giovedì 30 aprile 2020

Come la Cina ha spezzato la catena del contagio

Pubblichiamo la traduzione della meticolosa descrizione scritta a “sei mani” su come la Cina sia riuscita a sconfiggere vittoriosamente la “prima ondata” dal contagio del coronavirus. Questo articolo è apparso sul prestigioso Indipendent Media Institute il 15 aprile ed è stato ripreso dalla testata digitale della storica rivista della sinistra radicale nord-americana Monthly Review On Line il 19 aprile.
Avevamo precedentemente pubblicato un racconto-intervista di ciò che è stata l’esperienza della quarantena nella città di Wuhan, nella provincia di Hubei, ed un altro resoconto del corrispondente del “The Washington Post” a Pechino.
Dalla lente di questi due differenti osservatori emergevano chiaramente alcune caratteristiche della risposta vincenti della Repubblica Popolare che qui sono riportate minuziosamente in una scansione cronologica che va dai primi di gennaio alla fine dei 76 giorni di lockdown.
Altri acuti osservatori, in questo caso osservatrici, avevano individuato la chiave di volta della risposta cinese all’emergenza sanitaria al proprio interno e poi alla pandemia globale nella “pianificazione socialista” di questo Paese.
Infatti, nonostante i primi errori nell’affrontare l’epidemia alla fine dello scorso anno, che sono stati pubblicamente ammessi dalla dirigenza, la Cina è riuscita ad affrontare da subito, al meglio, con l’inizio del nuovo anno la sfida del Covid-19.
Come ci ricorda il collettivo anti-imperialista cinese Qiao: “È quindi interessante notare come nessuno dei media occidentali abbia menzionato che il sindaco e il segretario di partito di Wuhan abbiano ammesso apertamente il loro errore sia in conferenze stampa, sia in interviste per popolari programmi televisivi, né di come il Partito abbia imposto chiaramente e in termini inequivocabili la totale trasparenza e condivisione delle informazioni riguardanti il virus.
Questa trasparenza si è chiaramente manifestata con la diffusione della “mappatura genetica” del virus avvenuta nella prima metà di gennaio – che ha permesso di lavorare globalmente da subito sulla creazione del vaccino – e della stretta e fruttuosa collaborazione tra Cina e Organizzazione Mondiale della Sanità in particolare ed in generale con tutti i Paesi che ne hanno fatto richiesta, al di là delle menzogne di Trump e di chi vi si è allineato.
In questo articolo emerge come l’esigenza principale della dirigenza cinese fosse – dopo avere preparato una risposta medica adeguata dai primi giorni di gennaio – “mettere la salute delle persone prima degli interessi economici”, e non gli interessi del “partito del PIL” come è avvenuto nei paesi occidentali tra cui il nostro.
In un sistema sanitario pubblico-privato, come quello cinese, in cui le conseguenze dell’epidemia della Sars nel 2003 hanno fatto fare alla dirigenza una notevole “marcia indietro” rispetto al processo di privatizzazione intrapreso precedentemente – considerate le inadeguatezze riscontrate – il PCC ha assicurato che “Le cure mediche per i pazienti con COVID 19 sarebbero state garantite per tutti e gratuite”.
Allo stesso tempo si è fatto tesoro delle esperienze pregresse sul campo maturate anche grazie al contributo che la Cina ha fornito contro l’Ebola in Africa che è stato primo salto di qualità nell’articolazione della “via della seta della salute”  .
La ricercatrice Chen Wei, è il simbolo di questo impegno su “due fronti” ed ora è in prima fila per la sperimentazione di un vaccino.
Il ruolo del PCC e delle organizzazioni di base ed in particolare dei militanti comunisti – che hanno pagato un caro prezzo in termini di perdite di vite umane – è stato fondamentale. Alla pianificazione “centralizzata” dell’intervento dello Stato si sono unite le capacità dei corpi sociali intermedi – tra cui i “comitati di quartiere”, juweihui in cinese – tali per cui “Il decentramento ha prodotto risposte creative”.
Solo gli improvvisati pennivendoli nostrani, potevano ignorare come la “mobilitazione popolare” sia uno dei tratti distintivi della società cinese contemporanea, dandoci una immagine che reitera gli stereotipi eurocentrici del “dispotismo asiatico” e amenità del genere.
Misure di contenimento “localizzate”, forniture adeguate per il personale sanitario e di medicine per i pazienti, l’assicurazione di cibo e carburante per gli abitanti nella zona del lockdown ed informazioni corrette e scientificamente comprovate sono stati i cardini d’intervento, i 4 punti riportati nell’articolo.
La “localizzazione” della zona del contagio messa in quarantena ha permesso la mobilitazione “nazionale” di personale sanitario e squadre epidemiologiche, incaricate della cura e del monitoraggio della malattia, tenendo conto che già dalla prima metà di gennaio era pronti i kit per i test.
La velocità di produzione delle attrezzature mediche, specialmente dei dispositivi di protezione per gli operatori sanitari, è stata mozzafiato”, riportano gli autori, citando la crescita esponenziale della loro disponibilità dopo un primo momento in cui scarseggiavano.
Il ruolo delle imprese statali e delle cooperative è stato fondamentale, così come il monitoraggio del governo rispetto alla speculazione sui prezzi, ma anche il settore privato dell’economia ha dato la sua mano.
Al “sostegno finanziario alle piccole e medie imprese; in cambio, le aziende hanno cambiato le loro abitudini per garantire un ambiente di lavoro sicuro”.
Insomma tutto il contrario di ciò che avvenuto qui dove i prenditori chiagne e fotti, hanno generalmente pianto miseria, fatto pressioni per un ritorno alla “normalità” produttiva senza essere in grado di predisporre provvedimenti adeguati in termini di salute.
Un disastro annunciato, altro che ripresa!
Se confrontiamo la qualità della risposta della Cina a quella presa dalla maggior parte dei Paesi Occidentali il paragone appare impietoso, soprattutto se prendiamo in considerazione la disastrosa gestione in Lombardia che come abbiamo più volte ribadito deve essere da subito commissariata .
Quello che abbiamo di fronte è un vero e proprio “scontro di civiltà”, ma non nel senso descritto da chi ha coniato questo concetto, sarà per questo che la produzione seriale di “false informazioni” ed il bashing mediatico contro la Cina occupa gran parte dello sforzo dis-informativo dei media mainstream.
Buona Lettura
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La Cina è stata in grado di utilizzare le sue notevoli risorse – la sua cultura e le sue istituzioni socialiste – per spezzare rapidamente la catena
Il 31 marzo 2020, un gruppo di scienziati provenienti da tutto il mondo, dall’Università di Oxford alla Normal University di Pechino, ha pubblicato un importante studio su “Science”. Questo documento – “Indagine sulle misure di controllo della trasmissione durante i primi 50 giorni dell’epidemia COVID-19 in Cina” – sostiene che se il governo cinese non avesse imposto il blocco totale di Wuhan e non avesse dichiarato l’emergenza nazionale, ci sarebbero stati 744.000 casi confermati di COVID-19 in più, al di fuori di Wuhan. “Le misure di controllo adottate in Cina“, sostengono gli autori, “sono una lezione per gli altri paesi del mondo“.
Nel report di febbraio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dopo una visita in Cina, i membri della delegazione hanno scritto: “Di fronte a un virus finora sconosciuto, la Cina si è lanciata nello sforzo di contenimento della malattia forse più ambizioso, agile e aggressivo della storia“.
In questo articolo vogliamo descrivere nel dettaglio le misure adottate ai diversi livelli del governo cinese e dalle organizzazioni sociali, per arginare la diffusione del virus e della malattia in un momento in cui gli scienziati avevano appena iniziato a raccogliere dati, e di come hanno lavorato senza un vaccino e neppure un trattamento farmacologico adatto contro il COVID 19.

