giovedì 28 febbraio 2019

Lampi di guerra tra India e Pakistan

Una nuova, violenta escalation, è in corso fra le potenze nucleari di India e Pakistan, nell’ambito del conflitto mai sopito che vede opposti i due pesi dal 1947 per il controllo della regione di confine contesa del Kashmir, controllata di fatto per i due terzi dall’India e per un terzo del Pakistan, che la rivendica totalmente in quanto area a maggioranza islamica; anche l’India, da parte sua, la rivendica totalmente.
Tutto è partito il 14 febbraio scorso, quando il gruppo islamista Jaish -e Mohammad, che ha come obiettivo dichiarato quello di unire l’intero Kashmir al Pakistan e “liberare tutti i musulmani dell’India”, ha compiuto un attentato suicida nei confronti di un convoglio di soldati indiani, provocando una quarantina di morti; si tratta del più grave attentato dall’ultima guerra indo-pakistana (1999) a oggi.
Jaish-e Mohammad è una frazione jihadista formalmente considerata terrorista da entrambi i governi; si riporta che essa abbia rapporti stretti con i Talebani Afghani.
Nonostante ciò, il Governo pakistano intrattiene con essa (così, come con i Talebani) un rapporto ambivalente, concedendole di muoversi in libertà sul proprio territorio. A fare da cornice e mandante rispetto a tale attitudine del Pakistan nei confronti delle milizie islamiste, vi è, ovviamente, la consueta politica imperialistica consistente nel fomentare divisioni etnico-religiose operata dagli storici padrini americani (ancora da considerarsi tali, nonostante alcune recenti frizioni importanti), che da sempre controllano l’esercito di Islamabad, attore preminente nella politica del paese.
Tornando ai fatti, l’azione di Jaish-e Mohammad viene in coda ad un anno nero per il Kashmir, in cui i momenti di escalation sono stati molteplici; il Governo Indiano, guidato dal nazionalista Modi del Partito del Popolo Indiano (BJP,) ha deciso di rispondere militarmente all’attentato utilizzando l’aviazione per colpire obiettivi in territorio Pakistano. Così, il 26 febbraio, fonti militari di New Delhi hanno dichiarato di aver ucciso centinaia di militanti di Jaish-e Mohammad dopo aver distrutto un campo di addestramento in territorio nemico.
Di lì è partita un’escalation di provocazioni e sconfinamenti reciproci, la quale fino ad ora ha portato all’abbattimento di un numero imprecisato di aerei militari da una parte e dall’altra, con i Pakistani che sarebbero riusciti a far prigioniero un pilota indiano.
Al momento, le diplomazie straniere tacciono. Non solo gli USA, ma anche le altre potenze come la Cina, che ultimamente ha stretto i rapporti in maniera particolare con il Pakistan nell’ambito del progetto della cosiddetta “nuova via della seta”, mettendo quasi in discussione il tradizionale rapporto di vassallaggio con gli USA.
Staremo a vedere. Al momento, stando alle dichiarazioni provenienti da entrambe le parti, non paiono in vista escalation su vasta scala; tuttavia, si ricordi, si tratta sempre di due potenze nucleari.

mercoledì 27 febbraio 2019

Game over per il “governo del cambiamento”

Il problema non è l’analisi costi-benefici. Nessuno verrà investire in Italia se il paese dimostra che un governo che cambia non sta ai patti, cambia le leggi o le rende retroattive“.
Il ministro dell’economia, Giovanni Tria, apre ufficialmente la crisi della maggioranza all’indomani delle elezioni abruzzesi e sarde, che hanno confermato la crisi profonda dei Cinque Stelle. E’ notevole sia il tema che la tempistica, a indicare chiaramente che i Cinque Stelle non possono più pretendere nulla..
Lo fa quasi con le stesse parole di Wolfgang Schaeuble durante la crisi greca, davanti al “riformista” illuso Yanis Varoufakis: “Questo è stato accettato dal governo precedente e che non si può assolutamente permettere ad un’elezione di cambiare nulla. Perché abbiamo elezioni ogni giorno, siamo in 19, se ogni volta che c’è una elezione e qualcosa è cambiato, i contratti tra noi non significherebbero nulla”.
E’ la logica dei trattati europei e chiunque dica di volerli “riformare” racconta cazzate. In modo inconsapevole, se non si cura di esserne informato, in modo luridamente consapevole se invece sa di cosa parla.
Tria stava rispondendo a una domanda sul Tav da Torino a Lione, che divide il governo da mesi (insieme a molti altri dossier), ed ha scelto di metter fine alla finta discussione “unitaria” presentando il conto dei “mercati” e dei trattati. Non si può cambiare nulla, a certi livelli, anche se ci converrebbe farlo (per problemi di finanziamento, per rispetto delle popolazioni residenti, per inutilità palese di certe opere, ecc). Salvini, non a caso, si è immediatamente allineato al garante dei conti per conto dall Ue.
A pensarci bene, si apre la fine non solo per “il governo del cambiamento”, ma per qualsiasi futuro “governo del cambiamento”, seppellendo anche i fantasmi del “populismo”. A meno che non tracolli la struttura di governance dell’Unione Europea.
Cinque Stelle sulla via del rapidissimo tramonto, dunque, per manifesta impossibilità di far vivere concretamente una visione (e soluzioni) che solo in astratto potevano sembrare decisive (onestà, “uno vale uno”, due soli mandati, uso della rete, ecc) per cambiare il paese e la corruzione politico-morale della sua classe politica.
Ma attenzione a dare la Lega per trionfante nel medio periodo, anche se nell’immediato appare quasi incontrastabile, specie tenendo conto lo smorto panorama parlamentare e la non esaltante conflittualità sociale (che c’è, ma riguarda ancora soltanto singoli settori). Anche la Lega, infatti, deve la sua fortuna a una serie di soluzioni impraticabili.
Sul tema immigrazione ha ancora gioco facile. “Contrastarla” con i suoi metodi in fondo costa poco, praticamente nulla; una volta seppellito l’”umanitarismo”, senza troppe resistenze, tanto meno europee, su quella linea ci stanno praticamente tutti (ricordatevi sempre del piddino Minniti).
Ma su tutto il resto si trova esattamente nella stessa posizione dei grillini, con una “quota 100” ridotta a pochi intimi e per poco tempo, con una flat tax scomparsa dai radar già nella scorsa estate, con la minaccia di applicazione automatica degli aumenti dell’Iva il prossimo anno (o già in questo, con la “manovra correttiva”) e addirittura con il prelievo forzoso sui conti correnti all’orizzonte.
La Lega puntava manifestamente a cannibalizzare sia il centrodestra che una gran parte dei grillini, ma il gioco non gli sta riuscendo. O per lo meno non nella misura necessaria ad assicurarle una “posizione maggioritaria”.
Le azioni di “disturbo”, nel campo della destra, sono già iniziate. Il “ritorno in campo” di Berlusconi, per molti versi patetico, ha il chiaro significato di cercare di organizzare un “centrodestra europeista”, altrettanto autoritario sul piano interno ma molto meno blaterante contro la Ue.
Sul fronte opposto, la probabile investitura di Zingaretti alla testa del Pd riapre per la milionesima volta il cantiere di un “nuovo Ulivo”, in cui rappattumare tutte le frattaglie nostalgiche del ceontrosinistra prodiano, europeista senza se e senza ma, con qualche verniciata “umanitaria” e un po’ meno rozza in fatto di vaccini, religione, diritti civili. Su cui a malincuore potrebbero in prospettiva convergere quegli elettori grillini ma refrattari al neofascismo leghista.
Dunque lo scenario prossimo venturo potrebbe volgere nel giro di pochi mesi verso il vecchio “bipolarismo” tra centrodestra e autodefinito “centrosinistra”. Entrambi, però, completamente screditati agli occhi dell’”opinione pubblica”.
A questo stanno manifestamente lavorando in tanti, sia in Italia che in sede europea (l’iperattivismo di un Tajani dovrebbe far sospettare qualcosa). E anche i molti “tavoli paralleli” imbastiti intorno alla lista “di sinistra” da presentare alle europee – una esplicita, con alla testa De Magistris con “tutti dentro”, compreso Potere al Popolo, l’altra rivelata da Cofferati (tutti col Pd, senza Dema e Pap) – verranno travolti dallo spostamento d’aria dei riposizionamenti dei soggetti più grandi.
Mattarella, dal canto suo, si vede ora consegnare tutte le leve per guidare “la politica” verso nuove elezioni, che nessuno dei due “vincitori” del 4 marzo, a questo punto, vuole.

martedì 26 febbraio 2019

Game over per il “governo del cambiamento”

