giovedì 31 gennaio 2019

In Italia il lavoro (quando c’è) uccide

L’Inail ha diffuso questa mattina numeri da paura. In Italia i morti di lavoro nel 2018 sono stati 1.133, con un aumento del 10,1% rispetto al 2017. Fanno più di tre cadaveri lasciati ogni giorno sulla strada dello sfruttamento, del precariato, della mancanza di tutele, in sintesi della liberalizzazione selvaggia portata a compimento con il Jobs Act
Dei 1.133 incidenti mortali, 786 (+5,4%) si sono verificati sui posti di lavoro, 258 (+22,6%) in itinere. Gli incidenti “plurimi”, ovvero con due o più morti, sono stati 24, in aumento rispetto ai 15 del 2017.
Non solo aumentano gli omicidi sul lavoro, ma anche gli infortuni. Le denunce all’Inail sono state 641.261 (+0,9%), con una netta crescita degli infortuni in itinere (+2,8%). L’incremento maggiore è al Nord-Est (+2,2%), mentre i lavoratori con l’aumento percentuale maggiore di infortuni sono gli extracomunitari (+9,3%; comunitari +1,2%, italiani -0,2%). L’aumento delle denunce riguarda prevalentemente la componente maschile (+1,4%) e la fascia d’età fino a 34 anni (+4,0%).
Le denunce di patologie professionali sono state 59.585 (+2,5%). Il 90% è rappresentato da: patologie del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo (36.637 casi); patologie del sistema nervoso (6.681, con una prevalenza della sindrome del tunnel carpale) e dell’orecchio (4.574); patologie del sistema respiratorio (2.613) e dai tumori (2.461). 
Un bollettino di guerra, per usare una formula stantia, diramato nella più completa indifferenza del governo, degli organi di controllo, del padronato. Ce ne sarebbe invece in avanzo per proclamare l’emergenza nazionale. Così non è: il lavoro, quando c’è, è precario e mortale. Come piace ai cosiddetti imprenditori.
L’Unione Sindacale di Base continuerà a mobilitarsi in ogni sede perché la strage venga interrotta e ai lavoratori vengano garantiti sicurezza e diritti.

mercoledì 30 gennaio 2019

Il volto nascosto dello sfruttamento

Viviamo il tempo di una società che ha smesso d'indignarsi di fronte alle copiose notizie riportate dagli organi d'informazione, mentre riferiscono quale sia il volto invisibile dei lavoratori agricoli sfruttati, sottopagati e assoggettati a inenarrabili soprusi di caporali e di tanti datori di lavoro fuori dalle regole. L’ennesimo blitz dell’Ispettorato del lavoro e dei reparti speciali dei carabinieri di qualche giorno fa nelle campagne del Brindisino, dove sono stati individuati 28 braccianti stranieri al lavoro, sottopagati e, sei di essi, senza copertura assicurativa, quindi, in assenza di contratto, non solleva più le coscienze. È solo l’ultimo episodio di una lunga cronaca, tra i tanti già archiviati. Dalla Daunia al Salento, sono continui e costanti gli interventi degli organi ispettivi impegnati a combattere una guerra, spesso impari, a causa della scarsità di uomini e mezzi. Ma l’idea che la dignità del lavoro nel nostro Paese possa essere calpestata e i diritti derubricati a un elemento trascurabile, ci porta a dover certificare come sia possibile lavorare senza essere retribuiti.
Lo sfruttamento lavorativo in agricoltura e il caporalato sono pratiche particolarmente combattute dalla Flai, la categoria della Cgil che si occupa di rappresentare i lavoratori dell’agroalimentare, da anni impegnata con il sindacato di strada per fare emergere quanto pervaso e inquinato sia il sistema produttivo agricolo pugliese che, tuttavia, conferma notevoli capacità nelle produzioni di qualità e ad elevato valore commerciale, anche oltre i confini nazionali, ma che il tutto non si traduce in ricchezza per gli addetti. Purtroppo, la spregevole situazione di sfruttamento dei braccianti stranieri è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno apparentemente inarrestabile. Ne sanno qualcosa i lavoratori agricoli locali, come pure le migliaia di donne braccianti pugliesi trasportate dai pullman dei 'caporali dal colletto bianco' che, da una provincia all’altra della regione, percorrono in lungo e largo centinaia di chilometri, spesso 'sconfinando' verso i campi del Metapontino o della Basilicata o del Molise.
Le ragioni per cui emergono quasi esclusivamente situazioni di sfruttamento di lavoratori stranieri sono ascrivibili semplicemente a una maggiore propensione alla denuncia del proprio stato di coercizione, non dissimile da quella dei braccianti locali. È importante che le azioni mirate a contrastare il lavoro illegale e sfruttato realizzino le attività di polizia previste, ma si tratta pur sempre di una soluzione parziale al problema. La legge 199/2016, la norma conosciuta come 'legge anti-caporalato', chiede ai soggetti del settore, quindi anche alle organizzazioni professionali, di costruire buone pratiche per garantire l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro, con modalità trasparenti e tracciabili presso un luogo istituzionale quale può essere l’Inps. Insomma, sono disponibili gli strumenti per consegnare il salto di qualità al settore in ogni provincia della Puglia: la normativa ha consegnato ai soggetti istituzionali e alle parti sociali il compito di costruire i nodi territoriali della Rete del lavoro agricolo di qualità, la sola in grado di attivare sistemi organizzati come il collocamento pubblico basato su liste di prenotazione, il trasporto e gli alloggi per i lavoratori stranieri. La volontà di applicare le regole, purtroppo, non è scritta nelle norme, ma dev'essere pretesa quando quelle regole devono condurre al vivere civile di un Paese. A nessun soggetto è data la facoltà di sottrarsi.

martedì 29 gennaio 2019

Corte europea dei diritti umani: «L'Italia non ha protetto i cittadini dall'inquinamento dell'Ilva»

La Corte europea ha censurato i decreti Salva-Ilva che avevano garantito  l’immunità penale (e la garantiscono tuttora ad ArcelorMittal, non essendo stati abrogati dall’esecutivo) e ha affermato che le misure per assicurare la protezione della salute e dell’ambiente devono essere messe in atto il più rapidamente possibile. Per i 7 giudici europei, che hanno deciso all’unanimità, le autorità italiane hanno violato gli articoli 8  e 13 della Convenzione europea sui diritti umani.
La sentenza sottolinea che la popolazione «resta, anche oggi, senza informazioni sulle operazioni di bonifica del territorio» e che i cittadini non hanno avuto modo di ricorrere davanti a un giudice italiano contro l’impossibilità di ottenere misure anti-inquinamento, violando quindi il loro diritto a un ricorso effettivo. I giudici hanno europeo hanno però rigettato la richiesta di fermare l’attività del complesso siderurgico.
Ora l'esecutivo potrà scegliere se presentare ricorso alla Grande Camera o conformarsi a quando richiesto dai giudici, ovvero cancellare l’immunità penale e rivedere i tempi di allineamento all'Autorizzazione integrata ambientale.

La soddisfazione di Peacelink

PeaceLink ha espresso immensa soddisfazione per la vittoria storica in sede internazionale, come spiegano Fulvia Gravame, presidente di Peaclink Taranto, e Alessandro Marescotti, presidente nazionale dell'associazione che da anni combatte sulla vicenda dell'Ilva.
«Per la prima volta un autorevole tribunale internazionale riconosce la responsabilità delle istituzioni italiane nella mancata tutela dei diritti umani - dicono - La pronunica della Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) con sede a Starburgo è un passo fondamentale anche per rimuovere le condotte politico-istituzionali lesive dei diritti dei cittadini, condotte che hanno consentito il perpetuarsi di un evidente inquinamento che ha violato i fondamentali diritti umani, primo fra tutti il diritto alla vita. In tal senso le leggi Salva-Ilva sono state il prodotto eclatante di queste condotte lesive dei diritti fondamentali dei cittadini».
«Secondo i giudici di Strasburgo l’Italia è colpevole della “persistenza di una situazione di inquinamento ambientale”, che mette a rischio la salute di quanti vivono nell’area circostante l’impianto industriale - aggiungono Gravame e Marescotti - Per la CEDU le istituzioni “non hanno adottato tutte le misure necessarie per garantire una protezione efficace” della popolazione. Secondo la stessa Corte, esposti e denunce presso le autorità nazionali non hanno avuto esito efficace e in questo senso va considerato che ben 42 esposti alla Procura attualmente giacciono nei cassetti per via dell'immunità penale concessa ai commissari e ai gestori. Pertanto la sentenza della Corte di Strasburgo di oggi è il punto di partenza per anche chiedere la cancellazione dell'immunità penale. Attendiamo il ricorso alla Corte Costituzionale da parte dei magistrati competenti».

