lunedì 30 dicembre 2019

In Italia arrivano altre 50 bombe atomiche statunitensi, ad Aviano

Gli Stati Uniti potrebbero trasferire le 50 bombe atomiche dalla base di Incirlik in Turchia alla base militare di Aviano in Friuli. A rivelarlo è il Gazzettino in un lungo articolo nel quale segnala che  il sito prescelto per lo spostamento dell’arsenale nucleare sarebbe l’aeroporto pordenonese Pagliano e Gori, sede di uno Stormo dell’Usaf (il 31esimo Fighter Wing) a capacità nucleare. Lapidaria la considerazione sul perché di questa destinazione: “Tale eventuale decisione sarebbe presa specie in considerazione della comprovata fedeltà dell’Italia, che sul tema atomiche non batte ciglio, qualunque sia il colore del governo nazionale”.

L’ipotesi del trasferimento delle bombe nucleari da Incirlik ad Aviano era stata ventilata già nel 2016 quando Erdogan, aveva sventato un golpe militare contro di lui ed aveva additato gli Usa tra i possibili fiancheggiatori del colpo di stato. Erdogan aveva addirittura fatto staccare l’energia elettrica alla base militare Usa, interrompendo l’attività operativa del locale contingente americano. La tensione venne risolta ma negli ultimi tempi le relazioni tra l’ex alleato Nato e Washington è schizzata di nuovo verso l’alto soprattutto con la decisione turca di acquisire aerei e contraerea dalla Russia.
La notizia del trasferimento delle bombe atomiche da Incirlik ad Aviano è stata resa nota dall’agenzia Bloomberg che ha intervistato il generale in pensione Charles Chuck Wald ex comandante proprio del 31esimo Fighter Wing di Aviano dal 1995 al 1997. “Molti ricordano la sua presenza in Pedemontana come a dir poco ingombrante, specie quando lasciò metaforicamente il segno sui tavoli degli amministratori locali, onde far capire che il Progetto Aviano 2000 (mega opera infrastrutturale destinata ad allocare stormo e famiglie al seguito) non doveva trovare ostacoli di sorta. Come in effetti è stato, ciclopica burocrazia italica a parte” ricorda il Gazzettino.
Da Incirlik potrebbero quindi sbarcare ad Aviano una cinquantina di bombe nucleari, che si aggiungerebbero alle circa 30 già qui immagazzinate, altre cinquanta bombe atomiche sono invece stoccate nellebase militare di Ghedi a Brescia. E a questo punto la base militare di Aviano diventerebbe il maggior deposito atomico presente in Europa Occidentale.
E’ evidente che questa minaccia e questa ulterioriore militarizzazione nucleare del nostro paese da parte degli Stati Uniti dovrebbe far scattare le dovute contromisure da parte delle coscienze e delle forze antimilitarista (se ne rimangono ancora). Battiamo un colpo?

martedì 24 dicembre 2019

La strage del treno 904, era il 23 dicembre 1984

Era il 23 dicembre 1984. Sul treno 904, partito da Napoli e diretto a Milano esplode una bomba. Nella strage morirono 16 persone (i più piccoli avevano 9 e 4 anni, si chiamavano Anna e Giovanni De Simone), 267 rimasero ferite. Il treno 904 esplode non lontano da dove dieci anni prima era esplosa una bomba su un altro treno: l’Italicus. La zona è quella di San Benedetto Val di Sambro, tra Toscana ed Emilia Romagna. Appena quattro anni prima c’era stata la strage alla stazione di Bologna.
Nel 1992 la Cassazione ha definito quell’attentato come matrice terroristico-mafiosa. Tra i condannati all’ergastolo figura il boss di Cosa Nostra Pippo Calò ma tra gli imputati risultava anche un deputato fascista dell’allora Movimento Sociale, Massimo Abbatangelo, che fu condannato a 6 anni per aver consegnato l’esplosivo a Giuseppe Misso, un capoclan di camorra ma con note simpatie neofasciste, che però fu assolto per la strage. Per mancanza di prove, nel 2015, fu assolto il boss mafioso  Totò Riina, una pista che per la verità non ci aveva mai convinto.
Alcuni uomini di governo dell’epoca avendo a disposizione “altre informazioni”, diedero una chiave di lettura molto diversa da quella un po’ raffazzonata della strage mafiosa. All’epoca non c’era neanche una trattativa Stato-Mafia da condizionare con le stragi.

giovedì 19 dicembre 2019

Cala l’appeal eurozona, imprese senza rappresentanza politica diretta

Dunque, cerchiamo di capire. Tre settimane fa Guido Salerno Aletta ha pubblicato un pezzo virale finito addirittura al Parlamento.
Salvini ha preso nota per motivi elettorali, ma non diceva affatto una nota del pezzo fondamentale. Cioè che l’Italia si stava dirigendo verso l’Anglosfera.
Non è solo per motivi politici o militari, ma prettamente economici. Le filiere produttive italiane, centrate per decenni sulla Germania, si stanno dirigendo verso l’Anglosfera.
Notai questo due mesi fa commentando i dati del commercio estero. Ebbene, ieri sono usciti quelli di ottobre.
Verso l’Eurozona le esportazioni in dieci mesi aumentano solo dello 0.9%, verso la Germania dello 0.2% (un miracolo, visto il tracollo manifatturiero tedesco).
Ora andiamo a vedere altri paesi. Nell’anno l’export verso la Svizzera aumenta dell’11,1%, ma è dovuto al fatto che questo paese è hub mondiale farmaceutico e della pelletteria, che poi riesporta. Molto interessante il dato sulla Gran Bretagna, cresciuto del 6,6% in un anno e dell’8.9% solo ad ottobre.
Ma il vero boom è con gli Stati Uniti, con un aumento nei primi dieci mesi dell’11.3%. Viene poi l’India e l’Oceania con il 4,4%.
Ancora più interessante il dato del surplus commerciale, vale a dire la differenza tra export e import. Ebbene, se con la Germania abbiamo un deficit di 9 miliardi, con la Gran Bretagna il surplus è pari a 12 miliardi, mentre con gli Stati Uniti la bellezza di 24 miliardi, praticamente la metà del surplus totale. Ad ottobre l’export italiano verso gli Usa è stato pari a 24,5%, ciò significa che i dazi non hanno scalfito le aziende italiane.
Dai dati si sottolinea la stagnazione dell’eurozona e la diminuzione del 4,7% con la Cina, che significa che non abbiamo affatto capitalizzato il Memorandum.
Con questi dati possiamo tranquillamente certificare che dopo 40 anni finisce la centralità tedesca. Ecco perché una parte della borghesia industriale soffre il soffocamento dell’eurozona, ormai è proiettata verso altro.
Un “altro” che non trova corrispondenze politiche, visto che in Italia dal 1992 domina il partito tedesco. Ma il partito americano, per ragioni prettamente economiche, presto presenterà il conto.
E’ uno scontro dentro la borghesia e la Lega, più legata ai subfornitori dei tedeschi, non può affatto rappresentarla.
C’è un vuoto politico di rappresentanza degli interessi di classe in Italia, questo vuoto cerca sponde.
Le troverà?

mercoledì 18 dicembre 2019

Francia: “Sotto l’albero… Lo sciopero!

