giovedì 28 novembre 2019

Cile, il grande riscatto

Il movimento iniziato il 14 ottobre contro gli aumenti del biglietto della metropolitana di Santiago, e trasformatosi ben presto in una più ampia rivolta sociale con precise richieste politiche, non accenna a rientrare.
Un recente sondaggio di Cadem riporta che l’81% degli intervistati disapprova il Presidente Sebastian Piñera, parte dello 0,1% più ricco del Paese ed espressione dell’oligarchia di cui è degno rappresentante e che ha ormai dilapidato irreversibilmente il suo consenso.
I primi tre giorni di questa settimana sono stati caratterizzati dallo sciopero generale deciso dalla Mesa de Unidad Social, organismo unitario composto da circa 200 organizzazioni che raggruppa sindacati, coordinamenti ed associazioni e realtà politiche di vario genere.
Lunedì è stato il giorno dalla mobilitazione contro la violenza sulle donne, svoltosi in differenti Paesi Latino-Americani qualche giorno successivo alle manifestazioni sulla violenza di genere nel nostro continente.
Bárbara Figueroa, presidente della centrale sindacale CUT, ha ribadito le ragioni dello sciopero legate strettamente al rifiuto delle modalità di realizzazione del cosiddetto “Accordo per la Pace” – raggiunto la scorsa settimana tra le forze che compongono la coalizione governativa ed una parte dell’opposizione parlamentare -, la sordità nell’accogliere le ragioni dell’esplosione sociale in corso.
Ha precisato inoltre che – secondo quanto riporta “24Horas” -: “non ci può essere impunità, bisogna avere la verità, giustizia e indennizzo alle famiglie, a coloro che sono stati colpiti dalle violazioni de diritti umani”.
Sono 2.670 attualmente le inchieste della procura per violazione dei diritti umani contro le forze dell’ordine!
Il lunedì è iniziato con la paralisi di più di venti scali portuali cileni, dove è presente l’Unión Portuaria, la porzione di movimento operaio organizzato che per prima ha deciso di affiancarsi al movimento sociale utilizzando lo strumento dello sciopero fin dai primi giorni. Nel pomeriggio della stessa giornata si è svolta la manifestazione delle donne che ha avuto nella Coordinadora 8 marzo – organica alla “Mesa” – uno dei punti di forza. La mobilitazione è continuata anche il martedì,
Quella delle donne è stata una mobilitazione caratterizzata soprattutto dalla denuncia della violenza di genere, praticata in questo mese a vari livelli dalle forze dell’ordine cilene, che sono ricorse a modalità non dissimili dalle pratiche attuate durante la dittatura di Pinochet.
Questo emerge anche da vari dossier di organizzazioni in difesa dei diritti umani, l’ultimo dei quale di Human Rights Watch.
Un altro aspetto importante di questa mobilitazione è stata la negazione diritto di interruzione di gravidanza, altro lascito della dittatura; diritto negato poi anche nella democradura cilena.
Martedì e mercoledì sono entrati in gioco gli altri settori del movimento dei lavoratori del pubblico e del privato, e sono stati organizzati blocchi e barricate lungo le maggiori vie di traffico, non solo della capitale, sin dalle prime ore del mattino.
Proprio questa pratica verrebbe criminalizzata se passasse un progetto di legge inserito in un più ampio pacchetto, annunciato da Piñera domenica scorsa e portato in questi giorni al Congresso.
Nella stessa giornata ci sono state mobilitazioni in differenti città dello Stato latino-americano, così come il giorno successivo, al punto che è difficile dare una sintesi esaustiva.
***
Due avvenimenti politici hanno un maggior rilievo in questi giorni.
Il primo riguarda due importanti annunci di Piñera fatti domenica scorsa, riguardanti un pacchetto di leggi, e i rinforzi che giungeranno a forze dell’ordine, carabineros e PDI.
In un discorso pronunciato domenica, durante la sua visita compiuta in mattinata alla Scuola dei sottufficiali dei carabineros, ha elogiato tuttel e forze dell’ordine per “il lavoro svolto”: sarebbero più di 2.000 i carabineros feriti o che hanno subito lesioni dall’inizio delle proteste, mentre più di 150 sarebbero i locali della polizia attaccati in queste ultime settimane.
Piñera ha inoltre detto di voler fare approvare una legge che “modernizza i Carabineros e che rafforza l’intelligence del braccio poliziesco, oltre alla legge che persegue chi travisa il volto, chi compie saccheggi e coloro che incendiano le barricate in strada”, come riporta “El Desconcierto”.
Inoltre ha assicurato che con il “reintegro” del personale mandato di recente in pensione, e anticipando l’integrazione nei ranghi polizieschi di coloro che stavano partecipando all’addestramento entro il prossimi 60 giorni, ci saranno 4.354 effettivi in più nelle strade.
In una più recente conferenza svoltasi alla Moneda, il palazzo presidenziale, Piñera ha precisato che – come riporta “La Izquierda diario” – “a partire da lunedì prossimo si potrà contare su 2.505 tra carabineros e poliziotti che si aggiungono” a quelli attualmente impiegati.
Oltre a questo, Piñera ha dichiarato che i carabineros del Cile riceveranno, a partire da questa settimana, la consulenza delle polizie di Inghilterra, Spagna e Francia. A riprova della complicità europea…
Nel tardo pomeriggio di mercoledì i giornali cileni hanno ripreso un lancio di un’agenzia di stampa francese – l’AFP – in cui la proposta viene categoricamente rifiutata.
Uno contenuti più inquietanti delle dichiarazioni di domenica mattina riguarda la legge per cui, senza neanche la necessità di dichiarare lo Stato d’Emergenza – cosa che ha fatto tra il 18 e il 28 ottobre – per decreto presidenziale potrà essere utilizzato l’esercito “nei punti critici dei servizi base”.
Si tratta della militarizzazione di fatto dei servizi strategici che possono diventare punti chiave della protesta sociale, dall’energia all’acqua dai porti ai trasporti urbani, dagli ospedali alla Metro, per non citare che i principali.
