martedì 30 ottobre 2018

Nazionalizzazione del debito, ecco perché non può funzionare

Le prospettive della manovra finanziaria del governo appaiono assai incerte, dopo le riserve espresse dall’Ufficio parlamentare di bilancio e dalla Banca d’Italia che hanno ritenuto troppo “ottimistiche” le previsioni contenute nella Nota sul Def. Incombono poi le valutazioni delle agenzie di rating, il giudizio della Commissione europea e, ancora di più, le scelte dei mercati, già chiaramente orientati verso una speculazione al ribasso sui titoli italiani. Di fronte ad una situazione così complessa l’impressione che si ricava dalle frequenti esternazioni di importanti membri dell’esecutivo giallo-verde è quella di un esplicito impegno a politicizzare i temi economici, a ricondurre ad una visione tutta politica le questioni contenute nella Legge finanziaria, chiamando in causa in maniera retoricamente perentoria il sentimento patriottico.
Se l’Europa ci critica, ciò dipende dalla paura europea di un’Italia forte, se gli spread salgono è perché la grande finanza, le istituzioni “non votate dal popolo” come la Banca d’Italia e la Bce stanno complottando contro il pieno ripristino della “sovranità popolare” italiana. La manovra, in tale ottica, diviene il terreno dello scontro di civiltà che contrappone la nuova Italia alle “plutocrazie” nemiche del popolo, secondo linguaggi purtroppo non originali.
Questa “battaglia” impone una vera e propria “chiamata alle armi” che sembra destinata a tradursi nell’appello ai risparmiatori italiani a mettere a disposizione le loro risorse a sostegno del collocamento di un debito pubblico nazionale aggredito proditoriamente da biechi speculatori. Il debito pubblico, in estrema sintesi, deve essere trasformato da principale problema del Paese nel motore nazionalistico che dovrà animare il più volte evocato spirito del popolo, chiamato a sottoscriverlo con la stessa fiducia chiesta, in altri tempi, alle spose italiche che venivano invitate a donare le loro fedi alla patria.
Ma “nazionalizzare” un debito pubblico così gigantesco come quello italiano è un’operazione davvero complessa e rischiosa, al di là dei più calorosi appelli al patriottismo. Proprio i precedenti storici infatti dovrebbero far riflettere. L’Italia ha conosciuto diverse forme di sottoscrizione, più o meno obbligata, di prestiti allo Stato per fronteggiare situazioni critiche. Dalla conversione forzata della rendita, operata dal governo Giolitti nel 1906, al “Prestito del littorio”, varato da Mussolini per arginare i pesanti effetti della stravagante operazione di Quota Novanta, con cui veniva definito un cambio del tutto artificiale, e interamente  “ideologico”, tra lira e sterlina. Fino alla confusa, doppia, conversione del debito italiano compiuta sempre da Mussolini nel 1934 e nel 1935. Anche l’immediato dopoguerra sperimentò un patriottico “prestito per la ricostruzione”.
In tutti questi i casi gli italiani erano stati “invitati” ad accettare una ristrutturazione o una sottoscrizione del debito pubblico in nome dell’interesse della patria e, fatta eccezione per l’esperienza giolittiana, gli esiti furono decisamente deludenti, incapaci sia di frenare la crisi del debito sia di favorire la ripresa economica. Oggi, peraltro, simili operazioni non sarebbero neppure possibili data la mole di debito pubblico da coprire che, in continua crescita, ha superato i 2.300 miliardi di euro. A sostenere una montagna debitoria di tali dimensioni non basterebbe il pur significativo risparmio degli italiani, stimato intorno ai 1.200 miliardi di euro e in costante fuga, negli ultimi anni, proprio dai titoli del debito pubblico italiano.
Non basterebbero neppure strumenti finanziari nuovi, come gli ipotizzati Cir (conti individuali di risparmio) rivolti alle famiglie italiane, impegnate attraverso un simile canale a comprare titoli di Stato, ricevendo in cambio un significativo beneficio fiscale. Tutto ciò non basterebbe in alcun modo a sostituire i compratori esteri, il decisivo apporto della Bce e della Banca d’Italia e il contributo delle banche italiane che stanno sparendo dall’orizzonte dei sottoscrittori del debito italiano prima di tutto per la crescente inaffidabilità del debito stesso.
Ma, allora, se il debito italiano non trova più compratori perché è sempre meno affidabile alla luce di una manovra che dichiara di volerlo accrescere ulteriormente, la soluzione può essere quella di venderlo tutto agli italiani? Sembra un’ipotesi certamente paradossale. Si concepisce una manovra in deficit, che ha bisogno di nuovo debito per essere finanziata, e, siccome non si trovano compratori di quel debito, si invitano gli italiani, che dovrebbero essere i beneficiari della manovra stessa, a sottoscriverlo, di fatto pagandosi quei benefici promessi e, al contempo, acquistando titoli su cui pende il pericolo, tutt’altro che remoto, di essere declassati a titoli “spazzatura”.
La nazionalizzazione del debito non pare quindi una strada percorribile perché renderebbe gli italiani più poveri e metterebbe il debito nazionalizzato sotto costanti pressioni, dal momento che ogni dato negativo sull’Italia si ripercuoterebbe subito sui titoli del debito italiano, divenuto il principale simbolo dello stato di salute del Paese.  Come nel caso della lira nei momenti più cupi della storia nazionale, gli italiani sarebbero detentori, patriottici, di montagne di carta.

