venerdì 28 febbraio 2020

Davvero passiamo dal panico alla minimizzazione?

Ancora non conosciamo la portata reale né gli effetti della diffusione del #coronavirus . E rischiamo di saperne collettivamente sempre meno, visto il comportamento dei politici e dei mass media. Che dopo aver contribuito a diffondere il panico ora cambiano radicalmente atteggiamento. Così anche il senso dei dati reali cambia.
Ieri la Protezione Civile registrava circa 450 contagi. Stasera ne registra 650, 200 in più, l’aumento in numero assoluto più alto da quando è iniziata l’emergenza.
Eppure i mass media sdrammatizzano, affermando che il contagio è in calo e molte autorità politiche già fan capire che lunedì riapre tutto.
Io, come tanti, non sono in grado di giudicare, mi affido agli scienziati, peraltro a volte in disaccordo tra loro. Ho presente la Cina, che dopo incertezze e errori iniziali ha fatto un’opera enorme, le cui dimensioni non sono minimamente paragonabili a ciò che capita a noi, e che è stata riconosciuta come decisiva per tutto il pianeta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Ma in Italia il corto circuito tra informazione e un ceto politico indecente ha prodotto una completa schizofrenia dei messaggi. Nella prima metà della settimana abbiamo vissuto l’ avvio di una pestilenza; ora, senza che nessun dato reale sia cambiato, stiamo per uscire da una influenza sopravvalutata, che uccide solo vecchi già ammalati.
Esagero? Siamo stati i soli a chiudere i voli dalla Cina e ora ci lamentiamo perché fanno lo stesso con noi. Ci sono i leghisti che vogliono riaprire le scuole, ma chiedono ancora di chiudere le frontiere, dove sull’Appennino? E se le misure del governo sono giuste, perché gli stessi politici di governo ora mandano messaggi opposti su di esse?
Scusate la semplificazione, ma la Cina ha isolato in casa 60 milioni di persone per settimane e continua, noi dopo 4 giorni già vogliamo mettere tutto in discussione? Certo nelle misure italiane ci sono contraddizioni, assurdità e torsioni autoritarie, come la richiesta di non scioperare e di non manifestare, come se la mobilitazione civile diffondesse i virus, mentre fabbriche e uffici aperti no.
Certo la UE come al solito si è rivelata inutile o dannosa proprio quando avrebbe potuto servire davvero.
Però la questione di fondo sulla quale abbiamo il diritto di pretendere chiarezza è semplice e brutale: o le misure erano sbagliate dall’inizio, o è sbagliato toglierle ora che non é cambiato sostanzialmente nulla, visto che nessuno scienziato dice che siamo usciti dall’emergenza.
Siamo il paese dove governo, imprese e sindacati confederali concordano di far funzionare l’Ilva nonostante che faccia ammalare come e peggio di un virus. Ora nel nome del PIL dichiareremo il Coronavirus sconfitto o innocuo?
Ripeto: io non conosco la portata reale della malattia e del suo contagio, ma non voglio che il giudizio su di essa sia determinato dalle supreme leggi della produzione e del mercato. Non voglio che si usi il lavoro favoloso degli addetti alla sanità pubblica per giustificare ancora tagli e privatizzazioni. Non voglio che si dimentichi che le Regioni hanno dato pessima prova e che se c’è un diritto che non può essere frantumato è quello alla salute. Ci vuole la sanità pubblica di stato, altro che autonomia differenziata!
Non possiamo permettere che la crisi epidemica e sociale che abbiamo vissuto sia cancellata dal ritorno del teatrino della solita politica, dove tutti si accusano di non fare le stesse identiche inutili cose. Non possiamo accettare che si passi dal panico alla minimizzazione, senza fatti, senza reale conoscenza, passando da una percezione a quella opposta, mentre tutto riprende ad andare come se nulla fosse successo.
Faremo di tutto per ricordare e ricordarci cosa è successo.

giovedì 27 febbraio 2020

Il coronavirus dimostra inutilità della sanità privata. Usb: “Il sistema pubblico unico baluardo

L’epidemia di coronavirus ha tra i suoi effetti collaterali quello di consentirci alcune valutazioni a caldo sulle politiche in materia di Sanità nel nostro Paese e sulla sua capacità di fronteggiare un’emergenza.  
A oggi il propagarsi del virus sembra circoscriversi a due consistenti focolai in Lombardia e Veneto e altri sporadici casi nel resto d’Italia e questo probabilmente limiterà le problematiche di gestione in caso di una, speriamo ipotetica, impennata dei contagi.
Nelle strutture sanitarie mancano, come da segnalazioni che arrivano da più regioni, attrezzature quali respiratori e biocontenitori, ma anche semplici Dispositivi di Protezione Individuali quali le mascherine.
Mancano i posti letto e quindi vengono cercate soluzioni estemporanee quali alberghi e strutture militari in via di dismissione. Si fa sentire con violenza la mancanza di personale. L’unico vero baluardo è rappresentato da medici, infermieri e tecnici sanitari che, con turni di lavoro estenuanti, stanno garantendo la tenuta del sistema e la corretta assistenza alla cittadinanza.
Risulta ogni giorno più chiaro come tutto quello che in dieci anni è stato sottratto al Servizio Sanitario Nazionale in termini di riduzione del finanziamento, riduzione di personale e di servizi, riduzione dei posti letto e conseguente congestione e affollamento dei Pronto soccorso, chiusure di ospedali, abbia ridotto la sanità pubblica in condizioni tali da dubitare della tenuta del sistema.
Il tutto a favore di una sanità privata che in un contesto come l’attuale, mostra la sua inutilità per la collettività.
Infatti, giustamente, non è a ai privati che viene chiesto di fronteggiare l’emergenza, ma è proprio alla bistrattata Sanità Pubblica, quella delle liste di attesa infinite, quella dei “fannulloni”, quella che “privato è meglio”. È quando il gioco si fa duro che vengono rivalutate e si iniziano a reclamare la perfetta funzionalità e la prontezza nella risposta, sono giustamente richiesti percorsi ospedalieri che garantiscano il contenimento del virus, si pretendono efficienza ed efficacia da infermieri, medici e operatori sanitari, stremati da anni di ritmi di lavoro insostenibili, si reclama che laboratori di analisi e radiologia ridotti al lumicino, sia in termini di attrezzature che di personale, effettuino test e esami a tappeto su intere comunità.