Come è trapelato successivamente, si tratta di una ampio spettro di “infrastrutture critiche”, con un particolare inquietante:  il presidente potrebbe infatti concedere al personale militare che difende le suddette strutture l’“esenzione dalla responsabilità penale” (come già fatto dai golpisti in Bolivia), applicando la “legittima difesa” nel “compimento di un proprio dovere”. Sarà quindi lo stesso presidente  a determinare l’uso della forza tramite un decreto, insieme al ministero della Difesa.
Tale provvedimento legislativo affiderebbe al Presidente la possibilità di militarizzare i gangli vitali dell’organizzazione sociale, garantendo l’impunità ai militari chiamati alla loro difesa, di fatto impedendo preventivamente ai lavoratori e agli attivisti delle azioni in grado di bloccare o “turbare” l’organizzazione dell’economia.
Si tratta di una manovra di controrivoluzione preventiva evidente, tenendo conto che al centro del dibattito del movimento vi è lo “sciopero generale ad oltranza”.
Non solo l’opposizione parlamentare e la piazza, ma anche numerosi avvocati, si sono opposti a tale misura. Jaime Bassa, un avvocato che ha preso posizione, la ritiene “assolutamente incostituzionale perché attenta contro la divisione delle funzioni dell’art.101 della Costituzione: Ordine Pubblico e Difesa” e si scaglia anche contro la discrezionalità dell’impunità che “va a dipendere, in pratica, dai parametri che definisce il Presidente”.
Il Secondo fatto significativo è una maggior propensione dell’opposizione parlamentare a farsi “delegato politico” del movimento reale, distanziandosi da quelle forze del Frente Amplio che hanno sottoscritto un accordo per una uscita pactada dalla crisi politica, di fatto salvando il presidente.
Lunedì infatti un gruppo di forze politiche ha presentato una “proposta sovrana” che fa sue sostanzialmente le istanze provenienti dalla rivolta sociale in atto.
Il Partito Comunista, il Partito Umanista (PH), il Partito Progressista (PP), i verdi (FRVS) e il Partito dell’Uguaglianza (PI) hanno formalizzato una proposta in sette punti, di cui il primo è l’”impegno per la verità e la giustizia nei casi di violazione dei diritti umani che ci sono stati nelle settimane di protesta. Questo impegno deve considerare una politica reale di indennizzo a tutte le vittime”.
Il documento propone un salario minimo di 510.000 pesos ed una pensione minima equivalente. Propone inoltre la fine dell’attuale sistema pensionistico privato basato, sul contributo individuale a dei fondi (AFP), e “l’inizio di una discussione per un nuovo sistema di pensioni solidale.”
Allo stesso tempo chiede la fine del sistema di prestiti per gli studenti dell’istruzione superiore come CAE, Corfo e altri, che di fatto indebitano a vita i richiedenti.
Un altro punto prevede la stesura nuova Costituzione attraverso una Assemblea Costituente, con voto obbligatorio a partire dai 16 anni e facoltativo tra i 14 e i 16.
La proposta prevede un iter che si sviluppi dalle assemblee popolari locali, sorte come funghi in queste settimane – i cabildos – e la creazione di una “commissione politica-sociale-accademica, che proponga un sistema elettorale proprio per l’elezione dei delegati costituenti, che assicuri rappresentatività, proporzionalità e uguaglianza”.
Una commissione che deve assicurare la parità uomo e donna, assicurare una quota ai popoli originari ed altri gruppi sociali significativi.
Stabilisce inoltre che l’AC, per le proprie decisioni, deciderà con un quorum non inferiore ai 3/5.
***
In queste settimane il Cile è divenuto un laboratorio politico-sociale della rottura con l’ordine neo-liberista, dopo esserne stato la culla; prima con la dittatura di Pinochet, dal ’73 al ’90, consolidandosi poi con il cambio di facciata “democratico” degli ultimi trent’anni.
Allo stesso tempo vi è un  tentativo di ripristino con ogni mezzo del comando delle oligarchie che l’hanno governato e che ora si sentono minacciate, così come lo furono dal governo di Salvador Allende, all’inizio degli Anni Settanta.
È parte di quel teatro continentale della lotta di classe dal futuro incerto e che produrrà un nuovo equilibrio di forze – tra spinte emancipatrici dei popoli e oligarchie che li schiacciano – che si riverbererà sugli equilibri geo-politici di un ordine mondiale in mutazione.
La componente giovanile ed il corpo insegnante sono protagonisti loro malgrado di questo tentativo di restaurazione non proprio mascherata, come nel caso della proposta di legge della ministra dell’Educazione, Marcela Cubillos. Che lunedì ha dichiarato l’intenzione di far approvare una legge contro “l’indottrinamento” tra le aule scolastiche.
Una ipotesi in perfetta continuità con quelle già intraprese con la svolta autoritaria nel disciplinamento scolastico degli studenti (con l’iniziativa “Aula Segura” – che riserva un grosso potere discrezionale e sanzionatorio dei collegi), attraverso politiche propriamente neo-liberiste di selezione di classe, con “Admisió Justa”.
Rendere la scuola avulsa dal contesto, azzerando gli spazi di discussione e di riflessione critica – tra cui la penalizzazione di fatto dell’insegnamento della Storia – è un progetto a tutto tondo di questa conservatrice, un altro aspetto della lotta di classe “dall’alto” delle oligarchie.
Come dimostra anche un recente episodio di censura di una serie di cortometraggi cinematografici, premiati all’estero, sulla vita durante la dittatura; un tentativo di rimozione di ciò che è stato il “Piano Condor”, di cui oggi le giovani generazioni anche in Cile stanno vivendo una versione aggiornata.
Il Cile però sta cambiando velocemente, in una direzione che preoccupa sia le oligarchie locali che Washington, oltre all’UE che finora è stata spettatrice complice silente di una immondo massacro in cui, per parafrasare uno slogan: “qualcuno ha perso gli occhi per far riacquistare al popolo la capacità di vedere…”