L’emergenza di un piano

Nei primi giorni di gennaio 2020, la Commissione per la salute pubblica (NHC) e il Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC) hanno iniziato a stabilire dei protocolli per gestire la diagnosi, il trattamento e i test di laboratorio per quella che allora era considerata una “polmonite virale di origine sconosciuta”.
Il NHC e i dipartimenti sanitari della provincia dell’ Hubei hanno prodotto un manuale per il trattamento che è stato inviato a tutti i presidi sanitari della città di Wuhan il 4 gennaio; lo stesso giorno in tutta la città è stato condotto l’addestramento relativo al trattamento. Per il 7 gennaio il CDC aveva isolato il primo nuovo ceppo di coronavirus, e tre giorni dopo, il Wuhan Institute of Virology (Accademia cinese delle scienze) e altri iniziarono a sviluppare i kit per i test.
Entro la seconda settimana di gennaio si sapeva di più sulla natura del virus, e così iniziò a prendere forma un piano per contenerlo. Il 13 gennaio, il NHC incaricò le autorità della città di Wuhan di iniziare la misurazione della febbre nei porti e nelle stazioni e di ridurre gli assembramenti.
Il giorno successivo, il NHC ha organizzato una teleconferenza nazionale in cui ha avvisato tutta la Cina del virulento ceppo di coronavirus e ha esortato tutti a prepararsi per un’emergenza sanitaria.
Il 17 gennaio, l’NHC ha inviato sette squadre di ispezione nelle province cinesi per addestrare i funzionari della sanità pubblica sul virus e il 19 gennaio l’NHC ha distribuito reagenti agli acidi nucleici per i kit dei test a numerosi dipartimenti sanitari cinesi. Zhong Nanshan, ex presidente della Associazione medica cinese, ha guidato un gruppo di alto livello nella città di Wuhan per effettuare delle ispezioni fra il 18 e il 19 gennaio.
Nei giorni successivi, il NHC ha iniziato a capire come il virus veniva trasmesso e come poteva essere fermato. Tra il 15 gennaio e il 3 marzo, il NHC ha pubblicato sette edizioni delle sue linee guida. Analizzando queste versioni è palese un preciso sviluppo delle conoscenze prodotte sul virus e dei suoi piani di contenimento; i quali includevano nuovi metodi di trattamento, incluso l’uso della ribavirina e una combinazione di medicina cinese e medicina allopatica.
L’Amministrazione nazionale per la medicina tradizionale cinese riferirà alla fine che il 90 percento dei pazienti ha ricevuto una cura tratta dalla medicina tradizionale, che si è rivelata efficace nel 90 percento dei casi.
Il 22 gennaio, era diventato chiaro che il trasporto in entrata e in uscita da Wuhan doveva essere limitato. Quel giorno, l’Ufficio Informazioni del Consiglio di Stato ha invitato le persone a non andare a Wuhan, e il giorno successivo la città è stata sostanzialmente chiusa. La triste realtà del virus era ormai diventata chiara a tutti.

Gli atti del governo

Il 25 gennaio, il Partito Comunista Cinese (PCC) ha formato una task force del Comitato Centrale per la prevenzione e il controllo del COVID 19 nominando due responsabili: Li Keqiang e Wang Huning. Il presidente cinese Xi Jinping ha incaricato il gruppo di utilizzare le informazioni scientifiche più avanzate per formulare le politiche per contenere il virus e di utilizzare ogni risorsa con l’obbiettivo di mettere la salute delle persone prima degli interessi economici.
Entro il 27 gennaio, il vicepresidente del Consiglio di Stato Sun Chunlan aveva costituito una task force nella città di Wuhan per dare forma alla nuova risposta per il controllo del virus. Nel passare dei giorni, il governo e il Partito comunista hanno sviluppato un piano per combattere il virus, che può essere sintetizzato in quattro punti:
1. Prevenire la diffusione del virus mantenendo non solo un blocco nella provincia, ma riducendo al minimo il traffico anche all’interno della stessa. Ciò è stato reso complicato dai festeggiamenti del Capodanno cinese che era già iniziato; le famiglie si sarebbero incontrate e fatte visita e avrebbero frequentato i mercati (questo è il più grande spostamento umano a breve termine, quando quasi tutti gli 1,4 miliardi di cinesi si ritrovano nelle case gli uni con gli altri). Tutto questo doveva essere evitato. Le autorità locali avevano già iniziato a utilizzare le scoperte epidemiologiche più avanzate per tracciare e studiare la fonte delle infezioni e tracciare le vie di trasmissione. Tutto questo è stato essenziale per arrestare la diffusione del virus.
2. Distribuire risorse per gli operatori sanitari, inclusi i dispositivi di protezione per i lavoratori, i letti ospedalieri per pazienti e le attrezzature, nonché medicinali per il trattamento dei pazienti. Ciò includeva la costruzione di centri temporanei per il trattamento, compresi due ospedali completi (Huoshenshan Hospital e Leishenshan Hospital). L’aumento degli screening ha richiesto più kit per i test, che dovevano essere sviluppati e prodotti.
3. Garantire che durante il blocco della provincia, cibo e carburante fossero disponibili per i residenti.
4. Garantire la diffusione al pubblico di informazioni basate su fatti scientifici e non su voci non confermate. A tal fine, il gruppo ha indagato su tutte le azioni irresponsabili intraprese dalle autorità locali analizzando i report dei primi casi fino alla fine di gennaio.
Questi quattro punti hanno definito l’approccio adottato dal governo cinese e dalle autorità locali tra febbraio e marzo. È stato istituito un meccanismo congiunto di prevenzione e controllo sotto la guida del NHC, con ampia autorità per coordinare gli sforzi per spezzare la catena dell’infezione. La città di Wuhan e la provincia di Hubei sono rimaste sotto blocco virtuale per 76 giorni fino all’inizio di aprile.
Il 23 febbraio, il presidente Xi Jinping ha parlato con 170.000 quadri del Partito comunista, della regione e funzionari militari di ogni parte della Cina; “Questa è una crisi e anche un test importante“, ha detto Xi. Tutto l’impegno della Cina è nella lotta contro l’epidemia mettendo le persone al primo posto, e allo stesso tempo la Cina assicura che la sua agenda economica a lungo termine non venga danneggiata.

Comitati di quartiere

Un ruolo chiave, ma sottostimato, nella risposta al virus è stato rappresentato dall’azione pubblica che definisce la società cinese. Negli anni ’50, le organizzazioni civili urbane – o juweihui – si svilupparono come modo per i residenti nei quartieri di organizzare la loro reciproca sicurezza e il mutuo aiuto. A
Wuhan, mentre andava instaurandosi il blocco totale, i membri dei comitati di quartiere andavano porta a porta per provare la febbre, fornire cibo (in particolare agli anziani) e distribuire dispositivi medici.
In altre parti della Cina, i comitati di quartiere hanno istituito dei blocchi per misurare la temperatura all’ingresso dei quartieri per monitorare le persone che entravano e uscivano; questa è la tutela della salute pubblica di base in modo decentralizzato. A partire dal 9 marzo, 53 persone che avevano lavorato in questi comitati hanno perso la vita, 49 di loro erano membri del Partito Comunista.
90 milioni di membri del Partito Comunista e i 4,6 milioni di organizzazioni di base del partito hanno contribuito a dare forma all’azione pubblica in tutto il paese, in prima linea nelle 650.000 comunità urbane e rurali della Cina.
Gli operatori sanitari che erano membri del partito si sono recati a Wuhan per far parte della risposta medica in prima linea. Altri membri del partito hanno lavorato nei loro comitati di quartiere o hanno sviluppato nuove piattaforme per rispondere al virus.
Il decentramento ha prodotto risposte creative. Nel villaggio di Tianxinqiao, nella città di Tiaoma, nel distretto di Yuhua, a Changsha, nella provincia di Hunan, Yang Zhiqiang, uno strillone del villaggio, ha usato 26 altoparlanti per esortare gli abitanti del villaggio a non spostarsi per il Capodanno e a non cenare insieme. A Nanning, nella regione autonoma del Guangxi Zhuang, la polizia ha usato i droni per trasmettere il suono delle trombe come promemoria per non violare l’ordine del lockdown.
A Chengdu, nella provincia del Sichuan, 440.000 cittadini hanno formato squadre per una serie di azioni pubbliche atte ad arginare la trasmissione del virus: hanno pubblicizzato le norme sanitarie, hanno controllato le temperature, hanno consegnato cibo e medicine e hanno trovato il modo di intrattenere il pubblico, che altrimenti sarebbe rimasto traumatizzato. I quadri del Partito Comunista hanno aperto la strada, riunendo aziende, gruppi sociali e volontari in una struttura di autogestione locale.
A Pechino, i residenti hanno sviluppato un’app che invia avvisi agli utenti registrati sul virus e crea un database che può essere utilizzato per tenere traccia del movimento del virus in città.