Lombardia e Veneto, le regioni più colpite finora, sono l’emblema di come, nonostante la massiccia distrazione di risorse a favore della sanità privata convenzionata, quest’ultima, governata esclusivamente dalla logica del profitto, risulti essere completamente estranea al concetto di tutela collettiva della salute e non vi partecipi in maniera alcuna.
E risulta ogni giorno più chiaro anche il fallimento delle politiche di regionalizzazione della sanità, con le Regioni che finora hanno affrontato in ordine sparso l’emergenza emettendo ordinanze spesso in contrasto fra di loro e, spesso, volte esclusivamente a cercare facile consenso fra la cittadinanza.
Ci auguriamo che il Paese esca al più presto dall’epidemia, ma auspichiamo altrettanto che si apra una riflessione seria sullo stato del SSN e sugli effetti nefasti della regionalizzazione, che rischiano, con il progetto di autonomia differenziata, del quale proprio Lombardia e Veneto sono i capofila, di essere amplificati.
È tempo, invece, che il Servizio Sanitario Nazionale torni a essere competenza esclusiva dello Stato, unico in grado di gestire emergenze di carattere nazionale come questa, unico ad avere come riferimento prioritario la salute dei cittadini.

mercoledì 26 febbraio 2020

Una storia di mutui e precarietà: i dolori del giovane Boeri

A leggere le accorate parole sui giovani che non trovano chi sia disposto a dar loro credito per acquistare casa, si sarà commosso per primo il titolista di Repubblica, che ha pensato di riassumere il commento di Tito Boeri del 19 febbraio scorso col titolo strappalacrime “La verità, vi prego, sui mutui”. L’ex presidente dell’Inps si mostra seriamente e sinceramente preoccupato: le banche cattive non concedono mutui ai giovani precari perché non hanno capito che il mercato del lavoro è cambiato.
Proviamo a ricostruire. Il 17 febbraio Repubblica ospita una lettera di Boeri, che sulla stessa falsariga denunciava “Se la banca nega il futuro ai giovani”. Nell’articolo, il pluribocconiano Tito denunciava i comportamenti degli istituti di credito, rei, a suo avviso, di applicare regole troppo restrittive ai giovani con contratti di lavoro a tempo determinato che vanno a chiedere un mutuo.
Per farlo, citava i dati di un sito specializzato, MutuiOnLine.it, ripresi anche da altre testate. La quota di mutui erogati ai minori di 36 anni si è ridotta quasi della metà dal 2006 a oggi: si è passati dal 44.8% del totale dei mutui al 22.6%. In altri termini, solo un mutuo su cinque va a finanziare i giovani tra i 18 e i 35 anni.
E perché, si chiede il Boeri nazionale? Ovvio, secondo lui: perché le banche hanno un modo antico di pensare. Ma il mondo del lavoro è cambiato e le banche non possono limitarsi a dare credito quasi esclusivamente a chi ha un dignitoso e noioso (ci fa capire il nostro) contratto a tempo indeterminato.
Ma le banche non ci stanno e, per bocca del Direttore Generale dell’Associazione Bancaria Italiana (ABI), Giovanni Sabatini, rispondono per le rime. Il problema c’è, dice Sabatini, “ma non è creato dalle banche, è del Paese: che non cresce, non crea lavoro, non dà occupazione ai giovani”. E, a dimostrazione di ciò, aggiunge che prima di un problema di offerta (disponibilità delle banche a concedere mutui), c’è un problema di domanda: le banche non concedono mutui soprattutto perché i giovani non li chiedono.
Si è passati, infatti, da una percentuale di domande provenienti dalla fascia di età in questione (35 anni o meno) pari al 49.2% del totale al 27.2% dei giorni d’oggi. In aggiunta, il numero di occupati in quel segmento della popolazione si è ridotto del 18% nello stesso periodo.
Siamo così al 19 febbraio, il giorno in cui si aprirono le cataratte delle lacrime di Boeri e in cui fu chiesta, finalmente, “la verità”. I dati sciorinati da Sabatini sono veri, dice, ma non spiegano, se non in parte, il crollo nella concessione di mutui: come si può pensare che i giovani non abbiano interesse a un mutuo con i tassi attuali? E già, perché se nel 2008 un mutuo ipotecario a 10 anni o più richiedeva interessi superiori al 5%, oggi siamo all’1%.
Se si considera l’inflazione, gli interessi in termini percentuali sono nulli o addirittura negativi (immaginate di prendere 100 euro in prestito al tasso del 10% in un anno per comprare oggi una determinata quantità di beni. Tra un anno dovrete restituire 110 euro. Ma se, nel frattempo, il prezzo degli stessi beni sarà aumentato del 10 per cento, i 110 euro di domani avranno lo stesso potere d’acquisto dei 100 euro di oggi: in altri termini, il tasso di interesse reale è stato pari a zero).
Come potrebbe un giovane razionale, con tutti i problemi di liquidità che oggi i giovani si trovano a patire, non essere tentato da acquistare una casa con un mutuo che, in termini di interessi, gli costa zero? Il problema, quindi, non può che derivare dalle banche.
Ma cosa sbagliano le banche? Ebbene “tra i beneficiari di mutui casa non si trovano mai giovani con contratto a tempo determinato o partita Iva. I beneficiari hanno tutti, o quasi, un contratto a tempo indeterminato”. Stupore e choc. Banche cattive. E anche stupide, aggiunge (senz’altro con il ghigno beffardo di chi la sa lunga) Boeri.
Un contratto a tempo determinato di un giovane laureato in una università prestigiosa (ovviamente prestigiosa, magari privata,ndr) dà più garanzie di un contratto a tempo indeterminato in una piccola impresa a rischio di chiusura. Un medico con partita Iva che sta entrando in specializzazione è più affidabile dal punto di vista del rientro del debito di una persona con contratto a tempo indeterminato in settori dove ci sono diffusi licenziamenti collettivi”. E poi (ecco l’arma segreta) non si può “non tenere conto del fatto che il 20% dei contratti a tempo determinato (una percentuale dunque diversa da zero) diventa a tempo indeterminato nell’arco di un anno”.
Vi assicuriamo che la parentesi sul fatto che il 20% non è lo 0% non l’abbiamo aggiunta noi. E, dunque, la sfida: care banche, rendete nota la documentazione sui protocolli che adottate nella concessione dei prestiti ai giovani!
Non vorremmo deludere Boeri, ma se le banche non concedono mutui (e i giovani precari neanche li chiedono) è proprio perché il mondo del lavoro è cambiato, e le banche lo hanno capito prima e meglio di Boeri. Il quale questo mondo del lavoro fatto di tempo determinato, part-time, precarietà, freelance, vere e fittizie partite Iva, ha contribuito, nel suo piccolo, a crearlo. E ora cerca di coprire le tracce dei misfatti suoi e della sua compagnia di giro, provando a distogliere l’attenzione da una realtà quotidiana piagata da precarietà e disoccupazione.
Sia chiaro: le banche non sono note per le loro operazioni di carità. Prestano più facilmente ad amici e ad amici degli amici, soprattutto se hanno investito nelle aziende di questi amici e ne detengono azioni e/o obbligazioni, imbrogliano i risparmiatori sulla rischiosità degli investimenti e tengono nascoste magagne e bolle speculative fino a quando possono, investono in operazioni a rischio consapevoli che i profitti, se ci saranno, saranno privati e i costi di salvataggio eventuali saranno pubblici. Insomma, chi più ne ha più ne metta.
Ma, per un attimo, facciamo finta che tutti i bancari e i banchieri siano seri professionisti, che non sgarrino neanche per un attimo rispetto alla legge e non abbiano incentivi a mettere in atto comportamenti scorretti. Facciamo finta che le banche siano quegli asettici operatori razionali che si trovano tra le pagine dei libri di finanza. In questo caso, la banca farebbe comunque quello che deve fare: la banca. Concedendo prestiti e mutui se pensa di poterci guadagnare. E, se deve prestare soldi, informandosi prima sulle probabilità che i soldi vengano restituiti o, comunque, facendosi dare delle garanzie (sa, non è per sfiducia verso di lei, l’ipoteca sulla casa dei suoi genitori è solo una mutua rassicurazione).
Il mondo del lavoro, dunque, è cambiato. A un giovane che si avvia al mondo del lavoro vengono offerte principalmente posizioni precarie. Stage, assunzioni in prova, collaborazioni, lavoro formalmente ‘autonomo’. E, anche quando vengono assunti a tempo indeterminato, grazie al Jobs Act possono essere mandati via in qualunque momento, a condizioni molto vantaggiose per l’impresa. Insomma, per un giovane la precarietà è la norma. E i salari? Non è una notizia, neanche sul pianeta Boeri, che, soprattutto per i giovani, sono spesso da fame e al limite della sussistenza.
Al di là delle vostre buone intenzioni, forse neanche voi prestereste 100 euro a un amico freelance in difficoltà. Figuratevi le banche, che sicuramente non hanno buone intenzioni. E l’amico freelance stesso, verosimilmente, di fronte a prospettive di reddito e di lavoro disgraziate ci penserà dieci volte prima di prendere su di sé il carico di un debito da ripagare nel corso di decenni, attingendo a remunerazioni miserabili.
Quando Sabatini dice che l’economia italiana non cresce, non crea lavoro, non dà occupazione ai giovani, dice il vero. Certo, lo dice per ragioni diametralmente opposte rispetto a noi, ma ha il merito di riportare la discussione sulla Terra. Le riforme strutturali del mercato del lavoro chieste a gran voce dalle istituzioni economico-finanziarie internazionali e dagli economisti bocconiani nostrani hanno creato e creeranno generazioni di precari, che fanno fatica a mettere il piatto in tavola, a fare progetti per il futuro, a permettersi beni durevoli e non.
Allo stesso tempo, le regole europee, il trattato di Maastricht e le sue successive incarnazioni, la troika, i Monti, le Fornero, i Cottarelli e i Boeri di ogni età, razza e religione hanno implementato e/o giustificato ideologicamente i tagli alla spesa pubblica, la riduzione del deficit e del debito, gli aumenti dell’età pensionabile e la riduzione degli assegni di pensione, impedendo, di fatto, la riduzione della disoccupazione attraverso assunzioni dirette, investimenti pubblici e pensionamenti anticipati.
Boeri non lo capisce o fa finta di non averlo capito e, con un capolavoro di ipocrisia, finge di cascare dal pero quando i dati ci dicono che i giovani non provano neanche a immaginare e costruire un futuro con un minimo di stabilità e considerano quindi mutuo e casa come una chimera da rimandare al futuro lontano. Paradossalmente sono le banche, motivate esclusivamente dalla sete di profitto, a fare luce su quello che a Boeri appare come un insondabile arcano: chi non ha prospettive di lavoro e percepisce salari da fame non pianifica l’acquisto di una casa. E, anche se lo facesse, non vedrebbe un soldo perché si presta solo a chi dà prospettive solide di ripagamento del debito.

