Il coronavirus,
o meglio la lotta al contagio, rischia di diventare una cartina di
tornasole del modello di società che un paese si è scelto, perchè ci fa
vedere se prevale la logica della solidarietà (che motiva i sacrifici
enormi imposti all’intera cittadinanza con la limitazione dei movimenti)
ovvero l’egoismo di che si sente superiore a tutto e a tutti, cioè dei
padroni, di quella benedetta oligarchia che in America Latina detiene il
90 per cento delle ricchezze ma anche qui non scherza.
Una
classe sociale che non è abituata a rispettare i poveri, quelli, ad
esempio che ora che gli ordinano di restare a casa una casa dove restare
non ce l’hanno, i clochard, certamente, ma anche tutti gli sfrattati.
Per discutere di questi temi e delle ricadute sociali della crisi, FarodiRoma
ha intervistato l’economista e docente dell’Università di Roma La
Sapienza, Luciano Vasapollo, grande esperto di America Latina, in
particolare per aver collaborato con Fidel Castro e Hugo Chavez
all’elaborazione di
politiche sociali tese a riaffermare il principio dell’uguaglianza, che
oggi certamente vige a Cuba e in Venezuela, pur tra mille difficoltà,
mentre qui da noi è un mito davvero irraggiungibile, tanto che i nostri
medici, davanti all’emergenza del coronavirus, si sono interrogati sul
criterio dell’età che escluderebbe, se la situazione si aggravasse, gli
ultrasessantacinquenni dalle cure specifiche.
“L’emergenza coronavirus – sottolinea Vasapollo, che è delegato del rettore della Sapienza per i rapporti con le università dell’America Latina – sta mettendo infatti in discussione l’efficacia del sistema capitalistico e del cosiddetto libero mercato” nel regolare aspetti essenziali della società.
A
fronte di uno sviluppo enorme delle forze produttive e delle capacità
tecnologiche, vengono privilegiati la massimizzazione del profitto per
pochi e l’incremento delle spese militari da parte degli stati
imperialisti.
La
diffusione del virus e la conseguente risposta delle istituzioni, hanno
evidenziato l’esistenza di due modelli. Quello statunitense, basato sul
settore privato, che lascia i propri cittadini alla mercé delle case
farmaceutiche e della sanità privata. Un modello in cui non si riesce a
sospendere la vita economica per far fronte all’emergenza e dove
politici senza scrupoli negano la pericolosità dell’agente patogeno.
Un
secondo modello è quello cinese. La Repubblica Popolare ha raccolto
tutte le energie per far fronte alla crisi, appoggiandosi sulla
superiorità del proprio sistema di pianificazione e drenando tutte le
risorse necessarie per salvare il maggior numero di persone, senza far
caso al venir meno dei profitti e dell’arricchimento privato.
Sembrerebbe
che l’Italia abbia scelto un modello intermedio. Infatti, se da un lato
il governo ha sospeso un certo numero di attività e ha messo delle
limitazioni agli spostamenti, dall’altro non ha consentito a coloro i
quali non effettuano lavori essenziali per la sopravvivenza della
collettività di astenersi dal lavoro.
Lo
Stato dovrebbe farsi carico dell’emergenza, concentrando tutti gli
sforzi sulla produzione e distribuzione di beni di prima necessità.
Che
cosa evidenzia questa crisi? Quali ricadute sociali dobbiamo aspettarci
e soprattutto che risposte la politica dovrebbe dare? Gli aspetti
economici e quelli sociali sono strettamente intrecciati?
Le
radici di questa crisi, ovvero le risposte inadeguate della politica
all’emergenza del coronavirus, sono da rintracciare nelle politiche
neoliberiste che si sono imposte in occidente a partire dagli anni 80.
La crisi ingenerata dal coronavirus, la quale è certamente una crisi
sanitaria, evidenzia degli aspetti fortemente sociali, nel senso che
questa crisi diviene prima economica e poi si trasforma in crisi
sociale.
Quando parlo di crisi sociale, intendo, per l’appunto, una crisi di relazioni sociali, perché oggi siamo alle strette.
Oggi
tutti i nodi vengano al pettine. Il neoliberismo, che è cominciato
negli anni 80, con la scuola di Chicago, con il thatcherismo e con
Reagan ed il cui unico obiettivo era quello di liberalizzare al massimo
il mercato, deregolamentando tutto, escludendo lo stato da qualsiasi
interventismo sul piano della spesa sociale, ha evidenziato come sia
impossibile far fronte ad una crisi di questa scala senza una
pianificazione razionale delle scelte economiche e sociali, ossia senza
l’intervento della politica nella sfera, ad essa subordinata,
dell’economia.
