giovedì 30 gennaio 2020

Torna il “bipolarismo obbligato” fondato sulla paura

La mattina dopo, a schede quasi tutte scrutinate, tirare le somme è un dovere. L’Emilia Romagna è rimasta al Pd e Stefano Bonaccini, rovesciando le previsioni della vigilia, ossia dei sondaggi che davano Salvini e la deriva fascioleghista trionfante.
La “marea nera” – o più banalmente la solita destra conservatrice italica, immutabile da sempre sotto il frenetico susseguirsi di liste dai nomi più diversi (c’era persino un “Popolo delle libertà” ad affiancare “Forza Italia”, come nemmeno negli sketch migliori dei fratelli Guzzanti…) – ha invece prevalso in Calabria, sostituendo un’amministrazione targata Pd travolta dalle inchieste sulla ‘ndrangheta (che deve aver perciò velocissimamente cambiato cavallo…).
Il “voto nazionale” era però concentrato in Emilia Romagna, ed è su questo risultato che si deve concentrare l’attenzione per ricavarne indicazioni generali.
Intanto i numeri.
Stefano Bonaccini ha preso il 51,4%, Lucia Borgonzoni il 43,68. Il candidato grillino, Simone Benini, il 3,46.
Dietro, tutti molto sotto l’1%.

Torna il “bipolarismo obbligato”

La prima considerazione è matematica: finisce qui la breve stagione del “tripolarismo”, segnata dalla presenza dei Cinque Stelle. Si torna allo schema bipolare, fondato sulla paura. In questo, la separazione ridicola dei due schieramenti in una destra e una “sinistra” è totalmente funzionale all’imprigionamento del voto popolare. Esattamente come il “poliziotto cattivo” e quello “buono” in questura: entrambi “lavorano” per mandarti in galera, ma si dividono le parti perché tu ti dimentichi che prendono lo stipendio dallo stesso ufficio: “dammi il voto, altrimenti faccio entrare quell’altro…”.

La prova? Sta nella differenza evidente tra voti ai partiti che appoggiavano le diverse liste. Bonaccini ha avuto il 3,2% in più dei voti alle liste, mentre la Borgonzoni quasi due punti in meno di chi l’appoggiava. E così anche tutti i candidati alle loro spalle.
Che significa? Che una quota non piccola degli elettori ha praticato il “voto disgiunto” – possibile nella “originale” legge elettorale di questa regione, ma che richiede comunque un qualche grado di “sofisticazione” politica – votando per la “propria” lista e contemporaneamente per un candidato presidente diverso. Ossia Bonaccini.
Una pratica che si giustifica solo con la paura che vincesse l’avversaria, in teoria, e Matteo Salvini in pratica.
E’ un clima pesantissimo che si è respirato durante tutta la campagna elettorale. I compagni che raccoglievano le firme per poter presentare Potere al Popolo l’hanno vissuto in presa diretta. Molta gente lo diceva ai banchetti: “compagni, la firma ve la do volentieri, ma il voto no; non voglio che vinca la Lega”. La conferma è poi arrivata dalle urne: i voti per Marta Collot e PaP sono stati meno delle firme raccolte per strada, una per una!
Se questo è – e lo è – il meccanismo stritolante del “bipolarismo obbligato”, allora l’analisi politica si deve staccare dalle solite considerazioni (“il programma”, “la scelta del candidato”, “i toni usati”, “le alleanze”, “le divisioni”,ecc) e esaminare il “dato strutturale”: in questo schema non c’è spazio elettorale autonomo per nessuna forza politica alternativa. Basta guardare la gestione dei media mainstream per capirlo: tu, “radicale alternativo”, non esisti perché noi abbiamo deciso così e quindi non ti faremo esistere.

E’ la situazione che si vive da sempre nei paesi anglosassoni (Gran Bretagna e Usa in testa), dove il sistema elettorale “maggioritario” garantisce all’establishment – al “partito degli affari” – di controllare gli spostamenti d’umore della popolazione con una “alternanza” che non cambia nulla, se non la retorica e “l’arredamento”.

Il primo stop serio di Matteo Salvini

Il “poliziotto cattivo” ha preso la sua prima musata elettorale consistente, ma ciò è avvenuto nel territorio a lui meno favorevole. Quindi non ne esce “mazzolato”, ma solo ridimensionato. Paradossalmente, resta “utile” al sistema affaristico perché la sua presenza volgare e debordante “spaventa” quanto basta a far confluire gli spaventati “anche su una sedia vuota”, ovviamente ben controllata. E’ la condizione strategica che ha dissolto negli anni “la sinistra”, sempre pronta al sacrificio per “fermare la destra”, fino a scomparire senza averla mai fermata. Anzi…
Oltre alla paura, però, ha pesato il fatto che l’Emilia Romagna, per quanto il suo “modello” sia in crisi da anni, resta una delle regioni in cui il reddito è mediamente più alto, e dunque le contraddizioni sociali sono meno aspre che altrove. Fare breccia qui con quattro slogan, due rosari e palate di razzismo è meno facile. Non impossibile, però, in futuro, se la gestione dell’economia continuerà a seguire le vie dell’austerità di Bruxelles, delle delocalizzazioni, i tagli al welfare e alla sanità, le privatizzazioni, l’aumento delle tariffe, ecc. Il Pd “europeista” ce la potrebbe anche fare, a farlo avanzare ancora…

E’ insomma venuto allo scoperto il limite genetico del “Salvini duce-truce”: ottimo per acchiappare voti volatili, poco credibile come leader in grado di guidare davvero il Paese in un contesto segnato da stagnazione economica, tensioni internazionali crescenti, alleanze da ridisegnare con un progetto chiaro in testa (non bastano certo le frasette pro-Trump, Le Pen, Netanyahu o Bolsonaro…), tenendo nel dovuto conto i mille interessi economici e geopolitici che hanno base in Italia.
Al dunque, la “classe dirigente” residua preferisce l’”usato sicuro”, la vecchia logica democristiano-affaristica, capace di mediare ungendo, di far fare soldi senza troppa tracotanza, di bastonare chi lavora fingendo di preoccuparsene.
Se la situazione complessiva dovesse peggiorare di molto, però, anche questo schema “rassicurante” di governo potrebbe venire meno, aprendo davvero la strada ad avventurieri pericolosi.
Ma per ora il centrodestra, se vuole assumere davvero il ruolo del “governo rassicurante”, deve diventare più moderato. E i vecchi marpioni di Forza Italia – scomparsa in Emilia Romagna, ma prevalente sulla Lega in Calabria – hanno giù cominciato a cantare la canzoncina sulla “destra europeista” che può fare meglio di quella brubrù.
Siccome Salvini è fondamentalmente un attore che “deve” occupare la scena, non dubitiamo del fatto che i suoi ”registi” stiano già apportando le dovute rettifiche al copione che dovrà recitare.

Il ruolo delle Sardine

I ringraziamenti arrivati loro da Zingaretti & co. confermano l’impressione che se ne era avuta fin dall’inizio. Lungi dall’essere un fenomeno “spontaneo” – la loro prima manifestazione, a Bologna, aveva avuto un lancio mediatico preliminare che neanche una campagna della Apple si può permettere… – questo “movimento” è stato fatto nascere per ricucire in parte lo strappo tra “palazzo” e società, rispolverando la funzione dei “corpi intermedi” (sindacato, associazionismo, movimenti d’opinione, ecc) che proprio le politiche neoliberiste assunte dal “centrosinistra” avevano contribuito ad annullare.
Questa funzione di “collante” è del resto apertamente rivendicata dal portavoce principale, quel Mattia Santori uscito dai pensatoi intorno a Romano Prodi, e dovrà ora trovare una collocazione “istituzionale” più chiara nel “fronte largo” annunciato da Zingaretti.
E’ indubbio, comunque, che sul piano elettorale questa “movimentazione sardinista” abbia avuto un ruolo importante, utilizzando al meglio la paura del “poliziotto cattivo” per convogliare consensi verso quello “buono”.
Chi invece sperava di trovarvi “idee per un’alternativa” dovrà velocemente riposizionare altrove i suoi desideri. Se ne ha…

La fine dei Cinque Stelle

Sono di fatto spariti nella regione in cui erano di fatto nati e dove avevano conquistatola prima città, Parma. Abbiamo provato ad analizzare la loro crisi, nei giorni scorsi, sull’onda delle dimissioni di Di Maio da “capo politico, e non ci sembra che siano intervenuti fatti nuovi che possano cambiare questo giudizio pressoché definitivo.

