venerdì 30 agosto 2019

Altro giro, altro Conte, stesso ristagno

Tutto secondo logica e copione scritto nei cieli. Giuseppe Conte risale al Quirinale per ricevere l’incarico di formare un nuovo governo, mettendo insieme Cinque Stelle e Partito Democratico.
Sul piano strettamente istituzionale, non fa una piega. Nel Parlamento eletto il 4 marzo 2018 ci sono sostanzialmente tre formazioni di minoranza e l’unico governo possibile vien fuori dall’accorpamento di due di queste, tenendo conto che i Cinque Stelle hanno una notevole maggioranza relativa che impedisce soluzioni che li escludano (anche se Pd e Lega si somigliano più di quanto non si voglia ammettere).
Al primo tentativo sono state Lega e Cinque Stelle a formare una coalizione fortemente mostruosa, ora si prova con l’altra soluzione. La cosa più difficile è stata ed è farla digerire a “capi politici” (sia del Pd che grillini) che avevano costruito il proprio “nemico giurato” nella forza che ora devono sposare per forza. Basti guardare a quei poveretti di Repubblica, costretti per setimane da un lato ad appoggiare il tentativo e dall’altra “obbligati” a proseguire il bombardamento cui Cinque Stelle decsritti come “antisistema” (anti UE, anti euro, filocinesi, ecc) nonostante ogni evidenza contraria.
Se non si voleva andare alle elezioni immediatamente questo era l’unico governo politico possibile, altrimenti se ne faceva uno di “garanzia elettorale”, incaricato di firmare la legge di stabilità (che tanto viene strutturata nei fondamentali dalla Commissione UE) e di gestire in modo un po’ meno ad personam lo svolgimento delle elezioni (con Salvini ministro dell’interno, dunque padrone della macchina di raccolta dei risultati, ogni sospetto di brogli sarebbe stato legittimo e impossibile da allontanare).
Ma il piano istituzionale non esaurisce il problema politico. Il rapporto tra “partiti” e popolazione è ai minimi termini, la credibilità dei “leader” sale e scende in un attimo, la “comunicazione” ha sostituito le differenti visioni del mondo (sciolte nel “pensiero unico neoliberista”) e favorito la ricerca ossessiva dello slogan di facie presa e zero durata.
Questo governo, dunque, è come gli altri formalmente legittimo e popolarmente non credibile. Dà tregua, togliendo qualche megafono ai leghisti (I grandi media, specie televisivi, sono lestissimi a seguire il carro del vincitore momentaneo), e dunque garantisce qualche mese di ordinaria amministrazione, senza strilli generali sull’”invasione”, i “porti chiusi”, gli inviti al pogrom contro immigrati e rom.
Ma non risolve niente. Le dinamiche che vanno devastando il corpo sociale restano tutte attive, e la mancanza di soluzioni non potrà che agevolare il compito dei guastatori. Anche perché i Di Maio, gli Zingaretti e tutto il codazzo delle seconde linee (Renzi, Calenda, Di Battista, ecc) non riesce proprio a nascondere la propria piccineria, l’ansia di proganismo, stile “mi si nota di più se dico questo o quest’altro”. Aumentando l’antica certezza che “quelli lassù” a tutto pensano meno che a diminuire I problemi della maggioranza delle figure sociali.