lunedì 28 gennaio 2019

Ricchezza e povertà: le disuguaglianze si riducono rifiutando il consumismo

I dati sono stati diffusi ufficialmente.  Sono dati incredibili, inaccettabili e la forbice continua ad allargarsi invece di diminuire, il che è anche logico: più sei ricco e più avrai la possibilità di diventare ancora più ricco, comprandoti governi e mass media, diversificando i settori di investimento e avendo sempre più influenza e potere.
Questo dimostra ancora una volta che la ricchezza in mano, appunto, ai ricchi non si ridistribuisce affatto a tutti, o anche solo a tanti, vecchia stantìa favoletta dei fan del capitalismo, secondo i quali è meglio non tassare chi ha tantissimo, meglio non frapporre loro alcun ostacolo, perché grazie a loro migliorerà la situazione per tutti...
Il dato di fatto, invece, è che loro si arricchiscono sempre di più e la gente impoverisce di conseguenza. I mega-ricchi operano qualsiasi strategia pur di dare il meno possibile alla società e aumentare i loro profitti con ogni mezzo e in ogni modo, sfruttano bestialmente la manodopera, collocano le loro sedi nei paradisi fiscali, pagano tasse irrisorie (se le pagano) rispetto ai loro profitti e, non appena intravedono condizioni migliori, delocalizzano le produzioni laddove il costo del lavoro corrisponde a una miseria.
Quindi gli allocchi, con tanto di lauree e prestigiose cattedre universitarie, che continuano a dire che bisogna lasciare fare al mercato, che non bisogna tassare troppo le multinazionali e che non bisogna disturbare i miliardari ma agevolarli in qualsiasi modo, sono praticamente i corifei del suicidio, corresponsabili della conduzione di miliardi di persone alla miseria. I politici e gli Stati in genere, invece di richiedere il giusto e sacrosanto contributo ai Dracula del soldo, li supportano cedendo ben volentieri al ricatto che grazie a loro si ottiene occupazione (fino a che gli fa comodo); ricevuti tutti i benefici possibili e spolpato bene l’osso, i Dracula vanno da qualche altra parte a succhiare sangue.
C'è chi pensa che la soluzione stia nei redditi forniti dallo Stato alle persone meno abbienti per farle uscire dalle cosiddette sacche di povertà. Di per se non è una cattiva idea, ma una volta ottenuti i soldi dallo Stato dove e come verranno spesi? Basta vedere chi sono i più ricchi del pianeta per capire che i soldi che vengono spesi non fanno che alimentare il sistema che rende povere le persone stesse e che allarga la forbice fra ricchi e poveri.
I più ricchi al mondo sono infatti spesso persone che vendono prodotti in massa cioè che devono la loro ricchezza al sistema consumista. Ai primi posti c’è ad esempio il proprietario di Amazon, Jeff Bezos, che paga le tasse dove e se gli pare, che affonda librerie e ogni tipo di vendita al dettaglio e che sfrutta i lavoratori in maniera sistematica. In classifica c’è anche il suo fratellino cinese, Jack Ma, con il sito di E-commerce Ali Baba che come Amazon vende qualsiasi cosa. Ciò che vendono questi colossi del consumismo è superfluo oppure indispensabile? Per la gran parte è paccottiglia superflua e che non serve per sopravvivere ma solo per fare girare la ruota del grande criceto PIL; e la gente spesso, pur di comprare i prodotti superflui propagandati dalla pubblicità martellante che li spaccia per prodotti indispensabili, si indebita e impoverisce.
Fra i mega miliardari non può mancare il settore informatico con Bill Gates e Steve Ballmer della Microsoft, i capi di Google e poi c’è Zuckerberg che con Facebook ha inventato la migliore e più redditizia piattaforma di pubblicità del mondo travestita da social e interamente sovvenzionata dagli utilizzatori che gli regalano tutti i loro dati e lavorano gratis alacremente per lui.
E’ singolare poi constatare che malgrado i capi di Google, Zuckerberg o Bill Gates si dicano progressisti e benefattori dell’umanità, donino spiccioli a fondi umanitari, finanzino Ong o ne creino ex novo, la situazione non faccia che precipitare anziché migliorare. E se il loro progresso significa affamare miliardi di persone, forse non è vero progresso considerando che con tutti i soldi che guadagnano la situazione la potrebbero migliorare davvero immediatamente.
Continuando a leggere la classifica dei super miliardari, c’è Amancio Ortega, padrone dei vestiti Zara che pubblicitariamente imperversano ovunque; in un paese come il nostro dove gli armadi traboccano di vestiti è veramente un prodigio miracoloso che se ne comprino ancora. Questo la dice lunga sulla potenza enorme del messaggio consumista.
Poi c’è la capa dell’Oreal Francoise Bettencourt, che guida l'azienda di profumi e cosmetici. La Bettencourt e tutti i soggetti che vendono prodotti status symbol sprigionano una capacità di attrazione così forte che, nonostante i loro prodotti siano del tutto superflui, riescono a venderli a milioni di persone e fare guadagni stratosferici.
Poi c’è il capo della LVMH Bernard Arnault che vende prodotti di lusso, altro acquisto imprescindibile per il povero che vuole fare finalmente il salto di qualità. E abbiamo i capi di Wal Mart, altro mega supermercato che strangola concorrenza e lavoratori e nel quale viene venduta qualsiasi cosa (superflua). Ci sono i compari della Koch Industries che fanno dell'aggressione all’ambiente da sempre il loro passatempo principale e Sheldon Adelson della Las Vegas Sands proprietario di catene di hotel-casinò in tutto il mondo, altra attività benefica tutta a favore dei poveri...
L’arricchimento stratosferico di queste persone, e tanti altri come loro, non ha come conseguenza solo l’aumento delle disuguaglianze e il dilagare della miseria ma anche lo scempio ambientale, dato che tutte le attività svolte da costoro, e tutte le merci che vengono prodotte e acquistate attraverso i loro canali, aumentano i consumi energetici, l’inquinamento e fanno diventare il mondo una pattumiera.
Quindi, per diminuire le disuguaglianze bisogna innanzitutto non buttare i soldi dandoli a questi squali, perché più si danno a loro e più la situazione peggiora e la gente impoverisce. Considerando che gli Stati e la politica sono fermi a un centinaio di anni fa e hanno ancora l’illusione che, se le multinazionali e gli imprenditori guadagnano, ci si guadagna tutti, bisogna che le persone singolarmente inizino a prendere in mano il loro destino.
I soldi vanno usati con grande oculatezza perchè attraverso il loro uso si decide che sistema si vuole supportare. Quindi meglio non ascoltare nessuna sirena della pubblicità, non ascoltare nessuno che dica che bisogna spendere per fare crescere il paese; bisogna invece smettere di sprecare, occorre comprare solo se strettamente necessario, investire localmente, rivolgersi a filiere corte, acquistare da gruppi di acquisto collettivo, creare circuiti locali di supporto reciproco, far nascere progettualità collettive, investire nell'autoproduzione energetica e alimentare. In questo modo ci si sgancia da un sistema votato al suicidio e che rende sempre più ricchi i paperoni del mondo, che vanno invece abbandonati al loro destino; bisogna dar loro minore supporto possibile e creare zone di resilienza e resistenza al consumismo imperante. Questo è il modo per combattere veramente le disuguaglianze; nessuno Stato o governo schiavo dei super ricchi lo farà mai per voi. Invece di prendere questi multimiliardari come esempi di successo e osannarli,  bisogna trattarli per quello che sono: persone senza alcuna morale che hanno smarrito qualsiasi umanità e relazione con la realtà, visto che guadagnare così tanto in un mondo pieno di sofferenza, disperazione e miseria è paragonabile a un crimine contro la stessa specie umana.