Il problema non è l’analisi costi-benefici. Nessuno verrà investire in Italia se il paese dimostra che un governo che cambia non sta ai patti, cambia le leggi o le rende retroattive“.
Il ministro dell’economia, Giovanni Tria, apre ufficialmente la crisi della maggioranza all’indomani delle elezioni abruzzesi e sarde, che hanno confermato la crisi profonda dei Cinque Stelle. E’ notevole sia il tema che la tempistica, a indicare chiaramente che i Cinque Stelle non possono più pretendere nulla..
Lo fa quasi con le stesse parole di Wolfgang Schaeuble durante la crisi greca, davanti al “riformista” illuso Yanis Varoufakis: “Questo è stato accettato dal governo precedente e che non si può assolutamente permettere ad un’elezione di cambiare nulla. Perché abbiamo elezioni ogni giorno, siamo in 19, se ogni volta che c’è una elezione e qualcosa è cambiato, i contratti tra noi non significherebbero nulla”.
E’ la logica dei trattati europei e chiunque dica di volerli “riformare” racconta cazzate. In modo inconsapevole, se non si cura di esserne informato, in modo luridamente consapevole se invece sa di cosa parla.
Tria stava rispondendo a una domanda sul Tav da Torino a Lione, che divide il governo da mesi (insieme a molti altri dossier), ed ha scelto di metter fine alla finta discussione “unitaria” presentando il conto dei “mercati” e dei trattati. Non si può cambiare nulla, a certi livelli, anche se ci converrebbe farlo (per problemi di finanziamento, per rispetto delle popolazioni residenti, per inutilità palese di certe opere, ecc). Salvini, non a caso, si è immediatamente allineato al garante dei conti per conto dall Ue.
A pensarci bene, si apre la fine non solo per “il governo del cambiamento”, ma per qualsiasi futuro “governo del cambiamento”, seppellendo anche i fantasmi del “populismo”. A meno che non tracolli la struttura di governance dell’Unione Europea.
Cinque Stelle sulla via del rapidissimo tramonto, dunque, per manifesta impossibilità di far vivere concretamente una visione (e soluzioni) che solo in astratto potevano sembrare decisive (onestà, “uno vale uno”, due soli mandati, uso della rete, ecc) per cambiare il paese e la corruzione politico-morale della sua classe politica.
Ma attenzione a dare la Lega per trionfante nel medio periodo, anche se nell’immediato appare quasi incontrastabile, specie tenendo conto lo smorto panorama parlamentare e la non esaltante conflittualità sociale (che c’è, ma riguarda ancora soltanto singoli settori). Anche la Lega, infatti, deve la sua fortuna a una serie di soluzioni impraticabili.
Sul tema immigrazione ha ancora gioco facile. “Contrastarla” con i suoi metodi in fondo costa poco, praticamente nulla; una volta seppellito l’”umanitarismo”, senza troppe resistenze, tanto meno europee, su quella linea ci stanno praticamente tutti (ricordatevi sempre del piddino Minniti).
Ma su tutto il resto si trova esattamente nella stessa posizione dei grillini, con una “quota 100” ridotta a pochi intimi e per poco tempo, con una flat tax scomparsa dai radar già nella scorsa estate, con la minaccia di applicazione automatica degli aumenti dell’Iva il prossimo anno (o già in questo, con la “manovra correttiva”) e addirittura con il prelievo forzoso sui conti correnti all’orizzonte.
La Lega puntava manifestamente a cannibalizzare sia il centrodestra che una gran parte dei grillini, ma il gioco non gli sta riuscendo. O per lo meno non nella misura necessaria ad assicurarle una “posizione maggioritaria”.
Le azioni di “disturbo”, nel campo della destra, sono già iniziate. Il “ritorno in campo” di Berlusconi, per molti versi patetico, ha il chiaro significato di cercare di organizzare un “centrodestra europeista”, altrettanto autoritario sul piano interno ma molto meno blaterante contro la Ue.
Sul fronte opposto, la probabile investitura di Zingaretti alla testa del Pd riapre per la milionesima volta il cantiere di un “nuovo Ulivo”, in cui rappattumare tutte le frattaglie nostalgiche del ceontrosinistra prodiano, europeista senza se e senza ma, con qualche verniciata “umanitaria” e un po’ meno rozza in fatto di vaccini, religione, diritti civili. Su cui a malincuore potrebbero in prospettiva convergere quegli elettori grillini ma refrattari al neofascismo leghista.
Dunque lo scenario prossimo venturo potrebbe volgere nel giro di pochi mesi verso il vecchio “bipolarismo” tra centrodestra e autodefinito “centrosinistra”. Entrambi, però, completamente screditati agli occhi dell’”opinione pubblica”.
A questo stanno manifestamente lavorando in tanti, sia in Italia che in sede europea (l’iperattivismo di un Tajani dovrebbe far sospettare qualcosa). E anche i molti “tavoli paralleli” imbastiti intorno alla lista “di sinistra” da presentare alle europee – una esplicita, con alla testa De Magistris con “tutti dentro”, compreso Potere al Popolo, l’altra rivelata da Cofferati (tutti col Pd, senza Dema e Pap) – verranno travolti dallo spostamento d’aria dei riposizionamenti dei soggetti più grandi.
Mattarella, dal canto suo, si vede ora consegnare tutte le leve per guidare “la politica” verso nuove elezioni, che nessuno dei due “vincitori” del 4 marzo, a questo punto, vuole.

lunedì 25 febbraio 2019

Reddito di cittadinanza? No, caporalato di Stato con aggravante razzista

Pacco, doppio pacco e contropaccotto” è un film italiano del 1993, l’ultimo per il cinema diretto da Nanni Loy. Il film, strutturato ad episodi, è ambientato nella Napoli degli anni novanta in cui imbroglioni più o meno professionisti, si arrangiano cercando di truffare il prossimo.
Ecco tutta l’epopea del movimento pentastellato è franata in poco più 7 mesi di governo nel repentino abbandono di tutti i principi che ne caratterizzavano la natura di movimento antisistema ma che hanno poi avuto lo stesso esito dei mirabolanti trucchi dei personaggi di quel film.
Se poi anche l’unico cordone ombelicale, il “reddito di cittadinanza” che tiene in qualche modo legato il M5Stelle ad una parte ancora consistente del suo elettorato, si rivela un pacco di dimensioni cosmiche, allora la bolla pentastellata rischia di fare molto presto la fine che fece un altro noto movimento che aveva in comune con i 5 stelle un analogo livello di indeterminatezza e di confusione, ovvero, quel “partito dell’uomo qualunque” che durò solo 5 anni (dal 1945 al 1949) perché intorno aveva dei partiti enormi e ben strutturati. Il vantaggio dei 5stelle è che quei partiti sono evaporati a parte la Lega, per l’appunto. Ciò tuttavia non vuol dire che il M5S non rischi di fare presto la stessa fine che fece il farlocco partito di Giannini.
Scrive Giorgio Cremaschi: ” Un disoccupato del Sud in affitto che riceva il reddito DOVRÀ trasferirsi al Nord per 643 euro netti mese (858 lordi) e dovrà lavorare pagar casa mantenersi con meno del reddito (780). Altra vittoria della #Lega che il #reddito vuol farlo fallire.”.
Insomma, il presunto “reddito di cittadinanza” pare essere il realtà solo un “reddito di sudditanza” ad un mercato del lavoro schiavistico e viste le premesse non può che tradursi, nei fatti, in un #caporalato di stato. Ciò non solo per come è stata concepita la norma ma anche perché tra le promesse elettorali dei 5Stelle disattese c’è la mancata abolizione del jobs act.
Di più, con l’emendamento approvato il governo imbocca la deriva che portò all’esclusione dei bambini di genitori stranieri dalla mensa a Lodi. La commissione Lavoro del Senato ha approvato un emendamento della Lega al decretone che vincola l’accesso alla presentazione di “certificazione” di reddito e patrimonio e del nucleo familiare rilasciata dallo Stato di provenienza, “tradotta” in italiano e “legalizzata dall’Autorità consolare italiana”.
Il vulnus di Lodi ha fatto scuola ed ora entra di peso in una legge dello Stato in barba all’art. 3 della Costituzione (principio di non discriminazione) introducendo un ostacolo di stampo razzista che ha come fine quello di impedire, di fatto, a tutti i cittadini di origine straniera l’accesso al reddito di cittadinanza.