La stessa Lega, che alzerà i toni proporzionalmente alla restrizione ddegli spazi televisivi, è fortemente deflazionista sul piano interno. Voleva e vuole ripristinare le “gabbie salariali”, con stipendi differenziati per aree e regioni (più bassi comunque al Sud), impedire l’approvazione di qualsiasi salario minimo (e dunque protrarre il semischiavismo dei salari a 2-3 dollari l’ora, come per riders e braccianti di qualsiasi nazionalità), favorire in ogni modo le imprese e i ricchi (flat tax, taglio dei contributi previdenziali in busta paga per dare l’impressione di “aumenti salariali” finanziati con la riduzione delle entrate e dei servizi sociali), tagliare la spesa sanitaria in dimensioni drastiche (la battuta di Giorgetti sull’inutilità dei medici di base è indicativa).
Ma le prime indiscrezioni sulle caratteristiche della “manovra” di fine anno, in via di concertazione tra i nuovi soci di governo, non si discosta molto dalle linee che anche la Lega condivide. Giusto un po’ più di “reddito di inclusione” camuffato da “reddito di cittadinanza” (spiccioli, in termini assoluti), per fare vedere che ci si preoccupa dei più poveri (che dalla flat tax non avrebbero nessun vantaggio). Propaganda, insomma, che accompagna le cose più importanti e meno pubblicizzate.
C’è da bloccare ancora una volta l’aumento automatico delle aliquote Iva, e in genere questo significa taglio ad altre spese, oppure un aumento delle entrate fiscali. Da questo punto di vista il prossimo ministro dell’economia potrà contare sul un discreto pacchetto di miliardi derivante dall’entrata in vigore della fatturazione elettronica che, pur non essendo inaggirabile, ha comunque tagliato via un bel po’ di evasione dell’Iva. Almeno setto-otto miliardi, secondo le stime del ministro Tria, che consentirebbero a qualsiasi governo di limitare interventi brutalissimi su altri capitoli di spesa.
Altri miliardi sono disponibili per i minori esborsi relativi a “quota 100” e reddito di cittadinanza. Quindi un po’ meno lacrime e sangue, ma comunque una manovra dura che il prossimo anno peserà sulla popolarità anche di questo esecutivo.
Dei “tre governi” in uno – Lega, grillini, Unione Europea – è rimasto in pedi soltanto quello con una solida base di potere alle spalle e con un “programma” da cui non si può prescindere. Il prezzo maggiore lo paga l'”alternativa farlocca” incarnata per qualche anno da i Cinque Stelle, passati nel giro di appena diciotto mesi dal “non faremo governi insieme a nessuno” all’aver fatto governi con tutti, senza naturalmente cambiare assolutamente nulla.
Il problema dell’alternativa a questa rappresentanza politica – tutta – resta immutato, ma se non altro sono state bruciate molte cazzate diventate “senso comune” anche in certi ambiti “di sinistra” (l’antipolitica, “uno vale uno”, la “democrazia in rete”, “ognuno dice la sua”, “destra e sinistra non esistono più”, ecc). La breve stagione di successo dei grillini mostra che si può rompere lo schema del “bipolarismo obbligato”, cui il nuovo governo Conte oggettivamente riconduce. Sta a noi dare risposta a una domanda sociale che resta inevasa.
La destra per ora fa mostra di indignazione, ma è probabilmente già iniziato lì dentro il processo di giubilazione di Salvini e la caccia a un nuovo “leader” (che sia ovviamente un “bravo comunicatore”). Perché – almeno a noi – sembra impossibile tenersi un “genio” capace di mandare in fumo un capitale di potere e consenso delle dimensioni di cui era arrivato a godere il Secondo Matteo.
Tutto come al solito, insomma. Il lento declino determinato dall’adesione ai trattati europei proseguirà senza scossoni troppo forti, come rane che si adeguano alla temperatura dell’acqua nella pentola, fino a ritrovarsi bollite.