lunedì 29 ottobre 2018

Draghi evoca la “dominanza monetaria”, una sovversione costituzionale

Mentre tutti si stracciano le vesti per le accuse di Di Maio a Draghi: “Avvelena i pozzi” generando panico nessuno si interroga sulle gravissime parole del Professore Draghi espresse ieri a Francoforte. Secondo il Presidente della BCE, osannato da tutte le testate di giornale e da tutte le tv, vivremmo in un regime di “dominanza monetaria”.
A me risulterebbe altro: la Banca Centrale Europea (così come all’epoca la Banca d’Italia) agisce in indipendenza e autonomia. Ma un “regime di monetary dominance” è un’altra cosa: è la subordinazione delle politiche fiscali poste in essere dalle Istituzioni democraticamente elette alle autorità monetarie e dunque ai tecnocrati delle banche centrali. Inutile sottolineare che per qualunque scelta politica del governo democraticamente eletto sono necessarie le risorse poste a disposizione dalla leva fiscale per diventare realtà pratica e concreta. Dire dunque che siamo in un regime di monetary dominance significa dire chiaro e tondo che viviamo sotto la dittatura dei banchieri centrali. Dittatura ormai peraltro pubblicamente e platealmente rivendicata.
Inutile sottolineare che siamo di fronte ad una rivendicazione di qualcosa che già è stato platealmente e pubblicamente rivendicato dalla BCE nel 2011: le lettere con filma in calce del Presidente Trichet per quanto riguarda la Spagna e a doppia firma del Presidente Trichet e di quello entrante Draghi per quanto riguarda l’Italia. Missive dove si elencavano i provvedimenti che i Governi dovevano porre in essere se volevano evitare la crisi fiscale grazie all’intervento della BCE. Per inciso, intervento peraltro che sarebbe stato dovuto e non condizionato visto che stanno lì a fare quello: evitare le crisi di liquidità dei sistemi bancari dei paesi aderenti all’eurosistema.
Ma il punto non è manco quello: il punto è che in Italia (in Spagna non mi pronuncio non avendo la più pallida idea) la Costituzione non da alcun predominio (alcuna monetary dominance) alla banca centrale sulle istituzioni democraticamente elette. Anzi, per il vero, le mie umili resipiscenze della Costituzione Italiana mi suggeriscono che la Banca Centrale non è manco nominata.
Qui invece siamo alla plateale rivendicazione della Sovversione dell’Ordine Democratico e Costituzionale. Non mi risulta manco che i trattati europei ai quali l’Italia ha aderito diano una “monetary dominance” alla BCE.
Insomma siamo di fronte ad una cosa che se fossero stati vivi Togliatti, Pertini, Saragat e Lussu a Draghi sarebbe costata la vita: del resto di dittatore ne avevano appeso già uno per i piedi dunque appendere il secondo non gli avrebbe fatto né caldo né freddo. Ma non mi viene manco difficile ipotizzare che questo principio della “monetary dominance” avrebbe spinto anche Aldo Moro – persona notoriamente pacifica – a prendere il mitra in mano. Mario Draghi è un pericolo reale e concreto per la democrazia e va fermato (democraticamente). Chi non lo capisce è complice.
PS: Attendere una parola sul principio di Monetary Dominance da parte di chi dovrebbe essere il Garante della Costituzione sarebbe troppo, del resto l’Uomo del Quirinale da Garante della Costituzione si è già pubblicamente degradato a Garante dello Spread e dunque a Portavoce del Dittatore della Banca Centrale di Francoforte.

