Il
movimento iniziato il 14 ottobre contro gli aumenti del biglietto della
metropolitana di Santiago, e trasformatosi ben presto in una più ampia
rivolta sociale con precise richieste politiche, non accenna a
rientrare.
Un
recente sondaggio di Cadem riporta che l’81% degli intervistati
disapprova il Presidente Sebastian Piñera, parte dello 0,1% più ricco
del Paese ed espressione dell’oligarchia di cui è degno rappresentante e
che ha ormai dilapidato irreversibilmente il suo consenso.
I primi tre giorni di questa settimana sono stati caratterizzati dallo sciopero generale deciso dalla Mesa de Unidad Social,
organismo unitario composto da circa 200 organizzazioni che raggruppa
sindacati, coordinamenti ed associazioni e realtà politiche di vario
genere.
Lunedì
è stato il giorno dalla mobilitazione contro la violenza sulle donne,
svoltosi in differenti Paesi Latino-Americani qualche giorno successivo
alle manifestazioni sulla violenza di genere nel nostro continente.
Bárbara Figueroa, presidente della centrale sindacale CUT,
ha ribadito le ragioni dello sciopero legate strettamente al rifiuto
delle modalità di realizzazione del cosiddetto “Accordo per la Pace” –
raggiunto la scorsa settimana tra le forze che compongono la coalizione
governativa ed una parte dell’opposizione parlamentare -, la sordità
nell’accogliere le ragioni dell’esplosione sociale in corso.
Ha precisato inoltre che – secondo quanto riporta “24Horas” -: “non
ci può essere impunità, bisogna avere la verità, giustizia e indennizzo
alle famiglie, a coloro che sono stati colpiti dalle violazioni de
diritti umani”.
Sono 2.670 attualmente le inchieste della procura per violazione dei diritti umani contro le forze dell’ordine!
Il lunedì è iniziato con la paralisi di più di venti scali portuali cileni, dove è presente l’Unión Portuaria,
la porzione di movimento operaio organizzato che per prima ha deciso di
affiancarsi al movimento sociale utilizzando lo strumento dello
sciopero fin dai primi giorni. Nel pomeriggio della stessa giornata si è
svolta la manifestazione delle donne che ha avuto nella Coordinadora 8 marzo – organica alla “Mesa” – uno dei punti di forza. La mobilitazione è continuata anche il martedì,
Quella
delle donne è stata una mobilitazione caratterizzata soprattutto dalla
denuncia della violenza di genere, praticata in questo mese a vari
livelli dalle forze dell’ordine cilene, che sono ricorse a modalità non
dissimili dalle pratiche attuate durante la dittatura di Pinochet.
Questo emerge anche da vari dossier di organizzazioni in difesa dei diritti umani, l’ultimo dei quale di Human Rights Watch.
Un
altro aspetto importante di questa mobilitazione è stata la negazione
diritto di interruzione di gravidanza, altro lascito della dittatura;
diritto negato poi anche nella democradura cilena.
Martedì
e mercoledì sono entrati in gioco gli altri settori del movimento dei
lavoratori del pubblico e del privato, e sono stati organizzati blocchi e
barricate lungo le maggiori vie di traffico, non solo della capitale,
sin dalle prime ore del mattino.
Proprio
questa pratica verrebbe criminalizzata se passasse un progetto di legge
inserito in un più ampio pacchetto, annunciato da Piñera domenica
scorsa e portato in questi giorni al Congresso.
Nella
stessa giornata ci sono state mobilitazioni in differenti città dello
Stato latino-americano, così come il giorno successivo, al punto che è
difficile dare una sintesi esaustiva.
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Due avvenimenti politici hanno un maggior rilievo in questi giorni.
Il primo
riguarda due importanti annunci di Piñera fatti domenica scorsa,
riguardanti un pacchetto di leggi, e i rinforzi che giungeranno a forze
dell’ordine, carabineros e PDI.
In un discorso pronunciato domenica, durante la sua visita compiuta in mattinata alla Scuola dei sottufficiali dei carabineros, ha elogiato tuttel e forze dell’ordine per “il lavoro svolto”: sarebbero più di 2.000 i carabineros
feriti o che hanno subito lesioni dall’inizio delle proteste, mentre
più di 150 sarebbero i locali della polizia attaccati in queste ultime
settimane.