giovedì 29 agosto 2019

Gran Bretagna. La Regina, su richiesta del premier, chiude il Parlamento

Sembrava una spericolata e inquietante “mossa del cavallo”, eppure il premier britannico, Boris Johnson, ha chiesto e ottenuto dalla Regina Elisabetta la sospensione dei lavori del Parlamento a poche settimane dalla data fissata per la Brexit e dunque del divorzio definitivo dalla Ue, previsto il prossimo 31 ottobre.
La richiesta di Johnson e la scelta della Corona, sono state accolte dai mercati con un calo della sterlina di quasi l’1% su dollaro ed euro, mentre un fronte del tutto trasversale di parlamentari britannici parla di “oltraggio”.
L’esecutivo di Boris Johnson intende lasciare a casa i parlamentari dal  9 settembre fino al 14 ottobre, ossia la data in cui è stato fissato il discorso della Regina sulle politiche del nuovo governo, riducendo così drasticamente il tempo a disposizione dei deputati contrari al No deal (cioè l’uscita senza alcun indennizzo dall’Unione Europea) che intendevano neutralizzare con una legge i piani del governo per una ‘hard Brexit’.
In base alla “Costituzione” del Regno Unito, la Regina può opporsi a quello che formalmente è un “consiglio” del premier, ma per convenzione questo non avviene mai (forse, nonostante i compromessi successivi, la decapitazione del Re Carlo I ancora ipoteca i rapporti tra Corona e governi).
Il dirigente laburista Jeremy Corbyn, aveva scritto una lettera alla per esprimerle le sue preoccupazioni e le ha chiesto un incontro urgente. Corbyn ha ammonito che siamo davanti a una “minaccia alla democrazia”. Intanto, vengono raccolte firme su una petizione che chiede di bloccare la sospensione del Parlamento, al momento ne sono state raccolte circa 200 mila.
Gli ultimi sviluppi aumentano la possibilità che la prossima settimana, al rientro dei deputati dalla pausa estiva, il Labour presenti una proposta di legge per bloccare la sospensione dei Comuni, a cui far seguire poi una mozione di sfiducia al governo. Se Johnson non otterrà l’appoggio del Parlamento, potrebbe però scegliere di non dimettersi, di convocare elezioni anticipate e sciogliere comunque il Parlamento. In questo modo, una Brexit senza accordo – e senza indennizzo alla Ue –  avverrebbe praticamente in automatico.
La crisi politica del modello britannico (il modello maggioritario per eccellenza) dura ormai da anni, ed è una ulteriore conferma di come le classi dominanti e le classi dirigenti del XXI Secolo siano ormai incapaci di convivere e di gestire nel contesto della democrazia fin qui sopravvissuta l’avventurismo delle loro scelte politiche. Un segnale di crisi pesantissimo, e inquietante.

mercoledì 28 agosto 2019

La Lega scende nei sondaggi, gli altri ci guadagnano, il Quirinale decide

Oggi è il giorno in cui il Quirinale tirerà le somme e valuterà se ci sono le condizioni per una nuova maggioranza di governo.
Intanto il Sole 24 Ore ha pubblicato domenica un sondaggio WinPoll, il quale ha confermato il trend negativo già delineato da altri sondaggi e che indicano un severo arretramento della Lega di Matteo Salvini nei consensi.
Secondo il sondaggio WinPoll infatti i consensi alla Lega sono scesi al 33,7% in calo di 5,2 punti percentuali rispetto al sondaggio del 30 luglio scorso. A guadagnare da questa debacle della Lega sono quasi tutti gli altri partiti. Il Partito Democratico migliora di sette decimi di punto andando al 24%, mentre il Movimento 5 Stelle sale di 1,8 punti andando al 16,6%.
Tra i partiti più piccoli Fratelli d’Italia e Più Europa guadagnano quasi un punto (0,9) ottenendo rispettivamente l’8,3% e il 3,2%. La Sinistra sale di quattro decimi andando al 2,3% e i Verdi ottengono l’1,4% segnando un +0,3.  L’unico partito in calo è Forza Italia, che perde un decimo di punto e va al 6,6%.
Il 58% degli elettori intervistati da WinPoll ritiene che la credibilità di Matteo Salvini sia diminuita durante questa crisi di governo estiva e solo il 23% pensa invece che sia aumentata. Il 54% ha scelto la Lega come partito che si è comportato peggio, il 30% il M5S e il 13% il PD. Quando si è invece dovuto scegliere chi si è comportato meglio, il 26% ha scelto la Lega, il 22% il PD, il 20% il M5S e l’11% FdI. Il 19% indica invece “nessuno”.