Martedì 17 dicembre si è svolto il terzo “sciopero inter-categoriale” contro la riforma pensionistica in due settimane, dopo il primo di giovedì 5 dicembre e il secondo di martedì scorso.
In queste due settimane sono continuati gli scioperi ad oltranza nel trasporto ferroviario (la SNCF), nella metro parigina – la RAPT – e nelle raffinerie petrolifere.
All’inizio della mattinata di ieri i conducenti delle linee della metro parigina 6, 9 e 3, riunitisi in una assemblea generale a Nation, hanno votato per lo sciopero ad oltranza almeno fino ad venerdì 20 dicembre, rigettando di fatto qualsiasi tregua per le feste natalizie.
Ancora ieri è circolato  un solo TGV su quattro (alta velocità), e un “transilien” su cinque (trasporto locale della regione parigina)…
Un terzo dei lavoratori delle ferrovie si è astenuto dal lavoro, con i settori strategici per il traffico che hanno scioperato in massa: 2/3 dei macchinisti, poco meno del 60% dei controllori.
Nella metro, solo le linee automatizzate 1 e 14 hanno viaggiato regolarmente, le altre sono state fortemente perturbate, mentre le due linee della RER che collegano il centro alla periferia hanno funzionato solo nell’ora di punta.
Prima dell’alba sono stati effettuati numerosi blocchi nei 25 depositi di bus di superficie della rete parigina, con le forze dell’ordine intervenute per sgomberare ben 9 rimesse, “liberate” entro le sette e mezzo del mattino, con in alcuni casi cariche ripetuti e fermi.
Blocchi nei depositi dei bus prima dell’alba si sono svolti in differenti città della Francia, così come in “punti strategici”.
Così come nei precedenti giorni di sciopero “inter-professionale” 7 raffinerie su 8 sono state bloccate; lunedì è stato deposto l’avviso di sciopero ad oltranza per lo strategico deposito petrolifero del Fos nella regione marsigliese, con i lavoratori della raffineria ESSO che si sono espressi per la sciopero. Anche le raffinerie Total La Mède e Petroineos erano ugualmente bloccate e non è uscita una goccia di carburante, così come la filiale petrolifera del (GPMM) di Marsiglia, Fluxel, si è fermata per 24 ore.
Era stata la combattiva Federazione dei Chimici, all’interno della CGT, la prima nella Confederazione a propendere con un comunicato del 22 ottobre di quest’anno per uno sciopero ad oltranza contro il progetto di riforma pensionistica.
Questo comparto aveva annunciato già questo fine settimana un indurimento dello sciopero, mantenendo quindi fede alle promesse: si profila con ogni probabilità una possibile penuria di carburante per i giorni a venire.
I lavoratori dell’energia, anch’essi in sciopero, hanno proceduto a tagli nell’erogazione della corrente elettrica a Lione (40.000 edifici), Nizza e nella regione della Gironda (50.000 edifici) ed altrove, – rivendicati dalla CGT – preoccupando non poco l’Esecutivo.
Lottano affinché l’elettricità sia considerata un bene comune e non una merce, contro il progetto di parziale privatizzazione del settore oltre che contro le pensioni.
Il segretario generale della CGT Philippe Martinez ha dichiarato: può darsi che ci sia stato qualche taglio involontario ma coloro che sono stati colpiti sono le imprese del CAC40, ed in alcun caso sono stati presi di mira i cittadini.
Dopo le cariche ed il “gasaggio” a questi lavoratori nei corteo sindacale a Nizza il responsabile della CGT per il settore Energia a livello regionale – Patrick Santo – ha minacciato di togliere la corrente a metà della città se non avrebbe ricevuto le scuse dal Prefetto, forse inviperito per via del fatto che i tagli dell’elettricità hanno colpito anche l’edificio prefettizio nella città…
Ed è stato lo stesso segretario della CGT della rete di distribuzione RTE, gestore della rete elettrica ad alta tensione, Francis Casanova a dichiarare di prendere questo come primo avvertimento, minacciando tagli più massicci se la riforma non verrà ritirata.
Oltre a questi settori, sono scesi in sciopero e hanno manifestato, altri due importanti settori del Pubblico come gli insegnanti e i lavoratori della Sanità. Quest’ultimi hanno “raddoppiato” la manifestazione, già prevista prima dell’indizione di questa giornata di lotta sulle pensioni, per la difesa della Sanità Pubblica per raggiungere poi il percorso della mobilitazione dell’Intersindacale a Parigi ed in altre città.
È la seconda grande mobilitazione dei lavoratori della sanità, dopo quella massiccia di Novembre nella capitale ed in molte altre città. È stata l’ennesima tappa di una stagione di lotta che per il personale del pronto-soccorso dura da più di nove mesi su spinta del coordinamento “inter-urgences” che ha di fatto dato il là a tutto il comparto, anche nelle forze di organizzazione che si sono dati questi lavoratori, altamente insoddisfatti delle misure parziali che l’Esecutivo è stato costretto a prendere in questi mesi.
Un recente sondaggio (Kantar) realizzato tutti gli anni dal 2004 dall’Istituto Paul Delouvrier mostra come la sanità pubblica sia diventata per la prima volta la priorità dei francesi prima del lavoro e della lotta alla disoccupazione.
Nel comparto scolastico, lo sciopero – in special modo nel settore secondario – è stato un successo, ed è stato per la terza volta di fila maggioritario tra il personale docente di segmento “secondario” con il 65% di adesioni, e circa il 50% di quello “primario” secondo UNES-FSU.
La riforma pensionistica sarebbe particolarmente penalizzante per il settore – il calcolo sulla pensione per gli insegnanti viene fatto attualmente sugli ultimi 6 mesi di carriera per esempio – in un comparto già fortemente tartassato dalle riforme del ministro Blanquier e che propende per una trasformazione radicale in senso regressivo della scuola.
Come sempre i vigili del fuoco sono tra i più amati tra coloro che partecipano alle manifestazione, e anche questa volta a Nation a Parigi hanno “fatto cordone” per impedire le cariche dell’anti-sommossa francese…
I partecipanti alle manifestazioni, ben più di 200 in tutta la Francia, sono stati “al meno” di 615.000 per il Ministero dell’Interno, un milione ed ottocentomila persone per la CGT, mentre il sito “le nombre jaune” specializzato da tempo nella contabilità delle manifestazioni stima i partecipanti a 1.342.000.
In generale si può affermare senza possibilità di essere smentiti, che la mobilitazione è riuscita almeno se non più di quella già inedita e straordinaria del 5 dicembre.
Nella mattinata di ieri un sondaggio Harris Interactive per RTL e AEF Info indicava che il 62% dei francesi sostiene lo sciopero, con un 69% che sosterebbe la “tregua natalizia”.
I sindacati all’origine della mobilitazioni contro le pensioni CGT, FO, FSU, Solidaires e le organizzazione giovanili si sono riuniti ieri sera e hanno emesso un comunicato molto netto chiamando: l’insieme del mondo del lavoro e la gioventù a proseguire e rafforzare lo sciopero, compreso quello ad oltranza là dove i lavoratori lo decidano, per mantenere ed aumentare il rapporto di forza.
Chiamano a organizzare iniziative di sciopero e manifestazioni ovunque sia possibile, in particolare il 19 dicembre con delle mobilitazioni locali e da qui alla fine dell’anno.
Il testo è intitolato: nessuna tregua fino al ritiro della riforma pensionistica.
Non si potrebbe essere più chiari.
Ad un governo che continua a “perdere i pezzi” – l’ultimo a dimettersi è stato proprio il ministro nonché architetto del progetto di riforma pensionistica Delevoye – ed a ostentare fermezza si contrappone un movimento inedito che ha con sé la maggioranza dei francesi, ed il braccio di ferro si sta tramutando in una vera e propria guerra come già scrivevamo.
Come recitava uno slogan ieri – facendo il verso al celebre motto del Sessantotto parigino: sous le pavé, la plagesous le sapin, la grève… Letteralmente, sotto l’abete lo sciopero.

martedì 17 dicembre 2019

Sardine: “Basta l’elemento di massa per generare conflitto sociale?”