Intervento medico

Li Lanjuan fu una delle prime dottoresse ad entrare a Wuhan; ricorda che quando è arrivata lì, i test “erano difficili da ottenere” e la situazione delle forniture era “piuttosto negativa“. “Nel giro di pochi giorni, in città sono arrivati oltre 40.000 operatori sanitari ​​ e i pazienti con sintomi lievi sono stati curati in centri di trattamento temporaneo, mentre negli ospedali sono stati portati i malati più gravi.
Dispositivi di protezione individuale, test, ventilatori e altre forniture sono stati subito inviati nella città e negli ospedali. “Il tasso di mortalità è stato notevolmente ridotto“, ha detto la dottoressa Li Lanjuan. “In soli due mesi, l’epidemia a Wuhan era sostanzialmente sotto controllo.”
Da ogni parte della Cina arrivarono 1.800 squadre epidemiologiche – con cinque persone in ciascuna squadra – per fare sondaggi alla popolazione. Wang Bo, capo di una delle squadre della provincia di Jilin, ha affermato che la sua squadra ha condotto delle indagini epidemiologiche porta a porta che sono state “faticose e pericolose”.
Yao Laishun, membro di una delle squadre di Jilin, ha affermato che nel giro di poche settimane la sua squadra ha effettuato dei sondaggi sull’infezione su 374 persone e rintracciato e monitorato 1.383 contatti stretti delle persone intervistate; questo è stato un lavoro essenziale per localizzare chi si era infettato e aveva bisogno di essere curato e chi, invece, doveva essere isolato perché non aveva ancora presentato sintomi o era risultato negativo.
Fino al 9 febbraio, le autorità sanitarie hanno controllato 4,2 milioni di famiglie (10,59 milioni di persone) a Wuhan; ciò significa che hanno ispezionato il 99 percento della popolazione, un lavoro enorme.
La velocità di produzione delle attrezzature mediche, specialmente dei dispositivi di protezione per gli operatori sanitari, è stata mozzafiato. Il 28 gennaio, la Cina produceva meno di 10.000 set di dispositivi di protezione individuale (DPI) al giorno ma, entro il 24 febbraio, la sua capacità produttiva superava i 200.000 al giorno.
Il 1 ° febbraio, il governo ha prodotto 773.000 kit per il test al giorno; entro il 25 febbraio produceva 1,7 milioni di kit al giorno; a partire dal 31 marzo si producevano al giorno 4,26 milioni di kit per i test. Sotto la direzione delle autorità gli impianti industriali sono stati convertiti per produrre dispositivi di protezione, ambulanze, ventilatori, monitor per gli elettrocardiografi, respiratori, macchine per analizzare i gas del sangue, macchinari per la disinfezione dell’aria e macchine per l’emodialisi. Il governo si è concentrato sull’evitare che ci fossero mancanze di dispositivi medici.
Chen Wei, uno dei principali virologi cinesi che lavorò sull’epidemia di SARS del 2003 ed andò in Sierra Leone nel 2015 per sviluppare il primo vaccino contro l’Ebola al mondo, si è precipitato a Wuhan con la sua squadra. Insieme hanno istituito un laboratorio mobile per fare i test già dal 30 gennaio; il 16 marzo, la sua squadra ha prodotto il primo nuovo vaccino contro il coronavirus ed è stato sottoposto a studi clinici, Chen stesso è stato uno dei primi a essere vaccinato come parte dello studio.

Miglioramento

Chiudere una provincia con 60 milioni di abitanti per più di due mesi e chiudere praticamente un paese di 1,4 miliardi di abitanti non è facile. Comunque, l’impatto sociale ed economico sarebbe sempre stato enorme.
Ma il governo cinese – fin dalle sue prime decisioni- ha ribadito che il contraccolpo economico subito dal Paese non avrebbe limitato la risposta contro il virus; il benessere del popolo sarebbe stato prevalente nella formulazione di qualsiasi strategia politica.
Il 22 gennaio, prima della costituzione della task force, il governo aveva emesso una circolare in cui si statuiva che le cure mediche per i pazienti con COVID 19 sarebbero state garantite per tutti e gratuite.
È stata quindi decisa una politica per il rimborso dell’assicurazione medica: le spese per i medicinali e i servizi medici necessari per il trattamento del COVID 19 sarebbero completamente coperte da un fondo assicurativo, nessun paziente avrebbe dovuto pagare nulla.
Durante il blocco, il governo ha creato un meccanismo per garantire costanti rifornimenti di cibo e carburante a prezzi normali. Le imprese statali come la China Oil and la Foodstuffs Corporation, la China Grain Reserves Group e la China National Salt Industry Group hanno aumentato le loro forniture di riso, farina, olio, carne e sale. La Federazione Cinese delle Cooperative di Approvvigionamento e di Marketing ha aiutato le imprese ad avere un canale diretto con le cooperative di agricoltori; altre organizzazioni, come la Camera di Commercio dell’Industria Agricola Cinese, si sono impegnate a mantenere i rifornimenti e la stabilità dei prezzi.
Il Ministero della Sicurezza Pubblica si è riunito il 3 febbraio per reprimere tentativi di speculazione sui prezzi e l’incetta di rifornimenti; fino all’8 aprile, in Cina gli organi giudiziari hanno indagato su 3.158 casi di reati connessi all’epidemia.
Lo Stato ha offerto sostegno finanziario alle piccole e medie imprese; in cambio, le aziende hanno cambiato le loro abitudini per garantire un ambiente di lavoro sicuro (la Guangzhou Lingnan Cable Company, ad esempio, ha provveduto a creare pause pranzo scaglionate, controllava la temperatura dei lavoratori, si è impegnata a disinfettare periodicamente l’area di lavoro, si è assicurata che i ventilatori funzionassero e ha fornito al personale dispositivi di protezione individuale quali: maschere, occhiali, crema per le mani e disinfettanti a base di alcol).

Lockdown

Uno studio su “The Lancet” di quattro epidemiologi di Hong Kong mostra che il blocco di Wuhan a fine gennaio ha impedito la diffusione dell’infezione fuori dalla provincia di Hubei; “le principali città, Pechino, Shanghai, Shenzhen e Wenzhou” scrivono, ”hanno visto un crollo del numero di infezioni entro due settimane dal blocco parziale”.
Tuttavia, secondo gli studiosi, a causa della virulenza di COVID 19 e dell’assenza di immunità da gregge, il virus potrebbe avere una seconda ondata. Questo preoccupa il governo cinese, che rimane vigile contro il coronavirus.
Nondimeno, luci di festa sono brillate in tutta Wuhan quando il blocco è stato tolto. Il personale medico e i volontari hanno tirato un sospiro di sollievo. La Cina è stata in grado di utilizzare le sue notevoli risorse – la sua cultura e le sue istituzioni socialiste – per spezzare rapidamente la catena.