martedì 27 agosto 2019

La crisi italiana, quella europea ed il “terzo occhio

L’attuale crisi italiana è frutto diretto delle turbolenze del mondo multipolare che il Bel Paese semplicemente subisce, senza reagire, in balia di una classe politica home made che si accontenta di certificare un ruolo di totale subordinazione al “Partito Americano” così come alle oligarchie europee, in balia della centrifuga della Storia.
Le due formazioni che hanno formalmente governato fin qui il Paese, erano espressione di classi sociali incapaci per loro stessa natura di esercitare una egemonia durevole, figuriamoci costruire l’abbozzo di un “interesse generale”, e in una dinamica in cui le molteplici frizioni si sono tramutate in scontro, e in un giro di boa importante – vista l’agenda politica reale continentale – il governo grigio-verde si è sciolto come neve al sole.
Certo, “il comandante” ci ha messo del suo, giocandosi il tutto per tutto, ma alla luce dell’imminente sterilizzazione della sua maggiore arma di distrazione di massa su cui concentrare l’attenzione,gli sbarchi, e dopo avere incassato due vittorie su Decreto Sicurezza Bis e Tav, sapeva che sarebbe iniziato il piano inclinato della sua azione di governo e probabilmente il suo inesorabile declino.
La presidenza di una commissione europea che probabilmente non sarebbe stata data all’Italia (o almeno non ad una personalità gradita al governo), la manovra finanziaria “lacrime e sangue” che si prefigurava, i catastrofici dati economici del Paese, le scelte imperiose in termini di politica estera, erano uno scoglio troppo grosso da affrontare rimanendo indenni per la Lega mentre numerosi dossier sul tavolo targati M5S a lungo rimandati non erano certo graditi alla base sociale del Carroccio e l’unica chance era forse proprio bluffare con una fare da spaccone – dopo le futili chiacchiere sulla flax tax per ribadire gli interessi che voleva far prevalere, ma era pura propaganda anche facendo i conti della serva – una finta che mostrava una debolezza strutturale nell’iperbolica personalizzazione che ha voluto dare allo scontro politico.
Tra i due contendenti, il terzo gode dice l’adagio popolare, e in questa “crisi del Mojito” è stata proprio la parte del governo che aveva un filo diretto con Bruxelles e Washington a risultare vincitrice e che ora di fatto dirige l’orchestra conto terzi.
L’anomalia dei “pentastellati” è stata neutralizzata definitivamente, anzi pienamente cooptata dentro le strategie di governance della Ue con il voto a favore dell’ex ministra della difesa tedesca von der Leyen alla carica di presidente della Commissione Europea (un governo “giallo-rosso” sarebbe assolutamente in linea e conseguente con questo processo), mentre Salvini è stato collocato ai margini della scena politica, con buona pace di chi aveva agitato lo spettro di un pericolo cosiddetto “sovranista” sul Continente e che a conti fatti si è rivelato solo uno spauracchio per rilegittimare i pilastri politici franco-tedeschi che governano l’Unione e le due grandi famiglie partite europee.
Certo già si sprecano le narrazioni di una pagina buia ormai alle spalle, come se ciò che ci aspettasse non fosse ancora più cupo.
Difficile non essere spaventati da come l’intero apparato mediatico, che ha messo sempre e costantemente sotto i riflettori il leader DJ, ora lo tratti come un comparsa.
Viviamo proprio in tempi buffi…
C’è voluto Giulio Tremonti, per ricordare attraverso una lettera al Sole 24 Ore di mercoledì 21 agosto, la brutalità e pretestuosità dei Diktat dell’Unione nei confronti dell’Italia dell’annus horribilis 2011, incipit di una dinamica che rimane tutt’ora immutata e che fa del nostro Paese la vittima sacrificale delle politiche della UE, a cui un ceto politico si allinea pedissequamente da Monti in poi come fu per l’indurimento della “clausola di salvaguardia” rispetto alla formulazione iniziale, ed al calcolo del contributo al Fondo salva banche non in base all’esposizione (il sistema bancario franco-tedesco era fortemente esposto nella crisi greca rispetto all’Italia) ma in base al Pil…
Ricordate? Da un giudizio positivo della Banca d’Italia date a Draghi il 31 maggio, ed il giudizio del Consiglio Europeo a Giugno, si giunse alla lettera del 5 agosto di BCE – Banca d’Italia, in cui si paventava il rischio default – in caso di una mancata risposta urgente entro l’8 agosto, ci rammenta Tremonti…
