Al
di là della retorica di queste ore, in cui si celebra la fine del suo
mandato come Presidente della Banca Centrale Europea (BCE), la figura di
Mario Draghi è una chiave utile a comprendere gli aspetti fondamentali
dell’attuale contesto economico e politico europeo. Il suo operato alla
guida dell’autorità monetaria passa per alcuni snodi fondamentali: dalla lettera a Berlusconi che firmò da Governatore della Banca d’Italia fino al “whatever it takes” con cui – si dice – abbia salvato l’euro, dalla repressione del dissenso greco nel 2015 al cosiddetto Quantitative Easing con cui ha inondato di liquidità i mercati finanziari europei.
Tuttavia,
se fossimo stati invitati alla sua cerimonia di commiato che si è
tenuta lunedì scorso a Francoforte, avremmo scelto come sintesi della
sua eredità politica l’immagine del “pilota automatico”, che coniò nel lontano 2013.
Anno
significativo, il 2013 anticipa tutto quello che vedremo svolgersi in
Italia fino ai giorni nostri. Si apre, infatti, con le prime elezioni
politiche che vedono la partecipazione del Movimento 5 Stelle, un
partito che al suo ingresso nel panorama politico parlamentare si
aggiudica circa il 25% dei consensi.
Si
trattava di un marcato mutamento degli assetti politici tradizionali:
all’indomani della fallimentare esperienza del Governo Monti, nessuna
opzione politica – tra quelle che avevano scandito gli ultimi venti anni
di vita politica italiana – appare percorribile: archiviato il
bipolarismo, salta lo schema dell’alternanza tra centro-destra e
centro-sinistra e si rendono necessarie nuove strategie e alleanze. Da
lì in avanti assisteremo ad un disordinato rimescolamento della classe
politica italiana, a partire dal Governo Letta – che vede convergere il
centro-sinistra con pezzi consistenti del centro-destra – fino
all’inedita alleanza tra PD e Movimento 5 Stelle che governa oggi.
Quell’anno
inaugura dunque un’apparente instabilità politica che non sembra ancora
esaurirsi, ma quando viene interpellato sui rischi di questa
instabilità, il Presidente della BCE Mario Draghi stupisce tutti:
“L’Italia
prosegue sulla strada delle riforme, indipendentemente dall’esito
elettorale. Le riforme continuano come se fosse inserito il pilota
automatico“.
In
qualche maniera, la risposta delude i cronisti che stavano seguendo con
passione i continui stravolgimenti del panorama politico nazionale:
secondo Draghi, questo caos è solo un’apparenza, sotto alla quale
resiste – solido – un disegno di società, un modello di politica
economica che si va rafforzando “indipendentemente dall’esito
elettorale”, cioè a dire indipendentemente dalla volontà espressa dal popolo sovrano circa la direzione da prendere per organizzare la nostra società.
Volendo riassumere in poche righe l’eredità politica che Draghi lascia all’Europa, nulla è più efficace della figura del pilota automatico.
Dietro a quell’immagine c’è un attento lavorio, con il quale le
istituzioni europee – la cui punta di diamante è la BCE guidata da
Draghi – hanno usato la crisi del 2009 per perfezionare i meccanismi disciplinanti con
cui governano l’economia ed impongono ad un intero continente una
medesima linea politica, quella del neoliberismo più sfrenato, della
deregolamentazione dei mercati, dello smantellamento dello stato sociale
e della svalorizzazione del lavoro.
Ma
quali sono i pilastri di questa architettura politico-economica che
Draghi chiama pilota automatico? Superata l’Europa di Maastricht, meno
efficace nelle decisioni ed incapace di accompagnare il rapido evolversi
del quadro economico internazionale, Draghi lascia alle sue spalle
un’Europa nuova, più flessibile e per questo capace di rafforzare il suo
governo dell’economia, un controllo che passa per due momenti
fondamentali: sorvegliare e punire.
Sorvegliare
Appena
insediatosi a Francoforte, parlando ad un Parlamento Europeo diviso sul
percorso da intraprendere per riformare l’Europa in piena crisi
economica, Draghi indica una via. Mettere da parte le divisioni e
concentrarsi immediatamente sulla disciplina fiscale:
“Credo
che la nostra unione economica e monetaria abbia bisogno di un nuovo
contratto di finanza pubblica – una riscrittura fondamentale delle
regole di bilancio da associare agli impegni dei Paesi della zona euro”.
Un
contratto fiscale, un accordo sulla disciplina dei conti pubblici
scorporato da tutte le altre questioni sulle cui i politici europei si
sarebbero potuti continuare a confrontare per lustri: è la nascita del
Fiscal Compact, che impone ai paesi europei non più l’indicativa soglia
del 3% massimo di deficit pubblico, ma un rigido pareggio di bilancio
accompagnato da un monitoraggio costante dei conti pubblici, il Semestre
Europeo. Si tratta di un vero e proprio salto qualitativo rispetto allo
schema di Maastricht, uno schema che aveva consentito continue
eccezioni alla regola, lasciando ampi spazi ai governi europei per
aggirare la disciplina di bilancio.