Piñera ha inoltre detto di voler fare approvare una legge che “modernizza
i Carabineros e che rafforza l’intelligence del braccio poliziesco,
oltre alla legge che persegue chi travisa il volto, chi compie saccheggi
e coloro che incendiano le barricate in strada”, come riporta “El Desconcierto”.
Inoltre
ha assicurato che con il “reintegro” del personale mandato di recente
in pensione, e anticipando l’integrazione nei ranghi polizieschi di
coloro che stavano partecipando all’addestramento entro il prossimi 60
giorni, ci saranno 4.354 effettivi in più nelle strade.
In
una più recente conferenza svoltasi alla Moneda, il palazzo
presidenziale, Piñera ha precisato che – come riporta “La Izquierda
diario” – “a partire da lunedì prossimo si potrà contare su 2.505 tra carabineros e poliziotti che si aggiungono” a quelli attualmente impiegati.
Oltre a questo, Piñera ha dichiarato che i carabineros
del Cile riceveranno, a partire da questa settimana, la consulenza
delle polizie di Inghilterra, Spagna e Francia. A riprova della
complicità europea…
Nel
tardo pomeriggio di mercoledì i giornali cileni hanno ripreso un lancio
di un’agenzia di stampa francese – l’AFP – in cui la proposta viene
categoricamente rifiutata.
Uno
contenuti più inquietanti delle dichiarazioni di domenica mattina
riguarda la legge per cui, senza neanche la necessità di dichiarare lo
Stato d’Emergenza – cosa che ha fatto tra il 18 e il 28 ottobre – per
decreto presidenziale potrà essere utilizzato l’esercito “nei punti critici dei servizi base”.
Si
tratta della militarizzazione di fatto dei servizi strategici che
possono diventare punti chiave della protesta sociale, dall’energia
all’acqua dai porti ai trasporti urbani, dagli ospedali alla Metro, per
non citare che i principali.
Come
è trapelato successivamente, si tratta di una ampio spettro di
“infrastrutture critiche”, con un particolare inquietante: il
presidente potrebbe infatti concedere al personale militare che difende
le suddette strutture l’“esenzione dalla responsabilità penale” (come
già fatto dai golpisti in Bolivia), applicando la “legittima difesa” nel
“compimento di un proprio dovere”. Sarà quindi lo stesso presidente a
determinare l’uso della forza tramite un decreto, insieme al ministero
della Difesa.
Tale
provvedimento legislativo affiderebbe al Presidente la possibilità di
militarizzare i gangli vitali dell’organizzazione sociale, garantendo
l’impunità ai militari chiamati alla loro difesa, di fatto impedendo
preventivamente ai lavoratori e agli attivisti delle azioni in grado di
bloccare o “turbare” l’organizzazione dell’economia.
Si tratta di una manovra di controrivoluzione preventiva evidente, tenendo conto che al centro del dibattito del movimento vi è lo “sciopero generale ad oltranza”.
Non
solo l’opposizione parlamentare e la piazza, ma anche numerosi
avvocati, si sono opposti a tale misura. Jaime Bassa, un avvocato che ha
preso posizione, la ritiene “assolutamente incostituzionale perché
attenta contro la divisione delle funzioni dell’art.101 della
Costituzione: Ordine Pubblico e Difesa” e si scaglia anche contro la discrezionalità dell’impunità che “va a dipendere, in pratica, dai parametri che definisce il Presidente”.
Il Secondo
fatto significativo è una maggior propensione dell’opposizione
parlamentare a farsi “delegato politico” del movimento reale,
distanziandosi da quelle forze del Frente Amplio che hanno sottoscritto
un accordo per una uscita pactada dalla crisi politica, di fatto salvando il presidente.
Lunedì infatti un gruppo di forze politiche ha presentato una “proposta sovrana” che fa sue sostanzialmente le istanze provenienti dalla rivolta sociale in atto.