venerdì 22 febbraio 2019

La secessione reale e il “Cigno nero

La politica si è svegliata come al solito troppo tardi. Il processo che può portare alla secessione reale del nostro paese ha macinato già parecchi chilometri e consensi, soprattutto nel Nord. Fermarlo non sarà un pranzo di gala, ma non ci si può in alcun modo sottrarre alla necessità di provarci, con ogni mezzo necessario.
“Non c’è nessuno slittamento. I testi sono pronti e li porto in Consiglio dei Ministri. Restano dei nodi politici sui quali discutere”. La conferma è venuta dal ministro per gli Affari Regionali Erika Stefani (Lega, ndr) relativamente al testo per l’autonomia rafforzata del Veneto, Lombardia e Emilia Romagna. Per il ministro “ il regionalismo differenziato è la chiave di volta per le regioni. È un’occasione da cogliere e non – conclude – un pericolo da scampare”.
Le fa eco uno dei caterpillar della secessione reale: “C’è finalmente un documento finale sulla autonomia che, se fosse confermato avere i contenuti proposti dal Veneto, per noi è immediatamente sottoscrivibile”, ha detto il presidente del Veneto, Luca Zaia, dopo l’annuncio dato dal ministro.
L’onda nefasta dei danni provocati dal governi di centro-sinistra che misero mano al Titolo V della Costituzione e dei governi di centro-destra intrisi dalla Devolution leghista, potrebbe arrivare a sintesi con un governo diverso da quelli che lo hanno preceduto.
Questo è lo stato delle cose. Venerdi 15 febbraio è stata convocata a Montecitorio una manifestazione di una alleanza di forze sociali, sindacali e politiche su impulso della Usb, che si oppongono al cosiddetto “regionalismo differenziato”, rivendicando al contrario un criterio di uguaglianza dei diritti su tutto il territorio nazionale e una distribuzione delle risorse che lo tuteli e non lo distrugga. Il nostro giornale, inascoltato, aveva suonato l’allarme da tempo. Da gennaio del 2018 abbiamo messo in circolazione una serie di articoli, documenti, intuizioni che provavano a indicare un processo dalle conseguenze politiche, sociali, economiche inquietanti.
Vogliamo provare nuovamente a segnalare i problemi che, a nostro avviso, perimetrano l’origine e le ripercussioni di questo processo di disgregazione del paese:
A) Da tempo nelle tre regioni di quella che abbiamo definito “la Baviera del Sud” (Lombardia, Nordest, Emilia Romagna) si concentra non solo quasi il 50% del Pil dell’intero paese, ma si concentra anche l’80% del valore aggiunto e dell’export. Nelle analisi internazionali sulle realtà a capitalismo avanzato che contano di più – in termini di produzione, tecnologie, servizi avanzati, occupazione etc. – questa “regione allargata” viene presa come parametro per l’intera Unione Europea insieme ad altre macroregioni simili: Rhone Alpes (Francia), Baden Wuttemberg (Germania), Catalogna (Spagna).
B) Dentro l’ultima fase della crisi, quella iniziata nel 2008, il sistema produttivo italiano ha subito un’ulteriore e feroce selezione. Le imprese sopravvissute ai brutali processi di concentrazione/internazionalizzazione, sono quelle che si sono legate alla filiera produttiva tedesca in una posizione di subfornitura. Contestualmente si è realizzato quel processo che abbiamo definito come “cannibalismo industriale”, nel quale molte aziende italiane sono state acquisite da gruppi internazionali non per essere ristrutturate, ma per essere via via smantellate e per acquisire esclusivamente la loro quota sul mercato “italiano”. Non solo. La destrutturazione sistematica dei sistemi formativi nel nostro paese e lo stato miserrimo della ricerca, è la causa voluta e conclamata di quella che viene liquidata come “fuga dei cervelli” dall’Italia verso il cuore economico, scientifico e tecnologico nel centro-nord Europa.
C) Questo processo di destrutturazione produttivo, ha prodotto conseguenze anche sul piano territoriale e sociale. Le tre regioni che su molte materie strategiche puntano alla totale autonomia dallo Stato centrale, da tempo vengono attratte da sorta di “magnete” intorno alla Germania. Da qui la definizione di Baviera del Sud. Ma, si badi bene, non è una deformazione impazzita del processo di integrazione europea, è un effetto voluto e fisiologico. Così come il nucleo “carolingio” concentra le risorse e indebolisce i paesi periferici – adesso ratificato dal Trattato di Aquisgrana tra Germania e Francia – a loro volta le aree ricche dei paesi periferici si concentrano e assumono sempre più poteri nel quadro della governance multivello dell’Unione Europea, a totale discapito del resto dei loro paesi. Anzi fungono a loro volta da “magnete interno” nel drenare risorse economiche e umane, sottraendole al ruolo re-distributore e di coesione sociale dello Stato.
D) E’ evidente che le conseguenze di questo processo non saranno leggibili nell’immediato, ma una volta che saranno fatti compiuti – per cui reversibili solo attraverso scelte traumatiche – la disgregazione del paese che è venuto determinandosi nell’ultimo secolo e mezzo diventerà reale. Intorno al magnete delle regioni ricche verrà scomposto e subordinato tutto il resto del territorio, non solo il Meridione o l’area metropolitana di Roma Capitale, ma anche le aree di crisi del vecchio triangolo industriale come Piemonte e Liguria. Insomma uno strattonamento molto brusco dagli esiti politici, sociali ed economici estremamente inquietanti
E) Su questo processo si va delineando però un “cigno nero”, un imprevisto che già facendo sentire i suoi effetti sull’economia italiana in recessione. La locomotiva tedesca, come abbiamo documentato nelle scorse settimane, sta rallentando e di parecchio. Chi ha reso subalterno il sistema economico, industriale, tecnologico dell’Italia a questa locomotiva, collocandosi in una filiera fortemente asimmetrica, potrebbe vedersi sballare tutti i propri conti. Una accelerazione sulla concentrazione e distribuzione asimmetrica delle risorse del paese intorno alle tre regioni più ricche, non potrebbe inoltre che avere effetti devastanti che si vanno ad aggiungere – non ad alleviare – quelli già dovuti alla crisi e alla feroce competizione globale in corso.
F) Di fronte a questo processo parallelo di disgregazione e concentrazione, le classi dominanti nel Meridione vedono come unica risposta l’abbassamento degli standard generali per cercare di mantenere un minimo di possibilità nella competizione. La trappola si chiamano Zone Franche o Zone Economiche Speciali (una sorta di maquiladoras in salsa italiana) su cui stanno aprendo i varchi alcuni governatori e sindaci delle regioni meridionali, zone dove praticare regimi di agevolazioni fiscali, contributivi e salariali tali da attrarre investitori.
Quindi meno imposte alle imprese, meno contributi alla previdenza sociale, e salari più bassi per lavoratrici elavoratori. In pratica è il ritorno delle gabbie salariali e non solo. Un dumping sociale e fiscale che renderà ancora più stringenti le condizioni di dipendenza, subordinazione e semi-schiavitù lavorativa chi vive e lavora nelle regioni meridionali. Una sorta di colonialismo interno che riporta il paese alla condizioni della conquista “piemontese” del Sud dell’Ottocento.
Il carattere regressivo di questo processo era, ed ora sembra essere più evidente, anche a chi ha una visione meno corta e meno corporativa di quanto abbiamo visto in questi mesi. Ma soprattutto occorre leggerla in relazione ai processi di costruzione prima, e di ristrutturazione poi, dell’Unione Europea che di tutto questo è stato l’acceleratore. Le basi sociali di consenso o dissenso verso questa deriva, non saranno affatto omogenee nel paese, tra il Nord beneficiario e il resto penalizzato, questo è bene dirselo sin da ora. Occorre fare tutto il possibile per inceppare la macchina che ha preso velocità e, se possibile, fermarla.