mercoledì 27 novembre 2019

Il Meccanismo Europeo di Stabilità e i volti della lotta di classe

Ci stanno un economista della Lega, uno del PD ed il Governatore della Banca d’Italia… ma non è una barzelletta, è una storia vera.
Lo si capisce perché, al di là delle sfumature, dicono tutti e tre la stessa cosa: il progetto di riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) mette in pericolo la stabilità finanziaria dell’Italia, piuttosto che tutelarla. Tante sfumature, dicevamo.
Il Governatore Visco, solitamente ingessato nel linguaggio istituzionale tipico di Bankitalia, parla fuori dai denti di un “enorme rischio” connesso alla riforma, evocando le “terribili conseguenze” dei primi accordi tra i Paesi europei in tema di ristrutturazione del debito pubblico.
Secondo Giampaolo Galli (Confindustria e PD, scusate la ripetizione) “una ristrutturazione preventiva sarebbe un colpo di pistola a sangue freddo alla tempia dei risparmiatori … un evento di gran lunga peggiore di ciò che l’Italia ha vissuto negli ultimi anni a causa dei fallimenti di alcune banche … una calamità immensa, generebbe distruzione di risparmio, fallimenti di banche e imprese, disoccupazione di massa e impoverimento della popolazione senza precedenti nel dopoguerra.
La descrizione dell’apocalisse, che ha destato tanto allarme perché uscita dalla bocca di un economista liberista e uomo delle istituzioni come Galli. In confronto, le urla dei variopinti leghisti assomigliano ai capricci di un bambino.
E come un bambino, la più grande forza populista e “antisistema” del Paese scarica tutta la sua rabbia in un hashtag, #stopMES, tirando la volata al cinguettio infuriato del capitano contro “l’alto tradimento” delle autorità italiane che sottoscriveranno il patto di riforma del MES nelle sedi europee.
Insomma, un fuoco di fila trasversale agli schieramenti politici contro l’ultima evoluzione della governance europea che si va profilando già da molti mesi, e che abbiamo già avuto modo di analizzare ben prima che si alzasse questo polverone, non appena furono chiariti i principali aspetti della riforma.
Già, perché i pilastri di questo nuovo capitolo del meccanismo disciplinante istituito dall’Unione Europea, per imporre l’austerità fiscale attraverso il ricatto del debito pubblico, sono stati definiti dal consesso europeo a cui partecipavano i membri del governo giallo-verde, nel primo semestre dell’anno.
La Lega di governo era in prima fila a stendere il tappeto rosso al perfezionamento del MES, e non sembrava così preoccupata – come twitta oggi, dai banchi dell’opposizione – dei rischi per la stabilità finanziaria dell’Italia. In altre parole, Salvini e soci hanno lavorato concretamente alla preparazione di questa riforma del MES che tanti danni potrebbe provocare al Paese.
Visco e Galli, per parte loro, hanno accompagnato le loro dure parole al riconoscimento della necessità di una riforma complessiva del MES, ponendo le basi perché l’attuale pacchetto concordato a livello europeo arrivi comunque a destinazione, magari con qualche minimo correttivo. Fonti di Bankitalia hanno infatti precisato alla Reuters, subito dopo le allarmanti parole del Governatore, che “Visco non ha espresso un giudizio sfavorevole sulla riforma del Mes, ha invece messo in guardia sui rischi inerenti all’assunzione di eventuali ulteriori iniziative future relative all’operatività del Mes in assenza di una riforma complessiva della governance economica dell’area dell’euro”.
E Galli, nella medesima audizione in cui evocava l’apocalisse, ci tiene subito a precisare che “Il MES è una istituzione preziosa perché ha dato un contributo decisivo per risolvere le crisi di paesi che avevano perso l’accesso al mercato … non solo ci protegge in caso di crisi, ma anche riduce la probabilità che la crisi si verifichi … rappresenta una notevole manifestazione di solidarietà dei paesi più solidi dell’Eurozona, a cominciare dalla Germania che è il suo principale contribuente, nei confronti dei paesi più fragili, tra cui il nostro.
Leghisti e liberisti si dimenano, così, tra amore e odio per questa dibattuta riforma del MES.
Proviamo dunque a smarcarci dalle schermaglie politiche, e andiamo a ricercare il comune denominatore delle principali forze politiche italiane che il dibattito sul MES rivela. Proviamo a capire cosa unisce, nella sostanza, Borghi e Visco, Bagnai e Galli, fuori dalle false contrapposizioni su cui entrambi gli schieramenti costruiscono il loro consenso.
Il MES è un fondo finanziato da una serie di Paesi europei che nasce per fornire sostegno ai Paesi che incorrono in una crisi del debito pubblico. È oggi pienamente operativo ed è già intervenuto nei salvataggi di Grecia, Cipro, Irlanda, Spagna e Portogallo. La caratteristica principale del MES è la sua capacità di svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza per i paesi in crisi: quando un Paese perde l’accesso ai mercati, perché non riesce più a piazzare i propri titoli del debito pubblico o perché riesce a farlo solo a tassi di interesse proibitivi, può chiedere l’intervento di questo fondo europeo. Il MES è dunque l’ultima possibilità che un Paese ha per finanziare il proprio debito pubblico prima di dichiarare default.
L’essenza del MES sta nella condizionalità dei suoi interventi: se vuoi l’aiuto del fondo, devi promettere – sottoscrivendo un apposito ‘Memorandum of Understanding’ – che ti comporterai bene, cioè a dire che applicherai entro scadenze tassative una serie di politiche di austerità concordate con le istituzioni europee. Ad ogni taglio alla spesa pubblica, ad ogni nuova tassa, insomma ad ogni misura di austerità introdotta corrisponderà una tranche del prestito.
In questo senso, si può parlare del MES come di un meccanismo capace di disciplinare le economie europee facendo leva sul ricatto del debito pubblico. Ed è importante sottolineare che tutto questo è già perfettamente operativo.
Ciò di cui si discute è un ulteriore perfezionamento del meccanismo, ossia un affinamento della tecnica disciplinante che all’interno dell’Eurozona impone l’austerità come prezzo da pagare per non essere abbandonati alla speculazione finanziaria.
La riforma cambia alcune importanti procedure di questo meccanismo, potenziandolo, ma non ne altera la natura. Nel caso passi così come anche i leghisti l’hanno concordata in sede europea, prevede rilevanti novità.
In primis, in caso di richiesta di aiuto al MES, un Paese sarà sottoposto ad un’analisi di sostenibilità del debito pubblico condotta sia dalla Commissione che dal fondo, con l’importante precisazione che la prima si comporta come un’istituzione pubblica sovranazionale, chiamata a tutelare (almeno sulla carta) gli interessi di stabilità e crescita dei Paesi membri, mentre il MES agisce per statuto come un qualsiasi creditore privato (“from the perspective of a lender”), cioè a dire con il solo interesse al rimborso delle somme prestate, a prescindere dagli impatti dell’operazione sulla stabilità finanziaria e sulla crescita del debitore.
Se l’analisi conclude che il debito pubblico del Paese è sostenibile nel lungo periodo, il prestito viene concesso senza troppi vincoli; al contrario, in caso di giudizio negativo sulla sostenibilità, il prestito potrà accompagnarsi a condizioni molto stringenti e addirittura a ipotesi di ristrutturazione del debito.
Uno dei punti critici della proposta di riforma è proprio legata alla menzione dell’ipotesi di ristrutturazione, denominata “private sector involvement”: se il MES giudica il debito pubblico del Paese in crisi insostenibile, potrebbe decidere di concedere il prestito solo dopo che il Paese abbia tagliato una parte di quel debito, a discapito dei detentori dei titoli in circolazione.
È bene precisare che questa ristrutturazione del debito non equivale, tecnicamente, ad un default. Nella ristrutturazione si ottiene il consenso dei creditori, mentre nel caso di default il debitore dichiara unilateralmente che non pagherà i propri debiti, infliggendo una perdita al creditore – volente o nolente. E sul consenso dei creditori interviene un’altra misura che potrebbe accompagnare la riforma del MES. Oggi quel consenso deve essere ottenuto attraverso due distinte votazioni: devono accettare il taglio sia una maggioranza qualificata dei detentori del debito pubblico di quel Paese, sia una maggioranza qualificata dei detentori degli specifici titoli che si andrebbero a ristrutturare.
Il debito pubblico viene emesso sotto forma di titoli che sono suddivisi in diverse serie, ciascuna con le proprie caratteristiche in termini di scadenza e rendimento. Il taglio del debito è, nei fatti, il taglio di alcune delle serie in circolazione. Nell’attuale configurazione delle clausole che disciplinano le ipotesi di ristrutturazione, le CACs (Clausole di Azione Collettiva), vi è quindi la possibilità che si formino tra i creditori minoranze di blocco, e che dunque la ristrutturazione del debito pubblico diventi difficile da realizzarsi.
Quando votano i detentori del debito pubblico nel suo complesso, infatti, è probabile che prevalga il punto di vista dei grandi investitori, che detengono la maggioranza del debito pubblico in circolazione, e spesso questi operatori preferiscono accettare la ristrutturazione, perché traggono profitto dall’ordinato rifinanziamento del debito pubblico nel lungo periodo, e non da singole operazioni speculative. I grandi investitori sanno che quel che perdono nella singola “battaglia” della ristrutturazione sarà sempre meno di quello che perderebbero da un avvitamento della crisi, e dalla “guerra” che un default scatenerebbe.