mercoledì 29 aprile 2020

La salute come merce di scambio

La riapertura delle fabbriche concessa a causa delle pressioni di Confindustria.
Sono contraddittorie e avventate le misure che il governo ha preso per il 4 maggio. Si tratta di un regalo ai padroni e si sarebbe dovuto fare qualcosa di diverso. Solo mettendo in discussione la gabbia dell’Unione Europea, sarebbe stato possibile trovare risorse adeguate ridistribuendo la ricchezza sociale a tutti.
È questa la posizione di Luciano Vasapollo – docente di economia alla Sapienza che dirige, insieme a Rita Martufi, il CESTES – intervistato dal FarodiRoma a proposito della tanto decantata fase 2 annunciata ieri dal governo.
Lo studioso, militante rivoluzionario e caposcuola marxista, ha spiegato come “tutta la gestione da parte del governo dell’emergenza dovuta al coronavirus abbia dimostrato la sua sudditanza alla logica del profitto e degli imprenditori, tutelando gli interessi di Confindustria e Confcommercio”. “Si tratta, dunque, della cronaca di una morte annunciata del mondo dei lavoratori”.
È lampante come il problema non fosse rappresentato dai pochi cittadini, che magari uscivano a correre, ma dalla resistenza padronale alla chiusura delle fabbriche e delle attività produttive. Infatti, ha spiegato Vasapollo, si deve denunciare il fatto che non stato è un caso se la malattia si sia diffusa maggiormente nelle regioni industrializzate del paese: “la regione Lombardia, infatti, ha scelto la logica di andare a lavorare a tutti costi nel momento in cui il virus si era ampiamente diffuso e già erano stati presi i primi provvedimenti di distanziamento fisico in Italia”.
Infatti, ha ricordato lo studioso, “la mattina presto c’era la fila nelle metropolitane e le fabbriche erano piene, nonostante le raccomandazioni del comitato tecnico scientifico. Purtroppo, ha aggiunto Vasapollo, “questa gestione orientata al profitto ha causato più malati e più morti: è questo il risultato atroce della logica del profitto e del capitale”.
Questo fatto è stato denunciato da mesi dall’importante economista e ora anche autorevoli report lo stanno confermando. “Le vittime sono concentrate nelle zone industriali, in cui sono presenti le piccole, medie e grandi imprese e in particolare nei distretti di Crema, Brescia, Bergamo, alcune zone della Romagna e delle Marche”.
Sono tutte zone in cui la concentrazione operaia e delle fabbriche è più ampia, come nelle nuove aree in cui si espande la nuova catena del valore”, ha aggiunto Vasapollo facendo riferimento alla realtà di Piacenza, un’altra zona dove il coronavirus si è particolarmente diffuso.
Non è un caso e non può essere una casualità”, ha ribadito Vasapollo, che il virus abbia duramente colpito le aree del paese in cui la concentrazione dei lavoratori era maggiore e dove, nonostante le raccomandazione degli scienziati e dei virologi, non è stato immediatamente abolito l’obbligo di andare a lavorare.
Quello che si sarebbe dovuto fare, ha spiegato l’economista, era quello che gli studiosi non conformi, la Rete dei Comunisti, i membri del Capitolo italiano degli Intellettuali e Artisti dell’Umanità, che Vasapollo ha contribuito a costituire, avevano da subito individuato: “privilegiare la sanità al calcolo economico, ossia subordinare le ragioni dell’economia alla scelta politica”.
Questi sono gli insegnamenti che ci vengono costantemente dal Venezuela e da Cuba, che ha inviato i propri medici in Italia per darci una mano, in uno spirito di solidarietà e cooperazione internazionale”.
Le richieste dell’USB e dei sindacati conflittuali e di controtendenza erano “salario pieno, lavoro zero”. Tuttavia, il governo ha imboccato un’altra strada perché, per fare questo, era necessario rompere con la gabbia dei parametri europei, così come Vasapollo chiede da sempre.
Sarebbe stato necessario predisporre un salario universale finanziato dallo stato, di cui gli operai, i contadini, gli impiegati, i piccoli imprenditori, piccoli artigiani, ecc., avrebbero dovuto disporre per far fronte a questa terribile emergenza”.
Vasapollo ha anche avvertito dei pericoli che la crisi del coronavirus porta con sé, dietro l’angolo: “le categorie più fragili verranno risucchiate e la crisi economica porterà ad un ulteriore inasprimento della lotta interna alle fazioni del capitale: i grandi monopolisti acquisiranno e rimpiazzeranno le piccole imprese e attività: Il capitale grande si mangerà il capitale piccolo; si amplierà la schiera dei disoccupati, dei lavori atipici, del lavoro in nero, del lavoro schiavistico”. Infatti, un’ulteriore centralizzazione del capitale rappresenta un grave pericolo per la democrazia.
Vasapollo ha voluto parlare anche del tema dell’Europa, su cui la politica italiana si è contorta con un dibattito surreale sul MES. Conte, ha spiegato l’economista, “ha presentato come se fosse una vittoria quella che è stata invece una capitolazione su tutta la linea”.
Si tratta”, ha aggiunto Vasapollo citando un bellissimo romanzo di Gabriel García Márquez, “della cronaca di una morte annunciata”. “Il governo, infatti, sapeva e era consapevole che avrebbe dovuto cedere ai voleri della borghesia transnazionale europea, agli interessi delle grandi banche tedesche e agli interessi dei paesi del nord Europa”.
Tuttavia, ha spiegato Vasapollo, “si sarebbe potuto fare una cosa semplicissima; la monetizzazione del debito. Ossia, così come anche raccontato in chiave cinematografica dalla ‘Casa di Carta’, la Banca Centrale avrebbe dovuto dare dei soldi all’Italia e a tutti i paesi del mediterraneo senza che si aumentasse il debito. Questo sarebbe stato di fondamentale importanza poiché più debito significa strozzamento dell’economia italiana: per molti anni, infatti, il massacro sociale, di cui abbiamo già visto gli effetti, decretato dall’UE sarà ancora più aspro. Tutto questo avrà ricadute in termini di tagli alla sanità, all’istruzione, contrazione dei diritti sociali. Si sarebbe dovuto battere moneta per andare incontro alle esigenze di chi è stato costretto a chiudere, al piccolo commercio, alle piccole imprese, all’artigianato. Dopo aver garantito un reddito a tutti, si sarebbe potuta far ripartire l’economia”.
Nei prossimi anni dovremo lavorare per ripagare gli interessi sul debito a vantaggio delle banche tedesche e del nord Europa. Tuttavia, il governo ha preferito applicare il “welfare dei miserabili” distribuendo, solo ad alcuni e con notevoli ritardi, seicento euro.
Andando nel dettaglio dei provvedimenti della fase 2, Vasapollo ha spiegato come si trattino di decisioni piuttosto pericolose e ancora una volta orientate al profitto. “Ripartono le industrie, riparte il commercio e già sappiamo, Conte ci ha avvisato di questo, che potranno ripartire i contagi e, quindi, purtroppo anche i morti. Sull’altare del profitto si sacrificano i lavoratori”.
Anche i provvedimenti più minuziosi sono inseriti entro la logica del profitto; “ad esempio si deve fare attenzione a correre nei parchi, ma riprende lo sport professionistico, come il calcio, dove girano un sacco di soldi”.
Noi, per andare a trovare un figlio o un nipote, avremo bisogno di mille autocertificazioni, ma per il profitto e per il massacro del mondo del lavoro, tutto è permesso”, ha ribadito Vasapollo.
Un esempio di questa schizofrenia, individua Vasapollo, è nella politiche riguardo le chiese. “Andare a sentire la messa, soprattutto nelle comunità più isolate, è un qualcosa di comunitario e solidale, oltre che spirituale”. Si sarebbero potuto trovare delle soluzioni, come si farà per i bar e per i ristoranti.
Tuttavia, un altro elemento inquietante, ha voluto concludere Vasapollo, si può individuare nella contrazione di diritti fondamentali, cui l’emergenza coronavirus così gestita sta conducendo. “Il 25 aprile sono stati denunciati dei militanti dell’USB che attaccavano, nel rispetto delle misure di contenimento del virus, dei manifesti, a Napoli e a Milano, in cui si commemorava la Resistenza”, su cui, fino a prova contraria, si basa la democrazia del nostro paese.
Ma sono dei piccoli esempi, ha aggiunto Vasapollo, perché si utilizzerà l’emergenza coronavirus per restringere ancora di più il diritto di sciopero e la mobilitazione dei lavoratori. “Andiamo contro quella che sarà la dittatura del coronavirus, dove al virus si aggiungerà il disciplinamento sociale per aumentare la produzione e i profitti della grande finanza, non certo per ridistribuire la ricchezza sociale al popolo”.
Tuttavia, ha aggiunto Vasapollo, le critiche al governo non possono farci dimenticare l’opposizione. “Meloni e Salvini, cui sono noti gli orientamenti sciovinisti e reazionari, avrebbero proposto probabilmente forme ancor più gravi di restrizione dei diritti e forme ancora più coercitive, sebbene cavalchino in chiave reazionaria la critica all’Unione Europea”.
Si deve uscire dall’UE, ma sul modello progressista dell’Alba bolivariana” ha ribadito Vasapollo, che da anni si batte per un’Alba Euro Afro Mediterranea, in grado di unire i lavoratori e i popoli sulla base della complementarità e della solidarietà. Un modello in cui si riconosca la superiorità dell’umanità sull’economia e dove alla logica del profitto si antepongano i diritti sociali.
Vasapollo ha, infine, annunciato che il Primo Maggio, giornata dei lavoratori, l’USB farà una video giornata di lotta, non di mera celebrazione, di 8/9 ore, non solo con interventi di sindacalisti, lavoratori, movimenti sociali, ma anche con la partecipazione di poeti, scrittori, cantanti e artisti per contrastare questo governo e l’Unione Europea.