Abbiamo già detto: Potere al Popolo ha preso meno voti che firme necessarie a presentarsi. Significa che la paura ha davvero prevalso su qualsiasi altra considerazione. E, in una simile condizione strategica, o in questo “clima psicologico” del Paese, lo spazio elettorale fuori dal bipolarismo obbligato è ridotto al minimo. E’ ciò che coincide con il conflitto sociale (mai così basso, da decenni a questa parte), quel tanto di attività politica alternativa o persino con l’ideologia e i simboli tout court.
L’1%, in pratica, ottenuto sommando pere e mele, ossia Potere al Popolo, Altra Emilia e Pc “rizziano”. Tre realtà diverse, con storie e prospettive decisamente diverse.
Potere al Popolo oggi non è la “coalizione” che si presentò alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 (prendendo, non a caso, proprio l’1,1%). E’ un movimento in costruzione, giovane per esperienza, età media dei suoi attivisti (e specie in Emilia Romagna se ne è potuta ammirare la straordinaria dinamicità e determinazione), sperimentazione delle sue pratiche. Il suo 0,4% potrebbe essere analizzato in molti modi, magari enfatizzando il risultato di Bologna città (dove si supera l’1%, in virtù della maggiore presenza militante e di un’attività che il territorio comincia ad avvertire anche quotidianamente). Ma sarebbe un giochino da “elettoralisti” senza altre idee.
Lo spazio elettorale oggettivo è così ristretto che neanche “unendo tutte le forze di alternativa” si raggiungerebbe una cifra degna di nota. E dunque, o si concepiscono le elezioni come momento di visibilità politica dentro cui si costruisce organizzazione territoriale, radicamento, possibilità di interlocuzione quotidiana con il “blocco sociale” degli sfruttati, oppure si resta preda delle delusioni tipiche di chi aveva fatto della necessità di “eleggere” almeno un consigliere l’alfa e l’omega della propria esistenza come soggetto politico.
Le altre due formazioni, sia detto senza alcuna intenzione di offendere, esprimono in modo diverso della residualità senza prospettive. Per un verso l’annacquamento dell’identità comunista in “altre forme”, senza alcun ripensamento sul percorso fin qui fatto. Dall’altra lo sfruttamento di ciò che resta dell’attrattività dei simboli, sottoposta come ovvio alla dura legge della fisiologia umana.
Non esistono bacchette magiche che permettano di risolvere alla prima elezione utile il problema del “risultato vincente”, che poi traina entusiasmi e diffonde un format replicabile su scala più ampia. Questo può avvenire in condizioni locali particolari, in piccoli comuni dove ci sono gruppi di attivisti al lavoro da tempo, con una alta credibilità sociale, personale e di gruppo. Ma il “clima psicologico” del Paese, su scala nazionale, è quello certificato da almeno quindici anni di arretramento della “sinistra”.
Le proposte di alternativa radicale, o meglio di rottura, si trovano perciò in una tenaglia di cui occorre comprendere fino in fondo la struttura.
Se non partecipano a scadenze elettorali non si vedono, non esistono politicamente, sul piano nazionale. Semplicemente nessuno sa neppure che esistono (chi ti vive intorno sì, ma è appunto lo 0,4%, quando va bene).
Se vi partecipano, si espongono gli attivisti a docce scozzesi violente, toccando con mano lo scarto tra temperatura torrida dell’impegno e doccia fredda delle urne.
Uscire da questa morsa, insomma, richiede pensiero originale, realistico, immaginifico, piantato per terra; attivismo allo stesso tempo intellettualmente “freddo” e fisicamente molto impegnativo.
Ricordandoci sempre, l’uno con l’altro, che quando “la classe” non esprime conflitto a un livello rilevante (le mobilitazioni più forti avvengono quando i posti di lavoro chiudono, non per migliori condizioni di lavoro o salariali…), soffrono anche le sue “espressioni politiche” (partiti o movimenti che siano).
Ma questa non è mai stata una buona ragione per lasciar perdere

lunedì 20 gennaio 2020

Guerra cibernetica: l’ultima frontiera del conflitto

Siamo alle soglie di una guerra silenziosa, pericolosissima e difficilmente percepibile.
Si tratta della guerra cibernetica, l’ultimo modello di conflitto che il nuovo millennio ci ha riservato.
Armi e luoghi di nuova generazione hanno sostituito i precedenti.
Nel cyberspazio le nazioni all’interno del conflitto interimperialistico globale si combattono, ciascuna per stabilire la propria supremazia, a colpi di droni e missili balistici, telecomandati da piloti ben addestrati dietro una postazione di computer.
L’infowar, la guerra dell’informazione, fa il resto nel web e nei social network, strumenti di propaganda eccezionali, indirizzando ed influenzando l’opinione pubblica con chirurgica precisione; è la naturale evoluzione di quella che un tempo era chiamata “Guerra Fredda”, ed il caso Russiagate ne è un chiaro esempio che perfettamente si inscrive in questa fenomenologia.
Nelle popolazioni si crea ad arte un clima di sospetto reciproco misto ad una sensazione di controllo, di “profiling” esagerata, che può facilmente portare alla paranoia migliaia di persone. E quando c’è troppa pressione sugli esseri umani, non c’è mai da sentirsi troppo tranquilli.
Attacchi cibernetici si susseguono senza che questo faccia quasi più notizia; si lascia crescere nella popolazione mondiale un senso di incertezza e, soprattutto, si fa vivere al cittadino globale una crescente inquietudine. Nel frattempo chi governa spinge per un uso sempre più massiccio della tecnologia perché “più facile e sicura” ma… saremmo veramente in grado di difenderci, all’occorrenza? Sicuramente no.

E nella madre di tutte le guerre asimmetriche si utilizzano sempre più spesso anche “armi” più subdole.

L’hackeraggio ed i suoi effetti.

Tra queste l’hackeraggio, al momento, è forse l’arma cibernetica più pericolosa ed infida.
Senza la possibilità di hackerare i sistemi, ovvero, a voler semplificare le cose, senza inserirsi in altri sistemi tramite un malware e “comandarli” a proprio piacimento, nessun attacco cibernetico sarebbe possibile. Altrettanto impossibile sarebbe “deviare” una qualsiasi traiettoria di un missile telecomandato od indirizzare un drone verso un obiettivo differente da quello che il pilota crede di colpire. Tutto ciò rende la realtà di questa guerra asimmetrica estremamente relativa, ma spiegherebbe il succedersi di avvenimenti più o meno fuori dall’ordinario, alcuni accaduti anche pochi giorni fa.
Per capire meglio vediamo di chiarire chi è un hacker, perimetrare qual è il suo campo d’azione, come agisce e soprattutto, come e fra quali fila viene reclutato.
Gli hackers (dal verbo inglese “to hack”, letteralmente “tagliare, fare a pezzi”) nel gergo informatico, sono tutti coloro che, servendosi delle proprie conoscenze nella programmazione dei computer, riescano a penetrare abusivamente in una rete informatica per utilizzare dati e informazioni in essa contenuti; per lo più il loro scopo, da un punto di vista “virtuoso”, sarebbe quello di aumentare i gradi di libertà di un sistema chiuso e insegnare ad altri come mantenerlo libero ed efficiente.
Ma, all’interno di un conflitto, se un hacker è al soldo di settori militari pubblici o, ancora peggio, privati, e se serve governi senza scrupoli (praticamente tutti!), dovrà necessariamente “correggere” la natura del proprio compito: l’obiettivo, come in qualsiasi guerra, diventerà quello di piegare il nemico alla propria volontà. L’aggressore quindi punta a quelle che oggi si definiscono “infrastrutture critiche”: quelle destinate ad erogare servizi essenziali, dai trasporti, all’energia, fino all’acqua potabile.
I principali attacchi potranno essere rivolti persino ad oggetti considerati smart del mondo IoT (l’”Internet delle cose”, sempre più presente nelle nostre case e nelle nostre metropoli, Ndr) e, data la natura degli oggetti, un conflitto cyber dovrebbe dunque produrre effetti “diretti” nel mondo reale: la compromissione di un sistema che gestisce il controllo dei voli di un aeroporto potrebbe facilmente uccidere centinaia di persone, per esempio. E come potrebbe reagire l’opinione pubblica alla privazione prolungata di un bene essenziale come l’energia elettrica?
Un hacker però, ci si passi la ripetizione, potrebbe anche “infiltrarsi” nel software di comando di un drone o di un missile, e fargli quindi attaccare un obiettivo diverso da quello che il pilota dietro la postazione crede di bombardare.
Sorprenderà i più ma, sul fronte dei “difensori”, in questi casi, verrebbero schierati i civili; soprattutto nel caso delle infrastrutture, dove la prima linea di difesa è rappresentata proprio dal personale addetto a gestire la sicurezza dei sistemi di decine di grandi aziende.
Il fronte da proteggere sembra essere infinito, se si pensa all’interconnessione tecnologica tra le organizzazioni strategiche e i loro partner. Penetrare i sistemi del principale operatore energetico di un paese vorrebbe dire indirizzare l’attacco magari al più oscuro dei suoi fornitori. Il difensore potrebbe essere costretto a ricorrere ad una “difesa di profondità”: aggredire a sua volta il nemico costringendolo a rimediare ai danni che subisce, rallentandone quindi l’azione.
Questo è un livello di guerra cibernetica d’eccellenza; e viene utilizzato nel conflitto interimperialistico sempre più spesso. E’ un cambiamento d’epoca, un salto di paradigma: la logica del “controllo” legata alla vecchia concezione dei perimetri fisici da presidiare lascia il posto alla governance del rischio. Se le tecnologie penetrano il mondo reale e ne gestiscono in modo autonomo i mezzi e gli strumenti, dobbiamo comprendere che tutte le minacce che abbiamo sempre pensato fossero confinate al di là di uno schermo, da domani saranno “applicabili” al mondo reale, con tutto quello che ne consegue.
Le nazioni più avanti in termini organizzativi e tecnologici in questo settore sono in questo momento gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, la Corea del Nord e l’Iran.
In questo scacchiere internazionale, viene da chiedersi come si colloca l’Italia. Piuttosto indietro, secondo gli esperti, che però lasciano qualche spiraglio. Uno di questi viene rappresentato da una considerazione generale fondamentale: i costi. Nel nuovo scenario che abbiamo tratteggiato, anche le organizzazioni più “povere”, gli Stati con risorse economiche modeste, potranno avere la capacità di concentrare le proprie risorse per sferrare un contrattacco al cuore delle reti. Incapaci di contrapporre al nemico un arsenale adeguato per una guerra convenzionale (un missile Cruise può arrivare a costare anche un milione di dollari al pezzo) con pochi spiccioli potrà acquistare o elaborare un malware.
Rimane da capire come reclutare un hacker ed in quale settore.
Tutti i ministeri della difesa sono dell’opinione che il bacino più vasto è rappresentato proprio dalle organizzazioni dedite all’hacktivism, votate a pratiche d’azione diretta digitale in stile hacker; ma come assoldare un hacktivist? Vuol dire fare i conti con l’etica: alla base del reclutamento infatti, oltre all’indubbia capacità della persona, ci dovrà essere una singolare idoneità: la possibilità del ricatto.
Sono purtroppo innumerevoli gli hackers che si trovano a dover scontare le più diverse pene “detentive” ed alcuni di loro possono essere anche disposti allo scambio tra annullamento della pena e “lavorare” per il governo; e magari cambiare bandiera al momento opportuno. Sono i “nuovi mercenari” del cyberspazio. Non ce ne voglia la “categoria”, sappiamo che si tratta di casi rari, ma l’abbiamo detto: è una questione di etica. In cui è determinante la solidità individuale, che può variare a seconda delle condizioni di vita concrete.