Il movimento delle sardine, divenuto famoso fin dalla prima piazza bolognese, ha imposto una serie di questioni nel dibattito politico. Per valutare le caratteristiche che questo movimento assume non si può che analizzarne la funzione che svolge all’interno di questo contesto. Un’analisi che prende in considerazione le Sardine astraendole dalla società in cui si sviluppano non può che essere parziale e di conseguenza non può che portare a conseguenze politiche particolari e incapaci di cogliere le questioni più generali.
La domanda a cui vogliamo rispondere è: basta l’elemento di massa per generare conflitto sociale?
Guardando appunto alla società si deve prendere atto che – in Italia soprattutto – le mobilitazioni di massa si esprimono essenzialmente su tre questioni: quella dell’ambientalismo, quella di genere e quella dell’antifascimo/antirazzismo, intorno a questi tre “temi” effettivamente si riempiono le piazze.
Questo è sintomo di una certa disponibilità da parte di alcuni settori sociali a dedicarsi alla politica, ovvero a dedicare parte del proprio tempo – per quanto minimo in molti casi – a questioni che certamente ci toccano personalmente ma che necessariamente devono essere rappresentate collettivamente e quindi in piazza.
Il movimento delle Sardine coglie questo dato oggettivo ma come ogni movimento politico – essendo il prodotto della società in cui viviamo – non può che essere soggetto ai rapporti di forza esistenti, rapporti di forza che definiscono i caratteri e la forma politica che il movimento assume e di conseguenza la funzione che svolge realmente nella società.
Il contesto nel quale si sviluppa è certamente quello della crisi del modo di produzione capitalistico, una crisi che dura ormai da più di dieci anni e che ha ridotto i margini di redistribuzione della ricchezza. Quindi oggettivamente le classi popolari percepiscono che “si sta peggio di prima”.
Questo dato di fatto non fa altro che aumentare le contraddizioni nella società. Le contraddizioni di per se non si esprimono in maniera “pura” ma è l’azione delle soggettività organizzate che ne definisce la forma politica, ciò che non si può più negare è che il movimento delle Sardine è stato fondato da quattro portavoce che non si fanno problemi ad affermare “il centro-sinistra ci rappresenta bene”.
Non solo, Mattia Sartori ha tranquillamente preso parte alla manifestazione elettorale di Stefano Bonaccini, candidato Pd in Emilia Romagna, dove il movimento è nato in funzione anti-Lega. È quindi un fatto che una delle soggettività organizzate di riferimento sia il centro-sinistra.
Inoltre, se i media mainstream costruiscono una narrazione in cui esiste solo il dualismo PD/Lega, nel momento in cui si identificano i sovranisti con la Lega allora diventa naturale pensare che il soggetto capace di capitalizzare a livello elettorale sia proprio il PD. Ci sono altre soggettività all’interno del movimento? Certamente, in che rapporti di forza stanno con il PD? Agendo in un movimento con queste caratteristiche e a forte egemonia del PD è possibile rafforzarsi e quindi modificare i rapporti di forza?
Diamo uno sguardo alle parole d’ordine che il movimento ha sviluppato.
È sicuramente un movimento “morale” che, a partire da una piattaforma di “buoni sentimenti”, si oppone ai cosiddetti sovranisti e “populisti” nostrani.
Rivendicano il diritto di essere persone normali che amano la bellezza e la non violenza mentre cantano Com’è profondo il mare di Lucio Dalla. La contrapposizione si esprime solo sul piano verbale e infatti le Sardine chiedono alla politica di abbassare i toni, di eliminare l’odio, di ridurre al minimo le esternazioni di rabbia. Contestano la forma che la politica ha assunto in Italia grazie a Salvini ma non si dice una parola sulle politiche che ha condotto, anche perché sono in continuità con quelle del PD.
Quindi si può dire che sfrutta un dato morale e lo declina nella forma più utile al soggetto più forte in quel contesto, ovvero si rimuove ogni possibile “degenerazione” conflittuale e anzi si costruisce una narrazione nella quale il “conflitto” è il problema. La conseguenza naturale di questa operazione è l’affermazione che siamo tutti uguali, tra le Sardine non ci sono differenze. La questione delle Madamine SiTav nella piazza torinese ha messo in luce proprio questo, ovvero se le Madamine non rappresentano differenze nella forma che la manifestazione deve assumere allora possono tranquillamente stare in piazza.
Si vanno inoltre a definire alcuni elementi culturali che più che appartenere al popolo sono il riflesso diretto dell’egemonia borghese sulla società. Gli endorsement di Saviano e di Fazio hanno proprio la funzione di creare ad arte una divisione tra un “noi” e un “loro”, dove il “noi” sono gli illuminati, quelli che non si scompongono mai nemmeno di fronte alle atrocità di una società malata, mentre “loro”, quelli ignoranti, sono gli incompetenti, quelli che vengono strumentalizzati dalla paura e dalla demagogia, quelli accecati dall’odio.
Tanto che La Stampa, in un’analisi sulla piazza torinese, candidamente ammette “Nessuno di loro, per dire, spende una parola per Joker che si potrebbe immaginare come film di riferimento di una massa giovanile scesa nelle strade per rivendicare attenzione da un potere cinico e insensibile. Anzi, in tanti ironizzano sul suo successo: ‘Non l’ho ancora visto, sarà grave?’”. Insomma, un atteggiamento per nulla popolare e molto elitario: in questo senso le Sardine sono l’esatto opposto dei Gilet Gialli.
La funzione reale che questa forma politica sta svolgendo nella società è tutta ideologica, nel senso che è funzionale allo sviluppo di una falsa coscienza che rimuove le differenze tra i settori popolari che subiscono la crisi e coloro che la gestiscono a colpi di tagli al welfare.
Le sardine sono il brand – dalle sembianze buone e spontanee – della forza della concertazione nel nostro paese, anche questa uscita allo scoperto dopo le recenti dichiarazioni di Landini sulla necessità di un patto tra lavoratori, imprese e governo per rimettere in piedi il nostro paese. Alla faccia del facciamo come in Francia.
Salvini ha nel tempo sviluppato dei toni che soffiano sul fuoco delle contraddizioni reali di questa società, pur declinandole in maniera reazionaria la prateria poteva accendersi da un momento all’altro e così assistiamo al ritorno dei campioni dei “toni bassi”, i tecnici, come Mario Monti.
Il segno di quanto questa operazione sia ideologica ce lo danno le parole della Fornero, colei che ha intasato il mercato del lavoro con la legge sulle pensioni costringendo migliaia di giovani alla disoccupazione e alla precarietà ha affermato: “I giovani mostrano di avere capito la necessità delle riforme, che tutte le riforme non sono necessariamente giuste ma vanno fatte, e l’idea di cancellarle soltanto in nome ‘del buon tempo antico’ è sbagliata” e ancora: “hanno anche capito che la riforma delle pensioni era un tentativo di riequilibrare il bilanciamento economico, fortemente sbilanciato a scapito delle nuove generazioni”.
Tuttavia, lo ha detto sommessamente – com’è nel suo stile – e quindi le Sardine lo accettano. È chiaro che la forma che ha assunto il movimento delle Sardine permette la continuità delle politiche che hanno massacrato la popolazione, tutto sotto il segno della bandiera dell’Unione Europea.
Quindi stando dentro al movimento delle Sardine una forza politica che vuole portare avanti gli interessi delle classi popolari si rafforza o si indebolisce?
Qualcuno potrà dire che in fin dei conti se il movimento è democratico dovrà accettare le critiche ed è quindi possibile avanzare dei contenuti all’interno, non terrebbe conto però del fatto che la democrazia in questo contesto è solo formale. Infatti, tra le regole per stare insieme in piazza c’è questa: “Tutte le feste delle Sardine si sono svolte con sorrisi e serenità e sarà così anche la nostra. Se proprio qualche facinoroso vuol dire la sua, restate tranquilli, non reagite d’impulso, ma con distacco, le Forze dell’Ordine sono dalla nostra parte”. Chiediamolo ai Gilet Gialli da che parte stanno le Forze dell’Ordine.
E’ chiaro quindi che il movimento delle Sardine è uno dei tanti strumenti della pacificazione contro la nascita di conflitti in grado di rompere l’egemonia neoliberale e neoliberista nel nostro paese, nonché un’arma molto potente della ricomposizione della “sinistra” attorno alla paura del ritorno del fascismo: il fronte antifascista unito contro la Bestia è ancora una volta coniugato in senso negativo, mai per proposte sociali in opposizione alle imposizioni antipopolari della Troika e del capitale europeo.
Come insegnano Macron e la Merkel per dare stabilità politica ad un paese è necessaria la Grosse koalition socialisti/conservatori, ma questa alleanza in Italia significa un governo PD/Lega il ché mette a rischio il consenso di entrambi i partiti.
Il movimento delle Sardine recupera consensi sul terreno del centro-sinistra e finisce così per rispondere a una necessità delle classi dominanti, non solo in Emilia Romagna ma in tutto il paese.
Nel paese dell’ex-Ilva e di Alitalia, bombe sociali in grado di mettere in ginocchio il nostro paese, l’area politica che ruota attorno al PD continua ad utilizzare strumentalmente il radicamento sociale ereditato dal vecchio PCI ed a usare – sfruttando il mondo dell’associazionismo ad esso affine – le strutture giovanili e sindacali per far sì che tutto cambi, senza realmente cambiare nulla.
Nel frattempo si lascia alla Lega il rapporto con gli strati popolari che maggiormente sentono gli effetti della crisi e per questo non possono contenere la loro rabbia.
Si produce così quella contraddizione tipica del dualismo politico italiano in cui la sinistra dice di combattere contro la Bestia (ieri Berlusconi e oggi Salvini) mentre costruisce materialmente l’ipotesi reazionaria consegnando la rappresentanza politica delle classi popolari alla destra e condividendone con essa le politiche reali.
Come organizzazione politica giovanile non possiamo esimerci dal prendere atto che c’è una certa disponibilità da parte di alcuni settori sociali a mobilitarsi, che la Storia non è finita ma sta girando e l’America latina sta lì a dimostrarcelo.
Le Sardine ci dicono che per essere influenti nei movimenti è necessario organizzarsi, se però mancano gli spazi politici utili a mantenere il rapporto con i settori popolari l’organizzazione non può che indebolirsi e il nemico rafforzarsi.
La fase politica che stiamo vivendo ci impone un salto di qualità sul piano della dialettizzazione con la realtà ma nessuna scorciatoia può salvarci dall’obbligo di provare a costruire altro, cioè una rappresentanza autonoma e indipendente degli interessi della nostra “gente”, a partire dalle nuove generazioni nate e cresciute nella crisi.
Questo è il nostro compito, è la Storia che ce lo richiede.