martedì 28 aprile 2020

Francia. La riapertura delle scuole, tra polemiche e proteste

La Francia si appresta ad entrare nella “Fase 2” dell’epidemia da Covid-19, mentre sussistono tutte le criticità evidenziate finora da una gestione che – quando c’è stata – è risultata essere decisamente irresponsabile sul piano della salute collettiva ed inefficace nel fronteggiare l’emergenza sanitaria in tutta la sua portata.
Secondo le ultime cifre pubblicate ieri dalla Santé Publique France, dal 1° marzo la Francia ha registrato 22.865 decessi a causa del Coronavirus, di cui 242 nelle ultime 24 ore, numero in calo rispetto ai giorni precedenti.
Nel suo discorso del 13 aprile, il Presidente Emmanuel Macron aveva annunciato l’estensione delle misure di confinamento e le restrizioni degli spostamenti fino all’11 maggio prossimo. Per questa data, era stata prevista la riapertura progressiva di asili nido, scuole e licei, ma non delle università.
In quella sede, però, Macron non aveva comunicato alcun dettaglio né su come, né in quali condizioni, sarebbe stato possibile riprendere l’attività didattica dopo il confinamento: “Il governo dovrà stabilire regole speciali, organizzare il tempo e lo spazio in modo diverso, e proteggere i nostri insegnanti e i bambini con le attrezzature necessarie”, si era limitato a prefigurare.
A due settimane da quel discorso, queste precisazioni non sono state né comunicate né elaborate. Al contrario, si sono susseguite tutta una serie di dichiarazioni discordanti e talvolta contraddittorie che hanno dimostrato chiaramente la completa mancanza di prospettiva e pianificazione circa una strategia per il cosiddetto deconfinamento e la ripresa della didattica.
Il primo ad aprire questo valzer è stato il Premier Philippe, il quale aveva annunciato (19 aprile) che la riapertura delle scuole non sarebbe avvenuta in maniera uniforme in tutta la Francia, ma che sarebbe dipesa dalla regione in base alla gravità del contagio.
Un’ipotesi, quella del “deconfinamento regionalizzato”, esclusa dallo stesso Macron appena quattro giorni dopo (23 aprile), con l’annuncio di un ritorno a scuola degli studenti “sulla base della volontà dei genitori”.
L’altra ipotesi prevista da Philippe riguardava la “divisione in due” delle classi, cosa che avrebbe comportato che una frequentazione da parte degli studenti a settimane alternate. Un’idea poi rivista dal ministro dell’educazione, Jean-Michel Blanquer, il quale aveva annunciato (21 aprile) le linee guida per un rientro molto progressivo, esteso su tre settimane in base al livello dei corsi, assicurando un numero massimo di 15 studenti presenti contemporaneamente in classe e mantenendo comunque l’insegnamento a distanza.
Dunque, l’11 maggio non ci sarà una ripresa obbligatoria per tutti, ma sarà a discrezione dei genitori che prenderanno la decisione finale di mandare o meno i propri figli a scuola. Ovviamente, i margini di scelta si assottigliano sostanzialmente per tutti quei genitori che dall’11 maggio saranno anche costretti a tornare fisicamente a lavoro per la ripresa delle attività di industrie e servizi.
Ma è una scelta imposta anche per tutti quegli studenti che hanno difficoltà oggettive a seguire la didattica a distanza in via telematica, a causa delle profonde disuguaglianze sociali ed economiche. Ebbene, questi studenti saranno “sacrificabili”, a differenza di coloro che hanno tablet con connessione rapida e per cui i genitori possono pagare un/una babysitter giornaliera.
A completare il quadro dell’incapacità da parte del governo nel pianificare il rientro a scuola, sabato 25 aprile è stato reso noto ilparere del Consiglio scientifico, il quale evidenzia un netto e chiaro disaccordo con le scelte operate da Edouard Philippe e Emmanuel Macron.
Nonostante si approvi la fine del confinamento in generale, per quanto riguarda il caso specifico delle scuole, il Consiglio scientifico ha indicato la sua preferenza per la ripresa della didattica soltanto dal prossimo settembre.
Viene quindi spontaneo porsi una domanda, tanto ragionevole quanto fondamentale: su che base scientifica allora è stata stabilita la data della riapertura delle scuole a partire dall’11 maggio?
Si ha la sensazione che la volontà sia quella far rientrare a scuola molto rapidamente gli studenti che non possono essere tenuti a casa dai genitori per far ripartire la macchina economica”, è il commento di Benoît Teste, segretario generale della FSU, la principale federazione sindacale nel campo dell’istruzione.
Pertanto, il Presidente Macron ha chiaramente preso una decisione senza il parere del Consiglio scientifico, mettendo ancora una volta avanti gli interessi economici delle organizzazioni padronali, preoccupate per la caduta del PIL e della recessione alle porte.
Tuttavia, il Consiglio scientifico ha dichiarato “di avere preso atto delle scelte politiche” – scriteriate e scellerate – di Macron ed esprime alcune raccomandazioni essenziali per la ripresa dell’attività didattica ed in generale la vita all’interno degli istituti scolastici a partire dall’11 maggio. Gli esperti chiedono una pulizia regolare nelle scuole e l’obbligo di indossare mascherine nelle scuole medie e superiori.
Al tempo stesso, il Consiglio scientifico ritiene che l’utilizzo di tale dispositivi sia impossibile per i bambini degli asili e delle materne; per gli alunni delle scuole elementari, invece, ritiene che sia difficile stabilire un’età precisa alla quale si raggiunga una “comprensione sufficiente per raccomandare l’uso della maschera in modo appropriato”, considerando per questo essenziale il ruolo dei genitori.
Saranno le scuole stesse a determinare, in completa autonomia, il ritmo più adatto per accogliere alunni e studenti e assicurare il rispetto delle misure sanitarie. In concreto, le scuole dovranno pensare all’organizzazione delle giornate e delle attività scolastiche per garantire che “gli alunni di una classe non si incrocino con quelli di un’altra classe” o che “gli alunni dello stesso livello non si incrocino con quelli di un altro livello”, adattando i tempi di ricreazione a questa strategia. Infine, conclude il Consiglio scientifico, si sconsiglia l’apertura delle mense e si raccomanda che “i bambini mangino in classe sul tavolo”, se possibile.
In questo momento c’è troppa incertezza per poter dire che l’11 maggio settimane saremo pronti”, ha evidenziato Francette Popineau, co-segretaria generale e portavoce dello SNUipp-FSU, il principale sindacato degli insegnanti delle elementari, esprimendo tutti i suoi dubbi su quanto finora indicato dal governo per il ritorno in classe di milioni di studenti francesi.
Non vediamo come possiamo far entrare nelle scuole gli insegnanti e tutto il resto del personale senza un massiccio screening e senza la garanzia che tutte le misure necessarie saranno prese sul posto, come la distribuzione di mascherine ogni mattina e la disinfezione quotidiana delle aule”, ha aggiunto Marc Pupponi, segretario del sindacato nazionale degli insegnamenti di secondo livello (Snes).
Nessuna ripresa senza uno screening sistematico e senza tutte le misure di protezione necessarie”, scrive in un comunicato la Federazione Nazionale di Educazione Culturale e Formazione Professionale del sindacato Force Ouvrière (FO), il quale sottolinea come la riapertura di asili nido, scuole e licei sia “irresponsabile, pericolosa e impossibile” nelle condizioni attuali. “Rifiutiamo che la scuola e la nostra vita siano la variabile di aggiustamento di cui debba servirsi il Medef (la Confindustria francese, ndr)”, aggiunge.
Gli insegnanti del movimento “Les Stylos Rouges” hanno fatto appello e dichiarato che, se non verrà rivista la decisione sulla riapertura delle scuole il prossimo 11 maggio, faranno valere il proprio “droit de retrait”, ovvero non svolgeranno lezione né saranno presenti in aula a causa del rischio per la loro salute al quale il governo e Macron vorrebbe esporli, tanto all’interno degli istituti scolastici che nel trasporto pubblico.
In un comunicato congiunto con gli studenti del movimento “Bloquons Blancher” e della “Coordination Lyceenne Nationale”, sostengono che si tratta di “un vero rischio per la salute pubblica in nome degli interessi economici” e che il governo è il solo responsabile, rigettando la logica sulla scelta volontaria da parte dei genitori.