L’ideologia
liberista, inoltre, ha generato una falsa coscienza, perché se da un
lato ha consentito la liquidazione delle politiche sociali, dall’altro
ha mantenuto uno stato forte nell’ambito della repressione e nell’ambito
delle spese militari.
Come si pone adesso il nostro paese dinnanzi a questa crisi, che a
quanto dice ha delle radici profonde? Come è stato possibile trovarci
impreparati di fronte ad un’epidemia, che sta ponendo sotto stress il
nostro sistema sanitario, smantellato dalle politiche liberiste?
Come
ho detto, adesso i nodi sono venuti al pettine: dopo quarant’anni di
queste politiche liberiste, infatti, la maggior parte dei paesi, a
cominciare dall’Italia, in cui esisteva un’economia mista estremamente
forte, che aveva invero un settore privato, ma che disponeva tuttavia di
settori pubblici importanti, ha smantellato il proprio sistema di
tutele che consentivano l’implementazione di politiche sociali forti.
Vorrei
ricordare, a questo proposito, “l’irizzazione” , il passaggio di
un’azienda sotto il controllo del’IRI e dunque dello stato. Ricordiamo
il ruolo dell’Eni, ricordiamo un contesto in cui esisteva una sanità
pubblica estremamente sviluppata che funzionava, una scuola pubblica di
primissimo livello e dove anche tutto il sistema bancario era
controllato dal capitale pubblico . Pensiamo, inoltre, all’energetico,
pensiamo alle telecomunicazioni, pensiamo ovviamente ai trasporti. Oggi
tutto questo contesto è stato degradato e l’interesse privato domina la
vita economica e, dunque, sociale.
E con quali ripercussioni a livello sociale?
Questo
attacco neoliberista ci ha lasciato i guai che ci ritroviamo adesso: la
sanità è stata completamente tagliata, sono stati fatti processi di
privatizzazione della sanità, di privatizzazione dell’università e di
tagli alla ricerca. I nostri migliori ricercatori se ne vanno
all’estero, i nostri giovani che lavorano negli ospedali e che sono
degli eroi, questo dobbiamo dirlo perché di questo si tratta, e che
assistono le persone contagiate dal coronavirus, prendendo sette
ottocento euro al mese rischiando la vita, stanno pagando un prezzo
altissimo per l’asservimento del nostro paese alle politiche imposte
dalle multinazionali e dal capitale privato.
Dentro
gli ospedali, a causa di trent’anni di massacro neoliberista, e su
questo vorrei concentrare l’attenzione, non mancano solo le terapie
intensive, ma non ci sono le flebo, non ci sono addirittura i cerotti e
mancano le medicine prioritarie. Non disponiamo di un numero adeguato di
infermieri, di portantini, di medici e di ricercatori. In questo paese e
in tutti paesi che hanno recepito gli indirizzi neoliberisti abbiamo
assistito ad un massacro a favore delle cliniche private e a favore
della privatizzazione della sanità. La stessa cosa è successa nella
scuola; la stessa cosa è successa nell’università.
Ovviamente i tagli al settore sanitario rientrano in contesto ben preciso.
Infatti,
abbiamo assistito a continui tagli della spesa pubblica e, quindi
ovviamente, ad una sempre minore ridistribuzione del PIL al settore
della ricerca, della sanità e dell’università. Noi stiamo pagando oggi
gli effetti di non poter far fronte adeguatamente a questa grossa
emergenza perché è stato consentito che il ruolo interventista e
occupatore dello stato fosse completamente abbandonato. Non stiamo
parlando dell’Unione Sovietica, ma anche di uno Stato, come quello
italiano, dove il welfare e la mediazione sociale, voluta anche dai
governi democristiani, consentiva che l’economia fosse assoggettata alle
esigenze della collettività.
Oggi
ne vediamo gli effetti. Abbiamo pochissimi posti letti e tanti ospedali
sono stati chiusi. In Cina sono riusciti a curare migliaia di persone
costruendo in pochissimo tempo enormi strutture sanitarie.
Tornando
alla Cina. Lei crede che possa rappresentare un modello anche per noi?
Quali sono i vantaggi del sistema cinese? In che cosa differisce dal
modello anglosassone, che è stato il punto di riferimento per anni delle
nostre classi dirigenti?