lunedì 16 dicembre 2019

Profitti ad alta velocità nella giungla ferroviaria europea

È notizia di pochi giorni fa la scalata dell’alta velocità ferroviaria spagnola da parte di Ferrovie dello Stato italiane (FS). Dal prossimo anno le frequentate tratte AVE (Alta Velocidad Espanola) Madrid-Barcellona, Madrid-Siviglia, Madrid-Valencia e Madrid-Alicante verranno coperte non più soltanto dalla storica compagnia pubblica spagnola RENFE, ma anche da FS e dai francesi di SNCF. La Spagna, per farla breve, spalanca le porte alla liberalizzazione del mercato ferroviario, esattamente come avvenne in Italia nel 2011 quando Nuovo Trasporto Viaggiatori (ai più noto come Italo) entrò nel ricchissimo mercato dell’alta velocità.
Non si tratta, tuttavia, di episodi industriali slegati dal contesto politico-economico di riferimento: da diversi anni l’Unione europea patrocina e impone la liberalizzazione dei servizi pubblici infrastrutturali a rete – elettricità, distribuzione del gas, trasporti e telefonia – al fine di costruire un mercato integrato europeo. Al suono del ritornello liberista ‘i monopoli pubblici sono dei carrozzoni burocratizzati strutturalmente inefficienti’, si è voluta imporre la regola della libera concorrenza sull’erogazione di tutti i servizi pubblici in due modalità: lasciando operare più attori nella fornitura di un servizio pubblico (concorrenza sul mercato), oppure – laddove impossibile o economicamente troppo inefficiente – mettendo i servizi a gara concedendone la gestione monopolistica a tempo determinato al vincitore della gara pubblica (concorrenza per il mercato).
Le direttive che hanno gradualmente imposto la liberalizzazione del trasporto ferroviario si sono susseguite dal 1991 fino agli anni più recenti per arrivare, infine, alla piena liberalizzazione del trasporto passeggeri (oltre al già liberalizzato trasporto merci) che dovrà essere obbligatoriamente applicata dal dicembre 2020.
Numerosi paesi europei ad oggi hanno già adottato forme e gradi diversi di liberalizzazione ferroviaria, per lo più seguendo la strada della messa a gara di una parte limitata dei servizi di trasporto su ferro. Solo in pochi casi sono state aperte alla concorrenza sul mercato alcune tratte con più operatori in esercizio simultaneo: unicamente in Italia e in Spagna ciò è avvenuto sul ricco mercato dell’alta velocità.
L’Italia, pioniera del processo di apertura del mercato ferroviario, viene spesso considerata la prova evidente del successo della liberalizzazione del trasporto su ferro nel rilanciare la modalità ferroviaria rispetto ai più inquinanti mezzi su gomma e all’aereo. Indubbiamente si è verificata negli ultimi anni una certa crescita del trasporto ferroviario rispetto ai mezzi su strada e agli aerei su quei segmenti dove il treno è oggettivamente divenuto un mezzo competitivo. 
Ma è stata davvero la concorrenza a produrre questo rilancio? A ben vedere, il vero motivo della crescita del trasporto ferroviario è assai più semplice: da quanto esiste l’alta velocità, i tempi di percorrenza su diverse tratte si sono quasi dimezzati, e ciò rende ad oggi il treno estremamente appetibile. Pertanto, le ragioni della crescita dell’alta velocità sono da attribuire principalmente al completamento della linea nella sua interezza (la ‘T’ del collegamento Salerno-Torino-Venezia completata dal 2010), che ha aumentato la possibilità di utilizzo dell’alta velocità su tratte prima inesistenti.
Al contrario, sulle linee non ad alta velocità, per le quali non sono stati effettuati investimenti importanti, il traffico passeggeri è stabile (o, in alcuni casi, persino in calo), e le criticità associate agli scarsi investimenti pubblici dedicati al segmento sono sotto gli occhi di tutti i pendolari italiani.
Mentre le reti delle tratte minori e periferiche sono rimaste sostanzialmente immutate, per l’alta velocità lo Stato ha speso, tramite la costituzione della società pubblica-privata TAV, una quantità vertiginosa di denaro pubblico. La costruzione dell’alta velocità, peraltro, ha rappresentato un caso emblematico di intrecci perversi tra soldi pubblici e interessi privati, di natura industriale e finanziaria, che ha contribuito ad accrescere esponenzialmente i costi dell’opera.
Secondo varie stime da un costo previsto di 15 miliardi di euro per l’intero progetto si sarebbe arrivati ad una spesa finale di circa 60-70 miliardi, tutti a carico dello Stato a dispetto delle promesse del project financing a parziale carico dei privati. Una lievitazione dei costi in buona parte legata agli interessi milionari dovuti alle banche compartecipanti e prestatrici che riscosso l’obolo si sono defilate dall’impresa e agli appalti gonfiati per diversi progetti dell’infrastruttura.
Al di là della controversa commistione di interessi pubblici e privati nella fase dell’investimento, ciò che qui preme sottolineare è che un’infrastruttura pagata in toto con i soldi della collettività, di importanza strategica e dotata di altissimo potenziale di uso con margini elevatissimi di crescita della domanda, è stata data rapidamente in pasto al capitale privato
La NTV, società di Montezemolo, Punzo e Della Valle, con il 20% della SNCF francese e fondi di investimento lussemburghesi ebbe strada spianata già dal 2006 per entrare nel lucroso segmento dell’alta velocità ferroviaria costruita con i soldi pubblici. Con effetti evidenti e facili da prevedere: in primo luogo, in termini di efficienza economica, la competizione di vettori diversi sugli stessi binari provoca una chiara perdita di economie di densità rispetto alla domanda potenziale, ovvero tassi di riempimento dei treni non ottimali, nonché una perdita parziale dei vantaggi legati al coordinamento organizzativo favorito dall’integrazione societaria tra gestore della rete e gestore del servizio (Trenitalia e RFI sono società dello stesso gruppo, mentre NTV è una società terza); in secondo luogo la concorrenza esercitata sull’ex monopolista pubblico nel segmento più profittevole avrebbe sottratto quote di mercato ad alta domanda riducendo così gli utili di Ferrovie dello Stato.
Quest’ultima, a seguito del processo di conversione in società per azioni nel corso degli anni ’90, si era già trasformata in azienda giuridicamente privatizzata (e, pertanto, rispondente ad espliciti obiettivi di massimizzazione del profitto), mantenendo però la peculiarità propria dell’azienda di proprietà pubblica: quella di poter redistribuire i profitti a fini sociali finanziando le tratte considerate servizio universale, strutturalmente in perdita, con gli utili conseguiti sulle tratte più redditizie praticando la tipica solidarietà di rete delle imprese integrate, oppure devolvendo gli utili a campagne di investimento finalizzate a rendere il servizio più capillare ed efficace.
Liberalizzare l’alta velocità ha così significato erodere profitti laddove estraibili lasciando in carico al soggetto pubblico tutte le tratte in perdita o perché catalogate come servizio universale da offrire ai cittadini a prezzi inferiori ai costi o perché a bassa domanda in quanto tratte poco frequentate. 
Negli anni, gli effetti deleteri di questo processo si sono puntualmente manifestati. Il settore dell’alta velocità ferroviaria genera oggi utili molto elevati sia per Trenitalia (Ferrovie dello Stato) che per NTV – Italo, pari nel 2018 rispettivamente a 560 milioni e a oltre 100 milioni di euro. Gli utili di Italo risultano – dopo un periodo di forte indebitamento – in crescita esponenziale, e cresceranno in modo continuativo negli anni a venire. La sottrazione di quote di mercato all’ex monopolista del resto è stata intensa: la quota di mercato dell’alta velocità di Italo ha superato, nel 2018, il 30%.
Gli entusiasti del processo di liberalizzazione obiettano che grazie alla concorrenza di Italo vi è stato uno spettacolare aumento della domanda e una contestuale riduzione dei costi, e che ciò compenserebbe di gran lunga la perdita di quote di mercato relative dell’ex monopolista.
La contro-obiezione risulta però altrettanto immediata: in primo luogo, la crescita della domanda sull’alta velocità non è legata alla concorrenza in sé, ma risulta costante e continua da quando è stata creata (2006) e successivamente potenziata (2010-11) la rete esistente.
Sicuramente una parte dell’aumento della domanda può essere legata ad un’indubitabile diminuzione dei prezzi, ma occorre qui tenere a mente che l’adozione di tariffe relativamente elevate nei primi anni di fornitura del servizio ad alta velocità (2006-2011) è stata una scelta eminentemente politica adottata da Ferrovie dello Stato al fine di recuperare, in un contesto di scarsi finanziamenti pubblici, gli enormi costi sostenuti per la costruzione dell’infrastruttura.
Pertanto, la politica di abbassamento dei prezzi avrebbe potuto essere adottata da FS, come azienda di proprietà pubblica, in maniera del tutto indipendente dalla concorrenza di Italo. Inoltre, va ricordato il neo-arrivato Italo ha praticato prezzi più competitivi riducendo il costo del lavoro del 30%: per farlo, ha applicato ai ferrovieri l’assai conveniente contratto del commercio con stipendi ben più ridotti di quelli pagati da FS (si veda la Figura seguente).

Inoltre, la società di Montezemolo, Punzo e Della Valle, venduta nel 2018 realizzando utili milionari al fondo di investimento nord-americano GIP, ha goduto da subito di vantaggi e regali di ogni sorta da parte dello Stato, tra i quali: esenzione dal contributo di solidarietà per il finanziamento del servizio universale; applicazione di regole diverse per l’affidamento di lavori e opere meno costose di quelle sopportate da Ferrovie dello Stato; concessione senza oneri dei terreni dove sorge il centro di manutenzione NTV; un clamoroso sconto del 37% sul pedaggio da pagare al gestore della rete a decorrere dal 2015.
Sconto, va detto, che vale per tutte le compagnie ferroviarie erogatrici del servizio (compresa Trenitalia), ma che va a discapito del gestore pubblico della rete (integrato, ma contabilmente separato da Trenitalia) e si è scaricato sugli inevitabili maggiori sussidi che deve versare lo Stato per ammortizzare i costi infrastrutturali. Insomma, la classica liberalizzazione-privatizzazione con i soldi dei contribuenti e lo sfruttamento dei lavoratori.
L’apertura dei mercati ferroviari ha di fatto accelerato, in Italia come altrove, quel processo di privatizzazione formale già avviato con lo snaturamento delle imprese ferroviarie trasformate in società per azioni tese alla massimizzazione del profitto anziché all’erogazione di un servizio pubblico.
Messe in concorrenza con attori privati o attori pubblici di altri paesi a seguito della liberalizzazione, le compagnie ferroviarie hanno compiuto quella definitiva mutazione genetica che le ha trasformate in vere e proprie multinazionali alla ricerca del massimo profitto sui mercati internazionali con conseguente pressione al ribasso sul costo del lavoro.
Mentre Italo sottrae quote di mercato a Trenitalia nelle ferrovie patrie, Ferrovie dello Stato, come i suoi omologhi europei SNCF e Deutsche Bahn, si lancia nella sua conquista dei mercati europei a caccia dei lauti guadagni attesi sui segmenti più profittevoli, sottraendo così risorse alle imprese pubbliche operanti storicamente ciascuna nel proprio paese. L’ultimo caso quello della scalata all’alta velocità spagnola.
Un processo perverso che si basa sulla definitiva spaccatura della solidarietà di rete che caratterizzava il tradizionale servizio pubblico e la rigida separazione tra tratte profittevoli, su cui si scatenano gli appetiti dei concorrenti internazionali, e le tratte in perdita a carico degli Stati che dispongono di risorse sempre più scarse stretti nella morsa dell’austerità imposta da quella stessa Unione Europea che spinge per la liberalizzazione dei servizi a rete.
A coronamento del tutto si accrescono  le spinte sempre più pressanti per la privatizzazione sostanziale dei gruppi pubblici già trasformati da tempo in SpA. Nel 2015, Ferrovie dello Stato era sul punto di essere ceduta ad investitori privati per il 40% del capitale: la vicenda fu poi congelata, ma viene costantemente minacciata come imminente.
Sarebbe questa l’ultima ciliegina sulla torta di quel processo di snaturamento profondo di un settore che da servizio pubblico teoricamente orientato a favorire la qualità e la capillarità del trasporto a favore dell’utente diviene affare privato da cui estrarre lauti profitti dove la domanda di mercato lo consente, lasciando a risorse pubbliche sempre più scarse il residuo e decadente servizio universale. Il tutto, sulle spalle degli utenti, dei contribuenti e dei lavoratori.