Al contrario, quando si passa alla votazione della singola serie di titoli da sforbiciare, potrebbe emergere un gruppo di investitori minori interessati a portare a casa i profitti sui pochi titoli sottoscritti, e dunque contrari alla ristrutturazione. Per questo, le proposte in discussione prevedono la modifica delle CACs, che diventerebbero “single-limb”, cioè ad una gamba sola: sarebbe richiesta, ai fini della ristrutturazione, la sola votazione dei detentori del debito pubblico in generale, dove prevalgono i grandi, e non anche il consenso dei detentori delle singole serie di titoli da ristrutturare.
In buona sostanza, le ristrutturazioni del debito diventerebbero più facili da realizzare, e questo è un problema per le finanze pubbliche. Quando i creditori sottoscrivono i titoli del debito pubblico, chiedono in cambio un tasso di interesse che rispecchi i rischi di svalutazione di quell’attività finanziaria: se, per via di una maggiore probabilità di ristrutturazioni, i titoli di Stato italiani diventano più rischiosi, questo si rifletterà in un maggiore costo del debito pubblico. Cresce lo spread, l’Italia perde la stabilità finanziaria e, come per magia, si trova costretta a chiedere aiuto proprio al MES.
Dunque il combinato disposto della riforma del MES – che contempla ipotesi di ristrutturazioni in esito all’analisi di sostenibilità – e delle modifiche proposte per le CACs (che rendono più facili quelle ristrutturazioni) può creare un vortice di instabilità finanziaria che costringe il Paese a sottoscrivere un Memorandum of Understanding per ottenere i finanziamenti del MES: sarebbe il commissariamento formale dell’Italia, il destino greco che aleggia su tutta la periferia europea dall’inizio della crisi.
Nulla di buono, quindi, da questa riforma del MES per l’Italia. È il settore finanziario del Paese, nel suo complesso, che soffrirebbe gli effetti negativi della riforma: molte banche di piccole e medie dimensioni, che oggi detengono ingenti quantità di titoli di Stato, rischiano di vedere una parte consistente del loro patrimonio svalutato in poche settimane.
Questo segmento della finanza nazionale è il blocco sociale che spinge per addolcire la riforma, introducendo correttivi utili a difendere gli interessi italiani: si tratta di un blocco sociale preciso, fatto di banche e istituzioni finanziarie che operano su scala nazionale e che sarebbero indebolite rispetto alle grandi banche internazionali, le cui fortune sono già slegate dai destini del debito pubblico italiano.
Lega, PD, Bankitalia si trovano così a difendere un interesse nazionale per difendere un interesse di classe specifico, quello del piccolo e medio capitale finanziario italiano.
In questo caso, tale interesse si sovrappone all’interesse dei lavoratori almeno sotto due importanti profili. Tra BTP e quote di fondi di risparmio gestito che investono in titoli di Stato, le famiglie italiane hanno circa il 40% della loro ricchezza finanziaria costituita da titoli del debito pubblico italiano, e dunque sarebbero danneggiate sensibilmente da un peggioramento del loro corso.
In altre parole, nell’istante in cui si ratifica un trattato che afferma che si può – e in certi casi si deve – ristrutturare il debito, il prezzo dei titoli di Stato che incorpora quel rischio si riduce, provocando una erosione di ricchezza delle famiglie. In secondo luogo, la pressione politica che l’instabilità finanziaria necessariamente produce si scaricherebbe principalmente, tramite l’applicazione rigida dell’austerità, sulla classe dei lavoratori.
Per queste ragioni sembra auspicabile, da un punto di vista di classe, alzare le barricate sulla strada che condurrà, nei prossimi mesi, a varare il pacchetto di riforme della governance europea.
Ma le nostre barricate non possono essere le stesse della Lega. Il motivo è semplice, ma sviscerarlo può aiutarci a capire perché, tutto sommato, le principali forze politiche parlamentari rappresentano una falsa opposizione al nuovo meccanismo di ricatto del debito, al di là delle loro dichiarazioni roboanti e al di là dei singoli palliativi che troveranno per limitare i danni della riforma all’economia italiana. Soprattutto, può aiutarci a spiegare l’ambivalente posizione dei leghisti, che ieri, al governo, hanno predisposto insieme alle autorità europee il disegno di riforma del MES e oggi, non più al governo, fingono una radicale opposizione a quella stessa misura.
Il perfezionamento dell’architettura istituzionale europea che è implicito nella riforma del MES porterà ad accelerare i processi di trasformazione economica e sociale che il progetto politico dell’Unione europea impone. Quel progetto è un vero e proprio programma di lotta di classe dall’alto verso il basso, e mira principalmente a disarmare i lavoratori – distruggendo lo stato sociale e schiacciandoli sotto il ricatto della disoccupazione e della precarietà – e favorire lo sfruttamento e l’accumulazione di profitto nelle mani di pochi.
Ma la classe dei lavoratori non è l’unica vittima di questa metamorfosi della società europea. Destinato all’estinzione sembra anche un segmento della classe capitalista che è composto dai capitali piccoli e medi, che operano a livello nazionale e non hanno assecondato il lungo e violento processo di globalizzazione dei mercati: quel pezzo di borghesia, in Italia molto rilevante dal punto di vista sociale, soffre il declino della domanda interna, il crollo dei consumi ed i processi di centralizzazione dei capitali a favore dei grandi gruppi europei e internazionali. E si tratta di un segmento trasversale all’industria e alla finanza.
Se nel ventennio passato abbiamo visto morire – tra fallimenti, acquisizioni e delocalizzazioni – buona parte del tessuto industriale del Paese, da qualche anno iniziamo ad assistere ai primi scricchiolii di quei settori della finanza italiana che vivevano più dell’economia dei territori che delle operazioni internazionali. Esattamente quel pezzo di finanza che sarebbe tramortito dal colpo che la riforma del MES infliggerà ai titoli di Stato italiani.
È un blocco sociale che ha ancora il potere di costringere il Governatore della Banca d’Italia ad alzare la voce contro l’Europa, e la Lega ad alzare barricate, ma è destinato a soccombere alla storia dell’integrazione europea.
Non è il nostro blocco sociale, perché quel pezzo di finanza ha beneficiato dello sfruttamento del lavoro insieme al resto della classe capitalista italiana fintantoché ha potuto, e oggi si appella ad un presunto interesse nazionale solo perché è vittima di un capitalismo transnazionale che lo divora, investito da un gigantesco progetto di centralizzazione dei capitali che miete vittime in tutta la periferia europea. Inoltre, è un blocco sociale destinato a perire nel corso della realizzazione del disegno politico portato avanti dall’Unione Europea.
Per questa ragione, i Galli e i Visco, i Salvini e i Borghi non possono offrirgli che una parvenza di difesa, palliativi, perché le forze politiche che si muovo dietro a questi personaggi hanno scelto chiaramente da che parte stare. Non c’è bisogno di specificare, qui, che il PD e Bankitalia sono i più rigorosi interpreti dell’applicazione del progetto politico europeo in Italia.
La Lega ha una storia diversa. Nasce come espressione di quella classe di piccole e medie imprese del nord-est che oggi è schiacciata dalla concorrenza internazionale, dalla globalizzazione dei mercati e dal crollo della domanda interna. Ma nel corso degli anni più recenti diventa altro, ed oggi – dopo la prova del governo gialloverde – ha scelto chiaramente la più ampia compatibilità con il disegno europeista.
Dalla Lega, dunque, non può sorgere alcuna reale opposizione all’evoluzione della governance europea. Possono attaccare il singolo ingranaggio, ma sono parte integrante del meccanismo europeo nato per sfruttare i lavoratori e disintegrare la piccola e media impresa.
Il problema, difatti, non è la riforma del MES in sé. Il nostro problema è il progetto di integrazione europea tutto, ed il singolo tassello della riforma del MES non rappresenta altro che un passaggio, tra tanti, di un percorso politico che sta schiacciando i lavoratori. Opporsi alla riforma del MES senza chiarire che anche senza quella riforma il nostro Paese è sottoposto al ricatto del debito significa proporre una forma nuova di compatibilità con l’Europa.
Pezzi di sinistra radicale hanno per anni raccontato la favola della riformabilità dell’Europa, la possibilità di trasformare la “brutta” Europa dell’austerità nella “bella” Europa dei popoli.
Ci tocca adesso sentire la favola dell’Europa senza riforme: la destra di oggi ci racconta che l’Europa di adesso – senza riforma del MES – sarebbe tutto sommato accettabile. Nulla di più assurdo, e basterebbe guardare alla Grecia, messa con le spalle al muro quando ancora non esisteva neppure la versione odierna del MES.
Nella retorica di Salvini – ecco il reale contenuto politico della Lega oggi – sembra possibile immaginare un’Europa che non ricatti i lavoratori usando l’arma del debito pubblico, un’Europa rispettosa dell’interesse nazionale italiano, magari a discapito di qualche privilegio oggi accordato ai tedeschi. L’ennesima utopia letale per i lavoratori, oltre che per il blocco sociale storico della Lega, che Salvini sta sacrificando sull’altare della piena compatibilità con l’Unione Europea.
Chi prova a difendere l’Italia dalla riforma del MES senza mettere in discussione il progetto di integrazione europea nel suo complesso ha già deciso da che parte stare, condannando la piccola borghesia alla proletarizzazione ed i lavoratori alla povertà e alla precarietà.
C’è dunque solo un’opposizione valida alla minacciosa riforma del MES: è la critica radicale che mira a rompere l’intero meccanismo disciplinante incarnato dall’Unione Europea.