In
paesi come gli Stati Uniti, dove prevale l’economia privata, la
situazione è ancora più drammatica che da noi. Tutti, è storia di questi
giorni, hanno saputo che un tampone costa tre, quattro mila dollari. Se
qualcuno negli Stati Uniti ha la necessità di andare in terapia
intensiva, deve avere l’assicurazione. Questo è dove ci volevano
portare. Questo è quello che volevano fare. Un modello dove le tutele
sociali sono assenti e tutto è lasciato alle decisioni egoistiche di
pochi.
La
Cina ci dimostra che un’alternativa è possibile. Ma non solo la
Repubblica Popolare, ma anche stati come Cuba ed il Venezuela, dove la
spesa sociale consente di governare le crisi. Sappiamo che esiste un
pregiudizio piuttosto interessato nei confronti di questi paesi. In
Cina, dove l’economia è sottoposta alle scelte della politica, dimostra,
che là dove esiste una prevalenza assoluta del sistema socialista, si
può far fronte alle emergenza, come quella del coronavirus.
Stiamo
assistendo al trionfo di un paese di oltre un miliardo e mezzo di
abitanti, la Cina, che è stata violentemente aggredita da questo virus e
che è riuscita, con grandi sacrifici consentiti proprio dal modello
socialista, ad uscirne. Il modello di pianificazione economica è
senz’altro superiore al modello del cosiddetto “libero mercato”.
Ce
ne può parlare meglio? I media spesso nascondo le notizie positive
sulla Cina, con cui comunque ora devono cominciare a fare i conti,
avendo questo paese dato risposte concrete all’emergenza del coronavirus
e su Cuba e altri paesi non allineati ai voleri delle multinazionali e
di Washington.
Vorrei
rimarcare come la cooperazione fra paesi socialisti sia sta essenziale.
La Repubblica Popolare cinese, infatti, è uscita dalla crisi del
coronavirus in due maniere. Innanzitutto, con la cooperazione, la
collaborazione e la complementarità con Cuba. Di questo, nel “libero”
occidente non si parla, ma è necessario metterlo in evidenza. La maggior
parte dei casi di coronavirus sono stati curati grazie alla perizia dei
medici cubani.
Cuba,
dove il settore medico è stato particolarmente sviluppato grazie alle
intuizioni del Che e di Fidel, ha sviluppato un interferone, una
medicina a base di proteine, la quale era stata precedentemente
utilizzata per curare malattie come l’aids e l’epatite c. Quindi, la
cooperazione con uno stato, che viene considerato “canaglia”
dall’occidente, ha consentito non solo di salvare vite umane, ma ci ha
anche dato tempo, ritardando la diffusione del virus qui da noi.
Spesso
la preclusione nei confronti del sistema socialista, non ci permette di
renderci conto del livello che la medicina cubana esprime. Cuba sta
lavorando anche ad un vaccino e speriamo che arrivino presto alla
soluzione. E speriamo che l’OMS lo prendi seriamente in considerazione,
perché spesso ci acceca questo pregiudizio nei confronti di Cuba
La
seconda maniera, che tante critiche ha inizialmente causato in
occidente, ma oggi anche qui da noi in tanti si sentono di caldeggiare, è
la seguente. La possibilità per lo stato di sospendere ogni attività
non necessaria, mettendo in quarantena intere regioni del paese. La
stampa ed i media occidentali hanno da subito parlato di repressione e
dittatura; qualcuno inopinatamente continua. Nella stampa europea, per
non dire di quella statunitense, veniva affermato che con “misure
militarizzate” non ne usciranno mai.
La
realtà è, come sempre, ben diversa da come ce la raccontano i media. La
Cina ha semplicemente applicato la pianificazione, ossia, dinanzi ad
un’emergenza è riuscita a prendere dei provvedimenti economici, sanitari
e produttivi per limitare i danni. Dunque, grazie ad un’economia
pianificata è riuscita a coordinare le misure sanitarie, distribuendo le
medicine. È riuscita ad implementare la quarantena, pianificando gli
spostamenti e imponendo delle regole ben precise per anticipare e
prevenire lo sviluppo enorme del coronavirus.
La
Cina ha potuto bloccare la produzione, uscendo da meri e cechi
paradigmi economicisti, e ha fatto entrare lo stato nelle vite delle
persone. A differenza di quello che accade qui da noi, la Cina ha
distribuito redditi di sussidio dove non si poteva lavorare. Nonostante
tutto e grazie ad enormi sacrifici, la Cina ce l’ha fatta, indicandoci
un modello per combattere il virus.