martedì 25 febbraio 2020

Veneto. Il coronavirus è una questione di salute pubblica, non di protezione civile

Fino al 21 febbraio ci si illudeva che per bloccare il coronavirus bastasse la cosiddetta “strategia di contenimento messa in atto dal governo il 31 gennaio con la sospensione di tutti i voli da e per la Cina e il monitoraggio dei passeggeri arrivati in Italia con i voli internazionali.
Fino al 21 febbraio sembrava che gli unici contagiati dal coronavirus in Italia fossero due turisti cinesi ricoverati il 30 gennaio allo Spallanzani e un italiano rimpatriato dalla Cina e risultato positivo al virus durante la quarantena alla Cecchignola.
Nel frattempo il virus aveva raggiunto decine di altri Paesi, tra cui la Francia, la Germania, gli USA.
Il fatto che in Italia non se ne fosse trovata traccia sembrava dar ragione alla strategia del governo Conte.
Il queste tre settimane nessuno ha sollevato dubbi sulla dichiarazione del presidente del consiglio che rassicurava «sul fatto che la situazione è sotto controllo e che le misure assunte sono di carattere precauzionale e collocano l’Italia al più alto livello di cautela sul piano internazionale.»

Purtroppo c’era una spiegazione differente: in Italia in questi 20 giorni non risultavano contagi semplicemente perché nessuno li cercava davvero.
Più che il coronavirus si cercavano i cinesi o comunque persone che provenissero dalla Cina.
Tant’è che nello stessa ordinanza del Ministro della Salute, redatta d’intesa con Zaia nella giornata di ieri 22 febbraio si invita la popolazione di Mira, paese del veneziano in cui c’è stato un caso di contagio, a Contattare il Numero Verde 1500 se hai febbre o tosse e sei tornato dalla Cina da meno di 14 giorni. All’indomani della scoperta del “focolaio veneto” si continua a sostenere che avere i sintomi non è di per sé preoccupante se non si è appena tornati dalla Cina.
Il caso dell’ospedale di Schiavonia della ULSS 6 Euganea (Padova) è paradigmatico: due anziani ricoverati da dieci giorni con tutti i sintomi del coronavirus vengono spostati tra i vari reparti, ma nessuno li sottopone ai test fino a quando due giorni fa non esce sui giornali la notizia dei primi casi in Lombardia.
Solo allora ci si preoccupa di questi due pazienti affetti da questa influenza così resistente alla normali cure. Si fanno i test e si scopre che c’è un focolaio di coronavirus anche in Veneto. Ma è troppo tardi. In primo luogo per uno dei due pazienti, che muore nel giro di poche ore.
Ma anche perché per quanto Schiavonia sia un piccolo ospedale comunque ha 150 posti letto e 300 operatori tra medici e infermieri. Quindi almeno 450 persone che possono essere venute in contatto con il virus a cui vanno aggiunti i familiari dei pazienti e quelli degli operatori.
Servirebbero centinaia di test, ma il personale dei laboratori è stato ridotto all’osso da decenni di tagli e di privatizzazioni.
Servirebbe anche un ospedale in cui trasferire tutti i pazienti, dal momento che la stessa ordinanza del ministero della salute e del governatore Zaia, decreta la chiusura temporanea di Schiavonia; ma in questi anni sono tantissimi gli ospedali che sono stati chiusi.
Non si sa se la tendopoli, costruita dalla Protezione civile di fronte all’ospedale, possa essere davvero l’alternativa.
Ma è appunto questo il problema di questa epidemia.
Si dice che alla fine dei conti si tratta solo di una influenza, ma da molti anni il servizio sanitario nazionale non deve fare i conti con le migliaia di ricoveri di una epidemia di influenza, perché la maggior parte delle persone si vaccinano, e lo fanno soprattutto quelle a rischio, quelle che in caso di malattia potrebbero avere complicazioni e necessitare di un ricovero.
Ma per il coronavirus, in assenza di una cura che non è ancora stata trovata, né comunque esiste neanche per la normale influenza, un’epidemia significa migliaia, decine di migliaia di persone, che necessitano di ricovero in posti letto che al momento non esistono più.
L’impressione è però che non ci sia alcun ragionamento serio in merito. Anche oggi l’emergenza coronavirus viene affrontata come si affronta un terremoto: si allerta la protezione civile, si costruiscono tendopoli. Ma questa è anche e soprattutto una emergenza sanitaria e come tale andrebbe affrontata.
Se poi questo costringe a rivedere la logica dei tagli e delle privatizzazioni, tanto meglio per tutti