lunedì 25 novembre 2019

Mes, il fondo salva-banche tedesche

E’ il problema politico centrale, di dimensioni incommensurabilmente più grandi di quelli che la nostra “classe politica” è in grado di concepire (e stendiamo un velo pietoso sulla sedicente “sinistra radicale”…). Più passano i giorni, più la natura del Meccanismo europeo di stabilità si precisa come come “argine” a difesa di interessi nazionali e di classe molto precisi.
Niente a che vedere, insomma, con la pretesa di stabilire “regole uguali per tutti”. A punto che, come abbiano segnalato nei giorni scorsi, anche “europeisti” senza se e senza ma sono stati costretti a spiegare che il “nuovo Mes” è una trappola per alcuni paesi e una ciambella di salvataggio per altri. In dettaglio: va bene per Germania, Francia, Olanda, Finlandia e pochi altri, è una ghigliottina per l’Italia e gli altri Piigs (ma non solo per loro).
Ogni ora che passa c’è un altro “europeista” storico che se ne accorge. Tra gli altri, e questa è veramente una “sorpresa”, arriva persino Repubblica, che affida la sua critica ad Alessandro Penati (un “esterno”, per delimitare in qualche modo la portata della propria “conversione” in itinere).
Il meccanismo è complesso, sul piano regolamentare, ma per di più è comprensibile nella sua “strategia” soltanto se si riesce a tener presente le normali dinamiche “di mercato”. Le quali essendo presupposte come “naturali” non entrano mai nella definizione delle “regole” dei rapporti tra Stati. Ma esistono eccome; anzi, sono determinanti.
Per chiarire il funzionamento del “nuovo Mes” proponiamo ancora una volta i passaggi più rilevanti dell’analisi di Guido Salerno Aletta, apparsa sabato su Milano Finanza – testata specializzata in misfatti finanziari ed economici, nel prezioso formato settimanale  – che illustra in modo decisamente chiaro come queste “regole” siano state pensate ad un’unica scopo: combattere la guerra finanziaria attualmente in corso a livello globale.
E, come in ogni guerra, ci sono gli interessi, i comandanti, i nemici, gli alleati, i neutrali.
I “nemici” dichiarati, nell’era Trump, sono Stati Uniti e Cina. Ma l’Unione Europea si presenta come un insieme sfilacciato, non come un “esercito in assetto da battaglia”. Quasi inutile, a questo punto, ripercorrere i perché (una unione politica mai avviata, una politica economica comune sempre rifiutata, l’ammissione – eufemismo – di politiche fiscali concorrenziali all’interno dello stesso mercato comune, il nazionalismo dei più forti nascosto sotto la retorica “solidaristica”, ecc) e discutere di correttivi. Il nemico è alle porte, chi è in grado di combattere si prende il posto di comando e agli “alleati” viene riservato il ruolo di portatori d’acqua, addetti ai rifornimenti, donatori di sangue. Subordinati, insomma…
La divisione dei ruoli è chiara; lo è da decenni. Germania e Francia guidano le danze, qualche alleato meglio messo può dare una mano (l’Olanda e pochi altri), tutto il resto si deve mettere a disposizione.
Il problema è che in una guerra finanziaria – per ora – armi e munizioni sono i patrimoni, mobili o immobili. E queste risorse vanno “centralizzate”. In modo niente affatto ingenuo e niente affatto “paritario”. E siccome lo “stato maggiore” franco-tedesco (hanno persino varato un mini-Parlamento comune, in barba a quello di Strasburgo!) è messo finanziariamente malissimo, la prima mossa è garantirsi la possibilità di “sottrarre” legalmente le risorse altrui. Anzi, basta creare un meccanismo tale per cui ci penserà “il mercato”, con la speculazione, a fare il lavoro di trasferimento da un portafoglio a un altro.
Potremmo gridare allo scandalo per molte ragioni, leggendo il dispositivo del Mes. Per esempio, quella “ristrutturazione del debito pubblico” che è stata addirittura negata, nel dibattito politico e da parte di alcuni “esperti” truffaldini, non solo è presente, ma addirittura in forme inaudite.
Gli Stati che dovessero chiedere aiuto al Mes, infatti, dovrebbero avere “condizioni economiche e finanziarie forti e un debito pubblico sostenibile”. Per un paese come l’Italia o la Spagna (per non dire della povera Grecia, già spolpata senza risanare un tubo…) ciò sarebbe possibile solo con “una ristrutturazione preventiva o la confisca nottetempo dei conti correnti bancari italiani”.
Immaginate di alzarvi una mattina , andare al bancomat per fare la spesa, e leggere che il vostro misero conto è stato svuotato o quasi…
Ma non vorremmo buttarla in “populismo”…
La questione centrale è la guerra finanziaria mondiale. In cui l’Unione Europea sagomata dall’asse franco-tedesco è chiaramente il vaso di coccio, anche per lo stato disastroso in cui si trovano le grandi banche di questi due paesi. E allora un discorso che in astratto potrebbe essere svolto – o frainteso – in termini “nazionalistici” diventa immediatamente, e con assoluta chiarezza, un discorso di classe.
Stiamo infatti parlando degli interessi vitali di banche e industrie che da anni fanno fatica a reggere la competizione globale. Deutsche Bank è uno zombie incurabile, Mercedes ha annunciato un piano di tagli da 1,5 miliardi, sono cominciati i fallimenti bancari (NordLb, in Germania) e i salvataggi con i soldi pubblici (vietato altrove!).
Non si può andare avanti così”, si sono detti i boss tra Berlino, Francoforte e Parigi; “prendiamoci tutto e proviamo a resistere meglio”.
E’ questo il processo di cannibalizzazione che sta marciando nell’economia europea: sacrificare i “marginali” per salvaguardare – illusione disperata – “l’asse centrale”.
Due parole sulla nostra “classe politica” vanno però dette. Per quasi 30 anni, e sicuramente da Maastricht in poi (1992), i governi italiani hanno sottoscritto trattati asimmetrici, probabilmente senza capirli o addirittura senza leggerli (memorabile la “riforma costituzionale” che ha introdotto il vincolo al pareggio di bilancio nell’art. 81, votata quasi all’unanimità – Lega compresa – e senza discussione parlamentare).
Sul “nuovo Mes” abbiamo avuto una sceneggiatura appena più articolata. Tutti i partiti (o come volete chiamarli) hanno concordato in silenzio sui termini della trattativa in corso per la sua “riforma”. Solo quando la configurazione della maggioranza è mutata la Lega ha cominciato in modo criptico a dire che non andava bene. E Conte ha avuto facile gioco nel perculare Salvini, per molti mesi seduto ai tavoli “a sua insaputa”. Il Pd, da parte sua, ha addirittura messo un funzionario europeo sulla poltrona di via XX settembre, chiarendo fin da subito che trovava quella “riforma” del tutto normale.
Ma una volta aperta la diga, tutti sono stati costretti ad andare a legge cosa c’è effettivamente nel testo del “nuovo Mes”.
Ora possiamo sapere. E se non vogliamo capire, siamo proprio scemi.