Vedere
che, in città enormi, come quelle della provincia dell’Hubei, si
riprende la metropolitana, si riprendono gli autobus e si riprende la
produzione, è stato emozionante. L’altroieri il Presidente Xi Jinping ha
dato un grande segnale al paese andando a Wuhan, epicentro della crisi
del coronavirus, mostrando che la Cina sta ripartendo alla grande. In
quello che veniva chiamato il modello totalitario e repressivo, stiamo
assistendo ad un abbassamento del tasso di mortalità e del tasso di
infezione. In Cina abbiamo avuto prova della superiorità del modello di
pianificazione nei confronti dell’ideologia del libero mercato, ovvero
il sistema dello sfruttamento.
Come
mai in Italia si è aspettato per prendere misure così drastiche, ma
risolutive, e comunque ancora adesso si esita a fare come in Cina?
Qui
in Italia e nei paesi capitalistici, e questa è l’altra questione che
vorrei mettere in evidenza, non si possono adottare le grandi misure di
contenimento adottate dalla Cina e questo perché siamo ostaggio dei
voleri di Confindustria, dobbiamo tenere conto dei pareri della
Confcommercio e di tutto il settore del capitale privato. Si sono fatti
prevalere sugli interessi della salute, gli interessi del profitto. È
trascorso del tempo prima che si prendesse la sacrosanta decisione di
chiudere alcune attività e non è stata possibile sospendere la
produzione di beni effimeri e sospendere i trasporti.
Ancora
oggi, quando la minaccia del virus è evidente ed il grado di
consapevolezza è aumentato, nonostante si sia implementa la zona rossa
in tutta Italia, dobbiamo rilevare che nei posti di lavoro ad alta
intensità di manodopera, parliamo della logistica, della classe operaia,
parliamo della Fiat, parliamo di Taranto e di posti di lavoro nella
manodopera manuale, non si è bloccata la produzione. Non si è voluto
dire, non si ha avuto il coraggio di dire, “salario pieno, lavoro zero”,
così come hanno fatto in Cina, dove la gente rimane a casa, non lavora e
lo stato interviene, implementando le misure idonee per la quarantena.
Noi
dobbiamo fare i conti, in questa situazione emergenziale, con i
parametri dell’Unione Europea e con i profitti privati rappresentati
dalla Confindustria. Si sarebbe dovuto e si deve fare come in Cina,
consentendo a tanti di non lavorare dando un salario di sussistenza e
concentrando tutti gli sforzi nella produzione dei beni essenziali. Ma
questo non lo stiamo facendo e non lo si è fatto minimamente.
Come si può uscire da questa situazione? Lei è anche un dirigente sindacale, può fornirci qualche esempio?
Sono
iniziate delle lotte estremamente dure e c’è stato un blocco dei
lavoratori della logistica, rappresentati dall’Unione Sindacale di Base,
in cui la parola d’ordine non è “non lavorare”, sapendo quanto sia
indispensabile continuare a garantire la distribuzione dei beni
essenziali, ma lavorare in completa sicurezza, garantendo che le norme
emergenziali per il coronavirus siano rispettate. Servono le mascherine,
è necessario che siano rispettate le distanze di sicurezza fra gli
operai. Lo USB ha lanciato proprio ieri una campagna molto bella che si
chiama “SOS”, un acronimo che significa “Salute, Occupazione e Salario”.
Si tratta di una campagna di protezione dei lavoratori, e dunque, della
salute di tutti.
Chiediamo
un reddito di sostegno a chi può rimanere a casa, non svolgendo servizi
insostituibili per la collettività e, mettendo in questo modo un freno
al contagio. Ma per far ciò, Il salario deve essere nella maniera più
assoluta garantito. Si tratta di una misura estremamente importante,
pertanto, dobbiamo avere la forza di dire basta, basta con la logica dei
profitti, basta con gli scempi delle multinazionali. La vita umana è e
deve essere al di sopra di ogni calcolo e parametro economicista.
Occorre mettere un limite immediato agli scempi che le multinazionali
compiono sull’uomo e sulla natura.
Questa crisi del coronavirus, mette in discussione il nostro modello di sviluppo. Il Global Times,
l’organo del Partito Comunista Cinese, ha messo in guardia dal pericolo
che in occidente si possano diffondere sia la sinofobia sia politiche
reazionarie, in grado di ancorarci ancor di più al sistema del profitto.