venerdì 25 gennaio 2019

Gli Usa annunciano di voler rovesciare il governo del Venezuela

Juan Guaidò, capo della destra venezuelana si è autoproclamato “Presidente ad interim nel corso di una manifestazione di piazza. Il presidente Usa Donald Trump ha subito annunciato che riconosce Gaidò come presidente ad interim del Venezuela. Trump ha definito “illegittimo” il presidente in carica Nicolas Maduro e ha detto che il parlamento guidato da Guaidò è “il solo ramo legittimo del governo debitamente eletto dal popolo venezuelano”. In pratica una dichiarazione aperta di sostegno ad un colpo di stato.
Qui di seguito un comunicato urgente della Rete europea di solidarietà con il Venezuela
Ieri sono definitivamente cadute tutte le maschere e l’Impero USA, per bocca del suo vicepresidente Mike Pence, ha promosso apertamente un colpo di stato in Venezuela.
L’intenzione è quella di dare legittimità alla figura di Juan Guaidó come presidente di un governo di transizione, benché non sia stato eletto dal popolo. Il tutto si accompagna a nuovi scenari di violenza organizzata da gruppi fascisti appoggiati dagli Stati Uniti, ad appelli ai militari affinché rompano l’ordine costituzionale e ai lacchè del Gruppo di Lima, che se ne vanno in giro per i paesi parlando del Venezuela, quando in realtà cercano solo copertura per i loro loschi affari.Uno scenario amplificato dall’apparato mediatico delle grandi corporazioni.
Non possiamo distogliere lo sguardo. Tornano alla mente le violenze (le guarimbas) del 2014 e, più recentemente, quelle del 2017 in cui ad essere colpito è stato soprattutto il popolo venezuelano (morti, feriti, blocchi stradali, attentati alle strutture pubbliche, alle università, agli asili nido, ai mezzi di trasporto, agli spazi culturali, il blocco delle forniture di alimenti, medicine, bancomat, servizi pubblici…). Vediamo che, ancora una volta, si cerca di trascinare il Venezuela in un’altra fase di tensione e scontro senza preoccuparsi del popolo, della democrazia o della libertà, perché ci sono davvero altri interessi in gioco .
Non possiamo tacere.
Ecco perché, dalla Rete Europea di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana vogliamo nuovamente denunciare: le manovre degli Stati Uniti con i loro appelli per promuovere un colpo di stato in Venezuela; l’insistenza dell’Unione Europea nel parlare di “elezioni libere”, quando il popolo venezuelano ha deciso, il 20 maggio 2018, di ratificare nelle urne Nicolás Maduro come legittimo presidente costituzionale. Le oltre 80 organizzazioni che compongono la RED, esigono inoltre che qualunque “gruppo di contatto” eventualmente creato dalla Unione europea solo si adoperi ad accompagnare il popolo venezuelano in un processo di dialogo e di pace, nel rispetto delle azioni e delle misure che egli solo ha il diritto di decidere all’interno delle proprie normative.

giovedì 24 gennaio 2019

Amnistia, e non solo. Costruire ora un punto di resistenza

Si potrebbe sintetizzare così, se non si avesse la certezza di mozzare i numerosi spunti di riflessione, il messaggio emerso dal dibattito pubblico tenutosi martedì 22 gennaio presso i Magazzini Popolari di Casal Bertone. Un dibattito che ha visto circa quindici interventi.
La fulminea estradizione di Cesare Battisti ha reso manifesta, una volta di più, la piega impressa alle istituzioni dall’attuale governo, un governo che, in assenza di prospettive di intervento credibili rispetto alla crisi economica del paese, scatena la sua natura coercitiva e autoritaria, creando prima, e mostrando come fosse un trofeo di guerra poi, la cattura del mostro di turno.
Il caso Battisti è una sintesi di tutto questo: arma di distrazione di massa, occasione di revisionismo storico, messaggio deterrente verso le potenziali nuove espressioni (anche solo) di dissenso.
Questo è lo stato dell’arte che come militanti politici ci troviamo a fronteggiare quotidianamente in Italia. Una situazione che non trova soluzione di continuità, pur con modalità e forme differenti, a partire da quegli anni Settanta enormi protagonisti della pretesa di riscatto degli ultimi della società.
Una situazione che, però, ha registrato un’accelerazione in termini di repressione, anche preventiva, verso i protagonisti delle lotte sociali a partire dall’ultimo ministro dell’interno targato Pd, quel Marco Minniti intestatario di un pacchetto legislativo volto a irrigidire il piano giudiziario per chiunque manifesti opposizione e alterità all’ordine costituito. È nel solco di questa traccia che va letto il decreto Salvini, traccia in cui si inserisce in maniera chirurgica (si pensi alla reintroduzione del reato per blocco stradale), e dunque in piena continuità con i suoi predecessori. Insomma, il buio in cui è caduto il paese non è certo il risultato degli ultimi mesi.
Su questa base, richiamata da più interventi, si è sviluppata la ricca discussione di martedì, riconducibile a tre filoni di ragionamento, così come proposti nel lancio dell’iniziativa.
Un primo carattere è sicuramente quello relativo alla richiesta di amnistia per le compagne e i compagni ancora soggetti al regime carcerario. Questa avrebbe un valore politico altissimo in quanto riconoscimento della natura appunto politica, e non criminale, della scontro (guerra di bassa intensità, secondo le parole di Cossiga) esploso in quegli anni. Tuttavia, le difficoltà su questo piano sono di due tipi: da una parte, la consapevolezza della quasi impossibilità di vittoria finale, date soprattutto le condizioni in cui ci troviamo a operare. Dall’altra, il silenzio sull’argomento dei prigionieri politici direttamente interessati (quando non esplicitamente contrari). Se allora non siamo nelle condizioni di portare avanti una campagna che risulti efficace, il tema dell’amnistia può comunque diventare l’oggetto di una battaglia di controinformazione e agitazione politica con l’obiettivo di scardinare quel sistema ideologico più volte definito «del pensiero unico».
Eccoci, dunque, al secondo punto di raccolta: una controffensiva sul piano storico-culturale, per riappropriarci dell’eredità della nostra storia, riscoprire la dignità espressa dall lotta di classe, oggi del tutto in mano alla narrazione del nemico. La memoria, si è detto, «va ricostruita sul campo», nelle occupazioni, nelle lotte. C’è tutto un portato storico e politico da dover recuperare, dalla libertà per i prigionieri politici, alle pratiche di tortura, pratiche accertate da sentenze passate in giudicato e che quindi rappresentano fatti incontestabili – confermate peraltro anche da esponenti politici, come Giuliano Amato, il quale ha riconosciuto quei processi come indegni di uno Stato democratico.
A tal proposito, quest’anno cade il cinquantenario della strage di piazza Fontana, primo evento (ma non prima bomba!) con cui si è soliti far cominciare quella “strategia della tensione”, e dunque della guerra di bassa intensità scatenata contro il movimento operaio che segnerà incontrovertibilmente il periodo successivo, e su cui costruire un ciclo di incontri proprio sulla natura dello scontro andato in scena negli anni Settanta. Una ricostruzione, perciò, che abbia due obiettivi principali: il rifiuto di ogni equiparazione con il terrorismo stragista di matrice fascista e regìa statale, e la connessione della nuova generazione alla storia delle lotte politiche, sociali, sindacali, oggi, di nuovo, offuscate invece dalla narrazione generata da chi quella guerra l’ha portata a casa.
Il terzo e ultimo punto riguarda la condizione dell’agibilità politica in questo presente. Condivisa la necessità di fare cose concrete e agire sulle priorità, i punti maggiormente richiamati sono stati i seguenti: l’abolizione dell’ergastolo e del regime del 41-bis; la riduzione dell’area dell’illecito penale; lo scardinamento della logica coercitiva e vendicativa in cui si muove lo Stato contemporaneo. Si è ricordato come dal 2011 al 2017 la forza repressiva abbia prodotto più di 15 mila casi tra denunce, arresti, fogli di via, obblighi di firma, ecc., direttamente riconducibili alle lotte sociali. Il principio che si sta imponendo è quello della sacralità della proprietà privata in una sorta di tentativo costituente che modelli la Costituzione a misura di proprietari. A questo, vanno aggiunti quei mezzi giuridici di cui lo Stato si sta dotando per impedire l’accumulo di forze organizzate capaci di costruire una prospettiva di rottura dell’esistente: «è in gioco la legittimità del conflitto sociale». Due articoli del Decreto Sicurezza che criminalizzano pesantemente forme di lotta come i blocchi stradali e le occupazioni di edifici hanno questo come obiettivo esplicito.
Il portato della vicenda rimanda allo stato di emergenza di quegli anni, diventato oramai elemento ordinario. Il nuovo ordinamento penale prevede principi che fanno riferimento a quei processi politici, i cui dispositivi, figli della logica dell’emergenza, sono ora strumenti ordinari di difesa.
Che fare, dunque? In assenza di un movimento di massa che possa sostenere un ciclo di lotte, si è richiamata la necessità di istituire un coordinamento di avvocati tramite cui rompere il muro di silenzio sullo stato di repressione delle lotte di oggigiorno, sostenuti ovviamente da quei militanti ancora attivi nella difesa della giustizia sociale.
Sul piano della mobilitazione, invece, il lancio di un convegno, indicativamente per giugno, sulla soppressione delle garanzie anche minime garantite dalla costituzione, è parso come l’orizzonte su cui lavorare nel breve-medio periodo. In un quadro europeo prossimo allo stravolgimento (in Francia, l’eventuale vittoria della Le Pen potrebbe emulare, sugli esuli, il “modello Bolsonaro”), l’allargamento del fronte deve essere tale da includere tutte quelle soggettività in grado di svolgere un ruolo nello scontro a favore dell’amnistia per le vittime della repressione, e della depenalizzazione degli strumenti classici della lotta sociale.
Come comunisti, abbiamo il dovere sia di non farci illusioni circa lo stato di cose presenti, ma anche di rimettere al centro il tema della riconquista dell’agibilità politica necessaria al miglioramento delle condizioni di quel blocco sociale che a tutt’oggi è, sì, frammentato, ma che noi miriamo – prima o poi – a riorganizzare.