A parte lui, nessuno si è sognato di svelare il vero deus ex machina che domina la politica italiana, un pilota automatico che ha svuotato di una qualche reale capacità decisionale il nostro sistema politico, certo non è un “processo lineare” come credeva Renzi ai tempi del referendum istituzionale, e che ha comunque bisogno di agenti credibili a cominciare da quei corpi intermedi politico-sindacali che fanno della complicità con le oligarchie europee un atto di fede.
Da Bruxelles sembra che continuino a dirci questo: firmate una resa senza condizioni e vedremo di essere il più possibile clementi, perché se anche fate finta di alzare la testa ve la mozziamo senza pensarci due volte…
Sono tante e tali le incognite nei mesi a venire che l’Europa neo-carolingia franco-tedesca non può permettersi il lusso di perdere il tempo con noi, se non per non generare meccanismi di destabilizzazione che moltiplicherebbero i problemi per le élite al comando.
Elenchiamoli: lo scontro commerciale USA-CINA, l’escalation bellica nello Stretto di Hormuz ed il futuro dell’accordo sul nucleare iraniano, la Brexit che potrebbe portare ad un “no deal”, la possibile crisi della “Groko” dopo le elezioni di settembre/ottobre in tre Land orientali ed i pessimi dati dell’economia, le possibili nuove elezioni in Spagna in caso di mancato governo, ed un “rientro” politico in Francia che si preannuncia piuttosto caldo per Macron…
Se l’Unione ha fin qui dimostrato una certa capacità di “resilienza” alle crisi, il personale politico che ne stato il pilastro sta uscendo con le “ossa rotte” da questa fase, mentre sia la “variante populista” di destra che di sinistra si è fin qui dimostrata incapace di incidere veramente nei processi decisionali all’interno anche solo di un singolo Paese.
Una unica eccezione sembra essere quella del movimento delle “giacche gialle” che ha imposto in Francia la cancellazione della tassa di transizione ecologica ed altre misure che seppur minime hanno portato qualche beneficio alla condizione dei subalterni d’Oltralpe, senza che però le altre rivendicazioni fossero accolte, ma che si sedimentassero comunque a livello popolare “politicizzando” parti non trascurabili di classe.
I Gilet Jaunes sono stati un movimento reale che ha reso fecondo il terreno per il fiorire di lotte – anche a livello del mondo del lavoro – piuttosto importanti e largamente ignorate in Italia: dalla logistica alle poste passando per gli insegnanti e studenti, fino a quelle dei pronto soccorso – sono più di 200 quelli ancora in sciopero per un movimento che dura da 5 mesi – , hanno consolidato un legame trasversale tra subalterni: una precisa identità di classe, fatto emergere una contrapposizione frontale tra questi e gli strati medio-alti della società, consolidato un capitale politico ed organizzativo “diffuso” in grado insieme ai settori sociali, alle organizzazioni sindacali e alle formazioni politiche con cui ha interloquito di rilanciare probabilmente una nuova stagione di conflitto nelle settimane a venire…
Lo scenario che si profila all’orizzonte in UE intreccerà probabilmente questi tre elementi che caratterizzano la fase politica: la necessità di un “balzo in avanti” dell’Europa neo-carolingia a guida Franco-Tedesca dentro la competizione globale che assume i connotati anche della “forma-guerra”, lo sfarinamento della rappresentanza politica fin qui conosciuta e la sua ricomposizione rispetto agli obiettivi prioritari della UE (e questi giorni della crisi italiana ne sono un laboratorio), l’emergere di un conflitto sociale spurio e proteiforme dai caratteri organizzativi transitori e fluidi ma che è l’unica chance per rendere riattualizzabile l’idea di una trasformazione politico-sociale radicale.
Per chi ha cura di documentare la realtà per trasformarla l’atteggiamento da tenere deve essere grosso modo quello suggerito dal celebre cineasta comunista Joris Ivens: “un occhio guarda la realtà attraverso il mirino della cinepresa, mentre l’altro rimane spalancato su tutto ciò che succede intorno alla piccola immagine racchiusa nell’inquadratura. Un terzo occhio, se così si può dire, deve essere rivolto al futuro”.
Senza quel terzo occhio che guarda il futuro, avremmo comunque una visione d’insieme ma saremmo condannati ad appiattirci alle miserie del presente, in questo caso ad un impasse politico ed il ristagnare di ogni ipotesi anche parziale di cambiamento.