lunedì 27 aprile 2020

Una “riapertura” da pazzi scriteriati

Il governo Conte ha varato ieri sera il decreto per la “ripartenza” delle attività economiche. Tutte, con un calendario ancora molto in discussione, ma senza eccezioni. Il tutto mentre il contagio ha – sì – rallentato un po’ la sua corsa, ma permane a livelli altissimi.
Una decisione schizofrenica, come da due mesi a questa parte, perché da un lato riguarda tutto il territorio nazionale senza alcuna distinzione tra aree ad alto rischio e territori sostanzialmente “sicuri”, dall’altra colpevolizza preventivamente i singoli cittadini per l’eventuale – prevedibilmente certa – risalita della “curva” dei contagi.
Ancora una volta sembra aver prevalso la pressione di Confindustria e Confcommercio. Anche perché, in assenza di una qualsiasi politica europea coordinata, ogni paese del Vecchio Continente è spinto a “ripartire” per proprio conto, cercando di non perdere troppo terreno rispetto ai “competitori” – più che partner – dell’Unione.
Un agire scomposto e dissennato di fronte alla pandemia, che sarà certamente aggravato (a livello nazionale) dall’accavallarsi di “delibere regionali” che introdurranno eccezioni, rallentamenti o accelerazioni motivate più dalla necessità di “distinguersi” che da quelle sanitarie.
Del resto era stato lo stesso epidemiologo Giovanni Rezza, direttore del dipartimento di Malattie Infettive dell’Istituto superiore di Sanità, a spiegare che “Per noi della sanità il rischio accettabile è zero, per economisti è 10”. Il prof, politicamente accorto, ha detto “economisti”, ma la definizione investe ovviamente gli imprenditori, che del rischio altrui sistematicamente se ne fregano (a parte eccezioni lodevoli quanto rare).
Il governo, con il decreto che qui potete consultare (DPCM e allegato del 26 aprile 2020.pdf), ha scelto “un rischio 9,5”, potenzialmente catastrofico, ma con responsabilità rovesciata sui cittadini. Come se “gli assembramenti” sui mezzi pubblici o nei luoghi di lavoro (per una impresa che modifica la propria organizzazione del lavoro ce ne sono dieci che non possono o non vogliono farlo) fossero una passeggiata di salute, mentre solo quelli “ludici” pericolosi.
Abbiamo spiegato più volte, fino alla noia, che anche noi avremmo riaperto diverse attività produttive, ma su una base territoriale attenta alla diffusione del virus e in seguito a uno screening di massa affidabile (con i tamponi, insomma, non con i soli “esami sierologici”). Quindi anche prima, nelle zone a basso rischio.
Per spiegare di cosa stiamo parlando rinviamo – qui di seguito – all’intervista fatta da Business Insider al prof. Andrea Crisanti, “il virologo che ha salvato il Veneto” convincendo persino uno come Zaia (quello che protestava, la sera dell’8 marzo, perché si mettevano in “zona arancione” tre province venete) ad adottare i tamponi a tappeto.
Infine, segnaliamo il commento politico di Giorgio Cremaschi, portavoce di Potere al Popolo, che sintetizza da par suo la “logica” sottostante il discorsetto di Conte, ieri sera.
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Dio e mascherina

Giorgio Cremaschi Potere al Popolo!
Dobbiamo CONVIVERE col coronavirus “. Questo è il concetto di fondo e la prima frase di Conte nella sua conferenza stampa. I provvedimenti che annuncia sono tutti di conseguenza a questo.
Il paese riparte con aree del paese ancora in piena epidemia adottando quel modello eguale per tutti che è alla base della strage di 26000 morti. Avrebbero dovuto chiudere tutto davvero nelle province del Nord dove si diffondeva il contagio e mantenere misure di contenimento altrove. Invece, per obbedire a Confindustria, governo e regioni non hanno mai dichiarato zone rosse definite, ma trasformato tutta l’Italia in una zona arancione.
Il modello cinese non è MAI STATO APPLICATO, il lockdown non c’è stato soprattutto in Lombardia e Piemonte, dove, come dimostra l’INPS, le fabbriche aperte hanno aumentato i contagiati di almeno il 25%. Oggi si dovrebbero trattare diversamente Umbria e Lombardia, Potenza e Milano.
Siccome però i padroni spingono si fa esattamente ciò che chiedeva Fontana : riaprire tutto il 4 maggio. Poi ce la si prenderà con chi non mette le mascherine ai nipoti che vanno a trovare i nonni e con chi non tiene la distanza di sicurezza in casa, mentre su fabbriche e trasporti si chiuderanno occhi bocca e orecchi.
Siamo di fronte al colossale fallimento di tutta la classe dirigente e di tutto il sistema Italia, che riparte senza dati certi e senza misure vere di sicurezza, con un bilancio di vittime inferiore solo a quello degli Stati Uniti.
E questa catastrofe viene presentata come una vittoria, mentre la propaganda di “andrà tutto bene”, ripresa in pubblicità da Toyota Barilla Mediaset tutti, colpisce quei nemici della patria che sollevino obiezioni.
Ora si riapre, “basta con gli spiriti antindustriali” ha detto Conte; e che Dio e mascherine ci proteggano.
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Crisanti, il virologo che ha ‘salvato’ il Veneto: “Non mancano i tamponi, ma la volontà di farli. Sbagliato riaprire tutti il 4 maggio”

Gea Scancarello – Business Insider
Andrea Crisanti è un cervello di ritorno: professore di parassitologia molecolare all’Imperial college di Londra, è rientrato in Italia come direttore del laboratorio di microbiologia e virologia dell’Università (e azienda ospedaliera) di Padova, portando competenze preziose. In questi giorni è infatti noto soprattutto per essere l’uomo che ha guidato il Veneto fuori dall’emergenza coronavirus, risparmiando alla regione uno scenario catastrofico come quello lombardo e che è stato indicato da Ernesto Burgio come uno dei pochi se non l’unico vero esperto italiano.
In controtendenza netta e isolata con le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), Crisanti ha insistito per fare i tamponi a tutti i contatti dei presunti infetti, riuscendo a bloccare l’epidemia sul territorio prima che dilagasse negli ospedali.
Eppure, dice, che ancora oggi “questa decisione strategica non è stata fatta propria da altre regioni. Gli abbiamo chiesto allora di spiegarci il mistero dei tamponi che non si fanno e il nuovo fiorire di test sierologici (“Non servono assolutamente a nulla”).
Ci aiuta a capire una volta per tutte perché ancora ci sono malati o persone che chiamano con sintomi a cui non vengono fatti tamponi? Mancano i materiali? Non c’è la volontà?
 È un insieme di cose. All’inizio sicuramente i reagenti sono mancati, ma non credo che adesso siano più un grandissimo problema: penso che ora la vera questione sia che non si è capito perché è così importante fare i tamponi. E non si è capito che fare i tamponi, e particolarmente farli ai contatti e a quelli che potenzialmente sono entrati in contatto con la persona infetta, abbatte la trasmissione. Se non si capisce l’importanza di questa strategia di fatto rimarremo sempre con queste polemiche…
La strategia in Veneto ha funzionato, possibile che ancora gli altri non abbiano capito?
Possibile, sì. In altre regioni si pensa che il tampone serva solo a fare la diagnosi. In realtà, se arriva una persona che sta male, da sette-otto giorni, con tutta la sintomatologia canonica e il quadro radiologico, il tampone non c’è nemmeno bisogno di farlo: dovrebbero farlo invece tutte le persone con cui la persona è entrata in contatto. È, insomma, essenzialmente una questione di decisioni strategiche.
Se non si cambiano queste decisioni strategiche corriamo dei rischi il 4 maggio, alla riapertura?
I rischi esistono perché c’è ancora tantissima trasmissione: tremila casi al giorno sono ancora molti, mica pochi.
Vengono raccontati però come fossero un successo.
Certo, perché eravamo abituati ad altri numeri.
Dove ci si contagia oggi, quali sono i focolai presumibili?
Principalmente a casa e nelle istituzioni, cioè nelle Residenze sanitarie per anziane (Rsa). E poi, ovviamente, nelle fabbriche o in altri ambienti di lavoro: ci sono anche tantissime attività produttive o commerciali che sono attive.
A questo proposito servirebbero informazioni più certe sul virus stesso. Molti dovranno per esempio riaprire gli studi professionali nei prossimi giorni, dovranno aprirsi al contatto col pubblico. Di cosa devono preoccuparsi, concretamente: disinfettare le superfici, mettere divisori in plexiglass o che?
Se le persone usano le mascherine le possibilità che il virus si depositi sulle superfici è di fatto limitata. Certo, il virus resiste sulle superfici in determinate condizioni di temperatura e umidità, come è stato dimostrato in diversi studi: tuttavia, le mascherine aiutano anche in questo, perché bloccando il passaggio delle goccioline danno al virus meno possibilità di depositarsi. Detto questo, certo, anche i plexiglass aiutano.
Cosa sappiamo dell’immunità e di possibili riattivazioni, come quelle denunciate in Corea?
Nulla, assolutamente nulla.
Quindi i test sierologi che ci apprestiamo a fare che valore hanno?
Nessuno, soltanto, chiamiamolo così, un valore epidemiologico, per capire dove il virus si è diffuso in maniera più estesa.
Esistono però casi di persone che erano convinte di aver fatto la malattia, anche se in forma debole, a cui i sierologici non hanno rilevato nulla…
Appunto, continuo a ripeterlo: non servono a nulla questi test.
Con queste pochissime certezze, a che estate andiamo incontro?
È difficile da dire, onestamente non lo so. Stiamo affrontando questa cosa in maniera troppo caotica: ogni regione si sta organizzando in maniera diversa mentre ci vorrebbe invece una risposta unitaria.
Ma il governo sta cercando di stroncare le spinte regionali e riaprire con regole condivise il 4 maggio..
Il punto è che aprire tutti il 4 maggio è sbagliato! Non tutte le regioni sono pronte, non si conosce l’incidenza della malattia per giorno, per regioni e per classi di popolazione… insomma, è un pasticcio. E d’altronde è sotto gli occhi di tutti: può la Lombardia essere paragonata alla Calabria o alla Sicilia? Sono regioni che hanno casi diversi e capacità di affrontarli diversi, e comunque né per l’una né per le altre sappiamo quali sono i contagi giornalieri. Io rimango basito. Queste sono le cose che non vanno bene: sa quante persone sono state abbandonate a se stesse in questo periodo? Non ne ha idea…
Con chi dovremmo prendercela?
Chiaramente l’epidemia era un evento in qualche modo imprevedibile, nel senso che non era successo in 80 anni: il fatto che non  fossimo preparati è deprecabile ma può essere in qualche modo giustificato. Quello che non è giustificabile è riaprire essendo ancora impreparati: questo proprio non va bene.
Molti hanno seguito le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), ma si sono rivelate sbagliatissime. Perché l’Oms ha sbagliato?
Perché non prevedevano il fatto che ci fosse un grande numero di asintomatici, essenzialmente.
Si sono basati su studi cinesi e i cinesi non sono mai stati trasparenti, né sull’inizio della malattia né sul numero dei casi: parliamo di un Paese in cui la trasparenza non è un valore e tutte le informazioni che fornisce vanno prese come un certo scetticismo. Invece l’Oms le ha prese come oro colato e la ha trasmesse a tutto il mondo, con le conseguenze che stiamo vedendo.
E lei come ha fatto a decidere che l’Oms stava sbagliando?
Noi ce ne siamo accorti facendo i tamponi a Vo’: ci siamo resi conto che c’era una percentuale grandissima di persone asintomatiche ma positive.
Aver insistito sui tamponi è stato essenziale, insomma. Ma voi lo avete detto a tutti gli altri per avvertirli?

