e nazionale. Sono infatti gli anni del rampantismo craxiano, del governo del CAF (Craxi, Andreotti, Forlani), dei capital gain in Borsa, della Milano “da bere” come diceva la pubblicità di un famoso amaro. Sono gli anni della commistione economia/finanza/politica. la quale aveva ancora una funzione centrale nello Stato nazionale, per quanto questo fosse subalterno agli USA e dentro una dimensione continentale rappresentata dalla CEE – non ancora Unione Europea- e precedente alla nascita dell’Euro.
Il contesto in cui matura la vicenda di Tangentopoli e che spazzerà via una intera classe politica, è caratterizzato anche nella nuova fase “finanziaria” dalla centralità del Nord, addirittura della sola Milano con l’accentuato ruolo della Borsa, dal foraggiamento diretto e reciproco della grande industria e delle banche alla politica. Craxi stesso in un momento conflittuale con la famiglia Agnelli denunciò come la FIAT avesse ricevuto dallo Stato 50.000 miliardi di lire. Un attacco così esplicito veniva da un governo “decisionista” come quello craxiano, intenzionato ad utilizzare tutti gli strumenti per affermare le proprie scelte, anche in scontro frontale con l’accentuato riformismo del PCI di quel periodo.
Questo andamento si protrae fino agli inizi degli anni ’90, quando, dopo la caduta del muro di Berlino e la nascita dell’Europa di Maastricht ‘92, esplode l’inchiesta su Tangentopoli che apre un conflitto tra magistratura e politica. Uno scontro inedito per il paese, in quanto queste istituzioni avevano sempre marciato all’unisono fino a quel periodo, e mai il potere giudiziario aveva contrastato apertamente il mondo politico. Quando si palesavano problemi interveniva la Procura di Roma avocando a sé le inchieste più scomode e depotenziandole, guadagnandosi così la definizione di “porto delle nebbie”
E’ utile riportare un passaggio dell’articolo su Tangentopoli pubblicato nel numero zero di Contropiano del 2 Aprile 1993:
Ma il mantenimento di questo patto consociativo alimentava i costi del debito pubblico e costringeva il blocco di potere DC/PSI ad allargare i cordoni della borsa per finanziare la rendita parassitaria, garantire l’evasione fiscale ad un crescente ceto rampante nel terziario, alimentare la loro alleanza storica con i padroni attraverso i finanziamenti pubblici alle imprese e il gonfiamento dei prezzi degli appalti in Italia e all’estero negando però ogni integrazione tra industria e finanza (da sempre obiettivo degli industriali) per mantenere le mani dell’apparato politico il controllo delle banche e del credito.
La brusca gerarchizzazione imposta dalle dinamiche internazionali dell’economia e del comando ha fatto saltare questo patto consociativo sul piano economico e politico.
L’iniziativa dei magistrati milanesi è partita così parallelamente alla campagna per le riforme istituzionali e la privatizzazione dell’economia. Lo scenario sembrava abbastanza definito: il settore più integrato e internazionalizzato del capitalismo apriva in grande stile la resa dei conti con il settore clientelare, parassitario più integrato con il vecchio apparato politico”
Dunque Tangentopoli è il “picco” di una crisi del modello di sviluppo storico del nostro paese, nella accezione finanziaria affermatasi dopo gli anni ’70, nato dalla presa d’atto da parte del grande capitale che, con la fine dell’Urss, si stava aprendo una nuova ed ampia possibilità di crescita dei mercati mondiali, per cui era giunto il momento di liberarsi degli “orpelli” politici nazionali che avevano fino ad allora garantito comunque la tenuta del profitto e la difesa dal conflitto politico e sociale rimasto vivo in Italia fino agli anni ’80, nonostante le sconfitte subite per l’accentuarsi dei processi di ristrutturazione ad ampio raggio a partire dalla seconda metà degli anni settanta.
Sfuggiva però a “lor signori” un particolare, cioè che per tenere il livello di feroce competizione globale che si andava determinando, con la mondializzazione del capitalismo, avrebbero dovuto anche adeguare il loro “retroterra” strategico nazionale. Da tale punto di vista il modello duale su cui avevano costruito e lucrato fino ad allora non aveva più la dimensione necessaria per tenere nel tempo, sul piano internazionale ma nemmeno nell’ambito dell’Unione Europea che si andava configurando in quel periodo con il Trattato di Maastricht.