giovedì 12 dicembre 2019

Anche CasaPound si vuol travestire da sardina

Alla fine dei giochi le contraddizioni della realtà vincono sulla “fantasia” di chi cercava una scorciatoia furbetta per evitarle.
Prima i fatti, brutali, che scuotono la bacinella paciosa in cui pretendeva di nuotare il fenomeno delle “sardine”. Dopo miss Pascale in Berlusconi, dopo Mario Monti e tanti quacquaraqua pronti a far da sponsor (sorvoliamo sull’immensa Patti Smith, che ogni volta che parla di questioni italiane scivola sulle bucce di banana…), nel giro di sole 24 ore si sono fatti avanti prima le “madamine sì Tav” di Torino (“ci saremo in arancione”) poi addirittura i fascisti del terzo millennio, ossia i picchiatori di CasaPound.
Per le prime, dal vertice dei capi-branco, era uscito solo qualche vagito imbarazzato, fin quando la madamina-capa, Giovanna Giordano Peretti, neo-referente torinese del partitino di Renzi, non aveva risolto il problema rinunciando a presenziare al flash mob di oggi, in piazza Castello.
Per capire quanto l’imbarazzo non fosse dovuto a un problema politico, basta leggere come se l’è gestita Paolo Ranzani, promotore delle sardine torinesi: “Nessuno  ha mai detto che non vogliamo le madamine.Noi vogliamo tutti quelli che condividono i nostri capisaldi. La Tav è un discorso ampio che non si può prendere qui adesso”. Sembra Di Maio alle prese con la tenuta del goerno, ma almeno il povero Gigino è arrivato a questo punto dopo dieci anni, non dopo dieci giorni…
Non contento si è infilato ancor più nell’ansia di contorcersi: “Abbiamo solo detto che troviamo sconveniente venire in arancione per sottolineare una diversità dalla sardine.In piazza vorremmo solo essere sardine italiane e europee. Se non fanno le diverse le madamine sono benvenute in piazza, le sardine nome hanno colore. Una macchia di arancione non ci distrarrà dal cantare tutti insieme. Forse sarebbe stato meglio partecipare come cittadini, senza proclami, senza distinguo”. Insomma: non abbiamo nulla contro gli imprenditori e tanto meno contro la Tav, ma per favore cercate di non farvi notare troppo sennò ci casca il giochino…
Sui fasciorazzisti di CasaPound, però, la frittata è stata immediata.
Il leader romano delle sardine, Stephen Ogongo, ha avuto la brillante idea di “non trovare nulla da eccepire” se i soliti provocatori fossero stati in piazza. Deve essergli sembrato divertente che lui, nero come l’ebano, apriva la porta ai razzisti che vogliono affondare in mare i barconi con i suoi fratelli sopra…
Evidentemente è così nuovo alle faccende politiche da non sapere che – solo due o tre anni fa, quando Salvini a Roma non aveva uno straccio di radicamento sociale – il leader del “linguaggio dell’odio” si faceva scortare in giro proprio dai palloni gonfiati agli ordini di Di Stefano e Iannone.
Insomma: aprire la piazza a quelli che facevano il servizio d’ordine al bruto che dici di voler combattere non è proprio il massimo della coerenza e dell’intelligenza.
Così è arrivato il più classico – e anche nobile – degli strumenti della “vecchia politica”: il comunicato ufficiale.
Anche qui l’imbarazzo è colossale: non riescono neppure a nominare il problema che vorrebbero risolvere (mancano le parole “CasaPound”, o “fascisti”), mentre si sciorina la lista dei valori tra cui, fortunatamente, compare anche l’antifascismo senza arrivare a “scomunicare” il malaccorto “referente romano”. Il resto è contorno…
Che dire?
Una sola cosa: finisce qui la pretesa di fare un “movimento spontaneo apolitico contro il linguaggio dell’odio”, ma senza interferire in nessun modo con le asperità insormontabili della realtà sociale e politica.
Una pretesa abbastanza simile a quella dei “grillini delle origini” (“né di destra, né di sinistra”) e, come quella, destinata ad affondare al primo scoglio o sterzare al primo bivio.fisicamente
Ci sembra significativo, comunque, che questa pretesa si squagli (il movimento andrà avanti, tra crescenti sussulti e grida del suo pantheon fin qui semi-nascosto) su due questioni politiche concretamente inaggirabili: il rapporto con i padroni e con i fascisti.
Hic Rhodus, hica salta.. Anche perché i provocatori fasciorazzisti hanno annunciato che saranno in piazza San Giovanni, sabato 14. E lì conterà cosa si fa fisicamente, non pestando pensierini amorevoli sulla tastiera.

martedì 10 dicembre 2019

Rabbia social e “piazze dell’amore”: dobbiamo davvero smettere di odiare?

Nelle ultime settimane si è parlato moltissimo dell’idea che in Italia esistono due culture, una dell’odio e una dell’amore, di quale debba prevalere e di come fare in modo che prevalga.

Si è parlato anche tanto di campagne di educazione all’uso dei social, penso a #odiareticosta, promossa, tra gli altri, da Michela Murgia. I due discorsi spesso si incrociano e l’idea è che gli “odiatori” seriali vadano educati, anche attraverso sanzioni pecuniarie.

Vi premetto che quando anche io, nel mio piccolissimo, in momenti di particolare esposizione, sono stata tormentata da gente che non aveva di meglio da fare che rompermi il cazzo sul mio aspetto fisico, sul mio accento o che addirittura millantava di avere mie foto “scandalose” da pubblicare in rete (a proposito, caro, le sto ancora aspettando, eh), mi sono parecchio seccata.
Premetto pure, se ce ne fosse bisogno, che quando leggo atrocità in giro sui campi di sterminio che erano una specie di colonia estiva, sugli immigrati che devono diventare pasto per i pesci o su Cucchi che se l’è andata a cercare mi saltano i nervi, e non poco.

Credo che i social siano uno strumento potentissimo, molto più potente di quanto chi scrive una di queste boiate e poi preme il tasto invio possa pensare. E che come ogni strumento potente non possa essere usato come se fossimo dei sonnambuli, in uno stato di incoscienza, ma che invece sia necessaria una riflessione collettiva e un’educazione collettiva – che passa per l’estensione, l’allenamento della nostra immaginazione sulla conseguenza delle nostre azioni.
A volte lo sviluppo di questi strumenti va più veloce della nostra possibilità o capacità di riflettere su di essi e questo crea un circolo vizioso pericolosissimo. Se poi aggiungiamo che, come ci mostrano le statistiche dell’OCSE pubblicate ieri, abbiamo grosse difficoltà a leggere, comprendere e rielaborare un testo, allora capiamo che il problema è grosso come un elefante.

Insomma, la situazione sembra questa: c’è un dilagare di odio, strumenti e figure (anche istituzionali!) potenti che lo diffondono e che spesso se ne servono. La più naturale conseguenza di tutto ciò sembra la necessità di costruire una “cultura dell’amore”.

Lo abbiamo sentito spesso nelle piazze delle sardine degli ultimi giorni e ci è sembrata una cosa bella. Lo è, non fraintendetemi. Ma c’è qualcosa che non va, perché non esistono risposte semplici a fenomeni complicati, non esistono scorciatoie. Perché noi siamo fatti di amore, ma anche di odio. Di cose e persone che amiamo e di altre che sentiamo come nemiche. Perché ci hanno tolto qualcosa, perché ci hanno fatto del male, perché il loro stile di vita ci rimanda all’inadeguatezza del nostro – e non sempre basta sforzarsi per cambiare le cose, come predicano tanti guru del web, ma “uno su mille ce la fa”.

I social non sono lo specchio della società, però qualcosa ci dicono e forse sarebbe utile restare in ascolto. Sull’Espresso (vi giro qui sotto le pag.) è uscita una piccola inchiesta su chi sono gli odiatori in rete, vi faccio un riassunto un po’ brutale: sono dei poveracci o persone la cui condizione economica è cambiata radicalmente a causa della Crisi, non è gente semplicemente frustrata perché “di carattere è fatta così”.

Odio digitale e disagio sociale vanno di pari passo.

Hanno scelto un modo stupido per incanalare la loro rabbia, siamo d’accordo, diventano gli utili idioti di chi la cavalca, d’accordissimo, ma quella rabbia c’è e non potrà scomparire né a colpi di denunce né di inni all’amore.

E se i bersagli sono il ne*ro, il terrone, il fr*cio e lo zingaro è perché io quelli là li vedo, sono presenti in carne ed ossa davanti a me e qualcuno mi ha suggerito che è proprio colpa loro se non ho casa, se sono in fila da ore per una visita medica che ho aspettato per mesi, se mi hanno licenziato. Non basta però dire che quelli non c’entrano niente, che non è lo straniero ad averti “rubato” il lavoro, la casa, il futuro. Anche perchè il FATTO che ho bisogno di arrivare a fine mese, che vivo in una periferia di merda, che voglio una pensione non da fame e una stabilità sociale, resta.

Bisognerebbe provare – e qui sta la parte difficile – a rendere visibile chi davvero mi ha messo in quella condizione.

Perché di qualcuno da odiare ne abbiamo bisogno tutti.