mercoledì 23 gennaio 2019

Italia, il paese più ingiusto e diseguale

L’Oxfam *, nel suo annuale rapporto “Bene pubblico o ricchezza privata”, diffuso come ogni anno alla vigilia del World Economic Forum di Davos, scrive che, in Italia, il 5% più ricco degli italiani è titolare da solo della stessa quota di patrimonio posseduta dal 90% più povero e che il 20% più ricco possiede il 72% del patrimonio totale, mentre il 60% più povero ha appena il 12,4% della ricchezza nazionale.
Ma come siamo arrivati a questo fantastico risultato? Con un lungo e meticoloso lavoro di distruzione di tutte le conquiste precedenti, durato 40 anni e portato avanti nei decenni invariabilmente da tutti i governi che si sono succeduti in questo lasso di tempo, con il sostegno attivo delle burocrazie sindacali.
Se facciamo un bel salto indietro nel tempo, ritroviamo quei dirigenti del PCI che, nel 1976, decisero di collaborare con la Democrazia Cristiana e di proporre poi, nel 1978, un proprio ingresso nella maggioranza di governo.
Il ministro degli Interni, Francesco Cossiga, riteneva che la condizione per far entrare il Pci nella maggioranza fosse data “dalla capacità o meno di far accettare alla classe operaia i sacrifici necessari per uscire dalla crisi economica”, ovvero, l’adesione del PCI alla linea di austerità che era stata imposta al paese a partire dal 1976 dal governo Andreotti.
Il 24 gennaio 1978, su la Repubblica, comparve la storica intervista di Scalfari all’allora segretario generale della CGIL, Luciano Lama, intitolata “Lavoratori, stringete la cinghia” in cui Lama si dichiarò in “totale accordo” con Andreotti con queste parole: “se vogliamo esser coerenti con l’obiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati deve passare in seconda linea”.
Dunque, il lavoro per Lama tornava ad essere una semplice variabile dipendente dal capitale. Fu l’annuncio dell’avvio della così detta “politica dei sacrifici” che portò di lì a poco alla “svolta dell’Eur”, formalizzata nella conferenza sindacale della Cgil che si svolse, per l’appunto, al palazzo dei congressi dell’Eur, nel febbraio del 1978.
La svolta sindacale si realizzò nella Conferenza dei 1.500 delegati che consolidò la linea della moderazione salariale e di una maggiore flessibilità del lavoro con la richiesta di “riforme” nel settore dell’edilizia, dei trasporti, del fisco e della finanza pubblica.
La “svolta” però morì prima della “solidarietà nazionale” che aveva contribuito a preparare, prima che Andreotti rassegnasse le dimissioni a seguito del disimpegno del PCI nel gennaio ’79. Contro di essa si scagliò una parte consistente della base che fece pesare il suo dissenso nel corso della vertenza per i rinnovi contrattuali del ’78-’79.
La nuova linea di PCI e CGIL prevedeva moderazione salariale in cambio di un “programma di investimenti per garantire l’occupazione”.
Dicevano che i maggiori sacrifici dei lavoratori avrebbero permesso ai padroni di accumulare il capitale necessario per gli investimenti e favorire, così, l’occupazione.
Ovviamente la maggiore occupazione non arrivò mai, ma i sacrifici restarono, divenendo anzi una costante nei decenni successivi; e la retorica dei sacrifici in cambio del “miglioramento dell’economia e nell’interesse generale” fu usata per smantellare progressivamente tutto il sistema di diritti conquistato dai lavoratori in precedenza.
Lo avevano capito benissimo gli studenti ed i compagni che avevano cacciato a pedate dall’università di Roma Lama ed i suoi tirapiedi, nel febbraio del 1977.
La fine della “scala mobile” ed il successivo accordo sul costo del lavoro del 1993 tra i sindacati Cgil-Cisl-Uil, la Confindustria e il Governo Ciampi, furono il completamento della svolta dell’Eur, con la definitiva cancellazione della scala mobile e l’ancoraggio dei futuri aumenti contrattuali all'”aumento della produttività”. Un accordo che diede l’avvio ad una sfrenata corsa, da parte dei padroni, all’intensificazione selvaggia dei tassi di sfruttamento ed al crollo verticale di salari e stipendi.
La cancellazione dell’art. 18 dello Statuto del lavoratori, il Jobs Act e lo smantellamento del welfare svenduto alle assicurazioni private hanno fatto il resto ed hanno portato i lavoratori italiani prossimi ad una condizione di semi-schiavitù e ad avere il triste primato delle retribuzioni più basse dell’Europa occidentale, l’età pensionabile più alta e servizi pubblici sempre più cari e scadenti.

martedì 22 gennaio 2019

Tragedia all'Ansaldo, operaio muore schiacciato

Un operaio di 42 anni ha perso la vita oggi (lunedì 21 gennaio), poco dopo le 8 del mattino nello stabilimento di Ansaldo Energia a Genova. L'uomo si chiamava Eros Cinti e lavorava per la ditta esterna Geko. Era vedovo e padre di due figli di 6 e 11 anni, risiedeva nel quartiere di Pontedecimo, nel ponente di Genova. L'operaio è stato colpito da un carico pesante caduto da una gru semovente, l'incidente è avvenuto in un piazzale all'interno dell'azienda. Sul posto sono subito accorsi i medici del 118, che però non hanno potuto fare altro che constatarne il decesso. L'area dell'incidente è stata posta sotto sequestro.
Appresa la notizia, la Fiom Cgil ha dichiarato otto ore di sciopero immediato dei lavoratori diretti e indiretti di tutti e tre i turni di lavoro. Allo stop hanno aderito anche la Filcams Cgil nazionale e territoriale e le maestranze addette al servizio mensa.
Filt Cgil Logistica e Fiom Cgil genovesi hanno dichiarato per martedì 22 gennaio un'ora di sciopero in tutte le fabbriche metalmeccaniche e della logistica di Genova e del comprensorio, da tenersi con modalità che saranno decise a livello aziendale.
"L'operaio si trovava vicino a una gru semovente che stava spostando un carico pesante che si è staccato e gli è caduto addosso, schiacciandolo e uccidendolo sul colpo. Adesso aspettiamo indagini di Asl e magistratura che dovranno stabilire cosa è successo". Così il segretario generale della Fiom Cgil di Genova, Bruno Manganaro: "Vogliamo dare un segnale, non si può uscire di casa per andare a lavorare e avere un futuro e non tornare più. Noi continueremo a gridare la necessità che ci sia più chiarezza, ma è un grido inutile se non è ascoltato da istituzioni e aziende".  Secondo Manganaro, servono più investimenti sulla sicurezza sul lavoro: "E invece si riducono i premi assicurativi Inail, tante piccole cose che tolgono sicurezza, non ne danno in più". L'Ansaldo, aggiunge Manganaro, è la "più grande fabbrica di Genova, una fabbrica all'avanguardia. Però gli infortuni possono capitare anche nei luoghi in cui uno meno se lo aspetta". Di certo, conclude il sindacalista, resta l'amarezza di "una famiglia distrutta: l'operaio lascia due figli di 11 e 6 anni, già orfani della madre morta di tumore. Noi non possiamo fare altro che gridare il nostro dolore, siamo impotenti. Ma continueremo a gridare e a far sentire la nostra voce".
"Le maestranze e la direzione aziendale di Ansaldo Energia esprimono profondo cordoglio alla famiglia della vittima dell'incidente mortale accaduto questa mattina in area aziendale". A dirlo è Ansaldo Energia in una nota, aggiungendo che "l'azienda si adopererà in ogni modo per essere vicina ai familiari".