giovedì 21 febbraio 2019

Il prossimo governo: solo sangue, frusta e lacrime

In giorni in cui, “a sinistra”, ci si martella tafazzianamente intorno alla lista per le prossime elezioni europee, conviene alzare un attimo lo sguardo a quello che succede in campo nemico: il governo gialloverde, il padronato (nazionale e multinazionale, industriale e finanziario), la finta opposizione del Pd (che resterà tale anche nel caso diventi segretario il fratello di Montalbano).
Com’è noto, non abbiamo nostre “gole profonde” all’interno di Palazzo Chigi, dunque dobbiamo decodificare quel che scrivono i giornali mainstream, che invece ne abbondano.
Giornalisticamente, è il mestiere del “retroscenista” – un lontano parente del “dietrologo”, ma con informazioni decisamente più affidabili – e al momento il più attendibile è ancora Francesco Verderami, del Corriere della Sera. Il suo articolo di oggi ve lo proponiamo integralmente più avanti, ma a noi sembra importante evidenziare il punto centrale della prossima, attesa, inevitabile, annunciatissima, crisi di governo con relative elezioni anticipate.
La politica, intesa come magma di inciuci tra partiti e leader, non c’entra assolutamente nulla. Che Salvini sia un fasciorazzista che sta favorendo – attraverso l’”autonomia differenziata” (decisa dal Pd con il governo Gentiloni e la Regione Emilia Romagna) – la frammentazione reale del paese, non frega niente a nessuno.
Tanto meno al Quirinale. Quei poveretti che pensano di essere tanto “di sinistra” e si affidano alla “saggezza di Mattarella” ne verranno probabilmente devastati spiritualmente, ma qualcuno deve dir loro l’amara verità.
Il punto centrale è la crisi economica. Iniziata, devastante come dimensioni già oggi prevedibili (il -7,3% nella produzione industriale 2018 è qualcosa di più di un “momento negativo”), europea per estensione territoriale principale.
Per come è costruita l’Unione Europea – un sistema di trattati vincolanti, con meccanismi quasi automatici di correzione dei bilanci statali nazionali – tutte le variazioni negative del Pil si traducono immediatamente in “manovre correttive” primaverili o “leggi di stabilità” approvate a Natale che dovrebbero in primo luogo “salvare i conti pubblici”. Anche a costo di uccidere il paese (ricordatevi della Grecia, please).
Con due trimestri negativi alle spalle, e il tracollo della produzione industriale (confermata anche dai dati sugli ordinativi, ovvero la produzione attesa), il destino del Pil per l’anno in corso è segnato: sarà lontanissimo sia dall’1,5% sperato dal governo, sia dall’1% delle stime di Confindustria.
Siccome tutto l’impianto della “legge di stabilità” dipende dal rispetto del rapporto tra deficit (indicato al 2,04%) e Pil, inevitabilmente ne deriva che per il prossimo anno sarà necessario varare una manovra che ricorderà per dimensioni quella di Giuliano Amato nel 1992 (90.000 miliardi di lire, poco più di 46 miliardi euro), che prevedeva tra l’altro il prelievo forzoso sui conti correnti di tutti i cittadini, nella misura del 6×1.000.
Vasto programma, e niente affatto popolare.
Quale governo si potrà assumere questo fardello di impopolarità assoluta? Non certo quello attuale, che è nato sulla promessa “scritta nel contratto” di “rimettere qualche soldo nelle tasche degli italiani”.
Le divisioni attuali sono nulla rispetto a quelle prevedibili per il giorno dopo le elezioni europee, che potrebbero segnare il rovesciamento ufficiale dei rapporti di forza tra grillini e leghisti. A quel punto, anche se la “linea Di Maio” fosse ancora più sdraiata su quella del bulimico alleato, sarebbe gioco facile per la Lega forzare la mano, con la benedizione del Colle, dell’Unione Europea, di Confindustria e dello stesso Pd (membro ufficiale del “partito del Pil”, come si vede dalle manifestazioni SìTav e da quella di CgilCislUil del 9 febbraio).
Quindi, come andiamo anche noi scrivendo da tempo, si dovrà andare a un governo senza grillini, aggravandone la crisi di identità e consensi.
Una “sinistra” politicamente ambiziosa e quindi necessariamente molto più “radicale” degli esangui fantasmi che si definiscono tali, dovrebbe trovare molto interessante questa situazione – che oggettivamente consegna una possibilità di interpretare un’alternativa anche come rappresentanza politica di dimensioni accettabili – e attrezzarsi per cogliere l’occasione.
Il prossimo sarà infatti un governo assolutamente distruttivo sul piano sociale, senza più neanche i cosmetici (“quota 100”, presunto “reddito di cittadinanza”, ecc) e naturalmente ultra-securitario sull’ordine pubblico.
Anche questo “retroscena”, insomma, disegna un futuro quasi immediato più duro, aspro, altamente selettivo e con pochissimo spazio per la mediazione sociale.
Una condizione difficile per un’opposizione sociale e politica, ma che forse – forse, se sapremo lavorare seriamente – anche potenzialmente rigenerativa. Basta con la fraseologia della vaghezza, basta con i “buoni sentimenti” al posto del conflitto su programmi e obiettivi, basta con il mantra dell’”unità” da trovare in contenitori elettorali senza progetto né futuro… Avanti con l’unità costruita nell’intervento sociale, tra compagni che si danno da fare e “non se la tirano”.

mercoledì 20 febbraio 2019

Federalismo aumentato e giustizia sociale

Secondo l’articolo 3, comma 2, della Costituzione, “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
L’uguaglianza formale di cui al comma 1 (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”) trova, quindi, specificazione nell’uguaglianza sostanziale di cui al sopra menzionato comma 2.
Sarebbe sufficiente questa disposizione, che nell’assetto costituzionale costituisce una vera e propria norma programmatica, per comprendere la natura eversiva del progetto di regionalismo differenziato che il governo giallo- verde sta portando avanti, proseguendo un percorso di fatto avviato nel 2001 con la riforma del titolo V della Costituzione.
Infatti, lungi dal rimuovere quegli ostacoli necessari per garantire l’uguaglianza sostanziale tra tutti i cittadini, il regionalismo differenziato mette in campo politiche divisive che esasperano le diseguaglianze sociali tra le due aree geografiche del paese minando alle fondamenta gli assetti organizzativi e sociali dello Stato.
Si tratta di quel processo di mezzogiornificazione che, così come a livello continentale contrappone i paesi del Nord Europa ai paesi del Sud Europa, all’interno dei confini nazionali contrappone il Settentrione al Meridione.
Il fulcro della campagna da parte dei Presidenti delle tre Regioni (Veneto, Lombardia e Emilia Romagna) ruota intorno alla restituzione delle risorse generate dal territorio e poggia sul concetto di “residuo fiscale”, definito come differenza tra l’ammontare di risorse (sotto forma di imposte pagate dai cittadini) che lo Stato centrale riceve dai territori e l’entità della spesa pubblica che lo stesso eroga (sotto forma di servizi) a favore dei cittadini degli stessi territori.
Secondo i sostenitori del “federalismo aumentato” tali trasferimenti di risorse tra territori, attuati in forma implicita dal sistema fiscale, sarebbero indebiti: di qui la richiesta di ottenere ulteriori forme di autonomia (principalmente in materia di sanità, istruzione ed ambiente) attraverso l’applicazione dell’art. 116, comma 3, della Costituzione e, soprattutto, la richiesta di rapportare il finanziamento dei servizi in base al gettito fiscale determinando, quindi, una diversificazione dei servizi, maggiori laddove il reddito pro capite è più alto.
In realtà, come risulta da un accurato studio dell’associazione Svimez, la tesi della restituzione costituisce un approccio sbagliato per almeno due ragioni:
– i calcoli di dare/ avere in termini di imposte e spesa pubblica hanno senso solo se riferiti a singoli individui perchè la tassazione avviene su base individuale
– lo Stato semplicemente raccoglie le imposte erariali e le redistribuisce per finanziare programmi e politiche di spesa a favore dei cittadini con redditi bassi presenti sia nella stessa regione c.d. donante sia in tutto il territorio nazionale.
A tal proposito lo studio della Svimez ha analizzato i c.d. residui fiscali ripartendo le entrate e le spese dei cittadini ed i relativi saldi tra i dare/avere non sul valore medio dell’entrate e delle spese di un cittadino che rappresenta tutta la Regione, ma bensì suddividendole secondo le fasce di reddito a cui i cittadini appartengono. Dallo studio risulta evidente che in ciascuna regione (anche in quelle con reddito medio elevato) sussistono fasce della popolazione (quelle meno abbienti naturalmente) che realizzano residui fiscali negativi, ovvero un gettito fiscale inferiore al volume di spesa erogato dall’ente centrale.
Ciò significa che non vi è nessuna Regione che “dona” ad altre Regioni risorse proprie perché ciascuna Regione è al contempo, anche se in misura diversa, “donante” e “ricevente”: i “ricchi” della Lombardia “mantengono” i “poveri” presenti nella propria Regione e quelli presenti in altre Regioni ed esattamente come i “ricchi” della Lombardia, anche i “ricchi “della Campania “mantengono” i “poveri” delle due Regioni.
Questa conclusione alla quale perviene lo studio della Svimez, decostruisce la propaganda dei sostenitori del federalismo aumentato, e smonta la falsa partizione tra regioni “virtuose” e regioni parassitarie.
La questione andrebbe, in realtà, affrontata da un punto di vista diametralmente opposto.
In primo luogo, invece di rivendicare una autonomia economica per le regioni più ricche che mette a rischio la solidarietà nazionale, occorrerebbe mettere in discussione quei vincoli di bilancio che attraverso i Trattati europei, e l’articolo 81 della Costituzione (che agisce non solo a livello nazionale ma penetra anche sul piano territoriale) hanno progressivamente privato i territori di risorse, seminando disoccupazione, povertà e spoliando i cittadini di diritti e tutele sociali.
Ma il “federalismo aumentato” chiama in causa anche il tema della redistribuzione delle risorse, necessaria per riequilibrare le disparità sociali e garantire a tutti i cittadini, indipendentemente dall’area geografica di appartenenza, livelli di prestazioni sociali adeguati.
A tale compito dovrebbe assolvere il sistema fiscale che, come è noto, attraverso la tassazione finanzia lo Stato sociale e dovrebbe garantire che chi ha di più contribuisca maggiormente in base al principio di progressività dell’imposta (art 53 della Costituzione).
E qui il discorso è letteralmente capovolto rispetto a quello portato avanti dai fautori del “federalismo aumentato” perchè attiene a quelle politiche fiscali che questo governo, come i precedenti, hanno messo in campo e che hanno acuito le diseguaglianze sociali drenando risorse dai redditi di lavoro dipendenti e pensionati e indirizzandole verso le imprese.
La flat tax al 15% recentemente introdotta per lavoratori autonomi e società di persone fino a 65.000 euro, in realtà è sempre esistita per le società di capitali che hanno visto nel corso degli anni abbassare l’aliquota unica dal 37%, all’attuale 24% indipendentemente dal fatturato. In sintesi l’ aliquota unica del 24 percento per le società di capitali (indipendentemente dal fatturato) corrisponde più o meno all’aliquota IRPEF più bassa (23 percento) riguardante chi percepisce redditi fino a 15.000 euro.
Sul versante Irpef, di quel sistema di progressività dell’imposta che fino agli anni 80 contemplava ben 32 scaglioni con l’aliquota più alta che arrivava al 72 percento per i redditi sopra i 500 milioni delle vecchie lire e l’aliquota più bassa al 10 percento per i redditi sotto i 2 milioni delle vecchie lire, è rimasto quasi nulla.
Tutti gli interventi fiscali messi in campo dai vari governi che si sono succeduti hanno sempre avuto come minimo comune denominatore quello di alzare le aliquote fiscali dei redditi più bassi ed abbassare quelle dei redditi più alti, attuando, quindi, un vero e proprio stravolgimento del principio di progressività dell’imposta.
Risultato: gli scaglioni sono ora ridotti a 5 con l’aliquota più bassa salita dal 10 al 23 percento e quella più alta scesa dal 72 percento al 43 percento per i redditi oltre i 75.000 euro.
E poiché al peggio non c’è mai fine ci sono spinte all’interno della compagine governativa, oramai a completa trazione leghista, per ridurre ulteriormente la tassazione sulle imprese (si parla di un 20%) ed arrivare alla fine della legislatura (ammesso che vi arriveranno secondo gli attuali assetti) ad una aliquota unica Irpef del 15%.
La fonte di finanziamento deriverebbe anche da quel vero e proprio spettro che da troppo tempo aleggia sul nostro paese: l’aumento dell’IVA dal 10% al 13% e dal 22% al 26,5%.
Recuperare la natura fortemente progressiva della tassazione, introdurre una patrimoniale personale annuale sulle grandi ricchezze, abolire l’Iva sui beni di prima necessità lasciandola su quelli di lusso e non necessari, costituiscono tre interventi ormai non più rinviabili per riaffermare il tema dell’uguaglianza sostanziale e riallineare il sistema fiscale al dettato costituzionale.
In assenza di questo non vi potrà essere giustizia sociale al Nord così come al Sud.