Proprio
per questo, è indispensabile elaborare un programma di base, ma ben
definito, sulle compatibilità socio-ambientali, perché soltanto così
sarà possibile superare l’emergenza del coronavirus. Così come è stato
fatto in Cina, che ha sfruttato la superiorità del suo sistema di piano
per combattere questo virus. Ma soprattutto, in prospettiva, questo
programma di base avrà il valore di un modello che ci consentirà di
portare avanti uno sviluppo equilibrato, sostenibile, compatibile e che
non metta a repentaglio la vita delle persone e dell’ambiente alla prima
emergenza.
Pertanto,
sono necessarie delle battaglie di controtendenza, che oggi sono
portate avanti soltanto da movimenti e sindacati conflittuali, come
l’USB, che riescono finalmente a rifiutare quella contrapposizione
fittizia fra questioni sanitarie, questioni ambientali, questioni del
lavoro e la redistribuzione della ricchezza sociale. Si possono
garantire i salari, distribuendo i profitti sottratti alla ricchezza
sociale, adesso appannaggio di pochi. Tutto questo si può e si deve fare
adesso, anche senza lavorare. Si devono proteggere al massimo i
lavoratori, non i profitti delle imprese.
Quindi crede che il modello cinese possa essere esportato anche qui da noi? Non è troppo distante dal nostro?
Quello
che ci sembra un modello alieno, come quello cinese, in realtà, e ci
terrei a sottolinearlo, è stato implementato anche dai paesi
capitalistici. Quello che nei paesi socialisti, come Cuba ed il
Venezuela, si chiama pianificazione, in Italia, ai tempi di Amintore
Fanfani, si chiamava governo dell’economia oppure regolamentazione o
programmazione dell’economia. Lo stesso capitalismo, sotto la spinta
delle lotte dei lavoratori, ha dovuto implementare forme di
pianificazione.
Oggi,
in Norvegia o in Svezia per fare degli esempi, esistono forme del
genere e questo evidenzia la superiorità del sistema di pianificazione
su quello in auge nei paesi capitalistici. Questo lo abbiamo visto nei
primi decenni del secondo dopoguerra, quando era avvertita l’esigenza di
pianificare lo sviluppo economico con il keynesismo.
Alcuni
storici e taluni giornalisti hanno parlato, soprattutto a partire dagli
anni 80, di crisi irreversibile del modello economico keynesiano. Che
cosa gli risponde?
Ancora
oggi, questo per sfatare la favola del “libero mercato”, esiste il
keynesismo, ma si tratta, in paesi come gli Stati Uniti, di un
keynesismo militare e di guerra. Lo stato si comporta come datore di
lavoro per prepararsi alla guerra e fomentare politiche imperialiste. I
soldi spesi per la fabbricazione di armi, e oggi più che mai lo vediamo
con tragica evidenza, sono sottratti alla sanità e alle politiche di
utilità sociale. Per dirla breve, il keynesismo militare, camuffato da
libero mercato, non ha il valore sociale che l’intervento pubblico
nell’economia aveva in precedenza.
Dunque,
siamo di fronte ad un conflitto irrisolvibile. Il capitalismo oltre a
creare una crisi sistemica, naturale ed economica, sta creando una crisi
sociale, una crisi di valori e una crisi etica. Stiamo parlando del
conflitto irrisolvibile fra capitale ed armonia dello sviluppo, armonia
della ricchezza umana e della natura. Anche studiosi non marxisti, e ci
tengo a sottolinearlo, evidenziano questo. Ho in mente la parola
continua del Papa. Ho letto il bellissimo lavoro che ha presentato Papa
Francesco, Querida Amazonia, dove vengono affrontati i temi della salute e dell’ambiente, superando qualsiasi compatibilità capitalistica.
Questo
perché, al centro del problema rimane il conflitto fra il profitto e la
ragione dell’umanità e della natura. Tutto questo avviene perché manca
una visione che metta al centro l’uomo e che metta al centro, dunque, la
natura. Cuba, la Cina, ma anche il Venezuela ed altri paesi socialisti,
attraverso la pianificazione economica riescono a superare questo
conflitto, ponendo al centro le ragioni dell’essere umano. Lo fanno,
grazie alla la pianificazione economica e sociale che gli consente di
raggiungere quegli obiettivi, non rinunciando a sottoporre l’economia
alle ragioni della politica, dominandone la variabili.