Non facciamo gli ipocriti o i freakkettoni (e comunque anche i figli dei fiori odiavano i politici che avevano fatto della loro generazione carne da macello per la guerra in Vietnam).

Chi dice che dobbiamo promuovere una cultura dell’amore ignora, o finge di ignorare, che l’amore incondizionato è fatto per i martiri o per chi se lo può permettere. Invece esiste un amore che possiamo provare tutti, se ci educhiamo, se lo costruiamo: quello per chi si trova in condizioni simili alle nostre. E un odio che è una risorsa sana e buona, quello che mette in evidenza, che rende chiaro che c’è qualcuno che, per primo, ci ha odiato, togliendoci il diritto ad avere un futuro decente.

“Odio mosso d’amore”, cantava il poeta, “è un fatto di appartenenza”.

mercoledì 4 dicembre 2019

Per quest’anno non cambiare, stesso fisco padronale

Al tempo dell’esecutivo giallo-verde vari esponenti della galassia del centro-sinistra, da Leu al PD, criticarono aspramente il governo per aver portato avanti una riforma fiscale che andava a ridurre la progressività del sistema tributario italiano facendo pagare meno imposte ai più ricchi. Verità indiscutibile, ma a ben vedere del tutto superficiale e strumentale, sia per il pulpito da cui veniva la predica sia per la ristrettezza di giudizio in merito alle caratteristiche complessive del sistema fiscale italiano.
La pessima riforma fiscale Lega-5stelle che allargava il regime forfettario alle partite IVA fino a 65.000 euro e poi, in previsione, con un secondo scaglione al 20% fino a 100.000, era infatti la punta di un iceberg enorme costruito in decenni di stravolgimento delle imposte italiane e annichilimento del loro grado di progressività.
Un processo portato a compimento con dovizia da tutte le parti politiche che oggi siedono in parlamento, molto prima e molto oltre gli effetti del pur inaccettabile sistema forfettario per le piccole partite IVA, che ha visto sottrarre alla progressività dell’imposta enormi quote di redditi da capitale tramite numerosi espedienti.
Prova ultima della totale inconsistenza e strumentalità di quelle critiche di PD, Leu e anime varie del centro-sinistra, è proprio la piena continuità con le linee precedenti di politica tributaria seguita dall’attuale governo. Al margine della non approvazione del secondo scaglione della flat tax al 20% per i redditi oltre i 65.000 euro annui e fino a 100.000, motivata peraltro più che da motivi equitativi dal consueto richiamo ai vincoli di bilancio, la linea di politica fiscale del Governo non rappresenta in alcun modo un cambiamento di passo rispetto alla consolidata tendenza pluridecennale. Chi insomma si scandalizzava per la “mini flat tax” di Salvini scomodando la Costituzione e schizofrenicamente rivendicava il merito di avere abbassato la già esistente tassa piatta per le grandi imprese, non sembra proprio avere in mente un sistema tributario ispirato a criteri diversi da quelli della destra liberista.
Il regime forfettario per le partite IVA, di cui molto si è discusso negli ultimi mesi ed anni, è infatti soltanto una goccia in un mare di eccezioni, iniquità e operazioni regressive di cui il nostro sistema di tributi è affetto da molto tempo. Nel merito specifico, il forfettario è un regime fiscale separato da quello della tassazione ordinaria dei redditi delle persone fisiche, per cui ai lavoratori autonomi si applica una tassazione ad aliquota proporzionale sui loro guadagni, calcolati come una percentuale dei loro ricavi con un coefficiente che varia da settore a settore occupazionale.
Il regime forfettario fino a 30.000 euro di ricavi fu introdotto alcuni anni fa per tamponare la proliferazione delle ‘false partite IVA’, ossia quei lavoratori che si palesano al fisco come autonomi ma che di fatto si configurano, per mansioni e attività svolte, come lavoratori dipendenti, nonché per proteggere quella galassia di micro-imprenditoria a reddito basso proliferata con la crisi economica, tenendo conto che il lavoratore autonomo paga un’elevata aliquota contributiva per le prestazioni previdenziali interamente a suo carico non esistendo un datore di lavoro riconosciuto formalmente come tale.
Con la scorsa Legge di Bilancio il governo 5stelle-Lega aveva esteso il regime forfettario per le partite IVA dai 30.000 ai 65.000 euro, applicando agli autonomi che rientrano in questa categoria una vera e propria ‘flat tax’ al 15%. Non solo: si prevedeva anche l’estensione, a partire dal 2020, del regime forfettario fino a 100.000 euro con un’aliquota al 20% per la parte di reddito eccedente i 65.000 euro. Tali soglie, molto più elevate della precedente, di fatto snaturavano in modo evidente una misura nata a favore delle micro partite IVA andando a ricomprendere fasce di reddito ben più elevate e di fatto, almeno in parte, redditi da piccolo capitale.
La seconda aliquota fino a 100.000, ai sensi della finanziaria in via di approvazione, non entrerà, per fortuna, in vigore. Resterà invece l’aliquota piatta fino a 65.000. Questa l’unica novità rispetto alle previsioni precedenti. Se leghisti e accoliti hanno visto nell’abolizione del secondo scalino fino a 100.000 un dietrofront nel percorso verso l’agognata vera flat tax e un insopportabile attacco al ceto medio, e se il PD, dal lato ‘opposto’ si riempie la bocca di equità fiscale del tutto a sproposito, ciò che in pochi vedono è che il sogno liberista delle imposte ridotte al minimo per i capitalisti e in generale per i più ricchi ha da tempo le sue fondamenta concrete costruite passo dopo passo nel corso degli ultimi trent’anni con un decisivo contributo proprio di coloro che mostravano apparente ripugnanza verso le idee reaganiane di Salvini e compagnia.
Il regime forfettario è un tassello relativamente marginale di un mosaico molto più vasto le cui tessere sono state assemblate poco a poco, a partire dagli anni ’80 e ’90 del secolo scorso adottando in politica tributaria una linea schiettamente liberista sviluppata di pari passo con quel liberismo complessivo delle politiche di bilancio (di entrata e di spesa) e più in generale delle politiche economiche nel loro insieme. 
Mentre osserviamo da ormai trent’anni una serie incessante di avanzi primari che drenano risorse e reddito all’economia, sul fronte della tassazione non si può che constatare il continuo processo di svuotamento del carattere di progressività del fisco disegnato con la riforma del 1973/74 ispirata al poi bistrattatissimo articolo 53 della Costituzione.
Con il tempo, la progressività è andata via via depotenziandosi attraverso cinque tendenze che hanno segnato, e segnano tuttora, l’evoluzione del fisco in Italia dagli anni 80/90 ad oggi.
  1. L’IRPEF è passata da un sistema di 32 aliquote nel 1974 all’attuale sistema di 5 aliquote. Le 32 aliquote del 1974, oltre ad essere percentuali molto distanziate, coprivano fasce di reddito molto ampie. Dopo anni di stravolgimenti, l’IRPEF è ormai un’imposta scarsamente progressiva, che colpisce in modo molto pronunciato il ceto medio, mentre favorisce fortemente i redditi alti e altissimi. Un’imposta che equipara un reddito medio-alto ad un reddito milionario e che grava come un fardello su chi percepisce un reddito medio, a tal punto che, ad oggi, circa 2/3 del gettito IRPEF viene da contribuenti 0-55.000 euro.
  2. Si sono ampliate le eccezioni alla norma del cosiddetto ‘reddito entrata’ per cui tutti i redditi di una persona dovrebbe cumularsi in capo all’individuo costituendo reddito personale soggetto a tassazione progressiva. La presenza del regime forfettario per le partite IVA fino a determinate soglie, la tassazione agevolata (dal 2010) dei redditi da affitto immobiliare, prima compresi nella base imponibile IRPEF, ora soggetti ad aliquote sostitutive (cedolare secca proporzionale scesa di recente al 12%); la tassazione dei redditi da attività finanziaria (interessi, plusvalenze) tramite aliquote agevolate al 26% o 21%; la presenza di una tassazione proporzionale degli utili delle società di capitali al 24%, costituiscono gli esempi più lampanti di un sistema volutamente frammentato dove l’imposta progressiva colpisce quasi esclusivamente i redditi da lavoro prevedendo per i redditi da capitale regimi separati e agevolati.