Anche lo Stato, perciò, si sarebbe dovuto riqualificare per affrontare la profonda trasformazione che si profilava negli anni ’90, assumendo una visione “lungimirante”, rafforzando la scuola e la ricerca, tenendo sul welfare, raggiungendo un minimo di equità fiscale per il lavoro dipendente e tentando di contenere la corruzione che dopo Tangentopoli la faceva da padrona anche con le “nuove” forze politiche.
Ma poiché la borghesia italiana è stata sempre parvenu e stracciona, non ha mai avuto un disegno lungimirante ma ha lavorato solo per i profitti immediati trasferendo interi impianti produttivi e le sedi legali in funzione del non pagamento delle tasse, come ha fatto, anche recentemente, la FCA ex FIAT, salvo poi tornare a “bussare cassa” come in queste settimane di emergenza/Covid.
La borghesia italiana ha speculato in modo indecente sulle privatizzazioni e la spesa pubblica, dove il modello degli imprenditori “democratici” alla Benetton ha fatto scuola, ha investito i profitti nella speculazione internazionale e non ha capito, che per lo sviluppo delle dinamiche generali, prima o poi si sarebbe arrivati alla resa dei conti.
Tale evidente miopia strategica si è riflettuta ed ha trovato sponda nel degrado del ceto politico della Seconda Repubblica, in cui sia il PDS/DS/PD che il centro destra, all’epoca ancora berlusconiano, hanno dimostrato la propria inconsistenza e subalternità ai centri finanziari nazionali ed europei.
Eppure proprio in Europa erano presenti modalità diverse per attrezzarsi alla nuova condizione. La Germania, ha sempre rafforzato il rapporto e l’interazione tra Stato e produzione. La Francia non ha mai abdicato al ruolo strategico dello Stato nazionale nei settori centrali dell’economia seppure dentro la cornice dell’UE.
Come pure un campanello di allarme era già suonato nella crisi del 2007/2008, avvisando che la finanziarizzazione avviata negli anni ’80 era giunta al capolinea. Un segnale forte suonato per i detentori di capitali, a cominciare dalle banche, che si ritrovavano a chiedere soldi allo Stato per evitare la bancarotta.
Parimenti questo campanello è suonato per il ceto politico nazionale, ormai totalmente inadeguato a leggere i processi reali che si andavano manifestando,ma si era palesato anche per i nostrani intellettuali organici al potere, molti dei quali ancora oggi continuano a blaterare nei talk show televisivi, siano essi di destra o di sinistra, senza crederci veramente e non convincendo più nessuno.
Il Covid 19 precipita esattamente in questa condizione dove il sistema industriale e finanziario riconvertito in funzione della competizione globale e di quella dentro la UE, si trova concentrato sostanzialmente al Nord, non avendo utilizzato risorse e potenzialità materiali ed umane presenti nella dimensione nazionale e avendo puntato ad aumentare la precarietà, lo sfruttamento, le devastazioni ambientali e le diseguaglianze solo per incentivare i profitti “qui ed ora”, a spese della forza lavoro e degli abitanti dei territori.
In questi decenni abbiamo assistito ad una sorta “vendetta di classe” dove le imprese hanno spinto sui rapporti di lavoro e sulla privatizzazione dello stato sociale per distruggere le conquiste ottenute nel ‘900 dai lavoratori, ed in particolare nella sanità divenuta una greppia degli interessi privati. Da Formigoni fino alla odierna gestione della Lega in Lombardia, non si era vista una tale “frenesia alimentare” dai tempi di Craxi.
Mantenendo il vecchio assetto produttivo e concentrando nel “ridotto” territoriale del Nord la gran parte della produzione, del valore aggiunto, dell’export, delle infrastrutture, degli investimenti, della logistica, dei servizi alla finanza e alle imprese, ed “immergendo” il tutto nell’inquinamento e degrado ambientale che ha investito tutta la cosiddetta “Padania”, si è creato quel brodo di coltura necessario alla devastante diffusione del coronavirus.
Insomma il modello duale tenuto in vita dai nostri capitalisti non si presenta più come possibilità di crescita, magari con l’emigrazione dalle aree arretrate, ma come un danno generale fatto all’insieme della società.