E gli Stati, si sa, ne hanno una visione molto disinvolta…
Per azzerare questa possibilità bisognerà essere scaltri e rendersi non ricattabili. Una condizione non alla portata di  tutti…

Dopotutto, vigono ancora le vecchie regole dello spionaggio, anche se adattate al nuovo millennio.

Gli Xenobots: l’ultima frontiera?

Una recente ricerca, frutto della collaborazione fra gli ingegneri informatici dell’Università del Vermont, guidati da Sam Kriegman e Joshua Bongard, ed un gruppo di biologi delle università di Tufts e Harvard (l’Istituto Wyss) coordinati da Michael Levin e Douglas Blackiston, pubblicata dalla rivista dell’Accademia americana delle scienze PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences), ha portato alla creazione dei primi robot viventi autorigeneranti. Gli scienziati hanno utilizzato cellule staminali di una specie di rana africana (Xenopus laevis), da cui la denominazione dei piccolissimi robot (0.04 pollici, nel nostro sistema metrico decimale 0.10 cm.): Xenobot
Sono talmente piccoli da viaggiare all’interno del corpo umano; possono camminare, nuotare e addirittura sopravvivere per intere settimane senza cibo. Inoltre sanno lavorare insieme, in gruppo. Organismi viventi a tutti gli effetti biodegradabili, programmabili ed in grado di autoripararsi.
Altra cosa che semplici soldati in mimetica. Un livello davvero superiore.
L’intero mondo della scienza si sta sperticando – passateci la licenza poco poetica – in lodi unanimi riguardo le innumerevoli possibili applicazioni di questi “artefatti” (così nel gergo informatico) appena arrivati: la ricerca di contaminazione radioattiva, la somministrazione di farmaci all’interno del corpo umano, la pulizia delle arterie da eventuali placche o, addirittura, la possibilità di essere rilasciati negli oceani per raccogliere le microplastiche.
Ricordate “Viaggio allucinante” dello scienziato/scrittore Isaac Asimov? Sicuramente, anche se magari si ricorda più facilmente il film anni ’80 “Salto nel buio” (ispirato comunque al romanzo), con una vena sicuramente più comica. Altri invece potrebbero anche vederci un primo abbozzo di “replicante”, modello “Blade runner”, per rimanere nel mondo della fantascienza.
Questione di prospettiva.
Qualsiasi sia la nostra, a noi sicuramente non piace rimanere in superficie, cerchiamo di approfondiamo e di riconoscere il nesso scoperta-committenti-obbiettivi. E, scavando fra le pieghe, chi troviamo fra gli sponsor di questa ricerca, così tanto utile e virtuosa? Nientemeno che la DARPA, acronimo per Defense Advanced Research Projects Agency” (nome inglese che tradotto letteralmente in italiano significa “Agenzia per i progetti di ricerca avanzata di difesa“),  un’agenzia governativa del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti incaricata dello sviluppo di nuove tecnologie per uso militare.
Il suo nome originario era Advanced Research Projects Agency (ARPA), ma fu rinominata DARPA (indicando che il suo scopo era la difesa militare) il 23 marzo 1972; il 22 febbraio 1993 tornò ARPA, e ancora DARPA l’11 marzo 1996.
DARPA è stata responsabile dello sviluppo e dell’implementazione di tecnologie importanti, che avrebbero influito notevolmente nella vita comune di milioni di cittadini del mondo: tra queste includiamo le reti informatiche (fondarono ARPANET, che si sviluppò nel moderno Internet), e di oN Line System (NLS), che è ad un ottimo livello nella creazione di ipertesti con l’uso di un’interfaccia grafica.
Non siamo complottisti. Non ci hanno mai attirato con i falsi “protocolli” inneggianti a cospirazioni pluto-giudaico-massoniche, la “dietrologia” Dc-Pci, né tantomeno con le scie chimiche… Ma si sa: chi mette il denaro detta le regole. E queste, ad occhio e croce non sono affatto trasparenti. Di fatto, è stata creata una nuova arma. Il lavoro della ricerca svolta per crearla, come sempre accade, avrà ricadute anche in altri campi. Ma come effetto, non come scopo.

Ragione e Scienza, fin dai tempi dell’Illuminismo, hanno camminato fianco a fianco ma, in completa sincerità, riflettendo su quest’ultima notizia, quello che più  inquieta è il fatto che, quando gli scienziati “servono lo Stato” sul piano militare, natura e obbiettivi delle scoperte prendono una direzione ben poco “umanitaria”.
Forse questa è proprio l’ultima frontiera, l’ultimo livello della guerra cibernetica.
Quello che preoccupa, ripetiamo, è l’utilizzo non proprio “virtuoso” delle scoperte scientifiche quando si devono fare i conti con la “Ragion di Stato”. Quando a mettere il denaro è l’industria della guerra, proprio come fu per l’energia nucleare, dove si può sbarcare?

giovedì 16 gennaio 2020

Haftar non firma il cessate il fuoco, la Ue prepara i militari

Follow the money, quando vuoi capire come c’è in ballo al di sotto di mosse altrimenti incomprensibili. Ma segui anche il percorso delle armi, quando il minuetto della diplomazia palesemente non determina più le relazioni tra Paesi o frammenti di questi.
La Libia è esplosa quando quell’imbecille ambizioso di Nicolas Salkozy ha deciso di buttar giù militarmente Muammar Gheddafi per prendere possesso in via privilegiata dei terminali di petrolio e gas fin lì gestiti prevalentemente dall’Eni. Il “geniale” e ricattatissimo Silvio Berlusconi gli andò dietro (contro “gli interessi dell’Italia”), in un’operazione folle che non prevedeva nessun regime change credibile. Destabilizzare un equilibrio – gestito con indubbia “durezza” – in un mosaico di tribù è dar via a una guerra civile infinita, non certo a una “più avanzata democrazia”.
Da allora è successo di tutto. E siamo arrivati al vertice di Mosca, ieri, in cui il padrone della situazione sul piano militare – il generale Haftar – si è rifiutato di sottoscrivere un cessate il fuoco contrattato tra Vladimir Putin e Reyyip Erdogan, neo sponsor principale del “sindaco di Tripoli”, Al Serraj.
Sui media mainstream si sprecano le interpretazioni interessate, univocamente orientate a dimostrare che “gli altri” (Russia, Turchia, Egitto, Emirati, ecc) agiscono solo sulla base degli “interessi”, mentre l’Italia e l’Unione Europea avrebbero come faro la “legalità internazionale” e naturalmente “la pace”.
Menzogne.
Da anni la Libia è vista da tutti come un forziere, un tesoro pressoché indifeso ma pericoloso. Sembra una contraddizione, ma non lo è. La libia è indifesa perché lì è stato distrutto lo Stato, con l’abbattimento violento di Gheddafi. E’ stata con lui annientata l’infrastruttura amministrativa, l’esercito, la polizia, l’autonomia decisionale – ripetiamo – in una società fatta di tribù, dove l’appartenenza si misura su una base simil-familiare estesa.
Ma è anche un posto pericoloso perché ogni tribù ha le sue milizie armate. Certamente in modo insufficiente per ricostruire l’unità del Paese o contrastare un’invasione straniera. Ma abbastanza da rendere la vita degli occupanti molto difficile, se non impossibile.
Haftar è il più forte dei “capi-milizia”, è riuscito federare di nuovo tribù diverse, ma anche lui dipende per le armi dai rifornimenti stranieri – Egitto e Russia, in primo luogo; ma anche Francia (alla faccia dell’unità europea…) – che dovrà ripagare con contratti di sfruttamento delle risorse energetiche.
Al Serraj è invece solo un fantoccio portato lì dalle truppe Usa ed europee, fatto sbarcare dopo giorni perché nessuno – neanche a Tripoli – era disposto ad accettarlo come “capo”. Lui, ancora più di Haftar, deve ripagare l’appoggio straniero con promessa di contratti di sfruttamento delle stesse risorse.
Peggio. La sua debolezza politica, tribale e militare lo ha condotto a cercare l’appoggio della Turchia, l’unico paese, per il momento, disposto a mandare proprie truppe sul terreno, oltre che a rifornimenti militari.
Un “tradimento” degli sponsor occidentali che ha momentaneamente congelato gli appoggi sia diplomatici che in armi, e che sembra costringere ora l’Unione Europea a un intervento militare vero e proprio: il primo in completa autonomia anche dal tradizionale leader delle avventure militari, gli Stati Uniti.
Sono quasi costretti a farlo perché il “traditore” Al Serraj ha promesso a Erdogan qualcosa che stravolge la “legalità internazionale”, estendendo la propria “sovranità” (concetto ridicolo per un fantoccio che controlla a malapena una città sotto assedio) sulle acque territoriali fino a farle confinare con quelle turche (altrettanto estese arbitrariamente). Il che pesta ovviamente i piedi a mezzo Mediterraneo, a cominciare dai paesi membri dell’Unione Europea che a questo punto chiedono una tutela militare dei propri interessi: Grecia, Cipro, Malta.
Per non parlare dell’Egitto e persino di Israele, che stava procedendo nello stesso senso (espropriando di fatto la fascia costiera di Gaza e “invadendo” la Zee destinata a Cipro).
Come si vede, nulla di quel che viene raccontato sui media mainstream corrisponde a quel che avviene davvero. Solo propaganda per preparare la popolazione al “fatto nuovo”: stiamo entrando in una spirale di guerra estremamente pericolosa, in un paese “alle porte di casa” di cui qualche “geniale” fascioleghista di era occupato solo ai fini di “limitare gli sbarchi” (come del resto il “democratico” Minniti prima di lui).
Per chi vuole seguire nei dettagli the money, a proposito del bubbone libico, consigliamo l’analisi di Guido Salerno Aletta, come sempre chiaro ed efficace.