Con
il Fiscal Compact, il disavanzo pubblico di medio termine viene
sostanzialmente bandito, costringendo tutti i Paesi ad una stretta
fiscale. Con il Semestre Europeo, le istituzioni europee hanno la
possibilità di vagliare ogni singolo passaggio nella definizione della
politica economica dei Paesi membri, costretti a trasmettere a Bruxelles
con anticipo tutti i documenti fondamentali di finanza pubblica.
La
Commissione Europea controlla così la scrittura stessa della Legge di
Bilancio, e può indicare a ciascun Paese i passi che deve intraprendere
per tornare sul percorso di riduzione del debito pubblico imposto dal
Fiscal Compact. Questo schema consente dunque una sorveglianza totale sulla politica economica dei singoli Paesi da parte delle istituzioni europee.
Punire
Questo
meccanismo disciplinante sarebbe però inefficace se non prevedesse
un’adeguata punizione per i Paesi restii a seguire le prescrizioni del
Fiscal Compact. E qui interviene, direttamente, l’azione dell’autorità monetaria.
Tutti i nuovi strumenti di politica monetaria introdotti sotto la
Presidenza Draghi (dalle Operazioni Monetarie Definitive, le OMT, al
Quantitative Easing, il QE) hanno condotto sul proscenio del governo
dell’economia europea la sua banca centrale, confinata fino ad allora ai
compiti tradizionali di gestione dei mercati finanziari e valutari.
Quando Draghi dichiarò che avrebbe fatto tutto il necessario per salvaguardare la tenuta della moneta unica, il famoso “whatever it takes”,
sancì l’inizio di una dominanza monetaria sull’economia europea che
passava per una impetuosa inondazione di liquidità. Più che triplicando
la dimensione del proprio bilancio, la BCE si è posta al centro del
funzionamento del sistema economico e, ciò che più conta, si è messa
nella posizione di poter condizionare pesantemente le politiche fiscali
nazionali.
La
politica fiscale, ovvero la politica di bilancio di uno Stato, concerne
le scelte di spesa pubblica e di finanziamento della stessa che può
avvenire o tramite i tributi o in deficit (tramite il ricorso al debito
pubblico): controllare i meccanismi e le condizioni dell’indebitamento
pubblico significa, di fatto, controllare una parte rilevante della
politica di bilancio di un Paese. Esattamente quello che la BCE sta
facendo negli ultimi anni.
In
che modo? Tra i più importanti strumenti concreti di conduzione della
politica monetaria adottati da una banca centrale vi sono le
compravendite di titoli sui mercati finanziari: si tratta di operazioni
che consentono di immettere e ritirare moneta dal sistema
economico. L’oggetto principale degli acquisti condotti dalla BCE dal
2015 ad oggi sono stati i titoli del debito pubblico dei Paesi membri, ed oggi l’autorità monetaria è il principale creditore di tutti i governi europei.
Questa
posizione di dominio gli permette di attestarsi un ruolo di vertice
anche nelle scelte di politica fiscale dei singoli Paesi. Ad esempio, se
un governo prova a realizzare un deficit di bilancio maggiore di quello
consentito dalla Commissione Europea, il tentativo viene immediatamente
rilevato dal capillare meccanismo di sorveglianza dei conti e scatta la punizione:
la BCE inizia a ridurre gli acquisti dei titoli del Paese
indisciplinato, o addirittura inizia a vendere sui mercati lo stock di
quei titoli in suo possesso.
Ciò provoca una diminuzione del prezzo del titolo e, parallelamente, un aumento del tasso d’interesse: appare così lo spread, ed il Paese indisciplinato inizia a ballare la rumba dell’instabilità finanziaria. Ecco che, usando la leva monetaria, cioè tutta la potenza di fuoco inaugurata con il “whatever it takes” e messa in campo con il QE, la BCE ha il potere di ricattare i governi europei: o accettano il percorso disegnato dal Fiscal Compact, e cioè la linea politica dell’austerità, oppure sono condannati all’instabilità finanziaria e alla crisi.
Ecco il pilota automatico.
Noi possiamo certamente votare, in via ipotetica, per ricostruire lo
stato sociale, per migliorare la legislazione sul lavoro, per
nazionalizzare i settori strategici o per ogni altra misura che possa
avvantaggiare le classi subalterne, ma l’Italia, piaccia o non piaccia
al popolo sovrano, deve proseguire lungo i binari dell’austerità fiscale
e della distruzione del modello sociale europeo, indipendentemente dall’esito elettorale.
Perché
la nostra moneta, l’euro, non è un neutrale strumento di gestione
dell’economia: è un progetto politico preciso, a cui Draghi ha conferito
la forza di imporre disoccupazione, precarietà e sfruttamento fuori da
ogni controllo democratico. Sì, Draghi ha salvato l’euro, ma per farlo
ha condannato 500 milioni di europei ad un modello di società incentrato
sul profitto di pochi e sulla precarietà di molti, il cui perimetro di
definizione è scritto a chiare lettere nei trattati dell’Unione Europea.