  3. In particolare la riduzione della tassazione delle società di capitali, passata in una trentina d’anni dal 50% all’attuale 24% di aliquota IRES e il cambiamento di sistema nell’armonizzazione tra imposta sulla società e imposta sul socio fanno sì che una massa gigantesca di redditi da capitale non rientra ad oggi nella progressività delle imposte ed è tassata con aliquote fortemente agevolate. Una parte consistente di percettori di elevati redditi da capitale gode, inoltre, di una tassazione privilegiata sia per via di un’imposta societaria proporzionale al 24%, sia per via delle imposte cedolari secche (al 26% e al 21%) che colpiscono i dividendi, le plusvalenze, gli interessi sui titoli e gli affitti di immobili.
  4. I forti aumenti dell’aliquota IVA (partita al 12% ed arrivata al 22% sui beni ordinari) hanno dato luogo ad un ribilanciamento del peso specifico delle imposte indirette che crescono al cospetto di quelle dirette. Sul piano distributivo, imposte come l’IVA hanno un impatto fortemente regressivo: i poveri infatti consumano una percentuale di reddito assai più alta dei ricchi, e tassare il consumo quindi implica sottrarre quote percentuali di reddito ben più elevate dai poveri piuttosto che dai ricchi.
  5. Infine, vi è l’annoso tema dell’evasione e dell’elusione fiscale. L’evasione ha chiare implicazioni distributive generali in quanto non può essere praticata dai lavoratori dipendenti per via della presenza del ruolo di sostituto d’imposto svolto dal datore di lavoro. L’aumento delle pratiche elusive è invece legato alla massiccia delocalizzazione di capitali in sedi fiscali privilegiate a seguito del processo di piena liberalizzazione dei capitali avvenuto alla fine del secolo scorso.
La concomitanza di questi cinque orientamenti fa sì che ad oggi il sistema tributario italiano sia sempre meno equo, sempre meno progressivo e sempre più dipendente dal contributo della categoria dei lavoratori: in Italia le imposte vengono pagate per la stragrande maggioranza da dipendenti e pensionati e gravano in gran parte sui redditi medio-bassi, medi o di poco superiori alla media, mentre il carico fiscale sui redditi più alti ha beneficiato nel corso degli anni più recenti di una continua riduzione.
Solo una generale revisione del sistema  tributario su base fortemente progressiva potrebbe avere delle chiare implicazioni redistributive e favore della la classe lavoratrice nel suo complesso. Da un lato, un fisco realmente progressivo assicurerebbe che le fasce alte di reddito vengano tassate in una misura percentuale più elevata rispetto alle fasce di reddito più basse; dall’altro, le risorse reperite tramite la tassazione progressiva permetterebbero di finanziare, per la parte non coperta da deficit, quei servizi per la collettività di cui beneficiano principalmente le fasce di reddito più basse.
Quale via seguire per favorire una drastica inversione di tendenza rispetto al quadro tributario attuale? Un’efficace riforma tributaria che possa restituire al sistema fiscale quella progressività e quella funzione redistributiva da tempo compromessa, dovrebbe basarsi su tre vie maestre.
  1. Occorrerebbe ricondurre tutte le tipologie di reddito nell’alveo di un’unica imposta progressiva eliminando tutti i regimi agevolati e, a quel punto e contestualmente, aumentare drasticamente il grado di progressività dell’imposta sui redditi. Tale aumento avrebbe la capacità di operare una discriminazione dei redditi per censo ma anche per classe sociale: colpire con aliquote molto elevate le fasce di reddito elevatissime significherebbe di fatto colpire fortemente i redditi da capitale.
  2. Un ulteriore elemento potrebbe essere rappresentato dall’introduzione di un’imposta patrimoniale sulla ricchezza finanziaria mobiliare e immobiliare. Senza dubbio una patrimoniale non deve essere fatta ‘alla Monti’ (tassando le prime case) ma deve andare a colpire soltanto i grandi patrimoni (immobiliari e finanziari) salvaguardando invece il patrimonio di milioni di persone che detengono immobili come prime case di abitazione, oppure i patrimoni finanziari frutto di anni di faticosi risparmi da parte dei lavoratori e della classe media nel suo insieme.
  3. All’interno del mondo delle imposte indirette (come l’IVA), infine, sarebbe opportuna una forte ricalibrazione delle aliquote sulla base del grado di necessità dei beni di consumo. Stante il carattere generalmente regressivo delle imposte indirette, vi è un modo per calmierarlo e consiste nell’applicare aliquote IVA differenziate a seconda della tipologia del bene di consumo tassando in modo più intenso i consumi di fascia alta e in modo più moderato o persino detassando del tutto i consumi di prima necessità.
Oltre ad avere un forte effetto di ripristino di giustizia distributiva, un drastico aumento della progressività delle imposte avrebbe un effetto positivo macroeconomico sui consumi: avendo i più poveri e i redditi medi un’elevata propensione marginale al consumo ed i più ricchi un’elevata propensione marginale al risparmio, spostare quote di prelievo dai poveri ai ricchi implicherebbe un subitaneo aumento dei consumi a discapito dei risparmi inerti e con un’evidente effetto espansivo sulla domanda aggregata complessiva. In un’economia ben lontana dall’aver raggiunto il pieno impiego un aumento della domanda aggregata di beni e servizi implica un aumento del prodotto, dell’occupazione e dei redditi.
Associato ad una necessaria ripresa della spesa e degli investimenti pubblici, la via della redistribuzione progressiva del reddito contribuirebbe ad uscire dalla crisi economica che attanaglia il nostro e gli altri paesi europei da ormai più di un decennio con alti tassi di disoccupazione. Infine, la lotta contro la disoccupazione avrebbe con buone probabilità un effetto di ritorno sul conflitto distributivo: minor disoccupazione, infatti, implica minor sostituibilità dei lavoratori e dunque una maggior forza contrattuale nella determinazione delle proprie condizioni di lavoro e sulle retribuzioni dirette e indirette.
Ecco quindi che un sistema tributario equo assume, oltre ai suoi effetti redistributivi immediati, una doppia valenza macroeconomica fondamentale. In primis, il gettito fiscale permette di finanziare la spesa di risorse pubbliche che contribuiscono all’aumento della domanda aggregata: una funzione che di certo non va vista come sostitutiva della spesa in deficit, ma ad essa complementare, e che quindi va accompagnata alla battaglia tesa a recuperare i margini di manovra fiscale ad oggi pressoché inesistenti nel contesto europeo. In secondo luogo, un fisco progressivo permette una crescita dei consumi e quindi rafforza gli effetti macroeconomici positivi della spesa pubblica.
Un programma simile, tuttavia, richiede una serie di condizioni istituzionali ad oggi inesistenti che implicano quindi uno sguardo più ampio sull’architettura generale delle politiche economiche degli Stati nel contesto europeo e internazionale.  Assieme ai vincoli di bilancio che limitano il ricorso alla spesa in deficit, vi è un altro elemento cruciale che ingessa la flessibilità della politica fiscale e di bilancio degli Stati: la libera circolazione di merci e soprattutto di capitali. In un contesto dove i capitali sono liberi di migrare da un paese ad un altro, la possibilità di incidere in modo rilevante sulle caratteristiche di un sistema tributario è assai ridotta.
Un qualsiasi tentativo di aumentare le aliquote marginale sui redditi più elevati e sui redditi da capitale dovrebbe infatti fare fronte al rischio di delocalizzazione massiccia di capitali verso paesi a fiscalità più agevolata con tutte le conseguenze finanziarie e reali che ciò implicherebbe. Pertanto, una riforma tributaria fortemente progressiva non appare compatibile con gli attuali assetti istituzionali imposti dall’adesione ai trattati europei e ai trattati di libero commercio internazionale. Solo una profonda messa in discussione della libera circolazione dei capitali può rendere possibile una linea di politica fiscale e di politica economica davvero emancipativa e favorevole alle classi subalterne.