martedì 19 febbraio 2019

Crisi in atto. I mercati finanziari chiedono più droga monetaria

In una economia globale, con forti vincoli continentali, è da stupidi “dare la colpa a qualcuno” dell’esplodere di una crisi. Per quanto le scelte soggettive – di singoli governi, soprattutto se di paesi molto potenti – possano favorire o contrastare i processi critici, alla base restano le contraddizioni strutturali di un modo di produzione fondato sul profitto. Dunque totalmente irrazionale sul piano sistemico, per quanto ogni attore agisca in modo presuntamente “razionale” perseguendo il proprio individuale successo. Anzi, più è “capitalisticamente razionale” come impresa o individuo, più accelera i processi che fanno esplodere la crisi.
Così, mentre tutti gli opinion maker davano per sostanzialmente superato lo choc sistemico del 2007-2008 – per quanto in modo molto diseguale (l’Italia, per esempio, non ha mai recuperato i livelli ante-crisi), ecco che la recessione è tornata a soffiare sui mercati globali. In Italia è anche “tecnicamente” ufficiale (due semestri con Pil negativo, seppure di poco), nel mondo è ormai alle viste.
I grandi attori (Usa, Cina e Unione Europea), quelli in grado di condizionare in parte il processo critico, stanno seguendo strade diverse. E già questo, come si sente dire, “preoccupa i mercati”. In dettaglio: i cinesi hanno varato un piano di stimoli finanziari e fiscali di dimensioni ciclopiche, puntando soprattutto su infrastrutture globali (Via della Seta e oltre); gli statunitensi puntano a ridiscutere in modo unilaterale tutti gli accordi commerciali, e intanto la banca centrale (Federal Reserve) ha stoppato il suo piano di progressivo rialzo dei tassi di interesse, che aggraverebbe la recessione alle porte); la Bce è immobile e sembra incerta sul da farsi (tra fine dell’espansione monetaria e del mandato dell’attuale presidente, Mario Draghi, e ritorno alla “normalità” prevista dai dogmi ordoliberisti).
In questa empasse, che non può durare a lungo, entra a piedi uniti Erik Nielsen, capo economista globale di Cib Research (Unicredit).
La richiesta è semplice: la Bce deve contrastare questa tendenza “naturale”, anche a costo di portare a zero i tassi ed essere espansiva senza limiti di tempo.
Non si parla ovviamente del significato profondo di una simile politica. Che è banale quanto sconvolgente le “certezze” liberiste: i mercati, da soli, non possono reggere, occorre una quantità infinita di droga monetaria perché restino nella situazione attuale.
Non si tratta insomma neanche di una “soluzione”, ma del semplice mantenimento dello statu quo. Ovvero della “stagnazione secolare” che data in pratica dall’inizio del millennio (esplosione della bolla della net economy, nel 2000).
In attesa di cosa? Non viene detto da Nielsen, ma è già stato spiegato da molti decision maker, in modo obliquo e mai esplicito: si attende che la competizione globale tra macro-aree continentali produca, per selezione naturale, il tracollo di una o più di queste economia, riaprendo dunque la dinamica della “ricostruzione” e assorbimento dentro un mercato diversamente configurato.
Più o meno quello che è avvenuto con la prima e la seconda guerra mondiale, e poi con il crollo del “socialismo reale”. Possibilemente senza guerra guerreggiata, perché altrimenti è un compito che passerebbe ai topi…
Il candidato più accreditato, al momento, sembra proprio l’economia Europea, gestita in modo criminale – negli ultimi 30 anni – dall’ordoliberismo inscritto nei Trattati Ue.

lunedì 18 febbraio 2019

La costruzione scientifica della fake news di governo.

Il potere, si sa, aspira sempre al monopolio dell’informazione, oltre che a quello della violenza e dell’economia.
E viene fortemente disturbato, specie in tempi di “competizione globale”, che approssima un clima di guerra, dall’esistenza di un’informazione alternativa. Che ovviamente può essere di buona o pessima qualità, può produrre falsità e informazioni invece controllatissime.
Al potere, però interessa il monopolio. E quando un establishment internazionale – quanto meno europeo, in questo caso – decide di avviare una campagna contro le fake news in realtà sta dicendo che c’è una sola fonte d’i informazione “legalizzata e riconosciuta”: la propria. Per salvaguardare le apparenze della democrazia esistono, come sappiamo, molte testate di informazione mainstream, teoricamente in concorrenza tra loro, ma “stranamente” sincronizzate come fossimo sempre a Capodanno, la sera del messaggio a reti unificate del presidente della Repubblica.
Facciamo un esempio concreto di queste ore, per uscire dalle formulazioni generiche.
In occasione dell’Atto XIV del movimento dei gilet gialli è accaduto che Alain Finkielkraut, di professione filosofo, molto conosciuto in Francia per le sue posizioni fortemente sioniste e anti-palestinesi, sia stato preso a male parole da un folto gruppo di manifestanti.
Il governo francese, nella persona del ministro Benjamin Griveaux (quello che aveva insultato ripetutamente i gilet gialli, sfidandoli a “venirlo a cercare” – e guadagnandosi una ruspa che ha sfondato il portone del suo ministero), ha deciso che Finkielkraut era stato apostrofato come “sporco ebreo”. Insulto chiaramente antisemita, dunque utile a definire l’intero movimento come “fascista”.
La stampa mainstream italiana – a partire dall’ineffabile Corriere della Sera – ha accolto senza fiatare questo format, arrivando addirittura a sottotitolare in modo falso le frasi di un manifestante, traducendo “sionista” con “ebreo”. Come se uno traducesse “colonialista fascista” con “cristiano”.
Lo diciamo per i non addetti ai lavori, scusandoci per lo schematismo: l’ebraismo, come il cristianesimo, è una religione. Che singoli o gruppi di fedeli di quella religione facciano cose riprovevoli e/o disumane non implica affatto che sia quella religione la “causa” di quegli atti (per quanto magari così giustificati da chi li compie). Dunque un ebreo può essere “colonialista fascista” tanto quanto un cristiano o un musulmano o un buddista. Se questa visione colonialista fascista si esercita intorno al “diritto” dello Stato di Israele di annettersi tutti i territori che rivendica, deportando o imprigionando le popolazioni che li abitano, secondo una personalissima visione della Storia, allora si usa definire questo atteggiamento come “sionista”.
Che è ovviamente un insulto politico, mentre “sporco ebreo” è un insulto razzista, di derivazione assolutamente fascista (i fascismi possono confliggere tra loro, visto che si fondano su un “prima noi” decisamente poco pacifista).
Mettere un insulto razzista al posto di uno politico è operazione sporca, infame, propagandistica. Di costruzione del nemico e di demonizzazione di quel nemico. Operazione, tra l’altro, molto pericolosa perché espone al rischio tutti gli ebrei del mondo, come se fossero corresponsabili delle attuali politiche dei governi israeliani.