Questo secondo picco di crisi del nostro sviluppo distorto si manifesta in un momento in cui i margini di ripresa generali sono limitati e comunque tutti da conquistare in una brutale competizione a livello globale, che vede i nostri capitalisti in una condizione di netto svantaggio.
Tale assenza di strategia prodotta dal peso della piccola e media impresa, avendo costruito ben poche grandi imprese in grado di competere, ha prodotto un boomerang vero e proprio, in quanto se è vero che il capitalismo italiano ha partecipato alla crescita economica dopo il 1991, è anche vero che, con l’integrazione nei confini economici della UE, la distinzione tra Nord e Sud è diventata molto relativa, perché quello che era una volta il Nord in Italia oggi rischia di diventare il Sud di qualcun altro. Il diffuso shopping di imprese italiane da parte delle multinazionali straniere sta li a dimostrarlo.
E’ qui, dunque, che ritroviamo l’elemento comune tra Tangentopoli ed il Covid 19, ovvero uno sviluppo sociale basato storicamente sulle ineguaglianze dove quella tra Nord e Sud diventa la principale e la più stridente.
La possibilità di funzionalizzare tutto il paese alle esigenze di una industria centralizzata al Nord, ci dicevano essere un punto di forza per “l’azienda Italia” con un polo pluriregionale (che qualcuno ha definito “la Baviera del Sud”) ed ora invece diviene un elemento di debolezza strategica dell’intero paese.
Di questo sembra rendersene ben conto la Confindustria che ha nominato un falco come Bonomi suo presidente, perché evidentemente i padroni ritengono necessaria una politica più aggressiva nelle relazioni interne alla UE ma soprattutto nei confronti dei lavoratori e di ciò che residua del vecchio compromesso Capitale/Lavoro. Si capisce e si teme, infatti, che si possa riaprire una pericolosa fase conflittuale che potrebbe impedire il recupero economico necessario alle imprese per non soccombere nel confronto con i capitali europei.
La crisi sanitaria non è nient’altro che il prodotto di una competizione che negli ultimi decenni ha falcidiato milioni di posti di lavoro, distrutto welfare e diritti sociali, ha automatizzato la produzione nei centri imperialisti e nelle periferie produttive e soprattutto ha velocizzato la circolazione delle merci e delle informazioni incrementando infrastrutture e mezzi di comunicazione.
Il turbo capitalismo sta saturando i margini di crescita del mercato mondiale e riducendo la forza lavoro, manuale e mentale, nella produzione di valore, riverbera i propri limiti nell’incremento delle tensioni internazionali sul piano economico, finanziario e monetario, politico ed infine anche militare.
In questa dimensione appare chiaro che la nostra borghesia stracciona, ormai “incardinata” nell’Europa Carolingia, ha pochi margini di autodeterminazione e questo molto brutalmente significa che i lavoratori e le classi sociali subalterne pagheranno i costi di uno sviluppo miope e piegato a fini privati.
Questa volta tutto ciò non riguarderà solo il Meridione o le aree arretrate del paese ma anche il Nord, come ha documentato una interessantissima inchiesta fatta da Potere al Popolo proprio nelle regioni settentrionali, e da dove emerge già un livello di diseguaglianza prima non rilevato ma che dentro la crisi sanitaria e sociale aumenterà inevitabilmente.
Nulla sarà come prima” non è uno slogan ma è la realtà che si sta snocciolando sotto i nostri occhi nell’ambito dell’economia e della struttura ed anche in quello della politica e delle istituzioni.
Nello scenario nazionale già si vede come le forze emerse dalla crisi del 2011, il M5S e la Lega salviniana, stanno perdendo colpi o perché al governo col PD a difesa della UE oppure perché incapaci, come Salvini, di rappresentare una prospettiva politica credibile.
Lo snodo che abbiamo di fronte pone seri problemi strategici. Uno di questi è certamente quello della Rappresentanza Politica che si ripropone ora con la evidente crisi di quella che si è affermata nelle elezioni del 2018. I comunisti ed il movimento di classe si devono far carico di questa necessità cercando di capire ed operare su come ricostruire una rappresentanza organizzata dei settori sociali subalterni oggi penalizzati da un capitalismo sempre più regressivo. Sappiamo anche che questo è facile a dirsi ma complicato a farsi, ma quando si aprono delle opportunità per animare una controtendenza occorre fare tutto il possibile – e il necessario – per coglierle