lunedì 21 gennaio 2019

Le grandi opere e la trappola del debito

Il prossimo 23 marzo si terrà a Roma un’importante manifestazione nazionale “contro le grandi opere inutili e per la giustizia ambientale”. Si tratta di un importante appuntamento per tutte le realtà che, in ogni angolo del paese, sono in lotta per un altro modello di società, che parta dal riconoscimento dei beni comuni e della democrazia partecipativa. Una necessità ancor più impellente, vista la realtà del cambiamento climatico in atto e l’incapacità delle elite politiche e dei governi di prenderne atto, invertendo la rotta.
In tema di grandi opere, c’è un aspetto che non viene sufficientemente sottolineato: la loro funzione di alimentazione della trappola del debito. È infatti significativo come l’alto debito pubblico, agitato dai governi ogni volta che si tratti di fermare una rivendicazione di lavoro, reddito e servizi, sia invece completamente rimosso quando si parla di grandi opere.
Qual è infatti il meccanismo finanziario che sottende la realizzazione delle grandi opere? La famosa finanza di progetto, basata sul partenariato pubblico-privato. Partendo dal fatto che gli enti pubblici non possono investire perché i vincoli di bilancio non lo  permettono, si affida la concessione ad una società di diritto privato con capitale interamente pubblico, la quale affida l’esecuzione dell’opera ad un contraente generale (il privato) che elabora il progetto esecutivo e conduce a termine i lavori. In questo schema, i cosiddetti investimenti del privato possono contare sulla totale garanzia del “pubblico”, senza la quale gli imprenditori non potrebbero rientrare dei loro investimenti e gli istituti bancari non concederebbero i finanziamenti.
Alla fine il privato viene retribuito e l’opera ritorna alla società iniziale a cui spetta il compito di recuperare i soldi che le banche hanno prestato, attraverso gli utili che derivano dalla gestione del servizio, e, se questi sono insufficienti, tale debito diventa debito pubblico, perché a garantirlo è il socio pubblico della società di diritto privato.
Il ‘project financing’ è di conseguenza un sistema di garanzie pubbliche e di utili privati; un sistema a debito, in cui la leva finanziaria è totalmente in capo al settore pubblico, che, mascherato da società di diritto privato, è costretto a restituirlo alle banche a tassi d’interesse molto maggiori di quelli che pagherebbe in quanto ente.
Debito non conteggiato in bilancio oggi, perché contratto da un soggetto di diritto privato, ma che sul bilancio pubblico si scaricherà quando dovrà essere ripagato. Un cifra che, secondo l’Osservatorio nazionale dei contratti pubblici, ammonterà a oltre 200 miliardi di euro.
Lo schema perverso della finanza di progetto comporta l’interesse del contraente privato alla moltiplicazione dei costi, come infatti avviene in ogni infrastruttura sinora realizzata. Lungi dall’essere opere strategiche per rompere l’isolamento dei territori (?) o per far crescere l’economia (?), la spinta nei confronti delle grandi opere viene dal grande capitale finanziario, che ha bisogno del gigantismo infrastrutturale per garantirsi flussi continui di denaro (pubblico) dal quale estrarre valore finanziario (privato).
Al termine del ciclo, le comunità territoriali coinvolte ne pagheranno i costi sociali e ambientali, mentre l’intera collettività sconterà un ulteriore depauperamento di risorse e il rafforzamento della trappola del debito per mettere il silenziatore ad ogni nuova rivendicazione sociale. Forse, quando il fantasioso ministro Toninelli parla di analisi costi-benefici, dovrebbe precisare meglio a favore di chi siano i secondi e a carico di chi siano i primi

venerdì 18 gennaio 2019

A Roma 'divorati' 30mila ettari di suolo

Supera i 30 mila ettari (23,54%), pari a circa 3.600 volte l’area del Circo Massimo, la superficie di territorio consumato a Roma e di questi oltre il 92% è irreversibile. S tando allo studio, presentato oggi in Campidoglio e realizzato a 'quattro mani' da Roma Capitale e Ispra, nella Città Eterna so no state 'sigillate' il 13% delle aree a massima pericolosità idraulica del quale oltre l’80% è irrecuperabile. La ricerca - realizzata dalla UO di Statistica - Open Data di Roma Capitale e Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale nell’ambito di un progetto sviluppato con i volontari del Servizio Civile sul consumo di suolo a Roma- mostra che per costruire edifici e strade a Roma sono state divorate ampie aree sensibili, a rischio idraulico di cui molte soggette a esondazioni. Secondo lo studio presentato oggi in Campidoglio da Ispra e Roma Capitale, la maggiore percentuale di territorio impermeabilizzato a Roma si trova nei municipi I (74,38%), II (68,42%) e V (63,11%), mentre quella minore ricade nel municipio XIV 12,78%.
 

Nella mappatura, la prima in Italia che 'fotografa' con così grande dettaglio il consumo di suolo in una grande città , emerge che la "in linea generale, Roma ha perso terreno a vantaggio di edifici (28% delle aree artificiali), strade (21%) e altre aree impermeabilizzate come parcheggi e piazzali (40%)". Gli esperti mettono in evidenza che "molte di queste superfici si trovano in zone sensibili, come aree di pericolosità idraulica o aree vincolate". Lo studio riferisce ancora che nel territorio di Roma Capitale le aree caratterizzate dalla massima pericolosità idraulica (reticolo principale e secondario, esclusi i canali di bonifica), aree di esondazione con un tempo di ritorno di 50 anni, "hanno un'estensione superiore ai 6 mila ettari e nelle aree di massima pericolosità risultano consumati più di 800 ettari, di cui l’82% irreversibilmente".
E per realizzare la mappa, gli esperti di Ispra e Roma Capitale hanno utilizzato anche i dati e immagini dai satelliti in orbita. "Grazie ad avanzate analisi statistiche, la ricerca sperimentale ha prodotto una mappatura che costituisce una importante base di valutazione sul tema del consumo di suolo a Roma" hanno rilevato. "Si tratta di una cartografia di grande dettaglio, unico esempio a livello nazionale, derivante dall’interpretazione di immagini satellitari che rende disponibili dati anche a livello di municipio e zona urbanistica" hanno aggiunto gli esperti di Ispra e Roma Capitale.
L'URBANISTA- "I dati sul consumo di suolo nel Comune di Roma diffusi dall’Ispra e Roma Capitale "sottolineano ancora una volta impietosamente quanto il territorio della città sia stato sfruttato, manomesso e sfregiato nel corso dei decenni" commenta l'urbanista Sandro Simoncini, direttore del Centro Studi Sogeea, che parla di "una speculazione senza freni che ha provocato una cementificazione esasperata e ha pregiudicato, spesso irrimediabilmente, la tenuta idrogeologica di ampie zone della città". Simoncini esorta di "invertire la rotta al più presto" mettendo in campo "serie politiche di rigenerazione, che tra l’altro possono portare benefici anche dal punto di vista economico". Per la Capitale "abbiamo stimato un valore di 14,8 miliardi per gli interventi da realizzare, a cui andrebbero sommati circa 800 milioni di euro di oneri concessori da corrispondere alla pubblica amministrazione". Cifre importanti, argomenta l'urbanista, "capaci di innescare un circolo virtuoso anche sul fronte occupazionale in una città che attualmente non vive uno dei suoi momenti migliori".

mercoledì 16 gennaio 2019

Gli sbarchi in Italia nel 2018 sono calati dell’80%

Il drastico rallentamento degli sbarchi, che prosegue dall’estate del 2017, ha determinato il più basso numero di migranti giunti in modo non autorizzato sulle coste italiane: nel 2018 appena concluso infatti sono stati poco più di 23mila i migranti sbarcati in Italia, l’80% in meno rispetto all’anno 2017. Il dato, inferiore anche a quello registrato nel 2013, modifica lo scenario dopo quattro anni di arrivi a sei cifre – tra i 120 e i 180mila dal 2014 al 2017. Tra i cambiamenti anche le nazionalità degli sbarcati: per un terzo i migranti provengono da Tunisia (oltre 5mila persone) e da Eritrea (3.300), al terzo posto gli iracheni con 1.744 sbarcati. Sebbene la Libia sia ancora il principale paese di partenza dal continente africano, è diminuito sensibilmente il suo peso percentuale in favore di altre zone tra cui in particolare la Tunisia: nel 2018 è partito dalla Libia il 54% dei migranti giunti in Italia via mare, mentre l’anno precedente la percentuale era del 90%.
Tra gli sbarcati è record di minori non accompagnati. Ad aumentare in termini relativi, nonostante il calo in numeri assoluti, è la quota di minori non accompagnati che nel 2018 sono stati 3.536 e hanno costituito il 15% di tutti gli sbarcati, l’incidenza più alta del quinquennio considerato. Tale componente infatti è andata crescendo negli anni: i giovani giunti soli sulle nostre coste costituivano l’8% nel 2014 e 2015, per poi diventare il 13-14% nei due anni successivi.
Aumentano gli arrivi in Spagna. Al contrario in Spagna nel corso del 2018 si è registrato un notevole aumento degli arrivi non autorizzati via mare e via terra: oltre 54mila i primi, e 6.800 i secondi. Il flusso verso la Spagna ha registrato un sensibile incremento proprio in corrispondenza del calo riscontrato in Italia, e prima ancora di quello che ha interessato la Grecia. Gli oltre 64mila gli arrivi via mare e via terra rilevati nel Paese nel 2018 costituisce la cifra più alta del quinquennio considerato