Il
Partito Comunista, il Partito Umanista (PH), il Partito Progressista
(PP), i verdi (FRVS) e il Partito dell’Uguaglianza (PI) hanno
formalizzato una proposta in sette punti, di cui il primo è l’”impegno
per la verità e la giustizia nei casi di violazione dei diritti umani
che ci sono stati nelle settimane di protesta. Questo impegno deve
considerare una politica reale di indennizzo a tutte le vittime”.
Il
documento propone un salario minimo di 510.000 pesos ed una pensione
minima equivalente. Propone inoltre la fine dell’attuale sistema
pensionistico privato basato, sul contributo individuale a dei fondi
(AFP), e “l’inizio di una discussione per un nuovo sistema di pensioni solidale.”
Allo stesso tempo chiede la fine del sistema di prestiti per gli studenti dell’istruzione superiore come CAE, Corfo e altri, che di fatto indebitano a vita i richiedenti.
Un
altro punto prevede la stesura nuova Costituzione attraverso una
Assemblea Costituente, con voto obbligatorio a partire dai 16 anni e
facoltativo tra i 14 e i 16.
La proposta prevede un iter che si sviluppi dalle assemblee popolari locali, sorte come funghi in queste settimane – i cabildos – e la creazione di una “commissione
politica-sociale-accademica, che proponga un sistema elettorale proprio
per l’elezione dei delegati costituenti, che assicuri
rappresentatività, proporzionalità e uguaglianza”.
Una
commissione che deve assicurare la parità uomo e donna, assicurare una
quota ai popoli originari ed altri gruppi sociali significativi.
Stabilisce inoltre che l’AC, per le proprie decisioni, deciderà con un quorum non inferiore ai 3/5.
***
In
queste settimane il Cile è divenuto un laboratorio politico-sociale
della rottura con l’ordine neo-liberista, dopo esserne stato la culla;
prima con la dittatura di Pinochet, dal ’73 al ’90, consolidandosi poi
con il cambio di facciata “democratico” degli ultimi trent’anni.
Allo stesso tempo vi è un tentativo di ripristino con ogni mezzo
del comando delle oligarchie che l’hanno governato e che ora si sentono
minacciate, così come lo furono dal governo di Salvador Allende,
all’inizio degli Anni Settanta.
È
parte di quel teatro continentale della lotta di classe dal futuro
incerto e che produrrà un nuovo equilibrio di forze – tra spinte
emancipatrici dei popoli e oligarchie che li schiacciano – che si
riverbererà sugli equilibri geo-politici di un ordine mondiale in
mutazione.
La
componente giovanile ed il corpo insegnante sono protagonisti loro
malgrado di questo tentativo di restaurazione non proprio mascherata,
come nel caso della proposta di legge della ministra dell’Educazione,
Marcela Cubillos. Che lunedì ha dichiarato l’intenzione di far approvare
una legge contro “l’indottrinamento” tra le aule scolastiche.
Una
ipotesi in perfetta continuità con quelle già intraprese con la svolta
autoritaria nel disciplinamento scolastico degli studenti (con
l’iniziativa “Aula Segura” – che riserva un grosso potere discrezionale e
sanzionatorio dei collegi), attraverso politiche propriamente
neo-liberiste di selezione di classe, con “Admisió Justa”.
Rendere
la scuola avulsa dal contesto, azzerando gli spazi di discussione e di
riflessione critica – tra cui la penalizzazione di fatto
dell’insegnamento della Storia – è un progetto a tutto tondo di questa
conservatrice, un altro aspetto della lotta di classe “dall’alto” delle
oligarchie.
Come
dimostra anche un recente episodio di censura di una serie di
cortometraggi cinematografici, premiati all’estero, sulla vita durante
la dittatura; un tentativo di rimozione di ciò che è stato il “Piano
Condor”, di cui oggi le giovani generazioni anche in Cile stanno vivendo
una versione aggiornata.
Il
Cile però sta cambiando velocemente, in una direzione che preoccupa sia
le oligarchie locali che Washington, oltre all’UE che finora è stata
spettatrice complice silente di una immondo massacro in cui, per
parafrasare uno slogan: “qualcuno ha perso gli occhi per far riacquistare al popolo la capacità di vedere…”