venerdì 22 novembre 2019

Tra il dire e il fare, c’è di mezzo il Mes

Viviamo in un mondo folle. Mentre si pongono le basi del disastro definitivo di questo paese, il dibattito mainstream si occupa di cose irrilevanti. Per fortuna, però, non esistono solo Repubblica e il Corriere (non nominiamo neanche le tv, ormai sprofondate nell’abisso dell’intrattenimento anche all’interno dei tg).
Un merito fondamentale l’ha avuto la “riforma del Mes”, quel Meccanismo europeo di stabilità che i governi del 2019 (prima quello gialloverde, ora quello giallorosa) hanno accettato senza capir bene di cosa si trattava. Poi qualche voce critica ha cominciato ad alzarsi persino dalle fila degli europeisti ad oltranza (Giampaolo Galli, ex parlamentare Pd, per esempio) ed ora gli occhi esperti puntati su quel dispositivo sparano a zero, scoprendo – e dicendo – quel che prima era indicibile o non correct dire.
Avendo fatto da modesti anticipatori di queste critiche, ed essendo stato ampiamente confermato il nostro giudizio (“piano Scholz” e “riforma del Mes” sono un assalto tedesco agli asset degli altri partner europei, Italia in testa), possiamo ora provare a vedere come lavora la contraddizione all’interno delle classi dirigenti, e quali conseguenze politiche produce.
Due articoli usciti oggi ci forniscono piste davvero interessanti. Ve li proponiamo entrambi, qui di seguito.
Il primo, di Francesco Russo, per l’agenzia Agi (di proprietà dell’Eni, dettaglio da non sottovalutare…), è una lunga ricostruzione della carriera di Klaus Regling. Personaggio sconosciuto ai più, ma ormai assurto al rango di tecnocrate più potente d’Europa. E’ infatti lui l’amministratore delegato del Mes.
Il che significa: a) il Mes, con la “riforma”, diventa di fatti l’equivalente del Fmi per i soli paesi europei: b) questo organismo funziona come un’azienda, non come un vertice di mediazione politica tra interessi dei vari paesi, e infatti ha al vertice un amministratore, non un ufficio di presidenza.
In secondo luogo, come ben spiega l’Agi, poiché Regling è il “silente burocrate che, dietro le quinte, è stato sin dal principio il vero regista dell’unione monetaria”, ossia dell’introduzione dell’euro, gli interessi tedeschi continuano ad essere prevalenti. Anzi, lo saranno ancora di più perché il “nuovo Mes” avrà un ruolo e una potenza di fuoco competitiva con quella della Bce, ma senza i condizionamenti politici di cui soffre – secondo la Germania – l’istituto di Francoforte, dotato di un board composto di rappresentanti delle banche centrali dei vari paesi.
Terzo dettaglio, ma decisamente importante, siccome la Bce non è un vera banca centrale – manca del potere di fare da “prestatore di ultima istanza” – il ruolo del “nuovo Mes” sarà prevalente per quanto riguarda il rapporto con gli Stati.
Un combinato disposto complicato, che rischia di oscurare l’obiettivo di tanto “cospirare”. Ed anche quello è detto chiaro e tondo dall’Agi (ossia dall’Eni, principale multinazionale italiana partecipata dallo Stato come “azionista di riferimento”): spezzare il legame tra banche e debito sovrano. Ossia tra le banche e i titoli di Stato. Se ciò avvenisse (e avverrà di certo se il “nuovo Mes” prende corpo, come ha anticipato Patuelli, presidente dell’Abi) salterebbe in un colpo solo sia la stabilità del sistema bancario nazionale – pieno di titoli di Stato italiani – sia la sostenibilità del debito pubblico (la speculazione finanziaria avrebbe campo completamente libero).
Anche il secondo articolo, pubblicato da Milano Finanza a firma di Roberto Sommella (“I tedeschi vogliono salvare soltanto se stessi”), affronta gli stessi problemi con gli stessi argomenti.
Dunque, visti gli interessi societari dietro le due fonti di informazione, dobbiamo prendere atto che una fetta rilevante della borghesia finanziaria e imprenditoriale italiana è oggi assolutamente convinta che la governance europea e europeista, per quanto neoliberista, è ormai un danno per i propri affari e i propri asset.
Diciamola semplice: questa “fetta” è stata assolutamente d’accordo con le politiche di austerità fin quando queste colpivano soltanto il mondo del lavoro, il welfare (pensioni, sanità, istruzione, servizi pubblici, ecc). Avere dipendenti con contratti precari e con salari da fame andava ovviamente bene, per loro.
Ma ora che il modello export oriented imposto dall’ordoliberismo tedesco “batte in testa” – la Germania è in recessione, il suo sistema bancario è in buona parte sull’orlo del fallimentola ricerca del profitto si riversa all’interno del sistema continentale. E’ insomma partito da tempo un processo che abbiamo chiamato di cannibalizzazione, in cui “i fratelli europei” si azzannano l’un l’altro cercando di sopravvivere.
A questo punto, insomma, per una parte rilevante della borghesia finanziaria e industriale italiana, l’Unione Europea e le sue regole hanno smesso di essere un buon affare. La classe politica “europeista” che fin qui ha diretto il paese (dal Pd fino ai Monti e alle Fornero), accettando trattati che si sono rivelati cappi intorno al collo, non è più considerata in grado di difendere quegli interessi.
Serve qualcuno in grado di convogliare “consenso popolare” su una linea di maggiore capacità contrattuale con i poteri di Bruxelles, altrimenti “ci si mangiano”. Non per “spaccare l’Europa”, ma per ottenere regole meno squilibrate a favore dei tedeschi (dei “padroni” tedeschi, ovviamente).
La straordinaria avanzata della Lega salviniana negli ultimi tre-quattro anni ha questo propellente alle spalle, oltre che qualche spicciolo russo o statunitense (ala Bannon-Trump…). Ovvio che serviva una retorica interclassista per cercare di tenere figure sociali che fin qui avevano perduto tantissimo dall’“austerità europeista” sotto il comando di quelle che invece ne avevano beneficiato. E altrettanto ovvio che questa retorica, non avendo nulla di concretamente materiale da offrire, si dovesse nutrire di fake news, razzismo, capri espiatori, cazzate “laqualunque”, ecc.
Il problema è comunque molto serio, perché anche chi vuole rivoluzionare il mondo (i rapporti di proprietà, il modello produttivo, ecc.) deve fare i conti con la materialità delle cose: si cambia la realtà che c’è, con gli strumenti che ci sono e quelli che si possono creare.
Un paese completamente saccheggiato, svuotato della sua “migliore gioventù” (costretta ad emigrare all’estero per trovare un lavoro all’altezza delle proprie competenze), deprivato delle parti strategiche del suo sistema industriale (acciaio, auto, telecomunicazioni, ecc.), azzerato come capacità di risposta alle sfide, è un paese senza futuro.
Per questo l’Unione Europea va combattuta ora, qui, davvero.