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La questione della Libia è esplosa

Guido Salerno Aletta – Milano Finanza
La questione libica investe ormai gli equilibri di tutto il Mediterraneo: non si tratta più solo della instabilità interna, del conflitto tra le fazioni e le tribù e della rivalità tra Italia e Francia, che risale allo “schiaffo di Tunisi” di fine Ottocento; è tutto il contesto geopolitico delle alleanze in corso ad essere cambiato.
Gli Usa si sono ritirati dallo scacchiere, mentre la Russia si è messa comoda al tavolo. La Turchia si sta mettendo in mezzo, non solo in senso politico ma geografico, dacché cerca di creare un vero e proprio asse marittimo che taglia in due il Mediterranei centrale, con ambizioni neo-ottomane.
Non solo Ankara ha proceduto alla formalizzazione di un accordo di assistenza militare con il governo di Tripoli, ma ha manifestato unilateralmente la pretesa di sfruttare le risorse energetiche sottomarine che invece spettano a Cipro e Grecia, con un accordo contestualmente raggiunto con Tripoli sulle rispettive giurisdizioni marittimi. Passando per meridiani, si crea una zona economica esclusiva che congiunge senza soluzione di continuità le coste turche a quelle libiche, in violazione delle Convenzioni internazionali.
La Turchia si attribuisce autonomamente non solo la possibilità di estrazione di gas e petrolio in un’area strategica per più nazioni del Mediterraneo orientale, ma soprattutto un potere decisionale sui gasdotti che attraverseranno quei tratti di mare. Ostacola da subito il passaggio dell’Eastmed, proveniente dai giacimenti israeliani già in produzione, per il quale l’Accordo doveva essere firmato ad Atene il 2 gennaio scorso, alla presenza del premier greco Kyriakos Mitsotakis, di quello israeliano Benjamin Netanyahu e del presidente cipriota Nikos Anastasiades. Successivamente anche l’Italia dovrebbe congiungersi al progetto.
La reazione di Atene all’accordo turco-libico sulla giurisdizione marittima è stata violentissima: l’ambasciatore di Tripoli ad Atene è stato espulso, per quella che il Ministro degli Esteri ellenico ha definito “un’aperta violazione del diritto di navigazione e dei diritti sovrani di Grecia e di altri Paesi”.
Il titolare della Farnesina, Luigi Di Maio, ha stigmatizzato gli accordi, definendoli non legittimi: è inaccettabile che due Stati come la Turchia e il Governo libico decidano quali siano i limiti delle acque territoriali.
Come sempre, l’Unione europea traccheggia: Josep Borrell, Alto Rappresentante per la politica estera, ha detto di aspettarsi “una posizione comune dopo l’analisi del memorandum d’intesa. La priorità principale è l’unità. Non possiamo pensare di essere un attore globale, se non abbiamo posizioni comuni”.
L’Italia si trova a che fare con due questioni nuove, parimenti spinose: da una parte, l’arroganza turca; dall’altra, il voltafaccia del Presidente libico al Serraij, che pure ha solitariamente sostenuto per anni.
Non solo costui ci ha rimproverato di non avergli fornito il supporto militare che ci aveva richiesto per contenere gli attacchi del generale Khalif Haftar, talché alla fine si è dovuto affidare all’aiuto turco, ma addirittura, piccato per la presenza a Roma di quest’ultimo, questa settimana non si è fermato a Roma, di ritorno da Bruxelles, per incontrare il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte che lo aveva invitato.
L’errore non è stato quello protocollare, d’aver ricevuto prima di lui, che è il Presidente legittimo della Libia, il suo rivale ed aggressore Haftar, ma il fatto stesso di averlo invitato nonostante il voltafaccia nei nostri confronti, consumato con il duplice Accordo con Ankara: non ci può più essere equidistanza di fronte ad atteggiamenti così impudenti.
Della intenzione della Turchia di essere protagonista nella soluzione della vicenda libica, ostacolando le pretese di Haftar, c’era stata una chiara avvisaglia già nel corso della Conferenza di Palermo tenutasi a metà novembre del 2018: dopo che Haftar aveva manifestato la sua insoddisfazione lasciando in anticipo i lavori della Conferenza, che infatti si concluse senza giungere ad una dichiarazione finale, anche la delegazione turca decise di abbandonarli “con profondo disappunto” per non essere stata coinvolta alla riunione informale del mattino con al Serraj e Haftar, sottolineando lo sgarbo compiuto da quest’ultimo nei nostri confronti: “Qualcuno all’ultimo minuto ha abusato dell’ospitalità italiana”, affermò il vicepresidente turco, Fuat Oktay, senza però nominare Haftar.
Ed aggiunse: “Non si può pensare di risolvere la crisi in Libia coinvolgendo le persone che l’hanno causata ed escludendo la Turchia. Per questo lasciamo questo incontro profondamente delusi”.
E’ la politica estera italiana ad essere inadatta ai tempi di cambiamento in cui viviamo. Si trastulla, percorrendo tutte le strade possibili, anche se sono contraddittorie e ci portano ad un vicolo cieco.
Il coro che si leva più numeroso è quello di coloro che invocano una soluzione da parte di Bruxelles, a cominciare dal Commissario europeo Paolo Gentiloni e dal Presidente dell’Europarlamento David Sassoli. Il fallimento europeo, nonostante le ripetute sollecitazioni italiane ad affrontare i temi di nostra preoccupazione, è sotto gli occhi di tutti: a partire dal Migration Compact, il non paper che fu presentato da Matteo Renzi nel suo ruolo di Presidente di turno del Consiglio europeo nel 2016, e che dedicava alla stabilizzazione della Libia il paragrafo conclusivo. Nulla si è fatto sulla questione delle quote migranti, nè sulla revisione dell’Accordo di Dublino.
Se le soluzioni politiche europee non arrivano mai, le proposte di azione militare congiunta arrivano quando è ormai troppo tardi: il generale Claudio Graziano, presidente del Comitato militare dell’Unione, in questi giorni ha avanzato l’ipotesi di rivitalizzare la missione Sophia Eunavformed, che fu già messa in campo per garantire la sicurezza marittima europea: “sarebbe importantissima come segnale europeo e come effetto deterrenza”.
Pro domo sua, ha ripreso una posizione già sostenuta a margine della Conferenza di Berlino sulla sicurezza, svoltasi il 26-27 novembre nella capitale tedesca: Sophia è “una risposta europea a una crisi internazionale” Inoltre, grazie all’operazione, “attraverso un comando in Italia che rappresenta l’Europa, è possibile avere rapporti con un paese certamente in grave crisi” come la Libia. Servirebbe innanzitutto per contrastare chi intende violare l’embargo delle armi per e dalla Libia, creando una sorta di “blocco navale”: peccato che ci siano alcuni Paesi, anche europei, che fanno arrivare aiuti militari di straforo e che ora c’è addirittura la Turchia che vanta un accordo formale con il governo di Tripoli.
Abbiamo già visto che cosa è successo al largo di Cipro, quando una nave militare turca ha costretto una piattaforma di prospezione petrolifera italiana ad allontanarsi: prima di mandare le cannoniere, bisogna attivare una serie di contromisure legali, economiche e finanziarie. Solo una azione politica fondata su forti interessi può sostenere successive prove di forza.
E’ parimenti illusorio, da parte italiana, appoggiare il cosiddetto processo di Berlino che dovrebbe approdare ad una Conferenza sulla Libia, che era stata inizialmente prevista per la metà del mese in corso. La Germania, soprattutto dopo l’entrata in scena della Turchia nello scacchiere libico, ha una triplice debolezza negoziale. per via della cospicua colonia di turchi e di tedeschi di recente ascendenza turca che vivono colì, ed a cui lo stesso Presidente Erdogan ha rivolto appelli di solidarietà in qualche occasione; a motivo delle interdipendenze commerciali e finanziarie strettissime; a causa dell’ospitalità offerta dalla Turchia a centinaia di migliaia di profughi non solo siriani, che sono pronti a riprendere la via balcanica per cercare asilo in Germania. Con la Turchia di mezzo, la Germania non ha perso solo la terzietà, ma è sotto ricatto politico.
C’è invece l’occasione per creare un fronte unico mediterraneo per contrastare le iniziative turche, mettendo l’Italia in asse con la Grecia, Cipro, l’Egitto e la Francia, considerando il comune interesse di Israele. E’ il generale Haftar che può trovare ora nell’Italia un punto di riferimento.
D’altra parte, neppure la Russia appare in grado di fare tutto da sola, chiedendo congiuntamente alla Turchia il cessate il fuoco alle parti in conflitto in Libia, con decorrenza da questa prossima domenica, visto che il Presidente Vladimir Putin manovrerebbe entrambi i contendenti: non solo il generale Haftar, che da anni beneficia di aiuti russi, ma indirettamente anche il Presidente al Serraj per il tramite della Turchia, dove ha appena inaugurato quella parte del gasdotto che in passato era stato immaginato come South Stream.
Il diniego che è stato già espresso da Haftar alla richiesta di cessate il fuoco la dice tutta sul fatto che in Libia i giochi sono più aperti che mai: per Haftar, nel nuovo contesto, il sostegno della Russia si palesa insufficiente, al pari di quello ricevuto dalla Francia. D’altra parte, nessun Paese europeo, e di certo non l’Egitto, è disponibile a sostenere una presenza turca così prepotente nel Mediterraneo.
La mossa di al Serraj, per le violazioni del diritto internazionale marittimo che derivano dall’Accordo stretto con Ankara, gli ha fatto perdere quel poco di credibilità che ancora aveva. Per di più, si è alienato il sostegno del nostro governo, che pure in questi ultimi giorni si era prodigato con un incontro recentissimo ad Ankara per aprire un tavolo tecnico con Turchia e Russia, e che neppure aveva firmato le conclusioni dell’incontro tenutosi in Egitto, in quanto critiche verso il governo di Tripoli per via dell’accordo stretto con la Turchia. L’arroganza non paga.
Può essere che stavolta Francia e Italia, da tempo in competizione sulla questione libica, siano costrette a mettersi d’accordo per delineare i nuovi equilibri nel Mediterraneo. D’altra parte, furono loro ad iniziare lo smantellamento dell’Impero Ottomano su queste sponde: prima l’una con la Tunisia, e poi l’altra con la Libia. L’interesse comune è di stabilizzare l’area nel rispetto dei diritti di tutti i popoli, evitando vecchie e nuove prepotenze.
*****
QUELLA PAZZA VOGLIA DI LIBIA. (Milano Finanza sabato 11 gennaio) D’altra parte, neppure la Russia appare in grado di fare tutto da sola, chiedendo congiuntamente alla Turchia il cessate il fuoco alle parti in conflitto in Libia, con decorrenza da questa prossima domenica, visto che il Presidente Vladimir Putin manovrerebbe entrambi i contendenti: non solo il generale Haftar, che da anni beneficia di aiuti russi, ma indirettamente anche il Presidente al Serraj per il tramite della Turchia, dove ha appena inaugurato quella parte del gasdotto che in passato era stato immaginato come South Stream.
Il diniego che è stato già espresso da Haftar alla richiesta di cessate il fuoco la dice tutta sul fatto che in Libia i giochi sono più aperti che mai: per Haftar, nel nuovo contesto, il sostegno della Russia si palesa insufficiente, al pari di quello ricevuto dalla Francia. D’altra parte, nessun Paese europeo, e di certo non l’Egitto, è disponibile a sostenere una presenza turca così prepotente nel Mediterraneo