lunedì 24 febbraio 2020

Paesi isolati militarmente. Contro il coronavirus c’è solo la sanità pubblica

Nulla come le emergenze vere, quelle che mettono a rischio reale un’intera popolazione, dimostrano l’ottusità criminale di un sistema basato sull’interesse e il profitto privato.
E il Coronavirus arriva a portare il suo contributo, al momento più sulla base della paura che della riflessione.
Andiamo con ordine. Il governo Conte, di fronte al moltiplicarsi dei focolai di infezione nel nord Italia, ha preso misure drastiche ma logiche, fondate sulle conoscenze scientifiche e centralizzando il comando sulle operazioni.
Isolamento completo per i comuni in cui sono stati verificate le infezioni, con divieto di entrata e uscita per residenti, visitatori, ecc, fino alle normali attività lavorative e commerciali. Lombardia e Veneto sono al centro delle attenzioni, e dunque sono state vietate anche le manifestazioni sportive, a cominciare dalle partite negli stadi, così come tutte le iniziative pubbliche che potrebbero mettere a contatto migliaia di persone. Chiuse le università e le scuole, vietate anche di conseguenza le gite scolastiche et similia.
I comuni saranno isolati anche “militarmente”, con l’intervento di polizia ed esercito, e chi infrangerà il divieto sarà passibile di sanzioni fino a tre mesi di carcere. Uniche eccezioni coloro che dovranno comunque far entrare rifornimento di cibo e medicine, i quali dovrebbero logicamente essere protetti in modo specifico.
I siti istituzionali traboccano di informazioni, ragion per cui vi rinviamo a quelle fonti per dettagli più precisi (DIREZIONE GENERALE DELLA PREVENZIONE SANITARIA).
Quello che ci sembra invece da sottolineare è che tutto lo sforzo sanitario poggia interamente sulla sanità pubblica. Ossia sul comparto che più di tutti è stato sottoposto, negli ultimi trenta anni, a tagli draconiani continui, esternalizzazioni, precarizzazione contrattuale e conseguenti riduzioni del salario medio.
Questo sistema viene in queste ore sottoposto a uno stress test che costringe già ora il personale medico, infermieristico e paramedico in condizioni di guerra. E dobbiamo contare con sincera gratitudine su queste persone straordinarie impegnate – stavolta sul serio – “in prima linea”.
Non si può però tacere sulle politiche criminali che sono state imposte alla sanità pubblica in tutti questi anni.
Proprio Lombardia e Veneto sono state le regioni in cui, in questi venti anni, è cresciuta enormemente la percentuale di spesa sanitaria privata accreditata in Italia rispetto al totale della spesa sanitaria, ossia sottraendo le sempre più scarse risorse a quella pubblica. L’Emilia di Bonaccini, peraltro, sta seguendo lo stesso percorso.
A questo sforzo gigantesco di contenimento del contagio la sanità pubblica partecipa tutta intera, ma da sola. La “sanità privata” è infatti totalmente fuori da qualsiasi logica di “protezione della popolazione”.
Nel privato, sembra utile ricordarlo, vige la ricerca del massimo profitto. Dunque si possono accettare anziani non autosufficienti se ci sono familiari che pagano; persone da operare o riabilitare che se lo possano permettere, ecc. Ma porte chiuse a chi non può pagare di tasca sua. E soprattutto agli “infetti”…
In caso di epidemia, come quello in corso, dunque, la sanità privata non esiste. E’ socialmente inutile. Anzi dannosa perché, come detto, sottrae risorse a quella pubblica, grazie alle generose donazioni che le Regioni concedono da qualche decina di anni.
Sono i centri pubblici come lo Spallanzani di Roma a fare ricerca. E sono ricercatori operanti nel pubblico, in gran parte precari – come Francesca Colavita, prima al mondo ad isolare il coronavirus – a tenere alta la capacità reattiva di un Paese a un’emergenza come questa.
I privati” in questi casi chiudono le porte e aspettano che passi la buriana. Vedremo nei prossimi giorni se le “strutture convenzionate” continueranno oppure no ad erogare prestazioni – in genere analisi e diagnostica specialistica – nelle zone a rischio contagio. Di certo, possiamo escludere qualsiasi spirito da “buon samaritano” (insomma, potrebbero anche continuare a farlo, ma in cambio di un “ritocco dei prezzi” verso l’alto).
Potremmo andare avanti a lungo, ma ci limitiamo per ora a stimolare la riflessione. Nulla come un’emergenza vera dimostra che il “privato” è un ostacolo al benessere della popolazione.
Uno spreco di risorse, direbbero i Cottarelli e le Fornero…

venerdì 21 febbraio 2020

Il governo Conte è al lavoro per affossare il salario minimo

Cgil, Cisl, Uil e Confindustria lo hanno sempre detto, non vogliono una legge sul salario minimo e soprattutto non vogliono che la legge stabilisca una soglia minima di salario al di sotto della quale non sia legale scendere. Per loro il minimo salariale lo deve stabilire la contrattazione e pazienza se poi oggi questo minimo è talmente basso che l’INPS ha calcolato in più di 5 milioni i lavoratori poveri di questo paese.
Tutti i partiti di governo sono accodati con Cgil, Cisl, Uil e Confindustria con la sola eccezione dei Cinque Stelle che da alcuni mesi difendono una proposta di legge, a firma della ministra del Lavoro Nunzia Catalfo, che fissa a 9 euro la soglia minima di salario orario. Ora però gli alleati di governo, Zingaretti, Renzi e Fratoianni, sarebbero riusciti ad eliminare la cifra e a sterilizzare la proposta di legge in una innocua e sostanzialmente inutile proposta che si limita a dire che i minimi salariali sono quelli dei CCNL firmati dai sindacati maggiormente rappresentativi.
Sui giornali compaiono le ipotesi più diverse che sarebbero allo studio per neutralizzare quella soglia che, secondo il presidente dell’INPS Pasquale Tridico, favorirebbe diversi milioni di lavoratori visto che i 10 CCNL più utilizzati in Italia (che coprono più del 50% dei lavoratori dipendenti) hanno i minimi tabellari al di sotto dei 9 euro.
Due sono le strade che la maggioranza sembra voler intraprendere: o eliminare ogni riferimento a una soglia, facendo perdere di senso alla norma, oppure stabilire una soglia così bassa da renderla sostanzialmente inefficace e potenzialmente pericolosa in vista dei prossimi rinnovi contrattuali. Da qui i riferimenti al 70% del salario mediano o altre ipotesi ancora più fantasiose che porterebbero comunque il minimo a scendere, cambiando di segno alla legge.
La tesi sostenuta a gran voce da Cgil, Cisl e Uil, secondo cui una legge sul salario minimo può mettere a repentaglio la contrattazione, acquista infatti un senso quando la soglia viene stabilita ad un livello tale da renderla appetibile per le associazioni datoriali, senza alcun effetto di innalzamento sul livello delle retribuzioni. I 9 euro sono ancora una soglia efficace perché produrrebbero una spinta verso l’alto a tutto il resto dei salari: se si scendesse più in basso ogni effetto positivo sarebbe compromesso.
Il paradosso è che questa operazione sia tutta nelle mani di quella che è oggi la sinistra italiana, dai sindacati confederali al Pd a LeU ai renziani. Sono loro che si stanno battendo con forza perché i salari non aumentino. E i Cinque Stelle sembrano ormai aver accettato quello che la casta politica e quella sindacale stanno imponendo, contro i lavoratori.