martedì 15 gennaio 2019

Ma quale boom, prepariamoci alla crisi…

Luigi Di Maio parla di «prossimo boom economico» grazie al digitale. La digitalizzazione comporta un aumento della velocità di circolazione della merce, l’abbattimento dello spazio attraverso il tempo. A che ciò si realizzi occorre che ci siano infrastrutture fisiche adeguate.
Negli anni novanta la Cina decise una fortissima infrastrutturazione: costruì reti telematiche, autostrade, ferrovie alta velocità. Hanno costruito mega porti e mega aeroporti, spedito satelliti in orbita, ecc.
In Europa e ancor più in Italia queste cose non si sono verificate. Trump ha deciso solo l’infrastrutturazione del paese con un piano di 1.500 miliardi di dollari, proprio per contrastare i cinesi. Ma ci vorrà tempo…
Alibaba, Amazon, Tencent non si spiegano senza l’infrastrutturazione fisica. Fate circolare le merci al sud o sul Grande raccordo anulare di Roma, o sulla tangenziale di Bologna e vedrete. L’infrastrutturazione è di fatto impedita in Europa; lo stesso Fondo Monetario Internazionale definì “scadente”, due anni fa, lo stato delle infrastrutture tedesche. Ci vorrebbe una politica fiscale espansiva a livello continentale. E colossali investimenti pubblici. Ma non si può fare: lo Stato deve star fuori dall’economia e lasciar fare al «mercato». Per questo l’Europa è indietro, e tale rimarrà.
Marx le definiva “condizioni generali della produzione”. Ma Marx è considerato «scaduto», roba dell’800. Ora abbiamo Cottarelli, Alesina e Il Sole 24 Ore che ci dicono cosa fare. Sono 30 anni che seguiamo le loro ricette e vediamo dove siamo finiti…
Molto probabilmente a marzo l’Istat certificherà la terza recessione economica in Italia dopo 11 anni. Non era mai successo nella storia d’Italia.
Tutto il mercato mondiale è del resto in forte rallentamento. Spia di ciò i dati cinesi di oggi riferiti a dicembre: export -4.4% (contro previsioni +5%), importazioni -7.6% (contro previsioni + 4%). La spia cinese ci dice che nel mercato mondiale inizia ad affacciarsi la recessione. Ma loro, almeno, come nel 2008, hanno messo in moto potenti misure per proteggersi da questa eventualità.
Ma di cose serie, in questo paese, non si deve parlare. Meglio riempire i giornali con dichiarazioni roboanti su stupidaggini o storie antiche

lunedì 14 gennaio 2019

Auto, l’Europa paga la crociata contro il diesel (e le politiche di Trump)

In Europa il motore diesel, applicato non soltanto ai camion ma anche alle auto, ha sempre goduto di una certa fortuna. Le prime auto a gasolio nacquero già tra le due guerre, ed erano in particolare Mercedes e Peugeot, ma fu soltanto nel Secondo Dopoguerra che questo tipo di motorizzazione conobbe una vera e propria popolarità. Così Morris (Inghilterra, parte dell’allora British Motor Corporation), Borgward (Germania Ovest, al tempo anch’essa importante azienda di livello europeo), FIAT (con la 1400 diesel, molto amata da tassisti e rappresentati di commercio), cominciarono a farsi un nome in questo settore, affiancandosi a Mercedes e Peugeot, quest’ultimi costruiti da INDENOR, e nacque a quel punto una vera e propria scuola tecnica europea del diesel successivamente allargatasi, dagli Anni Settanta, a quasi tutti i Costruttori del Vecchio Continente: da Opel, filiale dell’americana GM, che fece molta fortuna col diesel delle Rekord e delle Ascona, a Volkswagen-Audi, che ebbe il merito d’introdurre il diesel leggero per eccellenza, ovvero quello debuttato sulla prima Golf e non solo, fino a quelli usati da Renault, per non parlare poi dei SOFIM adottati da FIAT e dei VM invece tipici delle Alfa Romeo, a quel tempo ancora di produzione IRI.
In linea di massima, però, le automobili a gasolio rimasero una rarità puramente europea, dato che negli Stati Uniti, per esempio, esse erano totalmente ignorate. Divennero però d’attualità con la prima crisi petrolifera, quella seguita alla guerra dello Yom Kippur del 1973, ed ulteriormente rafforzata da quella di sei anni più tardi, quando nel 1979 in Iran vi fu la Rivoluzione Islamica che depose lo Scià. A quel punto, anche negli Stati Uniti, si cominciarono a vedere le prime Mercedes e Peugeot alimentate a gasolio, e qualcuno riuscì a trasformarle in un oggetto di tendenza, al punto che poco importava se per fare il pieno ci si dovesse mettere in coda alle stesse pompe riservate ai grossi camion. La tendenza divenne talmente forte che, alla fine, anche i grossi colossi USA come GM, Ford e Chrysler dovettero cominciare a proporre versioni diesel delle loro grandi berline. Ma quest’ultime erano talmente fragili e poco longeve, dato che gli americani di diesel a quel tempo ben poco se ne intendevano, che passarono assai rapidamente in cavalleria.
Dagli Anni Duemila, comunque, il diesel ha avuto il suo trionfo tanto nell’una quanto nell’altra parte dell’Atlantico. L’introduzione dell’iniezione diretta, rapidamente arricchita dalle tecnologia common rail oppure ad iniettore pompa, ha reso il motore ormai turbodiesel competitivo col benzina anche in fatto di prestazioni, e ciò l’ha immediatamente avvicinato ad una grossa fascia di clientela che precedentemente lo snobbava. In Europa, dove il carburante è sempre costato più caro che altrove, l’affermazione del diesel è stata immediata e fino ad oggi, oltre ai 1400-1600 cc, solo una netta minoranza di auto a benzina veniva venduta rispetto a quelle a gasolio. Negli Stati Uniti l’affermazione del diesel è sempre stata più lenta e meno gradita, ma a causa del forte aumento del prezzo del greggio seguito alla crisi irachena in molti hanno comunque deciso di passare a questa forma di motorizzazione.
Oggi siamo ad un punto di svolta. Sebbene numerosi test dimostrino come, all’atto pratico, un diesel abbia ancora oggi un impatto ambientale ben inferiore rispetto ad un’auto elettrica, la tendenza è comunque quella di spingere verso una mobilità che non abbia troppo a che spartire con le fonti fossili e le relative emissioni. E’ dagli Stati Uniti, infatti, che proviene il fenomeno della Tesla, la macchina elettrica di lusso al cui esempio ben presto anche tutti gli altri Costruttori tradizionali hanno dovuto in qualche modo adeguarsi con proprie realizzazioni alternative, in coabitazione con l’ibrido ideato in primo luogo dai giapponesi di Toyota. Oltre che sull’elettrico, però, le autorità americane intendono spingere anche sul tradizionale motore a benzina, specialità di quel paese, e ciò ha innescato fino ad oggi non poche diatribe giudiziarie con molti Costruttori europei. E’ nato così lo scandalo Dieselgate, una faccenda prima di tutto politica, di cui a fare le spese è stata soprattutto la galassia Volkswagen, il maggior gruppo automobilistico del momento, insieme ad altri concorrenti europei. Curiosamente, i Costruttori americani, che pure hanno filiali in Europa e nel resto del mondo fortemente dipendenti dal diesel, non sono state attaccate da quell’inchiesta partita dalla motorizzazione americana.
Così il diesel ha perso rapidamente terreno negli Stati Uniti, con immediate conseguenze anche in Europa, grazie ad un agguerrito movimento d’opinione formatosi nel frattempo e particolarmente ostile al gasolio, visto come fonte di tutti i mali. Il problema, però, è che gran parte dell’industria italiana della componentistica dipende proprio dal diesel: un buon 8% del valore aggiunto incorporato nel prodotto BMW, Volkswagen-Audi e Mercedes proviene proprio dai nostri fornitori. A tale valore andrebbe aggiunto, poi, quello destinato a FCA e quindi ai francesi di Renault-Nissan-Mitsubishi e PSA, realtà che oggi non comprende più soltanto Peugeot e Citroen ma anche Opel.
Si tratta di una ferita inferta al nostro settore principale, la manifattura imperniata dalla PMI, la piccola e media impresa, un mondo che ha finora tenuto in piedi il “sistema Italia” mentre tante altre grandi e piccole occasioni, industriali e tecnologiche, venivano perse o ci venivano soffiate da altri. Debilitare questo nutrito e paziente mondo di piccole e medie imprese, dunque, è un ulteriore passo verso il nostro declino industriale e non solo. La guerra economica, commerciale ed industriale degli Stati Uniti a tutti gli altri grandi colossi del mondo, dall’Europa alla Cina, sta dunque reclamando le sue vittime, e non c’è da stupirsi se le prime saranno proprio quelle più esposte, vulnerabili e trascurate da coloro che avrebbero dovuto curarne la sicurezza ed il benessere, ovvero i loro ufficiali-governanti.
La Germania, a causa anche della politica dei dazi voluta da Trump, vedrà i suoi principali costruttori automobilistici trasferire sempre di più la loro produzione oltre Oceano, seguiti in questo dai grandi produttori della componentistica come Siemens e Bosch, anch’essi tedeschi. La mazzata, dunque, ci sarà anche per la Germania, che oltretutto e non a caso si trova oggi ad un passo dalla recessione. Ma, sempre per questo motivo, nell’attuale equilibrio geo-economico a livello europeo e mondiale, l’Italia rischierà di ritrovarsi nel ruolo non proprio gradito di “area di sfogo” per queste crisi e questi conflitti.