martedì 14 gennaio 2020

Haftar non firma il cessate il fuoco, la Ue prepara i militari

Follow the money, quando vuoi capire come c’è in ballo al di sotto di mosse altrimenti incomprensibili. Ma segui anche il percorso delle armi, quando il minuetto della diplomazia palesemente non determina più le relazioni tra Paesi o frammenti di questi.
La Libia è esplosa quando quell’imbecille ambizioso di Nicolas Salkozy ha deciso di buttar giù militarmente Muammar Gheddafi per prendere possesso in via privilegiata dei terminali di petrolio e gas fin lì gestiti prevalentemente dall’Eni. Il “geniale” e ricattatissimo Silvio Berlusconi gli andò dietro (contro “gli interessi dell’Italia”), in un’operazione folle che non prevedeva nessun regime change credibile. Destabilizzare un equilibrio – gestito con indubbia “durezza” – in un mosaico di tribù è dar via a una guerra civile infinita, non certo a una “più avanzata democrazia”.
Da allora è successo di tutto. E siamo arrivati al vertice di Mosca, ieri, in cui il padrone della situazione sul piano militare – il generale Haftar – si è rifiutato di sottoscrivere un cessate il fuoco contrattato tra Vladimir Putin e Reyyip Erdogan, neo sponsor principale del “sindaco di Tripoli”, Al Serraj.
Sui media mainstream si sprecano le interpretazioni interessate, univocamente orientate a dimostrare che “gli altri” (Russia, Turchia, Egitto, Emirati, ecc) agiscono solo sulla base degli “interessi”, mentre l’Italia e l’Unione Europea avrebbero come faro la “legalità internazionale” e naturalmente “la pace”.
Menzogne.
Da anni la Libia è vista da tutti come un forziere, un tesoro pressoché indifeso ma pericoloso. Sembra una contraddizione, ma non lo è. La libia è indifesa perché lì è stato distrutto lo Stato, con l’abbattimento violento di Gheddafi. E’ stata con lui annientata l’infrastruttura amministrativa, l’esercito, la polizia, l’autonomia decisionale – ripetiamo – in una società fatta di tribù, dove l’appartenenza si misura su una base simil-familiare estesa.
Ma è anche un posto pericoloso perché ogni tribù ha le sue milizie armate. Certamente in modo insufficiente per ricostruire l’unità del Paese o contrastare un’invasione straniera. Ma abbastanza da rendere la vita degli occupanti molto difficile, se non impossibile.
Haftar è il più forte dei “capi-milizia”, è riuscito federare di nuovo tribù diverse, ma anche lui dipende per le armi dai rifornimenti stranieri – Egitto e Russia, in primo luogo; ma anche Francia (alla faccia dell’unità europea…) – che dovrà ripagare con contratti di sfruttamento delle risorse energetiche.
Al Serraj è invece solo un fantoccio portato lì dalle truppe Usa ed europee, fatto sbarcare dopo giorni perché nessuno – neanche a Tripoli – era disposto ad accettarlo come “capo”. Lui, ancora più di Haftar, deve ripagare l’appoggio straniero con promessa di contratti di sfruttamento delle stesse risorse.
Peggio. La sua debolezza politica, tribale e militare lo ha condotto a cercare l’appoggio della Turchia, l’unico paese, per il momento, disposto a mandare proprie truppe sul terreno, oltre che a rifornimenti militari.
Un “tradimento” degli sponsor occidentali che ha momentaneamente congelato gli appoggi sia diplomatici che in armi, e che sembra costringere ora l’Unione Europea a un intervento militare vero e proprio: il primo in completa autonomia anche dal tradizionale leader delle avventure militari, gli Stati Uniti.
Sono quasi costretti a farlo perché il “traditore” Al Serraj ha promesso a Erdogan qualcosa che stravolge la “legalità internazionale”, estendendo la propria “sovranità” (concetto ridicolo per un fantoccio che controlla a malapena una città sotto assedio) sulle acque territoriali fino a farle confinare con quelle turche (altrettanto estese arbitrariamente). Il che pesta ovviamente i piedi a mezzo Mediterraneo, a cominciare dai paesi membri dell’Unione Europea che a questo punto chiedono una tutela militare dei propri interessi: Grecia, Cipro, Malta.
Per non parlare dell’Egitto e persino di Israele, che stava procedendo nello stesso senso (espropriando di fatto la fascia costiera di Gaza e “invadendo” la Zee destinata a Cipro).
Come si vede, nulla di quel che viene raccontato sui media mainstream corrisponde a quel che avviene davvero. Solo propaganda per preparare la popolazione al “fatto nuovo”: stiamo entrando in una spirale di guerra estremamente pericolosa, in un paese “alle porte di casa” di cui qualche “geniale” fascioleghista di era occupato solo ai fini di “limitare gli sbarchi” (come del resto il “democratico” Minniti prima di lui).
Per chi vuole seguire nei dettagli the money, a proposito del bubbone libico, consigliamo l’analisi di Guido Salerno Aletta, come sempre chiaro ed efficace.
*****