L’operazione del governo francese, accettata supinamente dalla stampa cosiddetta “democratica” italiota, è così grave che un rispettato giornale francese come Libération si è sentito in dovere di decostruire la fake news governativa e ristabilire la verità.

venerdì 15 febbraio 2019

Disuguaglianze, territori, capitale. Le metropoli nella competizione globale

Il lavoro d’inchiesta della Rete dei Comunisti sulle trasformazioni metropolitane iniziato con il volume su “La metropoli come merce”, ha aggiunto un nuovo capitolo con la pubblicazione de “Le metropoli nella competizione globale”. Un lavoro collettivo e a più voci che prova ad affondare l’analisi nelle molteplici relazioni tra la condizione delle aree territoriali e metropolitane e la cosiddetta globalizzazione. Un processo che alla nostra latitudine ha assunto la fisionomia del processo di costruzione di un’area strettamente integrata come Unione Europea, misurandosi con la funzione strategica assunta dal territorio nei processi di competizione/valorizzazione capitalistica.
Questo lavoro tenta di “ricostruire” i riferimenti della relazione centro-periferia nelle dinamiche delle filiere del valore a livello continentale e nazionale (vedi la “magnetizzazione” di risorse verso Milano a discapito della Capitale o il processo avviato con l’autonomia regionale differenziata), in un contesto in cui il territorio, inteso come insieme socio-produttivo, da terminale dei flussi di capitale a prevalente composizione transnazionale, interagisce non solo con la costruzione politica delle condizioni di ricettività, ma con una proiezione nelle dinamiche competitive, e diventa così parte attiva del circuito competitivo, che su scala globale assume sempre più evidentemente i caratteri dello scontro inter-imperialista.
Nel volume, oltre ai contributi collettivi della Rete dei Comunisti, ci sono diversi interventi di attivisti e ricercatori (Guido Lutrario, Nicolò Monti, Davide Bonfanti, Mario Battisti, Rosario Marra, Sergio Cararo).
Un lavoro tutt’altro che teorico che pure tenta di sottolineare un passaggio fondamentale nel sistema di relazioni dominanti: dalla formalità giuridico-amministrativa della gabbia dei trattati e dell’acquisizione nel nostro ordinamento, vedi modifica della fonte primaria attraverso l’art. 81 della Costituzione, al dominio reale del modello dell’accumulazione flessibile e sovranazionale, sviluppatosi in circa un trentennio, che ha non solo modificato i connotati della struttura economica-produttiva del paese, ma la composizione del blocco sociale subalterno e le caratteristiche del conflitto sociale e di classe, soprattutto nelle metropoli.

Già da questo veloce excursus dei temi contenuti nella “Le metropoli nella competizione globale”, si evidenzia la complessità della materia trattata, che non è dovuta ad una scelta espositiva, ma, costituisce il “portato” della strutturazione assunta dal dominio di classe, dalla sua dominante dimensione finanziaria e dalla riconfigurazione inedita della relazione capitale-lavoro che si riverbera nella dialettica tra il piano generale, il modello di accumulazione, e il piano particolare, le condizioni dell’accumulazione.
Ecco, dunque, in sintesi, lo schema generale dell’indagine, articolato in una doppia griglia di relazioni dialettiche: la relazione centro-periferia, il contesto geo-economico, politico della competizione inter-imperialistica; la relazione generale-particolare, modo di produzione capitalistico e specifico modello di accumulazione.
Portare al centro dell’attenzione la dimensione territoriale e metropolitana costituisce non una limitazione del campo d’indagine ma un necessario completamento della visuale sugli scenari della globalizzazione. Per inciso, ciò si conferma anche in un frangente come quello presente in cui la competizione inter-imperialista si ammanta di protezionismo.
Allora, il nostro punto di partenza, cogliere le ragioni strutturali del degrado della condizione urbana di Roma e del suo declino socio-economico, confrontandolo con l’ascesa della realtà metropolitana milanese, si è rivelato un solido punto di leva, l’ubi consistam, non solo per la messa a fuoco delle trasformazioni dei territori metropolitani in questione, ma per ricostruire il sistema complessivo di relazioni, su cui volutamente insistiamo, che attraversa ciò che veniva rappresentato come il sistema-paese. La partecipazione del territorio, inteso come risorse materiali tangibili – patrimonio, suolo, servizi- ma anche immateriali, sostrato storico-culturale culturale, alla relazione con i nuovi centri economico-finanziari, si offre come chiave interpretativa a partire dalla loro specifica “metabolizzazione” nei rapporti sociali e di produzione.
Insomma, quello che è venuto emergendo è un fondamentale punto di osservazione dei processi di valorizzazione del capitale che nelle aree territoriali e metropolitane ridefinisce le proprie modalità, con un chiaro ruolo di alimentatore della dinamica competitiva sull’intera scala dei rapporti, tanto locali che globali, configurandosi non come un elemento di integrazione dell’analisi ma un imprescindibile riferimento per la comprensione dell’intero movimento .
Rappresentare la vastità e profondità degli esiti di questo passaggio di fase storica nella trasformazione degli assetti economico produttivi è aspetto imprescindibile del lavoro di indagine conoscitivo, al pari della traduzione sul piano politico dei nuovi scenari del conflitto sociale e di classe. La fisonomia assunta dal nostro blocco sociale in relazione alle trasformazioni economico produttivi è cruciale per individuare le caratteristiche degli organismi della rappresentanza sociale e politica; così come è fondamentale la ricostruzione delle relazioni del territorio con le “fonti” del capitale d’investimento per delineare le trasformazioni nel campo della “nostra” borghesia ed il profilo assunto nella integrazione con i flussi di capitale multi-transnazionale.
Un lavoro che, come già detto, non si esaurisce nell’analisi, ma che si mette concretamente in campo per fornire strumenti interpretativi di fatti: da quelli originari contenuti nel parallelo Roma-Milano, all’attuale proposta di estensione delle prerogative regionali di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, passando per TAV, e molto altro di quanto la quotidianità viene proponendoci.
Naturalmente la valutazione del lavoro, prescinde dagli intendimenti, ed è prerogativa di quanti vorranno leggerlo e giudicarne la validità dell’impianto d’analisi e degli argomenti.
L’elaborazione de “Le metropoli nella competizione globale” si muove consapevolmente in una complessità tematica e con una diversità di approcci, con l’intento, sulla scorta di un patrimonio di elaborazione teorica e politica, di porre questioni, proponendo non solo una visione della realtà metropolitana ma campi d’indagine, rispetto ai quali è urgente una sistematizzazione della discussione: le aree territoriali e metropolitane, per i comunisti, non sono il campo dell’indagine sociologica, ma un terreno di organizzazione sociale e politica, in cui elaborazione teorica e proposta politica vanno declinate e verificate.
Le metropoli nella competizione globale”, si propone come un lavoro aperto e militante, una chiamata al confronto politico, alla traduzione delle trasformazioni economiche e sociali nelle modalità dell’intervento sociale e di classe, per comporre il profilo della soggettività politica, per rilanciare la sfida della rottura rivoluzionaria e della trasformazione sociale del XXI secolo.