Pertanto,
è necessario un piano di sviluppo, a lungo termine, compatibile con la
democrazia di base, in cui anche le istituzioni riescano a controllare e
a fare la loro parte per guidare i destini dell’umanità. La Cina ha
raggiunto questi obiettivi perché ha costruito un corpo sociale sano, in
cui esistono gli anticorpi, le misure idonee, a combattere questi virus
quando insorgono.
Che cosa intende per corpo sano? Chi lo crea?
La
politica economica certamente. A patto che questa sia una forma
complessiva della gestione del corpo sociale piuttosto che uno strumento
per temperare gli squilibri di un sistema economico, quello del
profitto, che è lasciato all’iniziativa privata. Lo sviluppo deve
distinguere assolutamente fra la modalità del mantenimento
dell’interesse sociale, economico e, quindi, dell’occupazione, del
salario, e quelle che sono le formule matematiche, la famigerata
econometria del modo di produzione capitalistico, che parla di cifre, di
rapporto debito-PIL, dimenticando non solo la complessità sociale ma
mettendone costantemente a rischio la coesione.
Dobbiamo
renderci come questa globalizzazione non governi più il mondo. La
globalizzazione neoliberista, la finanziarizzazione dell’economia non
solo non governa più il mondo, ma ne mette a serio repentaglio gli
equilibri.
Serve
una centralizzazione politica e non l’avventurismo che stanno
dimostrando l’opposizione o anche il nostro governo che non si rendono
conto che la produzione deve avere una razionalità pianificata sulle
singole unità produttive. Si tratta di elementi fondamentali per la
coesione sociale. In questo si inquadra anche il discorso
sull’innovazione tecnologica. Esiste, pertanto, un forte squilibrio fra
sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione, cioè abbiamo
delle forze produttive estremamente sviluppate, ma sono state messe al
servizio dell’interesse privato.
Alcuni
osservatori hanno evidenziato che l’insorgenza del coronavirus abbia
ampliato la frattura fra l’occidente e la Cina. Altri, come questo virus
sia stato strumentalizzato per questioni geopolitiche: qual è la sua
opinione?
Io
non mi voglio addentrare o fare dietrologia su come si è sviluppato
questo coronavirus. Tuttavia, esistono delle fonti, anche piuttosto
attendibili, che mettono in relazione questo coronavirus con la guerra
batteriologica. Ossia, non escluderei del tutto, senza cedere
all’immaginazione, che il coronavirus sia una deviazione da laboratorio
di quell’infezione che, già nel 2004, si chiamava Sars. Era stata
studiata nei laboratori inglesi e americani concentrati sulla guerra
biologica. La Cina sta mettendo in discussione la guida monetaria del
dollaro e il primato globale dei paesi imperialisti. Non solo la Cina,
ma anche paesi come la Russia o il Venezuela rappresentano un pericolo
per gli assetti imperialistici. In questa chiave, non escluderei che a
qualcuno la situazione sia sfuggita di mano. Ma questi sono scenari in
cui non vale la pena nemmeno addentrarsi. Il problema è quello di uscire
dalle compatibilità capitalistiche.
Un’ultima riflessione. Sono di questi giorni le notizie sulle rivolte nelle carceri. Che cosa ne pensa?
Quanto
è successo nelle carceri mi ha colpito molto. Nessuno o pochi stanno
dicendo che i detenuti avevano ragione. Lasciamo perdere gli episodi di
evasione o quanto è potuto avvenire di disdicevole. I detenuti, che sono
una componente sociale e, dobbiamo ricordare che nel nostro paese la
maggior parte dei detenuti sono in attesa di giudizio e che, quindi,
molti di loro escono assolti durante i processi, vivono delle condizioni
di sovraffollamento molto pericolose.
La
contaminazione può essere molto facile. Le proteste sono partite,
infatti, da parte di detenuti che dicevano di volere le mascherine e di
volere condizioni di sicurezza. Un paese serio e democratico, invece di
sospendere i colloqui, dovrebbe prendere un provvedimento che non metta a
repentaglio la vita di queste persone. Si potrebbero concedere misure
alternative al carcere a chi non ha commesso reati gravi. Inoltre,
bisogna fare chiarezza sui dieci morti che ci sono stati. È il dovere di
uno stato che vuole essere democratico e progressista.
Sono stati affrontati molti temi, alcuni dei quali riguardano i nodi principali del nostro presente. Grazie per l’intervista.