La questione della Libia è esplosa

Guido Salerno Aletta – Milano Finanza
La questione libica investe ormai gli equilibri di tutto il Mediterraneo: non si tratta più solo della instabilità interna, del conflitto tra le fazioni e le tribù e della rivalità tra Italia e Francia, che risale allo “schiaffo di Tunisi” di fine Ottocento; è tutto il contesto geopolitico delle alleanze in corso ad essere cambiato.
Gli Usa si sono ritirati dallo scacchiere, mentre la Russia si è messa comoda al tavolo. La Turchia si sta mettendo in mezzo, non solo in senso politico ma geografico, dacché cerca di creare un vero e proprio asse marittimo che taglia in due il Mediterranei centrale, con ambizioni neo-ottomane.
Non solo Ankara ha proceduto alla formalizzazione di un accordo di assistenza militare con il governo di Tripoli, ma ha manifestato unilateralmente la pretesa di sfruttare le risorse energetiche sottomarine che invece spettano a Cipro e Grecia, con un accordo contestualmente raggiunto con Tripoli sulle rispettive giurisdizioni marittimi. Passando per meridiani, si crea una zona economica esclusiva che congiunge senza soluzione di continuità le coste turche a quelle libiche, in violazione delle Convenzioni internazionali.
La Turchia si attribuisce autonomamente non solo la possibilità di estrazione di gas e petrolio in un’area strategica per più nazioni del Mediterraneo orientale, ma soprattutto un potere decisionale sui gasdotti che attraverseranno quei tratti di mare. Ostacola da subito il passaggio dell’Eastmed, proveniente dai giacimenti israeliani già in produzione, per il quale l’Accordo doveva essere firmato ad Atene il 2 gennaio scorso, alla presenza del premier greco Kyriakos Mitsotakis, di quello israeliano Benjamin Netanyahu e del presidente cipriota Nikos Anastasiades. Successivamente anche l’Italia dovrebbe congiungersi al progetto.
La reazione di Atene all’accordo turco-libico sulla giurisdizione marittima è stata violentissima: l’ambasciatore di Tripoli ad Atene è stato espulso, per quella che il Ministro degli Esteri ellenico ha definito “un’aperta violazione del diritto di navigazione e dei diritti sovrani di Grecia e di altri Paesi”.
Il titolare della Farnesina, Luigi Di Maio, ha stigmatizzato gli accordi, definendoli non legittimi: è inaccettabile che due Stati come la Turchia e il Governo libico decidano quali siano i limiti delle acque territoriali.
Come sempre, l’Unione europea traccheggia: Josep Borrell, Alto Rappresentante per la politica estera, ha detto di aspettarsi “una posizione comune dopo l’analisi del memorandum d’intesa. La priorità principale è l’unità. Non possiamo pensare di essere un attore globale, se non abbiamo posizioni comuni”.
L’Italia si trova a che fare con due questioni nuove, parimenti spinose: da una parte, l’arroganza turca; dall’altra, il voltafaccia del Presidente libico al Serraij, che pure ha solitariamente sostenuto per anni.
Non solo costui ci ha rimproverato di non avergli fornito il supporto militare che ci aveva richiesto per contenere gli attacchi del generale Khalif Haftar, talché alla fine si è dovuto affidare all’aiuto turco, ma addirittura, piccato per la presenza a Roma di quest’ultimo, questa settimana non si è fermato a Roma, di ritorno da Bruxelles, per incontrare il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte che lo aveva invitato.
L’errore non è stato quello protocollare, d’aver ricevuto prima di lui, che è il Presidente legittimo della Libia, il suo rivale ed aggressore Haftar, ma il fatto stesso di averlo invitato nonostante il voltafaccia nei nostri confronti, consumato con il duplice Accordo con Ankara: non ci può più essere equidistanza di fronte ad atteggiamenti così impudenti.
Della intenzione della Turchia di essere protagonista nella soluzione della vicenda libica, ostacolando le pretese di Haftar, c’era stata una chiara avvisaglia già nel corso della Conferenza di Palermo tenutasi a metà novembre del 2018: dopo che Haftar aveva manifestato la sua insoddisfazione lasciando in anticipo i lavori della Conferenza, che infatti si concluse senza giungere ad una dichiarazione finale, anche la delegazione turca decise di abbandonarli “con profondo disappunto” per non essere stata coinvolta alla riunione informale del mattino con al Serraj e Haftar, sottolineando lo sgarbo compiuto da quest’ultimo nei nostri confronti: “Qualcuno all’ultimo minuto ha abusato dell’ospitalità italiana”, affermò il vicepresidente turco, Fuat Oktay, senza però nominare Haftar.
Ed aggiunse: “Non si può pensare di risolvere la crisi in Libia coinvolgendo le persone che l’hanno causata ed escludendo la Turchia. Per questo lasciamo questo incontro profondamente delusi”.
E’ la politica estera italiana ad essere inadatta ai tempi di cambiamento in cui viviamo. Si trastulla, percorrendo tutte le strade possibili, anche se sono contraddittorie e ci portano ad un vicolo cieco.
Il coro che si leva più numeroso è quello di coloro che invocano una soluzione da parte di Bruxelles, a cominciare dal Commissario europeo Paolo Gentiloni e dal Presidente dell’Europarlamento David Sassoli. Il fallimento europeo, nonostante le ripetute sollecitazioni italiane ad affrontare i temi di nostra preoccupazione, è sotto gli occhi di tutti: a partire dal Migration Compact, il non paper che fu presentato da Matteo Renzi nel suo ruolo di Presidente di turno del Consiglio europeo nel 2016, e che dedicava alla stabilizzazione della Libia il paragrafo conclusivo. Nulla si è fatto sulla questione delle quote migranti, nè sulla revisione dell’Accordo di Dublino.
Se le soluzioni politiche europee non arrivano mai, le proposte di azione militare congiunta arrivano quando è ormai troppo tardi: il generale Claudio Graziano, presidente del Comitato militare dell’Unione, in questi giorni ha avanzato l’ipotesi di rivitalizzare la missione Sophia Eunavformed, che fu già messa in campo per garantire la sicurezza marittima europea: “sarebbe importantissima come segnale europeo e come effetto deterrenza”.
Pro domo sua, ha ripreso una posizione già sostenuta a margine della Conferenza di Berlino sulla sicurezza, svoltasi il 26-27 novembre nella capitale tedesca: Sophia è “una risposta europea a una crisi internazionale” Inoltre, grazie all’operazione, “attraverso un comando in Italia che rappresenta l’Europa, è possibile avere rapporti con un paese certamente in grave crisi” come la Libia. Servirebbe innanzitutto per contrastare chi intende violare l’embargo delle armi per e dalla Libia, creando una sorta di “blocco navale”: peccato che ci siano alcuni Paesi, anche europei, che fanno arrivare aiuti militari di straforo e che ora c’è addirittura la Turchia che vanta un accordo formale con il governo di Tripoli.
Abbiamo già visto che cosa è successo al largo di Cipro, quando una nave militare turca ha costretto una piattaforma di prospezione petrolifera italiana ad allontanarsi: prima di mandare le cannoniere, bisogna attivare una serie di contromisure legali, economiche e finanziarie. Solo una azione politica fondata su forti interessi può sostenere successive prove di forza.
E’ parimenti illusorio, da parte italiana, appoggiare il cosiddetto processo di Berlino che dovrebbe approdare ad una Conferenza sulla Libia, che era stata inizialmente prevista per la metà del mese in corso. La Germania, soprattutto dopo l’entrata in scena della Turchia nello scacchiere libico, ha una triplice debolezza negoziale. per via della cospicua colonia di turchi e di tedeschi di recente ascendenza turca che vivono colì, ed a cui lo stesso Presidente Erdogan ha rivolto appelli di solidarietà in qualche occasione; a motivo delle interdipendenze commerciali e finanziarie strettissime; a causa dell’ospitalità offerta dalla Turchia a centinaia di migliaia di profughi non solo siriani, che sono pronti a riprendere la via balcanica per cercare asilo in Germania. Con la Turchia di mezzo, la Germania non ha perso solo la terzietà, ma è sotto ricatto politico.
C’è invece l’occasione per creare un fronte unico mediterraneo per contrastare le iniziative turche, mettendo l’Italia in asse con la Grecia, Cipro, l’Egitto e la Francia, considerando il comune interesse di Israele. E’ il generale Haftar che può trovare ora nell’Italia un punto di riferimento.
D’altra parte, neppure la Russia appare in grado di fare tutto da sola, chiedendo congiuntamente alla Turchia il cessate il fuoco alle parti in conflitto in Libia, con decorrenza da questa prossima domenica, visto che il Presidente Vladimir Putin manovrerebbe entrambi i contendenti: non solo il generale Haftar, che da anni beneficia di aiuti russi, ma indirettamente anche il Presidente al Serraj per il tramite della Turchia, dove ha appena inaugurato quella parte del gasdotto che in passato era stato immaginato come South Stream.
Il diniego che è stato già espresso da Haftar alla richiesta di cessate il fuoco la dice tutta sul fatto che in Libia i giochi sono più aperti che mai: per Haftar, nel nuovo contesto, il sostegno della Russia si palesa insufficiente, al pari di quello ricevuto dalla Francia. D’altra parte, nessun Paese europeo, e di certo non l’Egitto, è disponibile a sostenere una presenza turca così prepotente nel Mediterraneo.
La mossa di al Serraj, per le violazioni del diritto internazionale marittimo che derivano dall’Accordo stretto con Ankara, gli ha fatto perdere quel poco di credibilità che ancora aveva. Per di più, si è alienato il sostegno del nostro governo, che pure in questi ultimi giorni si era prodigato con un incontro recentissimo ad Ankara per aprire un tavolo tecnico con Turchia e Russia, e che neppure aveva firmato le conclusioni dell’incontro tenutosi in Egitto, in quanto critiche verso il governo di Tripoli per via dell’accordo stretto con la Turchia. L’arroganza non paga.
Può essere che stavolta Francia e Italia, da tempo in competizione sulla questione libica, siano costrette a mettersi d’accordo per delineare i nuovi equilibri nel Mediterraneo. D’altra parte, furono loro ad iniziare lo smantellamento dell’Impero Ottomano su queste sponde: prima l’una con la Tunisia, e poi l’altra con la Libia. L’interesse comune è di stabilizzare l’area nel rispetto dei diritti di tutti i popoli, evitando vecchie e nuove prepotenze.
*****
QUELLA PAZZA VOGLIA DI LIBIA. (Milano Finanza sabato 11 gennaio) D’altra parte, neppure la Russia appare in grado di fare tutto da sola, chiedendo congiuntamente alla Turchia il cessate il fuoco alle parti in conflitto in Libia, con decorrenza da questa prossima domenica, visto che il Presidente Vladimir Putin manovrerebbe entrambi i contendenti: non solo il generale Haftar, che da anni beneficia di aiuti russi, ma indirettamente anche il Presidente al Serraj per il tramite della Turchia, dove ha appena inaugurato quella parte del gasdotto che in passato era stato immaginato come South Stream.
Il diniego che è stato già espresso da Haftar alla richiesta di cessate il fuoco la dice tutta sul fatto che in Libia i giochi sono più aperti che mai: per Haftar, nel nuovo contesto, il sostegno della Russia si palesa insufficiente, al pari di quello ricevuto dalla Francia. D’altra parte, nessun Paese europeo, e di certo non l’Egitto, è disponibile a sostenere una presenza turca così prepotente nel Mediterraneo

mercoledì 8 gennaio 2020

Il Parlamento iracheno chiede agli Stati Uniti di portarsi via le sue truppe dall’Iraq