mercoledì 19 febbraio 2020

La farsa della “correzione dei Decreti Sicurezza

Come i nostri lettori sanno bene, noi non troviamo significative differenze tra il governo “giallorosè” e quello precedente, “gialloverde”. Se non nelle formule verbali che accompagnano provvedimenti assolutamente identici e quasi sovrapponibili.
Questa comune identità reazionaria la si è vista in occasione della “giornata delle foibe”, in cui sono state pronunciate da tutti i volti della “politica” le stesse frasi fatte prese di peso dalla propaganda fascista del dopoguerra.
E la si vede ancora di più nel cosiddetto “piano per modificare i decreti sicurezza di Salvini”, annunciato nientepopodimeno che dall’attuale ministro dell’interno, il prefetto Luciana Lamorgese (e quando si cominciano a nominare prefetti – rappresentanti del governo in una provincia, inquadrati nei ranghi alti della Polizia, ndr – al posto dei ministri c’è già più di un motivo di “allarme democratico”, anche e soprattutto se nessuno se ne indigna).
Scorrendo l’intervista si vede chiaramente che la “correzione” proposta è più formale che sostanziale, e soltanto in materia di immigrazione; mentre altrettanto spazio e pericolosità riveste la parte dei “decreti Salvini” neanche nominata e che riguarda la gestione dell’ordine pubblico in presenza di manifestazioni politiche e popolari, fino a quelle sportive (un campo dove è stato sperimentato da quasi 30 anni il peggio dell’armamentario repressivo, poi esteso a tutta la “società civile”).
Di misure vere e proprie ancora non si parla, anche perché il ministro deve sottoporre il suo “pacchetto” all’analisi di tutto il governo. Ma quel che intanto dice punta a eliminare alcune “criticità” che hanno aumentato il lavoro per le forze di polizia e creato vuoti che fanno peggiorare, anziché diminuire, la “percezione di insicurezza”. Un classico dell’atteggiamento “poliziottesco”, che non mira mai a risolvere un problema sociale, ma sempre e soltanto ad aumentare la discrezionalità delle polizie e l’uso politico della paura.
Dice infatti Lamorgese: abbandonare le persone “senza offrire loro una prospettiva alimenta il rischio che vengano attratti dai circuiti criminali. Se i migranti si sentono rifiutati dallo stato, tra l’altro, si corre anche il rischio che rispondano al richiamo della radicalizzazione”. Vero, ci mancherebbe. Tutti, anche dai piani alti dell’establishment, avevano criticato questo lato dei “decreti Salvini” per lo stesso motivo. Sottolineiamo, però, che anche la “correzione” avviene nel solco della stessa logica: immigrato = potenziale pericolo (delinquenziale o terroristico). Insomma, si corregge per facilitare l’operatività delle polizia, non per favorire processi di integrazione reale.
La continuità di impostazione la porta a suggerire una seconda correzione sul piano dei fondi per le strutture. Qui Salvini aveva operato tagli draconiani, tali da rendere impossibile per chiunque (tranne forse la Caritas, che viene di fatto finanziata dal Vaticano con le risorse dell’8×1000) la gestione di centri di accoglienza, di qualsiasi dimensione.
C’è bisogno “di risorse adeguate” e per questo motivo il Viminale, “davanti a una grave situazione in cui i bandi di gara andavano sempre deserti a causa di tagli lineari, ha riconosciuto ai prefetti la possibilità di aumentare in modo flessibile, a seconda delle diverse esigenze territoriali, i fondi da destinare ai servizi per i migranti”.
Anche qui si corregge un “eccesso propagandistico” del “Truce”, che aveva creato ulteriori  problemi invece di risolverli. Ma non si cambia la logica complessiva. Diventa insomma una questione di “grado” e di “efficienza”, non una “cultura” più democratica – e realistica – nei confronti dell’immigrazione.
Tutto qui. Non c’è altro, per il momento. Per gli immigrati cambia davvero poco, come fanno già stamattina notare tanti operatori del settore.
Per esempio. Il primo decreto sicurezza (decreto legge 113/2018, articolo 13) ha stabilito che il permesso di soggiorno temporaneo rilasciato ai richiedenti asilo non rappresenta titolo per l’iscrizione anagrafica. Due successive circolari ministeriali avevano “chiarito” che la norma andava intesa come un divieto assoluto di iscrizione anagrafica per i “richiedenti asilo”. I Comuni che l’avessero comunque concessa avrebbero avuto delle imprecisate ma pesanti conseguenze amministrative.
Una norma non solo ottusa sul piano dei valori, ma anche in contrasto con un intero sistema di leggi che regolano la materia, per le quali lo straniero, regolarmente soggiornante, deve poter effettuare le iscrizioni e variazioni anagrafiche alle medesime condizioni dei cittadini italiani (articolo 6, comma 7 del decreto legislativo 286/1998 – Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero). Tanto che molti Tribunali, affrontando ricorsi legali, avevano di fatto già reso inapplicabile il diktat salviniano. In qualche caso sollevando la questione di legittimità costituzionale.
Senza iscrizione anagrafica nessuna persona – né italiana, né tanto meno straniera – può fare nulla. Non può essere assunto, non può frequentare corsi di formazione e persino di istruzione (come fa a imparare la lingua italiana o un mestiere?). Non ha diritto ad esistere e sopravvivere.
Questo “divieto di iscrizione” non viene invece neanche nominato dal ministro Lamorgese, quindi è intuibile che non verrà “corretto” se non nella misura minima necessaria ad evitare altre condanne in tribunale.

E allora dove è la differenza rispetto a Salvini? Nel fatto che ora non si strepita mediaticamente ad ogni nave che soccorre naufraghi in mare? E che cambia se poi, quando infine vengono fatti sbarcare, li si tratta nello stesso modo?
Ma è sul terreno propriamente repressivo che questo governo non fa neanche finta di voler fare qualcosa di diverso dal precedente. Tutta la parte riguardante le manifestazioni di piazza resta intoccata. Parliamo di norme fascistissime, come quella art. 5 bis: «chiunque, nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico, lancia o utilizza illegittimamente, in modo da creare un concreto pericolo per l’incolumità delle persone o l’integrità delle cose, razzi, bengala, fuochi artificiali, petardi, strumenti per l’emissione di fumo o di gas visibile o in grado di nebulizzare gas contenenti principi attivi urticanti, ovvero bastoni, mazze, oggetti contundenti o, comunque, atti a offendere, è punito con la reclusione da uno a quattro anni.»
O l’art. 7, che supera il ridicolo – in difesa della “proprietà privata” – quando prescrive la punizione di «Chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico è punito con la reclusione da uno a cinque anni».
Ricordiamo che Nicoletta Dosio e altri attivisti NO Tav sono attualmente in carcere per aver fatto guadagnare ognuno 38 euro in meno a testa al concessionario autostrade Gavio, con l’apertura delle sbarre del casello in Val Susa. Un anno di carcere per 38 euro… Questa è la misura della follia repressiva.
Questo è quanto il “governo non salviniano” vuol mantenere con ogni mezzo.

lunedì 17 febbraio 2020

Macché crisi di governo, è solo normalizzazione…

La crisi infinita della politichetta italiana sta collassando. Non esiste più alcuna differenza apprezzabile tra i vari “schieramenti politici”. L’unica novità sta nell’annullamento di quanto resta della “alternativa” malamente rappresentata per un decennio dai Cinque Stelle.Pura normalizzazione, insomma, condotta per via di logoramento quotidiano.