giovedì 21 novembre 2019

L'”ammazza stati” bussa alla nostra porta

Mettiamo da parte rapidamente la sceneggiata politica tra vecchi e nuovi complici sulla “scoperta” che l’Unione Europea sta per varare una “riforma del Mes” (il Meccanismo europeo di stabilità) che certamente impatterà in modo devastante l’economia nazionale, il risparmio dei cittadini e il sistema bancario. Tutto in un colpo solo.
Ha aperto i fuochi Salvini, ha fatto sponda l’imbarazzante Di Maio, li ha stanati Giuseppe Conte con una velenosa “chiamata di correo” (“Oggi abbiamo scoperto che c’è un negoziato che è da un anno in corso: il delirio collettivo sul Mes è stato suscitato dal leader dell’opposizione, lo stesso che qualche mese fa partecipava ai tavoli discutendo di Mes, perché abbiamo avuto vertici di maggioranza con i massimi esponenti della Lega – quattro incontri – e ora c’è chi scopre che era al tavolo ‘a sua insaputa’).
In sintesi: l’Italia ha dato il suo consenso di massima a questa “riforma” già a giugno (governo gialloverde) e l’ha confermata pochi giorni fa (governo giallorosa). Tutti d’accordo e al servizio dell’Unione Europea quando siedono al governo, tutti all’oscuro e contrari quando fingono di fare l’opposizione, come patetici leoni da tastiera.
Chiusa la parentesi ridicola, occupiamoci ancora un volta del merito di questa “riforma”, visto che ieri è stata oggetto sia di un illuminante editoriale di Guido Salerno Aletta – pubblicato dall’Agenzia TeleBorsa, non da un oscuro blog nazionalista – sia dell’audizione di Vladimiro Giacché presso la Commissione Finanze del Senato.
Il primo esamina da par suo le conseguenze finanziarie immediate dell’adozione della nuova normativa: “perdite astronomiche ai risparmiatori ed agli investitori sui titoli di Stato, ed un guadagno certo e sicuro agli speculatori”. Come altre volte, ripubblichiamo il suo editoriale qui di seguito.
Quasi a dargli ragione, ma in assoluta autonomia, nelle stesse ore Patuelli, presidente dell’Abi – l’associazione della banche italiane – chiariva che «Se le condizioni relative al debito si alterano, o per maggiori assorbimenti o per elementi che favoriscono sinistri, è chiaro che le banche sottoscriveranno meno debito pubblico. Non compreremo più Btp».
Il presidente del Centro Europea Ricerche, Giacché, provava nel frattempo a spiegare ai senatori il significato sistemico negativo di una gestione della crisi in atto a oltre dieci anni secondo i dettami di una teoria economica che non sta più in piedi, se mai lo è stata.
E’ forse venuto il momento di prendere atto che la soluzione – consistente nell’avviare un processo di generalizzazione del modello export driven tedesco, considerato tale da poter rendere simili tutti i Paesi dell’Eurozona e scongiurare l’eventualità di shock asimmetrici – non ha dato i frutti sperati. Né si può pensare di procedere introducendo, quasi per inerzia, sempre nuovi elementi di rigidità e sempre nuove condizionalità nelle politiche economiche e di bilancio. Occorrerebbe uscire da una trappola evoluzionista che, nonostante gli evidenti fallimenti, continua a incentrare ogni innovazione istituzionale dell’area sul principio originario dell’assimilazione ad un presunto modello migliore. Un modello che, peraltro, sta proprio in questi mesi incontrando i propri limiti strutturali“. 
Il “pensiero unico” egemone dalla Caduta del Muro in poi, insomma, batte in testa. Ma siccome chi ne ha beneficiato non vuole perdere la posizione conquistata ecco che pare un processo di cannibalizzazione interno alla “comunità europea”, con i paesi più deboli a fornire risorse a quelli più forti. Non è un obbiettivo apertamente dichiarato, com’è ovvio, ma la conseguenza “naturale” di un sistema di regole asimmetrico. E infatti:
“Il Mes costituisce un ulteriore rafforzamento delle regole che disciplinano la politica di bilancio dei Paesi dell’Eurozona, muovendosi in perfetta linea di continuità con le modifiche apportate al Patto di stabilità nel 2012.
Riguardo agli aspetti più tecnici della riforma, posso anticipare di condividere le argomentate perplessità già espresse in questa sede dal professor Giampaolo Galli. Occorre porsi due domande di fondo: il Mes è utile all’Eurozona? è utile all’Italia? Riguardo alla prima domanda, per rispondere occorre verificare in quale misura il debito pubblico – e in generale i problemi inerenti alla disciplina di bilancio – costituiscano oggi un fattore di rischio per la moneta unica. Ci sono pochi dubbi sul fatto che l’Eurozona si sia tenuta nel suo insieme ai precetti della disciplina di bilancio, e questo si è riflesso sulle dinamiche del debito, che sono più favoreCiononostante, il debito è aumentato anche nell’Eurozona, e questo fatto sta spingendo verso l’adozione di meccanismi di controllo ancora più stringenti.voli nell’Eurozona rispetto a Stati Uniti e Regno Unito. Ciononostante, il debito è aumentato anche nell’Eurozona, e questo fatto sta spingendo verso l’adozione di meccanismi di controllo ancora più stringenti. Obiettivo a cui mira la riforma del Mes. In sostanza, si ritiene che, non essendo stato conseguito l’obiettivo di riduzione del debito, debba essere rafforzata la disciplina dei Paesi membri. Si compie, a nostro giudizio, un errore di analisi che non dovrebbe essere avallato”
A quanto pare, però, su questa “riforma” l’Unione Europea si prepara a varare il voto a maggioranza, anziché – come finora – all’unanimità. In questo caso, anche l’improbabile “veto” del governo italiano, o di qualche altro paese in condizioni simili, verrebbe tranquillamente ignorato. Ma “è democrazia”, non temete!
Il problema, formalismi a parte, è che questa logica non funziona perché fa i conti con un modello astratto di “virtù economica” che non tiene conto della realtà storica. In altre parole:
“La discussione sulla riforma del Mes non può prescindere dalla possibile evoluzione ‘negativa’ degli scambi mondiali e del ciclo di crescita, per un motivo molto semplice: si tratta di fattori che incidono direttamente anche sulle prospettive delle finanze pubbliche. Ci troviamo nuovamente di fronte al tipico problema di uno shock simmetrico – una contrazione degli scambi mondiali – che può generare effetti asimmetrici sulle singole economie. Di fronte ad un indebolimento delle previsioni di crescita, i mercati potrebbero adottare un comportamento di ‘flight to quality’, e penalizzare quindi i Paesi con maggiore livello di debito pubblico come l’Italia.
Questo, indipendentemente dall’effettiva capacità del sistema economico di contrastare lo shock di origine. Capacità che, al momento, appare essere maggiore in Italia che in Germania“.
E’ in Germania, infatti, che il sistema del credito è ridotto alla condizione di zombie, con la banca più grande – Deutsche Bank – ridotta ad appestatoda evitare con cura. Ma, come in un film di Romero, gli zombie cercano sempre di cibarsi dei vivi…
*****

Riforma del MES: un sistema robotizzato di autodistruzione dell’Euro

Almeno 500 miliardi di perdite con la ristrutturazione del debito pubblico italiano, che provocherà il collasso della moneta unica perdite astronomiche ai risparmiatori ed agli investitori sui titoli di Stato, ed un guadagno certo e sicuro agli speculatori.
Guido Salerno Aletta – Agenzia Teleborsa
Le smentite ufficiali non servono a niente, aggiungono solo silenzio a silenzio, nebbia a nebbia.
E’ una follia, questa riforma, che garantisce perdite astronomiche ai risparmiatori ed agli investitori sui titoli di Stato, ed un guadagno certo e sicuro agli speculatori.