lunedì 26 agosto 2019

Un presidente matto, un classico dei tempi di crisi

I comici e i matti arrivano al potere persino negli Stati Uniti, che pure hanno una certa tradizione nell’eliminare presidenti “problematici” per alcuni settori forti dell’establishment. Segno che l’apparente “irrazionalità” di certe trasformazioni risponde a una “necessità” del sistema complessivo, anche se non è affatto semplice ricostruire con precisione il filo logico che lega eventi critici e risposte “illogiche”.
Potremmo esercitarci con divertimento sullo strano balletto che accompagna il tentativo di formazione di un governo gialloblu (accogliamo senza riserve la definizione di Giorgio Cremaschi), dove la piccineria dei protagonisti viene immensamente superata da quella di molti media. Basti guardare al partito di Repubblica, che da un lato preme per un governo che escluda nuove elezioni subito e per l’altro spara a zero sulle possibilità di intesa tra Pd e Cinque Stelle. Quindi, “oggettivamente”, per avvicinare le elezioni e dare soluzione alla crisi della politica con qualche “capo assoluto” particolarmente disgraziato e pazzo, ma “ottimo comunicatore”.

Però non sarebbe un esempio in grado di illuminare le dinamiche del mondo.
Vediamo allora la “guerra dei dazi” aperta da quell’altro mattacchione di Donald Trump contro la Cina (ufficialmente) e la Germania (sottotraccia). Sul piano logico è una follia che mette fine al “mercato globale” e quindi accelera la caduta di un processo di crescita capitalistica già stagnante per conto suo. Ma il mattacchione vuole essere rieletto e dunque – proprio come le multinazionali che devono presentare sempre delle relazioni trimestrali positive, pena un tonfo in borsa – si inventa “atti di imperio politico” che possono avere solo effetti negativi sul sistema. Ma che soprattutto hanno poca possibilità di funzionare anche per il (piccolo) scopo dichiarato.
Vediamo gli ultimi sviluppi, che hanno gettato nello sconforto le borse mondiali ieri.
Come risposta alla lunghissima serie di dazi imposti dagli Usa sui beni cinesi, Pechino ha infine risposto con misure simmetriche che colpiscono 5.078 prodotti Usa. Si va dai fagioli di soia (danneggiando ancora un volta i farmers del Midwest, zoccolo duro trumpiano) al petrolio (tariffe del 5% a partire dall’inizio di ottobre); ma anche alle automobili, per le quali da dicembre torna la tassa del 25% prima abolita, e altre tariffe al 5% sui pezzi di ricambio prodotti negli Stati Uniti.
Senza neanche pensarci un attimo – ed è un altro segno di irrazionalità, in queste materie e a questo livello – Trump ha varato altri dazi aggiuntivi, arrivando addirittura ad “ordinare” alle multinazionali Usa di abbandonare la Cine e investire altrove. Come se non fosse lui stesso un risultato dell’indebolimento del potere politico rispetto a quelli economico-finanziari e dunque come se le multinazionali fossero ai suoi ordini, anziché – in larga misura – viceversa.
Chiarissima la risposta di Myron Brilliant, vice presidente della Camera di Commercio statunitense: «Trump può essere frustrato con la Cina, ma la risposta non è per le aziende americane ignorare un mercato di 1,4 miliardi di consumatori». E’  indicativo che vada ricordato a un palazzinaro che in regime capitalistico le imprese puntano in primo luogo a far soldi e dunque una simile quantità di potenziali clienti (oltretutto ora abbastanza ricchi da potersi permettere molto) prevale su qualsiasi considerazione politica di un presidente a tempo.
Per questo continuiamo a pensare che “l’irrazionalità al potere” sia la parte visibile di una crisi di sistema che non riesce né a trovare una soluzione, né ad esplodere.
I matti al potere, sempre “ottimi comunicatori”, come al solito preparano la seconda…