venerdì 11 gennaio 2019

Per l’Italia chi combatte l’Isis è un sorvegliato speciale

La notifica è arrivata giovedì: la procura di Torino ha richiesto la sorveglianza speciale per Jacopo, Eddi, Davide, Paolo e «Jack», cinque ragazzi che in questi anni hanno raggiunto la regione a maggioranza curda di Rojava, in Siria, per combattere lo Stato Islamico.
Non è previsto un processo perché non è previsto un reato. Il 23 gennaio la pm Pedrotta si presenterà al Tribunale di sorveglianza di Torino per chiedere l’accettazione della richiesta. Se passerà, i cinque saranno sottoposti a una dura restrizione della libertà individuale sulla base di quella che la Digos – che ha svolto le indagini – ritiene «pericolosità sociale».
Una misura restrittiva di epoca fascista, introdotta dal Codice Rocco e poi rivista nel tempo (l’ultimo «aggiornamento» risale al 2011), che avalla un’inquietante deriva: la limitazione della libertà, da un minimo di un anno a un massimo di cinque, in assenza di un reato, sbarre invisibili di una prigione fuori dalla prigione.
Ne abbiamo parlato con Jacopo Bindi, uno dei destinatari della richiesta della pm: «Qualcosa di mai visto prima, totalmente inatteso», ci dice.
Vi hanno notificato le motivazioni dietro la richiesta?
Nel documento si parla di Ypg (le unità di difesa popolare curde, ndr) che né l’Italia né la Ue considerano organizzazione terroristica. La pm afferma che ne siamo stati membri e che in Siria abbiamo imparato a usare le armi. In passato siamo stati segnalati dalla polizia, abbiamo avuto denunce penali e abbiamo precedenti: siamo parte del movimento NoTav e in passato dell’Onda, abbiamo preso parte ad azioni antifasciste e siamo impegnati in movimenti sociali per il diritto alla casa e allo studio.
La procura, dunque, «collega» le due cose: attività politica qui e uso delle armi lì.
Dicono che con le Ypg abbiamo imparato a usare armi e quindi siamo pericolosi. Non c’è un processo, non devono dimostrare l’esistenza di un reato: compiono un mero giudizio sulla nostra personalità e la presunta pericolosità sociale, non basato su fatti precisi. Tra l’altro hanno commesso degli errori: Eddi non era parte delle Ypg, ma delle Ypj, l’unità femminile, un corpo autonomo rispetto a quello maschile. E io, sebbene sarebbe stato un onore, non ho mai fatto parte delle Ypg o dell’organizzazione militare di Rojava. Ero nelle strutture civili della rivoluzione, anche se in situazione di guerra. Ho scritto degli articoli su quanto accadeva, per il manifesto, e quegli articoli sono stati considerati la prova dell’appartenenza alle Ypg. Stavo facendo del giornalismo.
Quali misure restrittive prevede la sorveglianza speciale?
Revoca della patente e del passaporto, divieto a partecipare a riunioni pubbliche o assemblee e a incontrare gruppi di più persone, divieto di dimora.
In alcuni casi è previsto l’obbligo di trovarsi un lavoro, di restare a casa in determinate ore del giorno e della notte. E in tutti, il «libretto rosso».
Una sorta di schedatura, il «libretto rosso» va portato con sé ed esibito su richiesta.
Farete appello se la richiesta sarà accolta?
Sicuramente. A differenza di altre misure o di un normale processo, diventa subito attiva già prima dell’eventuale appello. Nel frattempo ci muoveremo per evitarla: oggi terremo una conferenza stampa a Torino e chiederemo ai cittadini italiani solidarietà e condanna verso questo tipo di atteggiamento. Il 23 renderemo questa protesta concreta con un presidio davanti al Tribunale di Torino.
Ritenete si tratti di un atto politico?
È stata compiuta una valutazione politica. È schizofrenia, un caso di bipolarismo dello Stato. Da un lato l’Italia considera l’Isis gruppo terroristico che porta morte anche in Europa; molti politici fanno campagna sfruttando la paura del terrorismo, spesso attaccando senza ragione i migranti e gli arabi. Dall’altra colpisce chi è andato a combattere l’Isis, chi ha rischiato la vita. All’improvviso diventiamo un problema e la nostra scelta una ragione per punirci. Eppure, al di là della guerra, Rojava propone un’alternativa reale di democrazia, libertà delle donne, pace, ecologia, relazioni economiche e sociali diverse, un esempio unico in Medio Oriente e nel mondo. Ma probabilmente è una scusa per colpire il movimento NoTav e chi lotta per difendere il territorio della Val di Susa e per migliorare le condizioni di vita a Torino, quelle dei lavoratori e degli studenti, di chi ha problemi con la casa.

giovedì 10 gennaio 2019

L’Italia dei poveri che spende 101 miliardi in giochi d’azzardo

C’è qualcosa che non torna nelle dichiarazioni cosiddette ufficiali, nelle teorie e tesi che vengono propinate in tutte le salse, che vivisezionano il termine povertà e lo dividono addirittura in povertà relativa e assoluta, che di per sé non significano assolutamente nulla e servono solo ad allargare il più possibile la forbice del popolo che si deve sentire povero.
Ci si chiede allora: ma se gli italiani sono così poveri come fanno ad aver speso nel 2017 la cifra monstre di 101 miliardi di euro in giochi d’azzardo, pari a più di quattro finanziarie e a quanto si spende per sanità ed istruzione? E con tanto di aumento di ben 5 miliardi in più rispetto all’anno precedente.
Facciamo un'analisi ulteriore per capire il fenomeno. In Italia ci sono 60 milioni di abitanti, ma a questo dato vanno tolti i bambini fino a 14 anni che sono oltre il 13% della popolazione e occorre calcolare pure chi non gioca mai.  Facendo un'ipotesi complessiva si può arrivare a una stima pari a 45 milioni (cifra per eccesso) di persone che giocano d’azzardo in Italia.  Se si dividono i 101 miliardi per 45 milioni di ipotetici giocatori si arriva a oltre 2.200 euro pro-capite spesi all’anno in giochi d’azzardo, circa 200 euro al mese. Si tratta praticamente di uno stipendio e mezzo medio mensile, una cifra incredibile.
Tutti sanno che le vincite sono rarissime, quindi praticamente la totalità delle persone in questione sta coscientemente buttando soldi dalla finestra.
Come è possibile dunque parlare di povertà, di gente alla fame quando il popolo italiano nella sua stragrande maggioranza sperpera i suoi soldi in maniera così assurda? E questo non è che uno dei mille esempi di soldi buttati.
Se si facesse una ricerca specifica, probabilmente risulterebbe che il corrispettivo di almeno due o tre mensilità in media viene sprecato in spese di cui si potrebbe tranquillamente fare a meno, vivendo benissimo lo stesso, anzi meglio. E visto che a questo punto ci sono sempre coloro che di fronte a opinioni del genere tirano fuori l’esempio di quelli che fanno la fila alla Caritas, chi può dire che le persone che sono veramente in condizione di indigenza (situazione assolutamente fisiologica in un sistema basato sulla competitività, sull'egoismo e sul darwinismo sociale) non siano anche persone che in passato hanno speso l’impossibile in giochi d’azzardo o sperperato in ogni modo i propri soldi?
Infatti, come per i medicinali e le sigarette, ci sono le avvertenze: il gioco può causare dipendenza. E già da questa avvertenza si capisce come stanno le cose. Il nostro è un sistema che prima ti vende morte e povertà e poi spende pure soldi per curarti e tentare di combattere quella stessa malattia e povertà che genera. Può esistere un sistema più schizofrenico e fallimentare di questo?
Provata ad andare in una tabaccheria, un'edicola, un bar o comunque in un luogo dove si vendono "gratta e vinci" (cioè... "gratta e perdi") e ogni sorta di truffa legalizzata spacciata per giochino innocente. Bastano dieci minuti per rendersi conto di quanta gente compri questi tagliandi e a quali costi: vanno via pezzi da 5, 10, 20 euro come se nulla fosse. Ma quanta roba ci si mangia con 10 o 20 euro? Tanta.
Ci sono luoghi di vendita dei tagliandi che hanno istituito anche un piccolo palchetto di legno per rendere più comodo il grattamento. Chi compra questi tagliandi? Ricchi che scendono dalla Ferrari? Non proprio, sono persone di tutte le estrazioni sociali, dalla casalinga all’operaio, dall’impiegato alla cassiera, chiunque. Quindi anche della cosiddetta fascia bassa della popolazione. Inoltre negli stessi locali e bar dove si vendono i gratta e perdi, ci sono slot machine di tutti i gusti dove persone, che anche in questo caso non scendono da Ferrari o Maserati, giocano compulsivamente. Poi ci sono le scommesse che ti permettono di giocare in qualsiasi circostanza, su qualsiasi cosa, in qualsiasi momento, tanto con il nostro super fantastico smart phone si può fare tutto alla velocità della luce e nemmeno ci si accorge che in un attimo sono volati via tanti soldi.  E infine c’è il mitico poker on line che fa sentire veri uomini di bisca e non si può certo non giocare visto che anche in questo caso on line è tutto più facile.
Quindi più che la povertà è dilagante il modo di buttare soldi e in un paese che piange continuamente miseria, dove chiunque si lamenta di essere sul lastrico e di non avere mai abbastanza entrate, si sprecano montagne di soldi in giochi assurdi che hanno come corollario il gettare davvero sul lastrico le persone. La vera piaga sociale e furto ai danni degli italiani sono fenomeni del genere, non certo dei disperati che scappano da paesi ridotti in condizioni disumane.
Quindi per favore politici, esperti, sociologi, professoroni universitari, opinionisti del nulla assortiti, smettetela di raccontare frottole, in Italia ci sono sicuramente sacche di indigenza e miseria frutto di un sistema che le necessita e poi c’è la stragrandissima maggioranza di persone che sprecano soldi vergognosamente in ogni modo . Si dica questo piuttosto che gridare ogni giorno alla povertà solo per far correre ancora più veloce tutti nella ruota del criceto. Però difficilmente si sentiranno simili dichiarazioni, mica si può dire agli italiani che loro sono parte del problema, se glielo dici poi chi ti elegge? La colpa è sempre e comunque di qualcun’altro o di qualcos’altro, importante è trovare il colpevole che calza meglio con le proprie strategie politiche.
Qualora per incanto si volesse fare una politica seria a favore degli italiani, si proibiscano tutti i giochi d’azzardo e gli italiani si ritroveranno in tasca 101 miliardi di euro per farci tantissime cose edificanti e di sicuro sarà un bel colpo alla presunta povertà, miseria o indigenza che sia. Ma non succederà perché lo Stato è il primo a guadagnarci nel fare buttare i soldi alle persone. Allora la si smetta con la retorica di dare soldi a chi li spreca, ricchi o presunti poveri che siano e si affianchi al reddito di cittadinanza, il reddito di intelligenza e cioè quantomeno si insegni dalla a alla zeta come non sprecare i propri soldi in tutti i campi del quotidiano. Agendo in questo modo si scoprirà che non servono tanti soldi per vivere e di conseguenza non serve lavorare così tanto per trovare soldi che poi andranno sprecati. Ma sarà arduo farlo capire a chi si dichiara disoccupato ma fa due lavori, come ribadisce giustamente il comico molto più serio di tanti politici, Natalino Balasso. D’altronde siamo italiani, i più furbi del mondo e la regola aurea è sempre la stessa: lamentarsi e approfittare, che a Napoli in maniera colorita ed efficace si traduce nel “chiagnere e fottere”.