lunedì 2 dicembre 2019

La campagna elettorale in Gran Bretagna e il “Manifesto” del Partito Laburista

Il 12 dicembre si svolgeranno elezioni politiche in Gran Bretagna.
La sfida tra il partito laburista e quello conservatore ha caratterizzato fin qui la campagna elettorale.
Da un lato Boris Johnson leader dei tories ed ex primo ministro, succeduto a Theresa May, ha giocato quasi tutto sulla sua supposta capacità di avere raggiunto un accordo con i 27 dell’UE rispetto alla Brexit prima dell’indizione delle elezioni anticipate.
Dall’altro, Jeremy Corbyn ha puntato tutto sui contenuti di un programma politico di riforme radicali esposto nel nuovo Manifesto – il nome è in italiano – del Labour.
Tale documento è forse l’esposizione più organica che una forza politica continentale abbia fin qui espresso rispetto alle sfide che attendono chi vuole dare rappresentanza alle classi subalterne, tartassate da – almeno in Gran Bretagna – quasi 40 anni di politiche neo-liberiste, ed aspira a governare un Paese del “Primo Mondo” accettando le sfide poste globalmente.

Luci ed ombre del Manifesto

Il Manifesto non è il libro dei sogni, ma un’organica sistemazione di soluzioni concrete.
Affronta di petto la necessità della transizione ecologica, anzi ne fa l’asse principale per la trasformazione della società nel suo insieme a cominciare dai gangli vitali del sistema economico.
La declina con la questione di classe, in termini di creazione di posti di lavoro, formazione professionale, garanzie sindacali e riequilibrio delle storture territoriali del “vecchio” modello di sviluppo.
L’autonomia e il risparmio energetico all’interno dei criteri di eco-compatibilità sono alla base della ricetta laburista.
C’è una visione complessiva che potremmo sintetizzare con la formula “più pubblico, meno privato” come risultato del processo di riappropriazione dei settori strategici dell’economia e dei beni indispensabili per la collettività, a cominciare dalla settore manifatturiero, altro che de-industrializzazione!
Si prevedono per questo grandi investimenti pubblici di lungo periodo. L’orizzonte è la pianificazione economica di lungo corso, non lagaranzia dell’aumento dei dividendi per gli azionisti delle oligarchie economiche su tutto ciò che può essere “mercificato”.
C’è una radicale messa al centro dei bisogni umani, dalle necessità basilari: casa, cibo, istruzione, cure sanitarie e sicurezza ambientale complessiva, ecc. tutto ciò insieme ad un ampliamento dei diritti civili sostanziali, a cominciare dall’effettiva parità uomo/donna – le donne prendono in media il 13% meno degli uomini – e la fine della discriminazioni sessuali e razziali, verso una società che valorizzi le differenze.
C’è una attenzione alla comprensione della natura sociale del crimine e a prospettare soluzioni che mirino alla prevenzione, alla de-carcerazione, all’inclusione, in assoluto contrasto con quaranta anni di neo-liberismo che hanno imbarbarito il tessuto sociale collettivo e favorito la guerra di tutti contro tutti, in cui la “sicurezza” delle classi popolari era l’ultima delle preoccupazioni per l’establishment.
In generale c’è una attenzione particolare alle fasce più sfavorite dalle politiche neo-liberiste, che hanno visto azzerate le più elementari garanzie vitali. In special modo donne, anziani e bambini sono stati i più colpiti in questo processo di “pauperizzazione” che ha ricacciato la Gran Bretagna in una situazione simile alla Prima Rivoluzione Industriale, con una “umanità eccedente” trattata come scarto.
C’è, potremmo definirla, una chiara identificazione del nemico cui fare pagare il prezzo di questa transizione politico-sociale: quella manciata di privilegiati – come viene detto nell’introduzione del Manifesto – a cui i Conservatori hanno lasciato mano-libera in questi anni.
È il laissez-faire ad essere messo radicalmente in discussione.
I grandi inquinatori, gli speculatori finanziari, gli evasori fiscali delle multinazionali, nelle parole di Corbyn, sono il vero volto della classe dominante e sulle loro spalle graverà il peso di un cambiamento inderogabile, perché le contraddizioni accumulate rendono questo sistema in crisi prossimo al collasso.
Certamente nell’elaborazione del Manifesto alcune questioni rilevanti – che sarebbe disonesto non sottolineare – costituiscono per così dire delle “pietre d’inciampo” sulla strada di una trasformazione complessiva della Gran Bretagna, e soprattutto della sua possibile collocazione internazionale.
È ribadita infatti la propria fedeltà alla NATO; le proposte sul dopo Brexit del Labour tendono a perpetuare il legame con il dispositivo economico-commerciale del Mercato Comune Europeo, non dando seguito al desiderio di de-connessione rispetto alla UE espresso inequivocabilmente con il referendum del 2016.
Sarebbe altrettanto disonesto non sottolineare come le riforme, e anche alcuni importanti orientamenti di politica internazionale, neghino alla radice ciò che il processo di integrazione europea è stato per le classi subalterne, e ciò che ha significato per alcune popolazioni, in specie del Nord-Africa e del Medio-Oriente (Palestina e Yemen, per esempio); oltre che alcune responsabilità della NATO, per esempio nel conflitto libico.
Allo stesso tempo sarebbe miope – a differenza di ciò che emerge dal Manifesto – non considerare come corresponsabili dell’attuale sfacelo della condizione della working class britannica e della “tendenza alla guerra” portata avanti da Londra, quella parte del partito laburista – ora marginalizzata e sconfitta politicamente, ma assolutamente non scomparsa – che si è riconosciuta nel progetto politico di Tony Blair e del suo New Labour.
Lo zoccolo duro dell’ex New Labour è la vera “Quinta Colonna” di qualsiasi progetto di inversione di tendenza nelle politiche del Partito.
Certo i Conservatori sono il primo nemico da battere, ma il nemico – per così dire – ha per lungo tempo marciato alla testa della compagine laburista, fino all’elezione di Corbyn nel 2015, che ha dovuto faticare non poco per “disinnescare” i tentativi di defenestrarlo o quanto meno di sbarrargli la strada da parte della destra interna…

Una campagna elettorale inedita

Questa settimana il Manifesto ha avuto l’endorsement di 163 economisti di fama, che hanno sottoscritto una lettera in cui spiegano sinteticamente le ragioni della loro scelta in favore del Labour, partendo dalla constatazione di una decennale stagnazione economica e di relative condizioni di vita peggiori dei livelli pre-crisi: i salari britannici sono inferiori a quelli percepiti nel 2008, per esempio.
Una decisa scelta in favore della transizione ecologica, con la “green industrial revolution”. Una politica di forti investimenti pubblici a lungo termine, in settori strategici, è considerata positivamente anche per ciò che comporta l’impatto occupazionale e l’inversione di tendenza nei servizi pubblici.
La lettera indirizzata al Financial Times e ripresa da altre testate si conclude con le seguenti affermazioni:
“A noi sembra chiaro che il Labour Party ha non solo compreso i profondi problemi che stiamo affrontando, ha fornito proposte serie per trattarli. Crediamo che meriti di formare il nuovo governo”.
Sempre questa settimana è stata caratterizzata da un vero e proprio coupe de theatre del leader laburista, che ha mostrato le più di 450 pagine di documenti ora desecretati che provano inconfutabilmente come la privatizzazione completa del sistema sanitario nazionale britannico – NHS – sia stata uno dei nodi delle trattative sulla Brexit intraprese tra il governo conservatore e l’amministrazione statunitense.
Boris Johnson ha ripetutamente e pervicacemente negato che ci fosse stato questo tipo di trattativa, giurando e spergiurando che le accuse formulate dal Labour erano pure invenzioni.
Secondo quando è stato reso pubblico da Corbyn, invece, questa trattativa è andata avanti per ben due anni – dal luglio 2017 al luglio 2019 – con sei sessioni di incontri.
Da ciò che si evince, nessun settore è stato escluso a priori dall’accessibilità al “mercato” inglese da parte degli Stati Uniti e la questione dei farmaci viene menzionata come una dei punti nodali della trattativa.
Il sistema sanitario nazionale britannico, sull’orlo del collasso per i tagli operati dai Conservatori, fa gola ai big della white economy statunitense, in particolare alle grosse case farmaceutiche.
Il differenziale di spesa pro capite tra Gran Bretagna – che ha un sistema sanitario pubblico – e quello degli Stati Uniti (totalmente in mano ai privati) rende bene l’idea di quanto l’ulteriore apertura ai privati possa essere vettore di profitti: 365 sterline in UK contro le 946 in USA.
Vista la vera censura mediatica, occorre ricordare che proprio una parte rilevante dell’industria farmaceutica statunitense è al centro di uno dei più grossi scandali e relativi processi penali della storia contemporanea, avendo incentivato – con una politica di “marketing aggressivo” – la prescrizione di oppioidi come gli anti-dolorifici, sviluppando così una dipendenza su larga scala che ha fatto un vero e proprio massacro.
Non proprio dei filantropi, quindi…
Secondo le carte ottenute  dal gruppo “Global Justice Now”, grazie al Freedom of Information Law, il ministro del commercio britannico George Hollingbery – come ha rivelato The Daily Mirror – ha incontrato i giganti dell’industria farmaceutica durante il periodo di discussione degli accordi post-brexit nel quartier generale di Elli Lilly, ad Indianapolis, nell’agosto del 2018.
Un clamoroso pugno nello stomaco ai Conservatori, considerando che proprio la questione del diritto alla salute è diventata nel corso di queste settimane la prima preoccupazione politica dell’elettorato, secondo quanto riportano i sondaggi, di fatto superando le polemiche aulla “Brexit”.
Un’altra inchiesta del  Guardian, pubblicata venerdì 29 novembre, a cura di Denis Campbell – esperto di politiche sanitarie del quotidiano – ha rivelato alcune cifre della privatizzazione “strisciante” del comparto.
Dal 2015 vi è stato un aumento dell’89% del valore dei contratti dei fornitori non NHS del Sistema Sanitario Nazionale, passati da 1,9 miliardi a 3,6 di sterline…
Di questo processo di esternalizzazione si sono avvantaggiate particolarmente due aziende: Care UK (una azienda del “privato sociale”) e la Virgin Care, del miliardario Richard Branson. La prima ha accumulato 17 contratti di fornitura per il valore di 731 miliardi sterline dal 2015, mentre nello stesso periodo la seconda si è aggiudicata 13 contratti del valore di 579 di miliardi.
Un processo che sembra intensificarsi come ha dimostrato una altra inchiesta del quotidiano britannico del luglio di quest’anno: per l’anno 2018-19 i privati si sono aggiudicati contratti per 9,2 miliardi!
Un altro punto nodale su cui si è incentrata la campagna elettorale del Labour questa settimana è stato il “cambiamento climatico”, uno degli aspetti tra l’altro più importanti dell’impalcatura del Manifesto, che avuto il suo appoggio dalla nota intellettuale ed attivista statunitense Naomi Klein, con un video di alcuni minuti…
L’impianto del partito laburista e le affermazioni del capo del Labour sono molto chiare e sposano l’urgenza nel dovere adottare soluzioni adeguate – queste elezioni sono the last chance, cioè l’ultima possibilità per porvi rimedio – identificando chiaramente i veri responsabili: “100 aziende sono responsabili del 70% delle emissioni inquinanti a livello globale e non si deve pagare il prezzo della transizione a net zero economy.”
Il messaggio è chiaro, la soluzione non è l’austerità ecologica fatta pagare ai più, ma va addebitata ai veri responsabili, cioè l’esatto contrario delle ricette che oligarchie europee stanno apparecchiando e di cui Macron è stato il più risoluto interprete (come per l’aumento delle accise sui carburanti che ha ispirato il movimento delle “gilet gialli”, dal novembre dell’anno scorso).
La “marea gialla” e questa radicalizzazione del Labour sono figlie delle stesse dinamiche – certamente con modalità e sbocchi diversi – ma sono comunque entrambe espressione del riemergere della lotta di classe e del processo di politicizzazione della contraddizioni nella convulsa epoca della fine dell’egemonia neo-liberista.
Andiamo a vedere nel dettaglio, facendo una sintesi ragionata dei maggiori aspetti presenti nelle 107 pagine del Manifesto, mettendo in corsivo le traduzioni di alcuni passaggi salienti.
Per agevolare la lettura abbiamo diviso l’esposizione in due parti, riservandoci di pubblicare in un successivo contributo l’analisi dettagliata della seconda metà del programma laburista di cui abbiamo qui trattato solo dei primi due capitoli.