Il Parlamento iracheno ha votato a grande maggioranza una mozione che chiede la fine dell’accordo con la coalizione per la lotta allo Stato Islamico e la ritirata delle truppe straniere dal paese, in primo luogo quelle statunitensi ma la questione riguarda anche alcune centinaia di militari italiani.
La notizia è arrivata dopo che il parlamento ha convocato una sessione straordinaria domenica; l’organo legislativo ha votato per porre fine all’accordo con la coalizione guidata dagli Stati Uniti che combatte Daesh..
Il Primo Ministro iracheno Adil Abdul Mahdi ha dichiarato che sia l’Iraq che gli Stati Uniti sono interessati a porre fine alla presenza di truppe straniere nel paese.
Il capo del governo iracheno ritiene che  il ritiro delle truppe straniere sarebbe vantaggioso per il paese ed ha ricordato che le relazioni USA-Iraq non hanno sofferto nonostante l’assenza di truppe straniere nel paese nel periodo 2011-2014.
Ha aggiunto che ci sono due opzioni disponibili per quanto riguarda il ritiro delle truppe della coalizione a guida statunitense. Il primo vedrebbe il loro ritiro immediato e completo, la seconda opzione vedrebbe una ritirata graduale del personale militare straniero.
“Come primo ministro e comandante senior, raccomando la prima opzione. Nonostante le difficoltà interne ed esterne che potremmo incontrare, questa opzione è fondamentalmente migliore per l’Iraq … Aiuterà a riorganizzare le relazioni con gli Stati Uniti e le altre nazioni, mantenere relazioni cordiali sulla base del rispetto della sovranità territoriale e non consentire interferenze negli affari interni”, ha osservato Mahdi.
Abdul Mahdi ha anche affermato che gli Stati Uniti hanno informato l’Iraq dei piani per colpire il comandante alcuni minuti prima dell’attacco ma ha anche aggiunto che le autorità irachene non avevano concesso tale permesso.
Il primo ministro ha rivelato che avrebbe dovuto incontrarsi con Soleimaini la stessa mattina in cui il generale è stato ucciso nel raid aereo statunitense a Baghdad. Secondo Abdul Mahdi, il generale iraniano era latore di una risposta dall’Iran a “un messaggio saudita”.

martedì 7 gennaio 2020

Usa-Iran-Iraq: il Medio Oriente cambierà volto?