giovedì 14 febbraio 2019

C’è democrazia nella democratica UE? Il caso lituano

C’è una democrazia, tra i paesi dell’Unione Europea, di cui sovente si tende a dimenticarsi. Se ne scordano soprattutto tutti quegli europeisti d’Europa che non perdono occasione di implorare i “diritti umani” in giro per il mondo: in casa nostra, s’intende, giocano a fare i primi della classe i liberal-democristiani del PD; per le correnti più a destra di loro, per i nero-bruni della reazione italica, la questione rientra addirittura nelle prescrizioni statutarie.
Non dubitiamo che, anche nel caso in questione, le prefiche della democrazia intermittente abbiano giudicato inadeguati i compensi per la loro opera e, perciò, se ne rimangano tranquille e silenziose, sedute al focolare “democratico”.
C’è dunque una “democrazia europea” in cui, da una parte, lo scorso gennaio, in una speciale seduta del Sejm, la Presidente Dalja Gribauskajte ha attribuito onorificenze di stato (Premio alla Libertà) agli ex “fratelli dei boschi”, formazioni armate nazionaliste e filo-naziste attive nei Paesi baltici fino al 1953; e in cui, di contro, da mesi, è in galera l’attivista di sinistra lituano Algirdas Paleckis, nipote (questo, tra parentesi) dell’ex Presidente del Soviet supremo lituano Justas Paleckis, accusato, come tanti altri esponenti della sinistra lituana, di “spionaggio” a favore della Russia.
La denuncia della detenzione di Paleckis, del resto non nuova, è venuta negli ultimi giorni anche da parte del piccolo OKP (Partito Comunista Unificato) russo, che ricorda come in Lituania stia sempre più inasprendosi la campagna di persecuzione penale contro attivisti ed esponenti politici sgraditi al potere. A quattro mesi dalle elezioni presidenziali, le autorità di Vilnius stanno moltiplicando gli arresti (si parla di oltre 20 persone, cittadini lituani e russi) in relazione al processo alle “spie russe”, mentre gonfia parallelamente l’isteria antisovietica. In galera dalla fine di ottobre, appunto anche l’esponente del OKP ed ex leader del Fronte Popolare Socialista di Lituania, Algirdas Paleckis, insieme ai cittadini russi Jurij Mel e Valerij Ivanov. Stessa sorte per l’ex agente della polizia di Riga Konstantin Nikulin e per il figlio dell’ex Primo ministro lituano Vajdotas Prunskus; illegalmente privato del mandato e finito sotto processo, il consigliere comunale di Klajpeda, Vjačeslav Titov.
Anche se accentuatasi negli ultimi tempi, la campagna terroristica contro i comunisti e la sinistra in generale, nei Paesi baltici, non è certo una novità: va avanti da almeno trent’anni (e le avvisaglie si erano manifestate già in epoca sovietica) ma non ci sembra di aver udito, in tutto questo tempo, “urli e grida” disperate dei cappellani della democrazia, che oggi dispensano acquasanta, ad esempio, per i diritti umani della “opposizione democratica” in Venezuela, omeliando, secondo il verbo apostolico di Graziano Delrio di essere dalla parte dei diritti e della democrazia … determinati in questa battaglia.
Nel caso specifico di Algirdas Paleckis – ex funzionario del Ministero degli esteri, ex segretario della missione diplomatica lituana a Strasburgo, ex deputato, ex vice-sindaco di Vilnius – non si tratta né del primo processo, né della prima carcerazione. Nel 2011, aveva suscitato rumore il procedimento a suo carico per quella frase “i nostri hanno sparato sui nostri”, a proposito dei morti del gennaio 1991 alla torre della televisione di Vilnius, uno dei primi e più drammatici scontri cruenti tra URSS e “indipendentisti” baltici del “Sajudis”.
Ma, forse ancor più indicativo del clima lituano, il procedimento contro Vjačeslav Titov, accusato di “insulto alla memoria” di uno degli esponenti dei “fratelli dei boschi”, Adolfas “Vanagas” Ramanauskas e di “incitamento alla negazione dei crimini dell’URSS”. Questo, nonostante egli non abbia fatto altro che ripetere testimonianze di pubblico dominio e cioè che tra il 1944 e il ’53 i “fratelli dei boschi” massacrarono civili lituani, in un numero che a suo tempo la presidente Gribauskajte, quando era ancora membro in vista del PCUS, aveva quantificato in oltre 13.000, ma che, secondo stime recenti, supererebbero le 25.000 nella sola Lituania, tra civili, funzionari di partito, militari dell’Armata Rossa, oltre a circa 900 persone in Estonia e più di 2.000 in Lettonia. D’altronde, Titov si era basato sulla sentenza del 1957, che aveva condannato a morte Ramanauskas; ma le autorità lituane si attengono ora al “principio” secondo cui “il caso di Ramanauskas era stato falsato e non ci si può basare sugli argomenti dei suoi carnefici sovietici”. Baltnews.lt scrive che Vjačeslav Titov è sempre stato tra le persone “scomode” e già nel 2015 era stato tartassato, allorché aveva definito la Lituania uno stato fascista.
Ora, l’approssimarsi delle elezioni spinge il potere lituano a “consolidare la democrazia” a senso unico. Del resto, tra saluti nazisti in pubblico e istituzionalizzazioni delle sfilate di veterani delle Waffen SS in tutti e tre i Paesi baltici, la Lituania è quel fiero esponente NATO in cui l’esperienza dei “fratelli dei boschi” è presa a modello per l’allestimento di “corpi partigiani” da mobilitare contro “l’aggressione russa”. E’ quel paese democratico in cui il funzionamento delle prigioni segrete della CIA è stato denunciato dalla Corte europea per i diritti dell’uomo e dalle Nazioni Unite. E’ quel paese atlantico-europeista in cui dal 1992 è vietata l’attività del Partito Comunista, dichiarato “organizzazione criminale, che ha favorito l’URSS nell’occupazione della Lituania”.
Ma, trattandosi di un paese europeo e NATO, i liberal-democristiani e i nero-bruni nostrani tacciono benevolmente, ansiosi, chi più, chi meno loquacemente, di adottare sul suolo italico gli stessi provvedimenti contro i comunisti.

mercoledì 13 febbraio 2019

L’Iran a quarant’anni dalla Rivoluzione Khomeinista: taqiyya e politica del meno peggio

Nella tradizione islamica taqiyya significa “paura, stare in guardia, circospezione, ambiguità o dissimulazione” e ha indicato storicamente la possibilità per gli sciiti di rinnegare esteriormente la fede per sfuggire alla persecuzione sunnita e salvare sia la fede sia la propria integrità fisica. E da qui che è partito nel 2009 il mio viaggio in Iran, un paese sospeso tra passato e presente, crocevia di culture e luogo d’origine di imperi millenari, e ancora oggi ritenuto un paese poco sicuro e troppo integralista. Ma quando la taqiyya si dissolve, riemerge il vissuto profondo, il ricchissimo patrimonio artistico, culturale, umano ed etnografico di un paese unico al mondo, che l’Occidente non può continuare ad ignorare, mostrando i pregiudizi e le false prospettive dell’oggi. Il libro che nacque dal mio viaggio (e fu il primo di una lunga serie) fu un reportage sulla Persia che guidava il lettore in un mondo affascinante, dove cultura, arte, architettura e archeologia rappresentano una miscela stimolante.
Dopo 40 anni dalla Rivoluzione Khomeinista, oggi (11 febbraio 2019) si sono tenute a Teheran imponenti celebrazioni. Presso la torre Azadi (Libertà) che svetta sulla più grande piazza di Teheran, si sono radunate migliaia di persone per l’ultima delle celebrazioni ufficiali per il quarantesimo anniversario della Rivoluzione Islamica. Ironia della sorte, la torre era stata progettata nel 1971 per le sontuose celebrazioni dei 2500 anni dell’impero persiano volute dall’ultimo Shah Mohammad Reza Pahlavi, ma è diventata l’icona di una Rivoluzione che ha strappato l’Iran al controllo delle potenze post-coloniali. “La presenza del popolo in questa celebrazione prova che i complotti dei nostri nemici sono stati sventati. Non permetteremo agli Stati Uniti di vincere questa guerra”. Lo ha detto oggi il presidente iraniano Hassan Rohani, parlando alla folla nella citata piazza Azadi (Libertà) di Teheran.
L’attuale Consigliere per la sicurezza nazionale Usa John Bolton aveva annunciato nel 2017 che la Repubblica Islamica non sarebbe arrivata a festeggiare il suo 40esimo anniversario. I media ufficiali iraniani lo ricordano in questi giorni con soddisfazione, nonostante lo stesso Bolton sia ora fra i falchi più agguerriti dell’amministrazione Trump e l’autorevole sostenitore della politica di “massima pressione” esercitata dalla Casa Bianca sull’Iran. Le nuove sanzioni Usa riesumate da Washington dopo l’uscita unilaterale dall’accordo sul nucleare del giugno 2015, ma concepite in modo da colpire anche le imprese europee che vogliano continuare a cogliere le opportunità offerte dalle risorse petrolifere e dal mercato iraniano, non sono certo una novità per i cittadini della Repubblica Islamica, abituati a conviverci appunto da 40 anni.
Ma la tenuta della Repubblica islamica, a 40 anni dalla sua fondazione e nonostante le sanzioni USA, non si può spiegare soltanto con l’apparato repressivo dello stato, e in particolare di quei poteri più legati alla Guida Suprema e alle forze ultraconservatrici – dai servizi di intelligence delle Guardie della rivoluzione (i Pasdaran) alla magistratura e ai giudici delle Corti rivoluzionarie. I Pasdaran, inizialmente concepiti da Khomeini solo come una forza militare a difesa della rivoluzione, si sono negli ultimi decenni innervati anche nel sistema economico iraniano, creando insieme alle potenti fondazioni religiose (bonjad) una oligarchia capace di controllare quasi tutto, dai grandi appalti alla distribuzione dei posti di lavoro. È contro questo nuovo potere oligarchico e contro una diffusa e dilagante corruzione che la società civile iraniana ha protestato in questi ultimi mesi, riformulando in altri modi quella stessa richiesta di giustizia sociale che i diseredati e degli oppressi (mostazafin) era stata propria dei primi rivoluzionari iraniani.
Le sanzioni non stanno inoltre colpendo l’oligarchia al potere, bensì una classe media sempre più impoverita e delusa. È vero: la rivoluzione di Khomeini non ha raggiunto i suoi obiettivi di equità e giustizia sociale, e al vecchio apparato legato allo Shah si è sostituito un nuovo sistema oligarchico ormai profondamente radicato. Ma quale cambiamento vogliono gli iraniani? Non si è ancora assistito alla nascita di una nuova leadership di opposizione, capace magari di capitalizzare il malcontento e le proteste di natura economica di questo ultimo anno: una leadership alternativa a quella dell’Onda verde del 2009, decapitata dalla repressione, e alle forze riformiste rimaste che hanno scelto il patto con i conservatori moderati di Rouhani. E soprattutto è ancora tutto da verificare se effettivamente la società iraniana voglia effettivamente quel cambiamento laico e liberale che vorrebbero USA e Occidente.
Con tutta probabilità la resilienza, il trasformismo e il pragmatismo del clero sciita e degli iraniani saranno capaci di prevenire ancora per anni un movimento radicale simile alla rivoluzione del 1979. Le forze militari dell’Iran ascoltano sempre i loro leader politici e l’Iran ha un controllo di intelligence su tutto il Medio Oriente che manca perfino agli Usa. Un attacco militare esterno farebbe altri disastri, e finirebbero col rinserrare e rafforzare ancora di più il regime khomeinista. È la storia della guerra Iran-Iraq a dircelo: senza l’attacco di Saddam Hussein l’attuale regime non avrebbe probabilmente avuto la meglio sulle istanze laiche e democratiche che erano emerse dopo la caduta di Reza Pahlavi.
Davanti alle reiterate reazioni americane, la UE ha lanciato ora l’Instex, il canale finanziario finalmente ideato per permettere le legittime interazioni economiche con l’Iran, e garantire appunto a Teheran i benefici del Jcpoa. Il governo di Rohani farà probabilmente nei prossimi giorni la voce grossa anche con gli europei, percepiti come troppo succubi delle politiche di Trump. Alla fine la strategia USA della “massima pressione” potrebbe addirittura contribuire a puntellare indirettamente il regime, con l’effetto di impedire quel progressivo movimento di riforma interna e non traumatica della Repubblica islamica che la maggioranza dei suoi cittadini vorrebbe, e che forse il pieno rispetto del Jcpoa avrebbe potuto favorire.
L’Iran è oggi un paese popolato da giovani nati dopo la Rivoluzione Khomeinista e che non hanno vissuto la devastante guerra con l’Iraq. Migliaia di loro coetanei morirono entrando nei campi minati inneggiando ad Allah: durante le mie visite al cimitero dei martiri di Teheran ricordo le madri che pulivano le tombe dei loro figli adolescenti con l’acqua di rose, le loro grida strazianti, il loro dolore inconsolabile. Questi giovani iraniani sono diversi dai loro padri, e forse sono troppo viziati dalle loro famiglie che hanno vissuto una Rivoluzione e hanno contato i morti della guerra Iran-Iraq. Questi giovani non sono probabilmente pronti né per un’altra guerra né per un’altra fuga verso l’ignoto. Non vogliono che in Iran accada quello che sta accadendo in Siria, in Yemen, in Afghanistan. Preferiscono convivere dignitosamente accettando compromissioni alla libertà politica e di espressione, e fanno ogni giorno esercizio di taqiyya. Non sono giovani che scenderanno in strada nelle manifestazioni contro il regime, e quando è sera tornano quasi sempre a casa, dove le madri hanno preparato la cena. Del resto, quando non si può avere il meglio si può sempre scegliere il meno peggio.
Sotto questo punto di vista, la situazione dell’Iran appare molto simile a quella dell’Algeria. Ancor più che economico, il problema dell’Algeria è soprattutto politico e sociale. Il paese è ancora amministrato dalla famiglia del presidente Abdelaziz Bouteflika e da un entourage ristretto e clientelare. La disillusione degli algerini riguardo alla possibilità di un cambiamento radicale ai vertici del regime resta diffusa, così come la speranza che possa realizzarsi un’effettiva apertura democratica. La possibilità di una rivolta aperta degli algerini nei confronti del regime attuale resta comunque bassa. Indipendentemente dalla pervasività dei controlli dei militari e dell’intelligence, gli algerini sono infatti ancora negativamente condizionati dal Decennio nero e dai traumi psico-sociali degli eccidi, dagli orrendi crimini contro l’umanità subiti e dal fatto che molti dei criminali hanno goduto in seguito dell’impunità e dell’amnistia. È stata ristabilita la pace interna ma non la verità di quegli anni terribili.