I due attori principali, per il momento, sono gli stessi che da un quinquennio dominano la scena mediatica: “i due Matteo”. Come in un serial ormai stanco e ripetitivo…
Che un governo possa cadere per via di una cosa poco chiara ai più, come la “prescrizione”, è indicativo del fatto che i veri giochi si stanno facendo su tutt’altro. E che ad aprire la crisi sia il gruppo di interesse – nessuno riuscirebbe a prendere sul serio “Itala viva” come “partito” – che meno di tutti ha la possibilità di trarre vantaggio da eventuali elezioni anticipate, la dice lunga sul ruolo di “killer su commissione” affidato a Renzi & co.

La prescrizione

Togliamo di mezzo questo tema, fonte solo di confusione. In qualsiasi paese di “democrazia liberale” – che è cominciata ad esistere affermando l’habeas corpus, ossia il diritto ad essere processati restando uomini liberi fino alla condanna (con tante e non sempre ovvie eccezioni) – il sistema giuridico deve tenere insieme due esigenze opposte: perseguire chi commette un reato, violando le leggi, e farlo in un processo che abbia “tempi ragionevoli”. Un’ottima panoramica è offerta, una volta tanto, dal Corriere della Sera.
La seconda esigenza, come è logico, vale soprattutto nei processi penali, in cui – a seconda della gravità del reato contestato – l’indagato può essere sottoposto a carcerazione preventiva; ossia in una condizione che equivale a scontare concretamente una condanna anche se non è ancora stata sentenziata né trasformata in definitiva.
Nei processi civili, dove ci sono in ballo “solo” soldi e proprietà, ma non la libertà personale, non esiste prescrizione. E infatti i tempi di celebrazione sono sempre infiniti. Alcune sentenze arrivano dopo diversi decenni, e interessano a quel punto gli eredi dei danti causa. Chi ci è passato sa che spesso è “normale” veder fissare la successiva udienza (e ogni processo, anche banale, ne prevede diverse) anche anni dopo. Impensabile che questo possa avvenire con persone imprigionate e che dunque potrebbero essere innocenti e, in percentuali rilevanti, lo sono.
La “riforma Bonafede” era ed è un’infamia da sbirri, perché blocca la prescrizione senza garantire “tempi certi e ragionevoli” allo svolgimento dei processi penali. E quindi crea un regime in cui delle persone possono restare sotto processo, e spesso in galera, per un tempo imprecisato.
Qualche “sinistro” equivoca sull’argomento, portando esempi di processi “finiti in prescrizione” che riguardavano potenti, imprenditori, ricchi in genere. Ed è ovviamente vero che “finire in prescrizione” è una tattica spesso usata da avvocati importanti con clienti importantissimi.
Ma non è eliminando la prescrizione che i potenti finiranno in galera anche se colpevoli di reati gravi. Con i soldi e il potere si possono usare decine di “tattiche processuali” diverse, sia legali che illegali.
Si possono portare migliaia di esempi in cui “i potenti” si sono salvati corrompendo i giudici e/o i testimoni (do you remember Berlusconi?), manipolando persino le nomine per gli uffici giudiziari più importati (il “caso Palamara-Csm”), facendo trasferire processi in sedi improprie (la strage di Piazza Fontana giudicata a Catanzaro grida ancora vendetta…). Ecc. Il sistema giudiziario è largamente “permeabile” alle ragioni e agli interessi del potere. Nessuna legge può cambiare questa situazione di fatto.
Quindi la “battaglia di Renzi sulla prescrizione” è chiaramente una falsa “bandiera di civiltà” e persegue tutt’altro obbiettivo.

Matteo Primo, ossia Renzi

L’ex premier che aveva scalato il Pd per conto di Verdini, fino a diventarne segretario e addirittura presidente del Consiglio, ha di fatto posto le premesse per una crisi di governo. Eppure, come detto, se si andasse ad elezioni anticipate oggi non avrebbe i numeri per superare la “soglia di sbarramento” da lui stesso voluta nella legge elettorale in vigore – il Rosatellum, dal nome del suo fedelissimo.
Insomma, a meno di non volersi suicidare politicamente in via definitiva e tornare a lavorare per l’azienda di papà (nel frattempo finito sotto processo, ma deve essere una coincidenza…), il suo obbiettivo non può essere questo.
E quale può essere?

Matteo Secondo, detto Salvini

Il Truce” ha appena inscenato un’altra figura di m…, facendo uscire i senatori della Lega dall’aula al momento del voto sull’autorizzazione a procedere nei suoi confronti, dopo aver giurato per mesi che li avrebbe fatti votare a favore, in modo che lui avrebbe potuto “dimostrare di aver difeso i confini della Patria”… impedendo per giorni a una nave militare della suddetta Patria di entrare in un porto della Patria stessa.
Il vecchio Umberto Bossi, da battitore libero, ha dato voce all’imprenditoria del Nord che non ha apprezzato la sua “svolta nazionale” (da “prima la Padania” a “prima gli italiani”), perché i legami di quel settore con le filiere produttive del Nord Europa (Germania in primis) sono in questo momento fonte di crisi e richiederebbero un di più di “attenzione differenziata”. E ben oltre i già ampi confini della famigerata “autonomia” richiesta anche dal dem Bonaccini per l’Emilia Romagna.
Dopo l’uscita “incomprensibile” dal governo gialloverde in pieno agosto non ne ha imbroccata più una, fino a non sfondare nella “regione rosa” che doveva segnare l’inizio del suo trionfo finale. E i sondaggi, che fin lì lo avevano confortato, hanno preso a girargli le spalle.
E’ ancora il leader del centrodestra, ma i concorrenti si moltiplicano. Anche lui si sta consumando, e persino dentro la cerchia si comincia a guardare oltre…
Il più concreto dei dirigenti leghisti, Giancarlo Giorgetti, neo “responsabile degli esteri” per il Carroccio, con un’intervista al Corriere si prende la libertà di ridurre tutta la stagione politica dei “porti chiusi” a poco più di una sceneggiata: «La politica di fermezza ha avuto risultati. Se ora l’Europa comincia ad accettare l’idea che l’Italia non può essere lasciata da sola, è grazie a Salvini. Se il ministro Lamorgese può andare a trattare in Europa è perché Salvini ha fatto il matto».
Ma è chiaro che “quella roba lì” non può essere la normalità della politica interna e delle relazioni internazionali di un partito “affidabile”. E liquida pure la “stagione filorussa” della Lega con parole di esplicito disprezzo: «Io a Mosca non ci sono mai stato. Ma la Russia è un Paese importante, sia per il commercio che per il suo peso strategico. Dunque dobbiamo avere rapporti buoni e proficui. Certo seri e formali, non dilettanteschi e carnevaleschi come nel caso che lei cita».
Per essere ancora più chiari: «siamo sempre stati filo-americani. Certo, Trump fa gli interessi dell’America. Sarebbe anzi giusto che anche l’Europa lo facesse, invece di andare in ordine sparso. Altrimenti i nostri prodotti prendono botte dall’America e anche dai partner europei».
E’ la fine della stagione dei “matti” e dei faccendieri da scantinato. La Lega – come vuole la sua vera base, la piccola e media industria del Nord – si ridisegna come un partito centrista, che entrerà presto nel Ppe, abbandonando Le Pen e Afd.