Mentre erano tutti distratti, il 7 novembre, a Bruxelles, l’Eurogruppo ha concluso l’esame del pacchetto di riforme che sarà portato alla approvazione del Consiglio europeo del prossimo 5 dicembre.

Per l’Italia è pronta una bordata micidiale, con la riforma del MES, il Meccanismo Europeo di Stabilità.
E’ nato come un Fondo Salvastati, finanziato da tutti gli aderenti al fine di concedere aiuti finanziari ai Membri in difficoltà. Finora, le condizioni per la concessione degli aiuti sono state decise di volta in volta dalla Commissione europea, d’intesa con la BCE.

La condizione preliminare che fu posta alla Grecia in difficoltà, quella di ristrutturare il suo debito pubblico, facendo partecipare gli investitori privati al costo della operazione secondo il principio “PSP” (Private Sector Partecipation), e che causò il panico sui mercati facendo guadagnare centinaia di miliardi agli speculatori, diviene la regola. Una follia.

Quella che allora fu una sorpresa piacevole per gli avvoltoi, ora diviene la certezza di fare affari d’oro. Nella riforma del MES, si stabilisce infatti che gli aiuti finanziari potranno essere concessi solo se viene verificata la sostenibilità del debito pubblico.

Per l’Italia, è più che una trappola, è una vera e propria dichiarazione di guerra che spiana la strada alla speculazione. Se, infatti, come è il caso dell’Italia, il rapporto debito/PIL è superiore al 60% ed il Paese che chiede aiuto non ha rispettato la regola prevista dal Fiscal Compact di ridurre l’eccesso di debito rispetto a questo livello di 1/20 l’anno, si deve procedere innanzitutto alla ristrutturazione del debito.
Gli avvoltoi non aspettano altro: scateneranno la crisi sul mercato vendendo, anche allo scoperto, titoli del debito pubblico, abbattendo così il valore delle emissioni in circolazione ed aumentando correlativamente il loro rendimento sul mercato secondario. Le nuove emissioni si dovranno allineare al nuovo rendimento corrente sul mercato, aumentando il costo di finanziamento per lo Stato. La richiesta di aiuti, e quindi la necessità di ristrutturare il debito, diventano una certezza.

Nel frattempo, il processo di svalutazione dei titoli sul mercato si autoalimenta, perché sono i risparmiatori terrorizzati a svendere, e gli speculatori a comprare a prezzi irrisori.

I risparmiatori accusano subito perdite terrificanti: se hanno comprato i titoli a 100, al momento della emissione, si accontentano di molto meno. Il prezzo sul mercato diminuisce giorno dopo giorno, prima scende a 90, poi ad 80, poi a 60, fino a 30. Esattamente come è successo già in Grecia.

Sono perdite immense per gli investitori: figuratevi le pressioni sulle banche e sulle assicurazioni italiane, che hanno in portafoglio titoli di Stato italiani per centinaia di miliardi, e che devono portare le minusvalenze in bilancio secondo il principio mark-to-market. Perderanno comunque, anche se non vendono allo sbaraglio, perché il meccanismo della ristrutturazione andrà comunque avanti. E le loro perdite ricadranno sui detentori di azioni e di obbligazioni bancarie, e sui depositanti, questo è sicuro.

Gli speculatori comprano comunque, ben sapendo che siederanno al tavolo del negoziato per la ristrutturazione: lo fisseranno al livello che conviene loro, guadagnando la differenza tra il nuovo valore del debito ed il prezzo a cui lo hanno comprato sul mercato.

Se lo Stato si trova a beneficiare di una riduzione del debito in circolazione, perché con la ristrutturazione il suo valore passa ad esempio da 100 ad 80, e quindi il debito scende di 20, gli speculatori guadagneranno comunque, tutta la differenza che intercorre tra nuovo valore del debito ed il prezzo a cui hanno acquistato i titoli sul mercato (da 79 in giù, fino a 30 ed ancor meno come successe in Grecia).

E’ una vera e propria bomba, questa condizione, che farà guadagnare centinaia e centinaia di miliardi alla speculazione finanziaria, pronta a mettere nel mirino l’Italia.
La riforma che si prospetta per il MES va nel senso esattamente contrario a quello che era stato auspicato mesi fa da Paolo Savona, quando era Ministro agli Affari Europei.

Savona proponeva di usare il MES come istituzione finanziaria capace di emettere sul mercato obbligazioni di rating molto elevato, safe asset che pagano dunque interessi estremamente bassi vista la solidità dell’emittente. La raccolta sarebbe stata girata a Stati come l’Italia, che invece pagano un prezzo alto sulle proprie emissioni, sulla base di chiare garanzie per il rimborso di queste somme: in questo modo, l’Italia avrebbe ridotto il peso degli interessi sul debito pubblico, azzerando il deficit che, da anni, deriva solo ed esclusivamente, dall’elevato tasso di interesse che paghiamo sulle emissioni.

Invece di abbattere il deficit pubblico e quindi la tendenza del debito pubblico italiano a crescere solo per via dell’elevato onere per interessi, come auspicava Savona, si abbatte il valore dei risparmi e degli investimento in titoli del debito sottoscritti da privati, banche, assicurazioni e fondi previdenziali italiani che detengono oltre il 70% delle emissioni.

Mai e poi mai, si deve offrire alla speculazione la certezza che il debito sarà ristrutturato a suo favore dopo una crisi.

La regola vuole che intervengano le Banche centrali, acquistando senza limiti come “lender of last resort” i titoli posti in vendita sul mercato secondario e sottoscrivendo le nuove emissioni. E’ la tanto vituperata monetizzazione del debito, che non fa crollare i corsi e non fa impennare i rendimenti: la banca centrale stampa moneta e ritira titoli al valore di rimborso maturato.

Questo ultimo criterio, d’altra parte, è già stato adottato dalla BCE con il programma OMT, per battere la speculazione, dopo gli episodi critici dell’estate del 2012: prevede acquisti sul mercato di titoli del debito pubblico, senza limiti quantitativi prefissati, nel caso che il mercato richieda tassi di interesse non accessibili.
Affermare che con questa riforma il MES diviene finalmente il “lender of last resort” della Eurozona, colmando una grave lacuna, è una sciocchezza sesquipedale: non solo il MES non ha i mezzi finanziari illimitati, che invece sono a disposizione solo della BCE e che sono gli unici che mettono al tappeto la speculazione, ma spiana la strada agli avvoltoi.

Considerando approssimativamente un debito pubblico italiano di 2300 miliardi di euro ed un PIL attorno ai 1800 miliardi, si arriva ad un rapporto debito/PIL del 130% (aritmeticamente, con questi dati, è il 127%).

Immaginando che, di fronte ad una richiesta di aiuti da parte dell’Italia attaccata dalla speculazione, il livello di sostenibilità del debito sia posto tra l’80% ed il 90% del PIL, (semplificando, tra i 1400 ed i 1600 miliardi), il debito oggi in essere deve essere rispettivamente abbattuto tra i 900 ed i 700 miliardi di euro.

A voler essere generosi, considerando come sostenibile un rapporto debito/PIL del 100%, il debito dovrà essere comunque ridotto di 500 miliardi tondi (che è la differenza tra i 2300 miliardi di debito attuale ed i 1800 miliardi del pil attuale). Questa è la perdita minima che graverebbe sui risparmiatori e gli investitori. Se ci aggiungiamo i guadagni per la speculazione, che compra dagli investitori che svendono per paura, la botta sarà superiore, anche di un centinaio di miliardi.

Nessuno reggerà la botta.