venerdì 24 aprile 2020

La guerra mondiale del petrolio, tra geopolitica e finanziarizzazione

Le misure per contenere la diffusione dell’epidemia da Covid-19 in Cina – maggiore consumatore mondiale – hanno causato da gennaio una notevole contrazione della domanda petrolifera. Questo ha portato alla precipitazione delle relazioni tra i maggiori produttori mondiali che siedono nel cartello allargato OPEC PLUS su come affrontare tale situazione.
In particolare lo scontro tra Arabia Saudita e Russia ha provocato in un primo momento la fine della governance del mercato petrolifero che teneva dal 2016. La guerra dei prezzi è iniziata proprio quando la pandemia cominciava a mietere le sue vittime al di fuori della Cina, diventando un ennesimo fattore di criticità e facendo precipitare il confronto geo-politico.
Si è venuta a creare una situazione che non si ripeteva dagli anni Trenta del secolo scorso: una straordinaria eccedenza di produzione rispetto alla domanda e prezzi quindi al ribasso, con l’Arabia saudita disposta ad inondare il mercato con il proprio greggio a prezzi stracciati, mentre il petrolio di scisto veniva quotato molto al di sotto del suo valore di produzione.
Di questo conflitto ne hanno fatto le spese in particolare gli Stati uniti (da poco tornati primo produttore mondiale) e gli Stati membri del cartello petrolifero allargato – come Algeria, Angola e Nigeria per l’Africa alle prese loro stessi con la pandemia – così come anche i paesi membri dell’OPEC Plus al centro della politica di sanzioni statunitense, tra cui Iran e Venezuela, oltre a Messico e Iraq per cui la rendita petrolifera è una parte rilevante della propria economia.
Questa corsa verso il baratro sembrava si fosse arrestata, della prima metà d’aprile, con il più consistente accordo di tagli alla produzione petrolifera nella storia mondiale. Questo era stato raggiunto prima in sede OPEC Plus (a parte il Messico) e poi “suggellato” nel G20 dell’Energia. Era stato deciso un taglio per i mesi successivi di un decimo della produzione globale “a scalare” per gli anni successivi a fronte di una diminuzione della domanda di un terzo, con tutti i global player si erano “diplomaticamente” resi disponibili ad ulteriori misure.
Ma i prezzi delle due qualità di riferimento – Brent e WTI – non si sono affatto rialzati, con il primo ben sotto i 30 dollari al barile ed il secondo sotto i venti, alla fine della scorsa settimana.
Quello che sembrava quindi un successo diplomatico delle pressioni statunitensi e che aveva fatto esclamare allo stesso Donald Trump «un grande accordo per tutti», non ha sortito alcun effetto sulle quotazioni petrolifere.
Anzi, questo lunedì il mercato in cui è quotato il greggio texano ha avuto una seduta caratterizzata per lungo tempo da “prezzi negativi” e nei giorni successivi questa dinamica ribassista ha riguardato in parte anche il Brent.
Ma la volatilità del prezzo è dovuta anche alla finanziarizzazione dell’industria petrolifera, un fenomeno con cui la stessa OPEC, alcuni anni fa, aveva tentato di fare i conti, passando dalle dure critiche agli speculatori degli anni precedenti agli incontri in pompa magna con i vertici degli Hedge fund del settore.
Infatti ai nostri giorni il petrolio è soprattutto un prodotto finanziario, e come tale è soggetto alle oscillazioni derivanti dalla speculazione. È proprio per lo scollamento dalla realtà economica degli strumenti finanziari utilizzati che ci siamo trovati di fronte all’assurdo economico dei “prezzi negativi”.
Insomma, il combinato disposto delle tensioni derivanti dalla sempre più aspra competizione internazionale fra macro-blocchi e dalla contraddizione fra finanziarizzazione e fondamentali economici, unito all’innesto del “cigno nero” del coronavirus, sta generando scombussolamenti senza precedenti in un mercato dal forte valore simbolico.
Questo avrà certamente pesanti ripercussioni, pur con magnitudini diverse, sulle economie di tutti gli attori internazionali in gioco: un ulteriore elemento della profonda crisi sistemica che stiamo attraversando.

giovedì 23 aprile 2020

Le intimidazioni di stampo mafioso contro i lavoratori

Come si prepara la riuscita della FASE2 nonostante il disastro sanitario e la carenza di misure di sicurezza nei luoghi di lavoro? Cercando di far tacere i lavoratori con il ricatto, l’intimidazione, il licenziamento.

Dopo il licenziamento di un operatore ecologico a Firenze, c’è stata la sospensione di lavoratori del Don Gnocchi di Milano e ora il licenziamento di un operaio ArcelorMittal di Taranto.
Per tutti la ragione è la stessa, aver denunciata la mancata sicurezza e protezione dal Covid, che l’azienda ha considerato un grave danno all’immagine aziendale.
Gli enti locali di Firenze, la Curia di Milano, una grande multinazionale, cui fanno capo i lavoratori colpiti, hanno tutti usato lo stesso provvedimento con le stesse motivazioni.
Non è una coincidenza, è una scelta.
Le direzioni aziendali sanno come si lavora e sanno anche che se i i lavoratori fossero liberi di denunciare ogni inadempienza, allora in tanti posti o non si lavorerebbe o si dovrebbe cambiare tutto.

Così si sviluppa il ricatto per i precari, che subiscono per paura di non essere confermati. Oppure si licenzia proprio con quel nuovo barbaro e incostituzionale principio scoperto dagli uffici del personale: danno all’immagine aziendale.
Danno che non sarebbe provocato dalla mancanza di sicurezza, ma dal lavoratore che ha il coraggio di denunciarla.
È il padronato del Jobsact, legge di cui continuiamo a scoprire lo spirito e gli effetti criminali, che pretende dai lavoratori una fedeltà di tipo medioevale che non solo cancella la Costituzione antifascista, ma i più elementari diritti di cittadinanza.