martedì 12 febbraio 2019

La Spagna entra nel “G3” con Francia e Germania, Italia isolata

Mentre l’esecutivo italiota è impegnatissimo a ricalibrare gli equilibri interni dopo il voto in Abruzzo, discettando sulle regole di Sanremo e sognando l’oro della Banca d’Italia, in Europa si vanno costruendo allenze che preparano l’Unione Europea 2.0.
La Spagna ha risposto immediatamente “sì” all’offerta franco-tedesca di associarsi – tra qualche tempo – al Trattato di Aquisgrana. Germania e Francia hanno avviato un accordo di cooperazione con la Spagna al fine di sbloccare le questioni chiave che stanno pesando sui progressi dell’Unione europea oggi. I rappresentanti di questi tre paesi hanno delineato la scorsa settimana un elenco di sei punti (tra cui le migrazioni, il bilancio europeo e l’elezione a cariche comunitarie) che guiderà il dialogo di questo tipo di G3.
Il ritiro britannico dal consiglio comune e l’ostilità mostrata dall’Italia stanno ridefinendo gli equilibri di potere nella famiglia europea. La differenza è che ora Parigi e Berlino accettano un’associazione più stretta che in passato con il paese iberico.
Un incontro tenutosi mercoledì scorso presso l’ambasciata tedesca a Madrid ha cominciato a dare concretezza al progetto.
In quell’incontro, la coppia franco-tedesca si è offerta di unire la Spagna al trattato di Aquisgrana che Merkel e Macron hanno firmato alla fine di gennaio. Questo documento, destinato a costruire un’Europa “a due velocità” e ad integrare i sistemi militari (la Francia ha una dotazione nucleare, tutti gli altri paesi no), sarà in futuro aperto ad altri Stati. Il primo a ricevere l’offerta è stata la Spagna.
L’iniziativa sarebbe partita dal ministro degli esteri tedesco, il “socialdemocratico” Heiko Maas, che ha chiesto “l’incorporazione in Spagna del gruppo dei grandi motori dell’Unione europea, ora più che mai necessario per costruire l’Europa politica”.
Il mnistro spagnolo per i rapporti con l’UE, Marco Aguiriano, e i due ambasciatori francese e tedesco, hanno identificato per ora sei aree di cooperazione in settori in cui l’Europa nonriesce a trovare un consenso comunitario pieno.
Il primo riguarda le politiche dell’immigrazione. Parigi, Berlino e Madrid convengono di cooperare con i paesi di transito dei migranti per mitigare i flussi verso l’Europa, a partire dal Marocco, oltre alla Libia. Gli interessi della Spagna sono comunque abbastanza differenti da quelli dei due nuovi partner e il primo abbozzo di accordo sul tema sembra contenere molti limiti.
Il secondo punto riguarda il bilancio comunitario, che ora deve fare i conti con la Brexit e dunque il venir meno del contributo di Londra, che lascia un buco di 10 miliardi l’anno. A pesare, su questo tema, ci sono anche le intenzioni tedesche sul modo di “riformare” l’unione monetaria, su cui la Germania non mostra affatto la “flessibilità” richiesta sia dalla Francia che dal “fronte meridionale”. Per evitare che questi sforzi cadano nel vuoto, i governi si sono impegnati a tenere riunioni regolari dei segretari di stato dell’UE dei tre paesi prima di ogni summit europeo. Come si vede, si tratta già di una “Ue nella Ue”, mirante a precostituire i risultati del “confronto” a 27.
In Spagna, almeno, non ci si nasconde che la formula del “G3” solleva grosse domande. Resta tutto da vedere se i tre paesi riesciranno, all’atto pratico e soto la spinta di “emergenze” puntuali, a mantenere una voce unica su questioni “divisive” come le migrazioni.
C’è inoltre incertezza su quanto gli altri paesi europei daranno il loro consenso ad eventuali decisioni prese in comune tra Madrid, Parigi e Berlino. Dopo la fase del grande allargamento della Ue, nel 2004, e più recentemente dopo la Brexit, si è moltiplicata la presenza di “sottogruppi”. La cosiddetta “nuova Lega Anseatica” (guidata dall’Olanda e che riunisce i Paesi Baltici e nordici) preme con forza per avere una Ue più focalizzata sul mercato unico e meno sulla “coesione sociale”. Cosa che mette in difficoltà paesi, come Francia e Germania, alle prese con il malessere sociale che si manifesta ormai in molti modi (dalle proteste di piazza al voto elettorale antigovernativo) e destabilizza i rispettivi establishment.
Più visibile, anche se meno organizzato, il gruppo di Visegrad, che com’è noto si oppone duramente a ogni condivisione sull’accoglienza dei migranti.
Tutti problemi che vedono l’esecutivo gialloverde completamente out dalla riorganizzazione interna alla Ue, penalizzato – oltre che dalla propria incompetenza – da sortite fascistoidi tipo quella di Tajani. Il “presidente del parlamento europeo”, infatti, infervorato dal clima revanscista intorno alla giornata delle foibe, se n’è uscito con un frasario tipico della sua gioventù (era l’unico “giovane monarchico” di Roma, in pieno ‘68!): “Viva Trieste, viva l’Istria italiana, viva la Dalmazia italiana, viva gli esuli italiani, viva gli eredi degli esuli italiani”.
Suscitando ovviamente l’incazzatura di Slovenia e Croazia nei confronti di un paese incapace persino di esprimere un presidente comunitario almeno fintamente “super partes”…