La svolta europeista della Lega

E’ qui il vero nocciolo dell’intervista di Giorgetti, del resto. Ricordate la Lega “sovranista”, quella che strepitava con gli “zero virgola di Bruxelles”, che voleva uscire dall’euro e mandare a quel paese la Merkel e Draghi? Noi dicevamo da anni che era tutto finto, ora lo dicono anche loro.
Giorgetti esplicita compiutamente la “svolta” senza possibilità di equivoci. E consegna i Borghi e i Bagnai al triste ruolo dei “leghisti dell’Illinois”.
Alla domanda di Antonio Polito – “Ma nel team dell’economia della Lega ci sono ancora Borghi e Bagnai, fautori dell’uscita dall’euro. Tenete il piedi in due staffe?” – risponde infatti col tono del capo assoluto: «Io sono il responsabile degli Esteri della Lega. E se dico che non usciamo, non usciamo. Punto».
Fine di un’epoca e di una presunta “vocazione sovranista”, che evidentemente era servita solo per raccogliere consensi elettorali tra “le larghe masse”, che da tempo stanno facendo i conti con quel “lo vuole l’Europa” che svuota le loro tasche e cancella la speranza nel futuro. Ora i leghisti copieranno il mantra che ha distrutto la ex “sinistra radicale”, pur partendo da numeri più consistenti: “molto deve cambiare. Per due ragioni: i trattati sono stati scritti in un’altra era geologica; l’epoca Merkel si avvia a conclusione. Così non si regge.
Auguri! Come tutti sanno, anche se fanno finta di ignorarlo, gli unici trattati che si cambiano sono quelli decisi da Parigi e Berlino, e solo nella misura in cui corrispondono ai loro interessi (basta vedere la vicenda del Mes…). Facile prevedere, insomma, una lunga serie di “tematiche di distrazione di massa” sfornate dalla futura Lega affidabile per i poteri europei.
Il che pone un problema: nonostante l’insistenza di Salvini, con dichiarazioni ogni minuto, neanche la Lega può davvero credere all’ipotesi di “elezioni subito” perché la modifica costituzionale che ha ridotto – criminalmente – il numero dei parlamentari non è applicabile nella pratica se non vengono prima ridisegnati i confini dei collegi elettorali per farli corrispondere al nuovo numero dei seggi. E c’è, prima, anche il referendum confermativo…
Dunque, prima dell’autunno non si può votare neanche se i parlamentari non si presentano più in aula da domani…
Il fantasma di Mario Draghi
E allora che cavolo di idea è far cadere questo governo se non si può o non si vuole affatto (dal lato Renzi, ma non solo) “andare a votare”?
E’ l’idea di far fuori Conte e ciò che resta dei Cinque Stelle, aprendo la strada dell’ennesimo “governo tecnico” o di “salvezza nazionale” che possa durare almeno un paio d’anni. Almeno fino all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica (2022).
La “svolta europeista” della Lega, già da sola, renderebbe possibile un governo comprensibile per Bruxelles e senza “sovranisti populisti” in pole position (ma con i loro voti).
Sull’altro lato, il Pd è da sempre il più fedele esecutore dei diktat della Troika (Ue, Bce, Fmi; come hanno sperimentato i greci) e quindi sarà comunque un pilastro di qualsiasi maggioranza gradita a Bruxelles. I berlusconiani residui devono pensare al (proprio) futuro senza il Cavaliere, e di certo non sono mai stati barricadieri; al massimo molto sbirri.
Restano da tritare definitivamente i Cinque Stelle, mentre la Meloni dovrà scegliere cosa vuol fare da grande: se la solita fascistella che si ammanta di “sovranità nazionale” (che è differente da quella “popolare”, ma è inutile rispiegarvelo…) oppure l’ennesima “politica affidabile” solo un po’ più di destra su immigrazione e dintorni.
La morsa congiunta su Conte dei “due Matteo” ha insomma un unico sbocco possibile, visto che per ra non si può andare al voto.
Il futuro presidente del consiglio, in questo quadro, quasi non ha importanza. Può essere la solita “riserva di lusso” che sta in panchina da qualche anno (Cottarelli o simili), ma di sicuro sarà un volto ben conosciuto ai piani alti dell’Unione Europea, tale da diradare qualsiasi dubbio sulle intenzioni del governo.
La svolta vera, par di capire, si avrà solo con l’elezione del prossimo presidente della Repubblica. Per quel ruolo – ed era impensabile quando la Lega fingeva di voler combattere “i poteri forti” – lo stesso Giorgetti mette in campo Mario Draghi. Interessante la motivazione, più ancora del nome: «Quello che so è che Draghi è il personaggio italiano che in giro per il mondo potrebbe parlare con qualsiasi interlocutore al suo stesso livello. Se dovesse ritirarsi al mare o in montagna sarebbe una perdita per l’Italia».
A quel punto, ma solo con una “garanzia” internazionale di quel livello, si aprirebbe anche per la Lega la possibilità di assumere (se dovesse mantenere i voti che ha ora) la carica di premier: «Siamo un partito. Lavoriamo per portare il nostro leader a Palazzo Chigi. Per riuscirci servono consenso elettorale, e ne abbiamo in abbondanza, e capacità di interloquire con il potere nelle sue sedi internazionali, e qui dobbiamo imparare dai nostri errori. […] Prima o poi toccherà a noi. Ma intanto il Paese va a rotoli e l’economia è a rischio, soprattutto dopo questa epidemia. L’Italia è una pentola a pressione. Non può durare a lungo così».
Che quel leader possa essere ancora Salvini, per quell’appuntamento, sono in pochi a crederlo. Anche al vertice della Lega.
P.s. Stamattina Salvini se n’è uscito in modo opposto: «O si sta dentro cambiando le regole di questa Europa oppure, come mi ha detto un pescatore di Bagnara Calabra, ragazzi, facciamo gli inglesi. O le regole cambiano o è inutile stare in una gabbia dove ti impediscono di fare il pescatore, il medico e il ricercatore».
Troppo presto per dire se si tratti di una “divisione dei ruoli” – Giorgetti “europeo” e Matteo “nazionale” – per coprire il massimo possibile di potenziale elettorato (perdere gli “euroscettici” significa regalare voti alla Meloni o ad altri). Oppure se stia venendo allo scoperto una faglia che può spaccare la Lega. Però non è affatto secondario che sia proprio il “rapporto con l’Unione Europea” (e l’euro e la Nato) il punto discriminante su cui ogni “ipotesi politica” o fa chiarezza oppure si infrange.