mercoledì 14 agosto 2019

Sotto la “guerra per il voto”, un rimpasto da peracottari

Mio dio, cosa ho fatto per meritarmi tutto questo?”. Il popolo italiano deve avere molte colpe se la punizione divina si materializza con la pagliacciata parlamentare di ieri.
Per non farla lunga, ci concentriamo sul solo Matteo Salvini, che ha dimostrato una volta per tutte – almeno ai nostri occhi – una logica da venditore di tappeti e un animo da peracottaro.
Si doveva discutere, ricordiamo, la data per discutere sulla mozione di sfiducia contro il presidente del consiglio Giuseppe Conte (se ne parlerà il 20 agosto). Ed era già ridicola questa situazione, nata da una mossa proprio della Lega che – invece di ritirare la propria delegazione di ministri, Salvini compreso, aprendo davvero la fine del governo – aveva scelto di “parlamentarizzare la crisi” pur dicendo in pubblico di volere il voto subito, anzi, ieri…
Parlamentarizzare” significa gestirla secondo Costituzione e regolamenti di Camera e Senato, con tutti i trucchi, gli ostacoli, le furbizie, i bizantinismi del caso. Una cosa da preistoria della politica, che per dei “rinnovatori” dovrebbe essere tabù.
Entrando in Senato il Truce confermava che “mai” avrebbe “ritirato i ministri della Lega dal governo”. Il che, quindi, significa che non voleva affatto farlo cadere per le vie brevi. Dunque il gioco è ed era un altro, fin dall’inizio.
Poi, nel suo discorso in aula ha spiegato che per lui andava bene il “percorso” proposto da Di Maio: prima il voto definitivo sulla “riduzione dei parlamentari e poi elezioni anticipate”.
E qui il peracottaro ha provato a trasformare una disfatta (parlamentare) in rilancio della palla nel campo avversario: l’avete detto voi che si poteva fare, per me va bene..
Il problema – chiarissimo a chi sa due cosette di Costituzione – è che se diventa definitiva una “riforma costituzionale” che riguarda il Parlamento (e il numero dei parlamentari è indicato nella Carta) si aprono una serie di scadenze obbligate, anch’esse previste, persino nella durata, dalla legge fondamentale dello Stato.
Lo sanno persino i leghisti che dicono: “Una volta approvata la riforma, viene pubblicata in Gazzetta ufficiale e devono trascorrere, in base all’articolo 138 della Costituzione, tre mesi per le eventuali richieste di referendum, in quanto la riforma non è stata approvata dai due terzi”. Se nessuno chiede lo svolgimento del referendum, spiega il più ferrato di loro in materia, Calderoli, dopo i tre mesi,  devono “trascorrere 10 giorni per la promulgazione e quindi 60 giorni per la ridefinizione dei collegi. E si arriverebbe a metà febbraio del 2020. Da quel momento in poi, si può andare a votare con la riduzione del taglio dei parlamentari e il nuovo Parlamento così ridefinito”. Aggiungiamoci per dovere di completezza i due mesi di campagna elettorale…
Di conseguenza, una volta ridotta la rappresentanza parlamentare (per risparmiare qualche decina di milioni su oltre 2.300 miliardi di debito pubblico), non si possono indire elezioni politiche generali fino al prossimo giugno.
A meno di non pensare che si possa eleggere prima un Parlamento incostituzionale e magari subito dopo delegittimato dall’eventuale esito referendario.
Conclusione: accettando il “percorso” indicato dai grillini Salvini accetta anche di rinviare il voto a data da destinarsi, negando con i fatti quel che continua a sparare a beneficio di telecamere. Logica da piazzista e attendibilità zero, per un contapalle che ha scoperto di aver sbagliato clamorosamente tutti i conti e cerca una via d’uscita basandosi su un solo, vero, punto di forza: la carica di ministro dell’interno che usa per dettare ora dopo ora l’agenda politica e i titoli di giornale.
Ultima ciliegina sulla torta, dà un’intervista al Corriere in cui, negando tutto il resto, dice di pensare a un governo leghista con Giancarlo Giorgetti – “una persona di cui il mondo si fida” – ministro dell’Economia per fare “una manovra importante e coraggiosa”.
La traduzione è semplice. “Voglio un rimpasto con Toninelli, Trenta e Tria fuori e i miei uomini al loro posto”. La minaccia del voto subito per intascare qualcosa…
Tutto qui.
Basterebbe non dargli quel che chiede per aprire la via della caduta per il peracottato travestito da Truce. Ma qui entra in gioco la maledizione divina, quella che ha consegnato il paese alla peggiore classe politica della galassia.
Vivere all’inferno, nel girone dei peracottari, senza nemmeno la dignità della tragedia.
P.s. Sullo sfondo la tragedia vera. La conflittualità internazionale che cresce, la guerra dei dazi e delle monete, le pressioni di Trump per allineare la UE alle sue scelte anti-Iran, Cina, Russia e Venezuela, il ritorno in pianta stabile del colonialismo… Uno sfondo in cui, con questa gentaglia, agiremo come sempre da servi e comprimari, fingendo d’essere protagonisti perché “abbiamo una storia gloriosa” e tanti fondali di cartone…