I lavoratori sono carne da macello e non devono parlare, cosi si apre la Fase2.
Siamo di fronte ad una vera e propria strategia di intimidazione di stampo mafioso da parte delle direzioni aziendali, che va denunciata e combattuta con tutte le forze.
Nel nome della democrazia e della salute, entrambe colpite da questi miserabili comportamenti delle imprese.

mercoledì 22 aprile 2020

I ricatti di Confindustria

In questo periodo la nostra attenzione è rivolta principalmente a notizie dai toni drammatici per l’emergenza sanitaria che stiamo vivendo, e così potrebbero sfuggirci quelle apparentemente insignificanti ma che nascondono, tuttavia, messaggi davvero miserabili.
Rientra in questa seconda categoria una recente intervista a un oscuro rappresentante del padronato, tale Luciano Vescovi (presidente di Confindustria Vicenza), che strepita per richiedere l’apertura delle fabbriche il prima possibile. Dietro quella maschera di ingannevole buonsenso, le dichiarazioni di Vescovi dimostrano in maniera plastica come funziona il ricatto del debito e come questa arma venga usata dai padroni.
Sbandierando inizialmente promesse di totale sicurezza, quando gli si fa notare che al Nord vi è la stragrande maggioranza dei contagi, la risposta di Vescovi prende completamente un altro binario: “Le imprese concentrate nel Nord sono quelle che tengono in piedi l’Italia”. A fargli da eco, Marcella Panucci, direttore generale di Confindustria (toh, che coincidenza!), dichiara sul sito di Fondazione Leonardo – Civiltà delle Macchine: “Una cosa è la salute, un altro fatto importante è però il benessere. Il diritto alla salute va chiaramente tutelato, ma c’è anche il lavoro che è a fondamento della Repubblica. Il lavoro senza salute non è possibile, ma non c’è salute senza lavoro“.
Quindi, in realtà, la salute e la sicurezza dei lavoratori non sono poi così importanti. Di cosa vogliamo stupirci? Anche in condizioni “normali”, registriamo più di 3 morti sul lavoro al giorno in Italia, senza che ciò disturbi minimamente il sonno dei padroni.
Il motivo dunque della riapertura ha esclusivamente carattere economico. Ma qui c’è tutta la capacità degli omini grigi, al soldo della classe dominante, di presentare tale richiesta come un qualcosa di necessario per il Paese, un qualcosa di cui tutti in realtà avremmo bisogno. Perché, dice Vescovi, “le casse dello Stato sono vuote: siamo indebitati al 140%, tra un po’ potrebbero non esserci persino i soldi per pagare i dipendenti pubblici e le pensioni“.
La coperta è corta. Se tu, Stato, vuoi pagare la cassa integrazione ai lavoratori – che altrimenti si ritroverebbero senza uno stipendio perché le imprese li avrebbero già licenziati – finirai presto i soldi e non potrai pagare le pensioni o gli stipendi degli stessi dipendenti pubblici. E non puoi pensare di poterti indebitare ulteriormente, il debito è già “troppo alto”, non ci provare. Ammettilo, Stato, che non puoi pensare di tutelare gli interessi di tutti i lavoratori. Lascia che ci pensi qualcun altro.
E qui arrivano in soccorso i padroni, veri eroi della patria, con un accorato appello: visto che lo Stato non può pagare la cassa integrazione, almeno lasci che le imprese ricomincino a produrre, e di conseguenza che i lavoratori tornino a lavorare così che possano percepire un regolare stipendio senza gravare sui conti pubblici.
Ci vorrebbero far credere che, in fondo, ci stanno aiutando, facendo la carità ai lavoratori e togliendo un peso allo Stato. Quindi, i padroni vorrebbero riaprire le imprese non per i loro interessi privati, bensì per un obiettivo più elevato. Ecco qui che i padroni diventano i datori di lavoro, i lupi diventano agnelli. Subdoli.
Tutto ciò altro non è che il solito vergognoso tentativo di nascondere il semplice desiderio di arricchirsi, laddove arricchirsi all’interno del capitalismo significa sfruttarenon solo i lavoratori, vergognandosi di presentarlo come tale. E lo fanno reiterando la solita menzogna del “siamo tutti sulla stessa barca e ci salviamo tutti insieme”, la stessa falsa dialettica con cui, da secoli, ingannano le classi subalterne.
Dietro dunque le apparenti preoccupazioni di Vescovi per le sorti delle casse pubbliche, c’è una minaccia bella e buona per disciplinare lo Stato e gli stessi lavoratori. Rileggendole con le lenti della lotta di classe, quelle stesse parole ora assumono un significato diverso: per la classe padronale, lo Stato non deve più di tanto intromettersi nell’economia, e qualora volesse provarci finirebbe molto male.
Così, se lo Stato non può intervenire nell’economia, il capitale scorrazza libero e felice nel “mercato del lavoro”. Senza le adeguate tutele, i lavoratori sono vulnerabili e devono arrendersi ai desideri dei loro padroni. E se anche ci fosse il rischio di morire, non importa.
Che se poi gli operai muoiono vanno in Paradiso: “un pezzo, un culo” ripeteva come un mantra Lulù, mentre lavorava a ritmi incessanti. Chiosa, infatti, Vescovi sulla riapertura delle librerie: “non è il momento di pensare ancora alla vita sociale”, sottintendendo così una visione aberrante della vita del lavoratorefatta di casa-lavoro-casa con la totale privazione della dimensione sociale, come se andare a lavorare non fosse un rischio mentre uscire per altri motivi, magari con le dovute precauzioni, lo dovesse essere per forza.
Dall’intervista di Vescovi si capisce bene come la visione liberale di uno Stato minimo o “guardiano notturno” sia funzionale alla tutela degli interessi dei capitalisti. Nel contesto europeo lo Stato minimo a tutela del profitto si struttura in modo automatico dentro i vincoli tracciati dai trattati che bandiscono di fatto la possibilità degli Stati membri di adottare politiche fiscali espansive dotate della sufficiente intensità per la tutela di obiettivi occupazionali e di fornitura di servizi pubblici ai cittadini.
Del resto, lo stiamo vedendo con chiarezza nelle condizioni di estrema emergenza di questi mesi: la linea perseguita dell’UE è sempre la stessa, quella di limitare drasticamente l’intervento dello Stato nell’economia con piccole concessioni ben dosate ed in seguito pagate ad un elevatissimo prezzo in termini di prosecuzione e intensificazione dell’austerità negli anni futuri.
Dunque, i lavoratori sono stretti nella morsa di una vera e propria tenaglia. Da un lato i padroni che si preoccupano solo di arricchirsi sempre più, dall’altro l’architettura istituzionale dell’Unione Europea, che arma la mano del Vescovi di turno fornendo sostanza e peso alla sua farneticazione, perché altro non è che una farneticazione.
La minaccia di un debito pubblico troppo elevato rimarrebbe un semplice esercizio di retorica liberista se non fosse per le conseguenze reali che un Paese membro dell’UE è costretto a subire. Un meccanismo perfettamente oliato che mette alle corde un Paese. Perché quando un Paese si trova al di fuori dei parametri di Maastricht, la BCE ha la facoltà di lasciarlo in balia dei mercati finanziari, sotto la minaccia dello spread, permettendo speculazioni enormi che portano i tassi d’interesse dei titoli pubblici a livelli insostenibili che di fatto mette in crisi l’intero sistema Paese (come nel caso esemplare della Grecia).
Questo è il ricatto del debito esercitato dall’Unione Europea, un’arma potentissima nelle mani dei padroni come ci dimostra l’intervista di Vescovi.
Se vogliamo uscire da queste logiche, dobbiamo ribaltare la prospettiva attraverso cui vedere il debito pubblico, andare oltre il mito per cui le risorse sono finite e che non ci sono i soldi. Questi argomenti, come abbiamo visto, rappresentano la retorica della classe dominante perché trasforma questioni politiche in presunti stati di necessità. Invece, lo Stato può e deve intervenire nell’economia, non solo per fermare le crisi economiche, ma per perseguire obiettivi di piena e buona occupazione, per garantire adeguati ammortizzatori sociali e tutele sulla salute e sicurezza dei lavoratori.
Né la voce di Confindustria né quella della Commissione Europea riflettono gli interessi della collettività. Proteggiamo i lavoratori e i cittadini tutti adottando strategie che non siano condizionate né dai vincoli del profitto degli industriali e delle banche, né dai vincoli di finanza pubblica della Commissione Europea che si sposano con i primi in un matrimonio perfetto che soffoca la vita materiale della stragrande maggioranza delle persone.