venerdì 14 febbraio 2020

La mega-pagliacciata del “Salvini a processo

Un povero cittadino, già di suo preoccupato di non perdere il lavoro o di vedere i figli che finalmente ne trovano uno decente (di “lavoretti” ne hanno pieni i cabbasisi), avrebbe dovuto commuoversi per la telenovela Salvini?
Nonostante la grande collaborazione dei media – soprattutto di quelli che si dicono (dicono soltanto…) – anti-salviniani, pare proprio di no.
La sceneggiata è stata disgustosa dall’inizio (il blocco della nave Gregoretti in mare) fino alla fine (i leghisti che escono dall’aula a momento del voto, dopo che “il Truce” aveva giurato che li avrebbe fatti votare a favore dell’autorizzazione a procedere).
Diciamolo subito chiaro: fanno schifo tutti.
Tutti infatti sapevano – o avevano ampia facoltà di sapere – che questo voto pro o contro il “mandare Salvini a giudizio” era fuffa completa.
La richiesta di autorizzazione per l’autorizzazione a procedere contro un (ex) ministro per reati commessi nell’esercizio della sua funzione è infatti arrivata dalla Procura di Catania, cui torneranno ora “gli atti”.
In teoria, secondo una sentenza della Corte Costituzionale, l’iter dovrebbe essere quello normale per qualunque altro cittadino: «secondo le forme ordinarie, vale a dire per impulso del pubblico ministero e davanti agli ordinari organi giudicanti competenti».
Ma in pratica non è neanche chiaro quale ufficio del tribunale dovrà occuparsene. L’iter normale prevederebbe infatti che a istruire il processo fosse lo stesso collegio che ha richiesto l’autorizzazione a procedere. Ma il procuratore capo Carmelo Zuccaro, secondo autorevoli cronisti ben introdotti nei labirinti giudiziari, starebbe pensando di mandarlo invece davanti a un Gup (giudice dell’udienza preliminare).
In ogni caso, quello stesso procuratore aveva già espresso il suo parere sulla vicenda della nave Gregoretti, richiedendo l’archiviazione dell’indagine perché non ci sarebbe stato alcun reato. Secondo quell’ufficio, infatti, il periodo di blocco in mare (quattro giorni) non sarebbe stato “congruo” per giustificare il reato di sequestro di persona. E già qui ci sarebbe da ridere: se sequestriamo qualcuno per 24 ore allora non c’è reato? Oppure non c’è solo se lo fa – lo ordina – un ministro?
Il procuratore Zuccaro, del resto, è anche quello diventato popolarissimo – a destra – per aver sostenuto qualche tempo fa una tesi piuttosto hard: A mio avviso alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti, e so di contatti, un giro di soldi, quello dell’immigrazione che parte dalla Libia che sta fruttando quanto quello della droga”.
Un procuratore non è però un opinionista, ha il potere di muovere la polizia giudiziaria per raccogliere prove di quel che dice. Ma non cercò o trovò nulla.
Al contrario, abbiamo saputo poi, era il governo italiano ad aver stretto accordi con il capo dei trafficanti, che guarda caso era ed è ancora il comandante della cosiddeta “guardia costiera libica” (lato Tripoli, cioè Al Serraj). Ossia con quel tal “Bija” ricercato dall’Onu ma che veniva accolto come un ospite gradito in sedi ministeriali e basi militari italiane in Italia.
A rigor di logica, insomma, la procura di Catania avrebbe dovuto aprire indagini contro i ministri che avevano firmato quegli accordi con quella fazione libica: ossia prima Marco Minniti (Pd) e poi Matteo Salvini (Lega). Naturalmente non è stato fatto nulla.
A contestare al “Truce” il sequestro di persona per la nave Gregoretti – una nave militare italiana, non un “vascello nemico” – era stato infatti un altro magistrato, della procura di Caltanissetta, la cui indagine era poi stata assunta “per competenza territoriale” dalla sede di Catania.
Tutta questa ricostruzione serve a chiarire un fatto semplice e noto a tutti gli “addetti ai lavori”: Salvini non “rischia” niente da questa inchiesta. “L’accusatore” ha già chiesto il proscioglimento e in ogni caso aveva – incautamente, per un giudice – espresso le stesse convinzioni (infondate) del poi ministro dell’interno.
Però tutta la popolazione di questo disgraziato Paese è stata intrattenuta per mesi su una telenovela priva di sostanza.
P.s. Nonostante questo, “il Truce” ha pensato bene di non mantenere la sua stessa promessa. Invece di farli votare a favore dell’autorizzazione a procedere, ha spinto i suoi senatori a uscire dall’aula (non potevano neanche astenersi, perché al Senato, per regolamento, l’astensione vale come voto contrario; in questo caso all’”ordine del giorno Gasparri” che consigliava di rigettare l’autorizzazione a procedere).
Questo è il rapporto di Salvini con le sue stesse promesse. Come dicono negli Usa: “acquistereste da quest’uomo un’auto usata?”. E se non comprereste da lui neanche una vecchia auto, come potete pensare di dargli un qualsiasi potere? E a chi dice di “avversarlo”: non vi vergognate di utilizzare un tizio del genere presentandolo come un “grandissimo pericolo”?

venerdì 7 febbraio 2020

Sanders ha più voti, l’establishment gli dichiara guerra

L’establishment è conservatore ovunque. E si riconosce soltanto nei conservatori, di qualsiasi Paese siano espressione.
La ridicola faccenda delle primarie democratiche nello stato dell’Iowa lo confermano. Non solo ci sono voluti tre giorni per conteggiare – o “aggiustare”, come molti scrivono – i risultati finali dei caucus, ma anche a scrutini chiusi i resoconti somigliano da vicino ai “racconti” con cui si cerca di imbrogliare il pubblico.
Basti pensare che, in questo momento, lo scrutinio è stato così confuso che lo stesso Partito Democratico ha chiesto di ricontare le schede, perché non ci si capisce niente. Ma andiamo avanti con l’analisi, “come se” fosse tutto regolare.
Prendiamo i risultati: il “socialista” Bernie Sanders prende più voti popolari di tutti (45.826 voti, il 26,6%), mentre il “giovane conservatore” Pete Buttigieg ne raccoglie 43.195 (il 25%). In un sistema proporzionale, Sanders avrebbe vinto. Di poco, ma vinto. Come dice lo stesso Bernie: “Da dove vengo io, chi prende più voti vince…”.
E invece anche nelle primarie Usa spadroneggia il “maggioritario” e quindi quei voti si contano “contea per contea”, per assegnare i delegati che rappresenteranno l’Iowa nel gran calderone finale per la scelta del candidato democratico alla Presidenza degli Stati Uniti. E siccome i sostenitori di Buttigieg erano distribuiti in modo più omogeneo tra le varie contee, mentre quelli di Sanders erano tantissimi in alcune, molto meno in altre, ecco che in termini di delegati la situazione si rovescia: Buttigieg ha ottenuto 564 delegati contro i 562 di Sanders: 26,2% contro 26,1.
Una persona normale direbbe: “è finita pari”. Cosa vuoi che contino due delegati in confronto alle decine di migliaia che alla fine decideranno chi sarà il candidate?
Logico per una persona normale, non i i giornali dell’establishment.
Una piccola rassegna vi aiuterà a capire.
Agenzia Ansa (quella che dà l’imprinting all’informazione nazionale): Usa 2020: Iowa, Buttigieg vince di misura (non si menzionano i voti popolari, solo i delegati “vinti”)
Repubblica: Il trionfo di Buttigieg spiazza i democratici “Sono come Obama”. Sobrio, obbiettivo, per nulla “schierato”… o no? Meno voti e due delegati in più bastano per fare un “trionfo”. E meno male che la firma è “prestigiosa”, quella di tal Federico Rampini…
SkyTg24: Usa 2020, caucus Iowa: Buttigieg batte Sanders di un soffio. Ma c’è incognita riconteggio (stessa “distrazione” dell’Ansa, ma almeno non si canta vittoria spudoratamente)
Il Post: Alle primarie dei Democratici in Iowa, con il 100 per cento dei voti scrutinati, non è ancora stato dichiarato un vincitore (molto più serio e professionale).
Pudico silenzio sulle altre testate…
Se volevate sapere per chi tifa l’establishment, ora vi è chiaro. Il vecchio Sanders non avrà vita facile, neanche nel mondo della sedicente “libera informazione”…