Domenica 5 gennaio il Parlamento iracheno ha chiesto al governo di «mettere fine alla presenza delle truppe straniere nel Paese», cominciando con il «ritirare la sua richiesta d’aiuto» indirizzata alla comunità internazionale per combattere l’organizzazione dello Stato Islamico.
Nel Paese Arabo sono presenti tra l’altro 5.200 militari nord-americani che da alcuni mesi sono tornati ad essere l’obiettivo di azioni armate che il governo di Washington attribuisce alle milizie filo-iraniane integrate nelle forze di sicurezza irachene, com’è avvenuto per un lungo periodo dopo l’occupazione a guida anglo-americana del 2003.
Durante una sessione straordinaria, trasmessa in diretta dalla televisione di Stato, ed in presenza del Primo Ministro dimissionario Adel Abdel Mahdi, i deputati hanno approvato una decisione che «costringe il governo a preservare la sovranità del Paese ritirando la sua richiesta d’aiuto».
Prima del voto, il primo ministro dimissionario aveva consigliato al Parlamento di prendere una decisione per il ritiro definitivo di tutte le forze straniere del Paese.
Il giorno stesso, il Ministro degli Esteri iracheno ha accusato gli Stati Uniti d’avere violato la sovranità del Paese e diverse leggi internazionali che inquadrano le relazioni tra Stati, secondo le quali è proibito approfittare del territorio di un Paese per attaccare i Paesi vicini.
Come ha dichiarato alla “Reuters”, prima del voto, un parlamentare iracheno – Ammar al-Shibli -: «Non c’è bisogno della presenza delle forze americane dopo la sconfitta di Daesh (Isis). (…) Abbiamo le nostre forze armate che sono capaci di proteggere il nostro Paese».
Lunedì 6 gennaio il Primo Ministro ha convocato l’ambasciatore a Bagdad per informarlo delle disposizioni che dovrebbero facilitare il ritiro delle truppe statunitensi.
Sempre lunedì, un portavoce dell’esercito iracheno, ha annunciato che i preparativi per il ritiro delle truppe straniere sono in marcia.
Secondo quanto riporta RT: «Il governo iracheno ha iniziato la riduzione del movimento terrestre e marittimo delle forze della coalizione» anti-ISIS.
Sebbene il Primo Ministro si auguri e si adoperi per un sforzo congiunto tra i due Paesi nel ritiro, Trump ha minacciato in risposta all’iniziativa irachena: «sanzioni come mai viste fino ad ora», se non venisse pagato l’investimento militare nord-americano, concludendo in tono minaccioso «Non ce ne andremo finché non ci pagheranno per questo».
L’omicidio extra-giudiziario da parte degli USA del maggior stratega iraniano per la politica estera, il Generale Qassem Soleimani, e di Abou Mehdi Al-Mouhandis – numero due della coalizione delle milizie sciite filo-iraniane Hachd al-Chaabi, universalmente riconosciute tra le maggiori artefici della vittoria sull’ISIS – nella notte tra giovedì e venerdì ha rinfocolato l’odio anti-americano in Iraq e ricompattato il fronte politico del paese arabo contro gli Stati Uniti.
La folla che ha partecipato al funerale del generale in Iran è stata paragonata a quella che ha salutato il leader della rivoluzione islamica nel 1989, l’Ayatollah Ruhollah Khomeini.
Da segnalare alle esequie la presenza del leader di Hamas. Ismail Haniyeh ha definito Soleimani: «martire di Gerusalemme»
Bisogna ricordare che l’Iran ad inizio ottobre aveva denunciato di aver stroncato il tentativo di assassinio, in Iraq, per mano di Israele e dei “Servizi Segreti di Stati arabi”, senza specificare quali, ma dettagliando i particolari del piano, come ha riportato “Al Jazeera”.
Il ministro degli esteri israeliano Israel Katz aveva “implicitamente” ammesso la volontà del regime sionista dichiarando che stava lavorando per “sradicare” (“uproot”) il Generale…
La contraddizione principale è tornata quindi ad essere, per il popolo iracheno, l’occupazione statunitense, anche per le forze critiche nei confronti del leader militare iraniano ucciso.
Questo conflitto è divenuto in Iraq uno scontro a tutto campo tra due entità contrapposte, e non una semplice “proxy war” tra due soggetti allogeni.
***
Prima dell’arrivo in Iran del corpo del Generale per i funerali, Donald Trump ha nuovamente minacciato la Repubblica Islamica con un tweet che conferma il profilo da criminale di guerra con cui sta caratterizzando la fine del suo mandato.
In caso di rappresaglia iraniana, gli Stati Uniti hanno «identificato 52 obiettivi», alcuni «ad un livello molto alto e importanti per l’Iran e la cultura iraniana, e questi targets, e l’Iran stesso, SARANNO COLPITI MOLTO RAPIDAMENTE E MOLTO DURAMENTE».
Una dichiarazione in barba alle più elementari disposizioni del diritto internazionale, già oltre la definizioine di “crimine di guerra”…
I 52 obiettivi sono stati un riferimento esplicito ai 52 nord-americani presi in ostaggio in Iran per 444 giorni dopo “la presa” dell’ambasciata USA a Teheran nel novembre 1979.
Una ferita ancora aperta, che il revanscismo dei falchi di Washington ed il Deep State statunitense avrebbe voluto sanare con un cambio di regime prima della celebrazione dell’anniversario della fondazione della Repubblica Islamica.
Ma non hanno per ora regolato i conti.
Intanto il 4 gennaio “la Green Zone” a Bagdad è stata attaccata, così come la base aerea di Balad sede delle truppe statunitensi.
Si è trattato per la “Green Zone” di lanci di mortaio e del lancio di razzi per ciò che concerne la base americana, che non hanno causato feriti.
***
Nella rimozione colpevole compiuta dalla narrazione tossica dei media mainstream è meglio ricordare il perché dell’odio contro gli Stati Uniti da parte delle popolazioni iraniane ed irachene…
Iran
Bisogna ricordare che la Rivoluzione in Iran aveva rovesciato il regime sanguinario insediatosi dopo il colpo di Stato orchestrato da USA e Gran Bretagna che nella prima metà degli Anni Cinquanta – il 19 agosto 1953 – con l’Operazione Ajax (boot per gli inglesi) – aveva deposto il Primo Ministro Mohammad Mossadeq eletto nel 1951.
Mossadeq aveva da poco nazionalizzato l’industria petrolifera – l’inglese Anglo-Iranian Oil Company – fondata nel primo decennio del secolo, tenendo fede alle promesse elettorali.
Godeva di un altissimo consenso popolare, vista la prospettiva di riscatto che stava dando ad un popolo umiliato da una “doppia occupazione” durante la Seconda Guerra Mondiale.
L’immagine dell’anziano Mossadeq asserragliato a casa insieme a pochi fedelissimi, e ferito dai colpi dei carri armati Sherman che la assediavano, rimane ben impressa nella memoria degli iraniani e nella loro coscienza politica.
Anche un Presidente “liberale” come Mossadeq, educato in Occidente, che aveva studiato in Francia ed in Svizzera, era diventato un nemico dell’Occidente quando aveva rivendicato la sovranità sulle risorse petrolifere.
Gli Stati Uniti avevano implicitamente riconosciuto la propria responsabilità nel colpo di stato declassificando dei documenti secretati a riguardo poco tempo fa.
Il golpe era stato allora accolto anche dalla stampa liberal americana come un monito positivo per tutti coloro che avrebbero voluto rivendicare una sovranità per il proprio Paese che mettesse in discussione gli interessi di Washington.
Come scrisse il “New York Times” nel 1954:
«Paesi sottosviluppati ricchi di risorse ora hanno una lezione obiettiva dei pesanti costi che devono essere pagati da uno di loro a causa del lorio frenetico nazionalismo. (…) è forse troppo sperare che l’esperienza iraniana prevenga l’ascesa di Mossadeqhs in altri Paesi, ma quell’esperienza può almeno rafforzare l’operato dei leader più ragionevoli e dotati di maggiore prospettiva».
Il messaggio rivolto al “Tricontinente” era chiaro: chi avesse intralciato gli interessi strategici degli Stati Uniti, sarebbe stato rimosso dallo Zio Tom.
L’Iran, insieme all’Iraq prima della rivoluzione baathista, sarà uno dei perni della politica “medio-orientale” anglo-americana, fino alla caduta dello regime dello scià.
Da allora, a parte la parentesi nell’Era Obama che ha visto l’accordo sul nucleare iraniano del 2015 – da cui è uscita l’amministrazione Trump nel maggio del 2018 – la politica statunitense nei confronti dell’Iran – e non solo – non è propriamente mutata.
Trump quindi è un problema, ma non “il” problema.
Gli assassini mirati con l’uso di droni sono aumentati in maniera esponenziale nell’era Obama, ma persino i membri del governo Reagan – quando cercarono di uccidere il leader libico Muhammar Gheddafi, bombardandone l’abitazione nel 1986, negarono che fosse un obbiettivo esplicito…
L’attuale amministrazione statunitense sembra andare più in là ora, spostando pericolosamente l’asticella della “legittimità delle uccisioni mirate” non solo a coloro che sono ritenuti responsabili di minacce imminenti ed espressioni di organizzazioni “terroristiche” non statali, ma colpendo un diplomatico d’alto rango di una potenza ufficialmente non in guerra con gli Stati Uniti senza fornire uno straccio di prova delle sue supposte responsabilità che ne farebbe un “obiettivo legittimo”, come il generale Yamamoto durante la seconda Guerra Mondiale, per intenderci.
Un precedente inquietante che sfarina ulteriormente il quadro normativo che gli stessi Stati Uniti stessi si erano dati e le garanzie internazionali nel loro complesso.
Iraq
Per ciò che riguarda la popolazione irachena, basta ricordare che il “Nuovo Ordine Mondiale” viene inaugurato dagli States con la fine del mondo bi-polare proprio con la Prima Guerra del Golfo, ad inizio anni Novanta, contro l’Iraq, seguita ad un feroce embargo che ha mietuto migliaia di vittime. Nel 2003 una coalizione anglo-americana guidò l’invasione del Paese, a cui seguì una strenua resistenza, che ebbe un sostegno nullo dall’Occidente.
Washington pensava di realizzare un vecchio progetto sionista, con la divisione dell’Iraq in differenti “patrie” etnico-confessionali, e renderlo un specie di protettorato spartendone le ricchezze con chi – con una complicità differente – aveva contribuito alla sua aggressione ed acetato cambiamento dello “status quo”.
Gli USA pensavano di subordinare a sé l’Iraq post-Saddam, ma hanno incontrato una strenua resistenza che l’ha reso un pantano per i propri progetti, fino alla nemesi di uno Stato Islamico trans-cresciuto in grado di minacciarne in parte gli interessi vitali.
L’Iran ha avuto un ruolo centrale nell’organizzare la resistenza all’ISIS, e la coalizione delle milizie sciite filo-iraniane ora integrate nelle forze di sicurezza irachene.
L’Iran ha aiutato cioè a ripristinare la sovranità irachena contro un prodotto della strategia del “Caos Creativo” statunitense finalizzato a destabilizzare la vicina Siria, scappatogli di mano.
L’Iraq è uscito provato dalla lotta contro l’ISIS, con una situazione economica piuttosto difficile e con una “corruzione” ereditata dai fantocci posti al governo del Paese sotto occupazione militare.
L’Iraq è il quarto Paese al mondo per le riserve di greggio stimate, ma più di 40 milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà!
Così, già da ottobre, le legittime rimostranze del popolo iracheno sono state sfruttate da USA, Israele e Arabia Saudita per “destabilizzare” una leadership, quella del dimissionario Abdel Mahdi, che consideravano troppo vicina all’Iran.
Ripercorriamo le tappe che hanno portato alla decisione di “accelerare” la spinta per il defenestramento dello statista iracheno con il supporto di un contributo del sito di informazione indipendente “Investig’ation”, apparso lo scorso ottobre, che ci aiuta a decostruire le interpretazioni abbastanza fallaci circolate anche all’interno della “sinistra radicale”.
Abdel Mahdi ha accusato Israele d’essere responsabile della distruzione di cinque siti delle forze di sicurezza irachene (Hachd al-Chaabi) e di avere ucciso un comandante alla frontiera Siro-irachena. Ha aperto il sito frontaliero ad Al-Qaem tra l’Iraq e la Siria, a danno dell’ambasciata americana a Bagdad, il cui personale ha espresso il suo malessere ai responsabili iracheni.
Ha espresso la volontà di acquistare degli S-400 e altri equipaggiamenti militari dalla Russia. Abdel Mahdi si è accordato con la Cina per la ricostruzione delle infrastrutture essenziali dell’Iraq in cambio di petrolio, si è inoltre accordato con una azienda tedesca per un contratto per la fornitura dell’elettricità per un il valore di 284 milioni di dollari, piuttosto che stipularlo con una azienda americana.
Il Primo ministro iracheno ha rifiutato di rispettare le sanzioni degli USA continuando a comprare l’elettricità dall’Iran e autorizzando scambi commerciali che hanno portano un gran beneficio all’Iran. Infine, Abdel Mahdi ha rifiutato “l’accordo del secolo” proposto dagli USA sulla questione palestinese e tenta una mediazione tra l’Arabia Saudita e l’Iran, svelando così la sua intenzione di non conformarsi agli obiettivi delle politiche degli USA in Medio-Oriente».
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L’Iran ha affermato il 5 gennaio che non rispetterà più i criteri fissati negli accordi firmati precedentemente, non accettando più dei limiti all’arricchimento dell’uranio, anche se continuerà a sottomettersi alle ispezioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, come in precedenza.
La UE, sebbene Francia, Germania e Gran Bretagna fossero co-firmatari dell’accordo, non ha fatto nessun passo concreto per dargli seguito ed impedire lo strangolamento economico della Repubblica Islamica, a differenza di Cina e Russia che sono diventati sempre più gli unici veri partner del Paese.
Le cancellerie occidentali, insieme a Trump, sono egualmente responsabili per l’azzeramento di una ipotesi diplomatica che avrebbe potuto scrivere una pagina diversa per l’Occidente, ma anche questa volta l’Unione si è dimostrata più incline a soddisfare i voleri di Israele ed Arabia Saudita – acerrimi nemici del trattato – che a determinare un proprio piano politico che spianasse la strada a differenti relazioni politiche, in grado di sviluppare una vera politica di pace.
L’editoriale del 5 gennaio di Le Monde  in parte centra il punto quando afferma:
«Questo accordo imperfetto aveva almeno il merito d’esistere e, con lui, uno spazio per la negoziazione. Questo spazio si è richiuso, venerdì, sulla carcassa fumante della vettura che trasportava la guida militare iraniana a Bagdad. Non c’è più né diplomazia, né strategia di pressione o di sanzioni. Solamente lo scontro».
Il quotidiano francese ha parzialmente ragione perché la strada diplomatica è perseguita dall’Iran insieme alle legittime dichiarazioni bellicose, con una grande prova di assennatezza tanto da ribadire per l’ennesima volta di poter fare marcia indietro rispettando l’accordo sul nucleare, nel caso gli USA togliessero le sanzioni.
«La nostra leadership ha annunciato ufficialmente che non abbiamo mai cercato la guerra e non la cercheremo», ha affermato sabato Dehghan, adviser di Ali Khamenei, dichiarando che gli Stati Uniti devono aspettarsi reazioni appropriate al loro atto.
Gli fanno eco i maggiori leader della “Mezzaluna Sciita” nel mondo arabo, rinfocolando un odio mai sopito contro la presenza militare statunitense e il suo alleato sionista.
Tutta la diplomazia internazionale è “in fibrillazione”, con una riunione della NATO tenutasi a Bruxelles il 6 gennaio ed un incontro ad alto livello tra la Merkel e Putin questo sabato a Mosca.
La NATO, con una decisione presa con l’incontro in Belgio, ha sospeso temporaneamente l’addestramento in Iraq.
Stoltenberg – il suo segretario – ha preso le distanze dall’uccisione di Suleimani: «Questa è una decisione statunitense. Non una decisione presa dalla coalizione globale né dalla NATO. Ma tutti gli alleati sono preoccupati dell’attività di destabilizzazione dell’Iran nella regione»
I ministri degli esteri della UE si incontreranno questo venerdì per un incontro d’emergenza sull’Iran. Macron, Merkel e Johnson avevano fatto una dichiarazione congiunta piuttosto “cerchiobottista”, ma non proprio favorevole all’Iran in cui condannano di fatto sia l’operato statunitense sia “l’operato negativo” dell’Iran nella regione attraverso le IRGC e Al-Qods.
Fanno appello affinché l’Iran rientri nelle misure decise nell’accordo sul nucleare – di fatto divenuta lettera morta anche a causa loro -, e sostengono espressamente il mantenimento della Coalizione in Iraq, a cui il Paese deve dare il supporto necessario, quando il Parlamento ha votato tutt’altro, dimostrando di voler calpestare ulteriormente la sovranità irachena.
Sta a noi far comprendere che nel Vecchio Continente la volontà dei “governati” non è quella dei “governanti”, chiedendo l’immediato ritiro delle truppe dall’Iraq e la fine della criminalizzazione del popolo iraniano, cui le cancellerie occidentali – con il loro comportamento – hanno lasciato cadere il “Ramoscello d’Ulivo” che tenevano in mano, e non riconosciuto il contributo fondamentale nella sconfitta del cancro jihadista.