giovedì 1 agosto 2019

E se Londra non paga i costi della Brexit? Tremano i vertici di Bruxelles

Il neo primo ministro britannico Johnson ha confermato la sua intenzione di non pagare i costi della Brexit concordati dalla precedente gestione di Theresa May, ventilando che la somma potrebbe essere lasciata in sospeso come strumento di pressione nelle nuove negoziazioni con l’Unione Europea.
In pratica potrebbe spezzare la ragnatela in cui i vertici di Bruxelles avevano provato a imbrigliare la Gran Bretagna dopo la Brexit. per imporle un prezzo salatissimo e condizionarla con il recondito auspicio di una revoca dell’uscita votata dalla maggioranza della popolazione.
Il neopremier britannico intende ora “congelare” il pagamento fino al raggiungimento di una intesa più favorevole al Regno Unito, attingendo nel frattempo alle risorse nazionali per un fondo che faccia da cuscinetto all’uscita dalla Ue. Tecnicamente è possibile: la tesi di Johnson è che l’accordo di Theresa May è morto perché non è stato ratificato dalla Camera dei Comuni. Inoltre l’intesa raggiunta dalla May non specifica la cifra esatta, facendo sì che manchi a tutt’ora un valore concordato della «fattura di divorzio» dovuta da Londra a Bruxelles.
Il Brexit bill, negoziato dall’allora premier Theresa May, equivale a un «patteggiamento» per corrispondere alla Ue tutti gli obblighi che avrebbero dovuto essere onorati prima del suo addio all’Europa: dai contributi ordinari al budget europeo per il 2019 e il 2020 al finanziamento delle pensioni per lo staff Ue
I vertici europei non sembrano avere alcuna intenzione di cedere, anche se Johnson ha già messo in chiaro che non intende riaprire la discussione Bruxelles senza un via libera formale alle sue “proposte” di rinegoziazione dell’accordo è l’ipotesi di trattenere invece che versare alla Ue una somma pari a quasi il 2% del Pil britannico sta facendo aumentare i consensi sull’elettorato britannico
L’Office for Budget Responsability, l’istituto del Tesoro britannico che si occupa di analisi e previsioni sull’economia nazionale, si orienta su un valore di circa 38 miliardi di sterline, mentre il governo fissa una forbice fra i 35 e i 39 miliardi di sterline. Sempre l’Obr, scrive l’emittente britannica Bbc, prevede che il pagamento possa essere smaltito per oltre il 75% entro il 2020, dilatando poi alcuni versamenti fino al 2060. Ma questo era lo scenario trattato dalla May e oggi disconosciuto da Johnson e l’intesa raggiunta porta la firme solo dei leader della Ue, quindi è valida solo per una delle due parti al tavolo del negoziato.
A questo punto se la Gran Bretagna di Johnson manda a quel paese Bruxelles la disputa può esplodere in vari modi. Secondo alcuni analisti ci sarebbe un problema di “reputazione” e un problema giuridico. Nel primo caso ci si affida alla “fiducia” della mano invisibile del mercato (la la Gran Bretagna è stata spesso un agente delle “divinazioni” dei mercati, ndr). Nel secondo caso i leader della Ue potrebbero fare ricorso alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia ma non alla Corte Europea perché a quel punto la Gran Bretagna non sarebbe più sottomessa alla sua competenza. Ma anche sulla competenza della Corte dell’Aja ci sono dubbi di fattibilità. Insomma l’Unione Europea si troverebbe senza strumenti “oggettivi” di ricatto e pressione contro la Gran Bretagna. Dovrebbe ricorrere a sanzioni o misure unilaterali
Boris Johnson ha dichiarato che non si siederà al tavolo con i leader europei in assenza di apertura su una revisione dell’accordo. Il caponegoziatore per conto dell’Europa, Michel Barnier, ha liquidato come “inaccettabili” le rivendicazioni di Johnson. Insomma al momento si va al “testa a testa”, uno scenario al quale i vertici di Bruxelles non erano affatto abituati, forse ringalluzziti dalla facilità con cui avevano piegato la Grecia ai propri diktat.
Infine una annotazione a metà tra scenari e fantapolitica. In queste settimane circolano in rete alcuni giochi online. Uno di questi si occupa delle possibili guerre. Tra gli scenari ce n’è uno che vede l’Unione Europea che attacca la Gran Bretagna per farle pagare il prezzo della Brexit. Gli Usa intervengono militarmente a sostegno di Londra e bombardano Berlino. Fantascienza? Certo. Fantapolitica? Certo. Ma il che il mondo in cui eravamo abituati a vivere stia cambiando è altrettanto certo.