mercoledì 9 gennaio 2019

Nel 2018 si è combattuta una guerra: quella sul lavoro. Aumentati i morti

I dati diffusi dall’Inail segnalano che nei primi 11 mesi del 2018 le denunce presentate di  infortunio sul lavoro con esito mortale, sono state 1.046, ben 94 in più rispetto alle 952 denunciate tra gennaio e novembre del 2017 (+9,9%).
A dicembre l’ultimo morto per infortunio del 2018, si chiamava Carlo Panzanella, un meccanico di 75 anni. Era rimasto gravemente ustionato il 4 novembre: stava tagliando con un frullino una vecchia cisterna che è esplosa ed è morto dopo quasi due mesi di sofferenze all’ospedale Grandi Ustionati di Cesena il 30 dicembre. Poco prima di lui era morto un immigrato moldavo, il cui corpo era stato abbandonato nel bosco dal datore di lavoro.
“E’ sconvolgente l’età delle vittime di infortuni: perdono la vita moltissimi giovani sotto i venti e trent’anni, ma soprattutto in tarda età, il 27% di tutti i morti sui luoghi di lavoro hanno dai 61 anni in su (esclusi morti in itinere e sulle strade) sono il 27% sul totale, una percentuale impressionante” commenta Carlo Soricelli dell’Osservatorio indipendente di Bologna sui morti per lavoro. “Il precariato diffuso, leggi come la Fornero e il Jobs act, hanno contribuito a far morire molti lavoratori in più”.
L’aumento secondo l’Inail è dovuto soprattutto all’elevato numero di decessi avvenuti lo scorso mese di agosto rispetto all’agosto 2017, alcuni dei quali causati dai cosiddetti incidenti “plurimi”, che causano la morte di due o più lavoratori. Nel solo mese di agosto, infatti, si è contato un rilevante numero di vittime (37) in incidenti plurimi rispetto all’intero periodo gennaio-novembre 2017 (42). Tra gli eventi del 2018 con il bilancio più tragico si ricordano, in particolare, il crollo del ponte Morandi a Genova, con 15 denunce di casi mortali, e gli incidenti stradali avvenuti a Lesina e a Foggia, in cui hanno perso la vita 16 braccianti.
L’analisi evidenzia un aumento di 47 casi mortali nel Nord-Ovest (da 238 a 285), di 32 nel Nord-Est (da 232 a 264) e di 22 al Sud (da 205 a 227). Costante il Centro, con 193 denunce in entrambi i periodi, mentre nelle Isole i casi denunciati sono stati sette in meno (da 84 a 77).
A livello regionale spiccano i 29 casi mortali in più del Veneto (da 84 a 113), i 23 in più della Lombardia (da 127 a 150) e i 22 in più della Calabria (da 16 a 38). Seguono Campania (+20), Piemonte (+15) e Toscana (+11). Cali significativi si registrano, invece, in Abruzzo (da 47 a 23) e nelle Marche (da 32 a 18).
Le province con più morti sui luoghi di lavoro (escluso itinere) sono quelle di Salerno con 20 morti, Torino con 19 morti, seguono la provincia di Verona con 18 morti sui luoghi di lavoro, Napoli con 17 morti.

martedì 8 gennaio 2019

L’Italia è l’elefante nella cristalleria Ue”

L’Italia è il sorvegliato speciale dei mercati in questa fine danno ma anche nei mesi scorsi. Come si metteranno le cose per il 2019? A fornire le sue previsioni Axa Investment Mananagers secondo cui il nostro paese è “l’elefante nella cristalleria Ue”.
È l’Italia la nuvola più scura e minacciosa nel cielo europeo in particolare per il legame perverso tra debito e banche, che potrebbe innescare un effetto contagio nei Paesi periferici dell’eurozona e in prospettiva anche una crisi di fiducia, costringendo la Bce a un nuovo intervento. Se invece la telenovela della legge di bilancio italiana dovesse concludersi con una ragionevole soluzione di compromesso, gli asset tricolori potrebbero sovraperformare la media.
Oltre all’Italia sono sei i fattori da tenere a mente per investire bene nel 2019 dopo una crescita economica notevole nel 2018.  In primis, dicono gli analisti, siamo all’ultimo giro del ciclo rialzista, dal 2019 la crescita rallenterà. Dopo il Quantitative easing oggi siamo passati al Quantitative Tightening con la conseguenza che la diversificazione potrebbe risultare più impegnativa, perché un po’ tutti gli asset finiranno sotto pressione, obbligazionario compreso. Sull’azionario la parola d’ordine è cautela: il rallentamento della crescita economica e la pressione sui margini, assieme alla riduzione dell’eccesso di liquidità e all’aumento dei tassi negli Usa, contribuiranno ad aumentare la volatilità dell’azionario. Infine tassi e valute: nel primo caso sui tassi reali Stati Uniti ed Europa restano distanti e la situazione non è destinata a cambiare nemmeno nel 2019, mentre il cambio euro-dollaro si rafforzerà

lunedì 7 gennaio 2019

Migranti, l’Italia nel 2018 è stata solo la terza meta Ue per numero di sbarchi

Il numero dei migranti che nel corso del 2018 ha attraversato il Mediterraneo per raggiungere l’Europa è diminuito da 172.301 a 113.482 persone: un calo di proporzione analoga a quella già sperimentata nel 2017. Ma, affermano i dati ufficiali dell’Unhcr anticipati dalla Afp, è cambiata in modo sostanziale la principale destinazione d’arrivo, che non è più l’Italia, bensì la Spagna. Nel corso dell’anno appena trascorso sono sbarcati nella Penisola 23.371 migranti, contro i 119.269 del 2017; in Spagna ne sono arrivati 55.756. Precede l’Italia per numero di sbarchi anche la Grecia con 32.497 migranti.
A diminuire, oltre agli sbarchi, sono stati anche i morti nel Mar Mediterraneo: 2.262 contro 3.139, il 28% in meno. Il bilancio, tuttavia, resta ancora una volta molto pesante.

A livello europeo, le nazionalità più presenti nei flussi migratori via mare nel 2018 sono state Guinea (13.068 persone), Marocco (12.745) Mali (10.347), e solo successivamente Siria, Afghanistan e Iraq. Se lo sguardo si sposta solo sugli sbarchi in Italia, prevalgono gli arrivi da Tunisia (di gran lunga la prima in classifica, rappresentando oltre un arrivo su cinque), Eritrea, Iraq e Sudan. (grafico in basso)
Fra i dati contenuti nell’ultimo cruscotto statistico del ministero dell’Interno italiano emerge anche la drastica riduzione degli arrivi di minori non accompagnati, ridottosi del -77,6% nel 2018, da 15.779 a 3.536 persone.