venerdì 26 ottobre 2018

Gli eurocrati assaltano Roma. Si deve resistere

l copione è stato rispettato alla lettera. La Commissione Ue ha deciso di respingere il Documento programmatico di bilancio italiano e di chiederne uno nuovo, che dovrà essere inviato entro tre settimane a Bruxelles. I secondini dell’eurocrazia hanno bocciato il reddito di cittadinanza, l’aumento delle pensioni minime, la modifica della disastrosa legge Fornero. Le anticipazioni allo Spiegel di Günther Oettinger, commissario Ue al Bilancio, hanno trovato conferma. Vogliono imporci la loro agenda, vogliono far insediare un governo tecnico, pretendono altri tagli, desiderano impoverirci legandoci al palo dell’austerità che vale solo per le classi popolari.
Gli eurocrati, agendo da perfetti signorotti feudali, non solo hanno respinto la manovra ma hanno dato al nostro governo un termine perentorio per correggerla. Il deficit e i parametri c’entrano poco o nulla, al contrario di quanto vorrebbero far credere presunti “responsabili” o provetti economisti. Gli e(u)roinomani vogliono che sia ben chiaro chi comanda. L’esecutivo italiano, per loro, dovrebbe solo eseguire, calpestando a sovranità popolare che per i tecnocrati vale meno di zero.
L’attacco è a tutto campo e mira a destrutturare la manovra. Le misure previste dalla manovra “indicano un chiaro rischio di retromarcia su riforme adottate in linea con le raccomandazioni Ue”. L’abolizione della Fornero “fa retromarcia sulle riforme precedenti che puntellano la sostenibilità del debito”, il condono “può scoraggiare la già scarsa conformità al fisco, implicitamente premiando comportamenti non conformi” e “la riduzione delle tasse sulle imprese che investono sono disinnescate dall’abolizione delle agevolazioni fiscali”. Lo scrive la Ue nella sua “opinione”.
Per i commissari, “l’Italia non rispetterà il benchmark di riduzione del debito né nel 2018 né nel 2019” e “la prevista riduzione del rapporto debito/Pil è soggetta a larghi rischi al ribasso, visto che si basa su proiezioni di crescita ottimistiche, privatizzazioni dello 0,3% del Pil all’anno dal 2019 al 2021 e l’attivazione delle clausole di salvaguardia nel 2020 e 2021, che sono state sterilizzate per il 2019”.
“E’ con molto dispiacere che sono qui oggi, per la prima volta la Commissione è costretta a richiedere ad uno Stato di rivedere il suo Documento programmatico di bilancio. Ma non vediamo alternative. Sfortunatamente i chiarimenti ricevuti ieri non erano convincenti”, dice il vicepresidente della Commissione Ue Valdis Dombrovskis nel corso della conferenza stampa al termine della riunione dei commissari.
Secondo Dombrovskis, la manovra dell’Italia arrecherà danni a tutti, perché “l’Europa è costruita sulla cooperazione, l’eurozona è costruita su stretti legami di fiducia con regole che sono le stesse per tutti”, quindi “se la fiducia viene erosa, tutti gli stati membri vengono danneggiati, la nostra Unione viene danneggiata”. “Se una politica fiscale più accomodante colpisce la fiducia, ha avvertito il vicepresidente della Commissione, può avere in realtà l’effetto opposto alla crescita”.
“Il Governo italiano, prosegue, sta apertamente e coscientemente andando contro gli impegni presi verso se stesso e verso gli altri Stati membri”. A maggio scorso, ricorda Dombrovskis, la Commissione Ue aveva concluso di non aprire la procedura per debito “soprattutto perché l’Italia era sostanzialmente in linea con le regole”, ma “i piani attuali sono un cambiamento materiale che potrebbe richiedere una rivalutazione”. “La palla è ora nel campo del Governo italiano, abbiamo tre settimane per un dialogo intenso che affrontiamo in modo costruttivo”.
Dall’avvertimento si passa ben presto alla minaccia: “Violare le regole può sembrare una tentazione a primo sguardo può dare l’illusione di sfuggirvi senza conseguenze” così come “il curare il debito con più debito”, ma “a un certo punto il debito si avvicina al punto in cui diventa troppo pesante e si finisce per non avere più libertà del tutto. Ci è stato affidato il compito da tutti gli stati membri di mantenere gli impegni comuni”, “è nostro dovere”, perché “la fiducia è cruciale”.
“Nel 2017 il debito italiano ha rappresentato un peso medio di 37mila euro per abitante”, pari “al secondo debito più alto nell’Ue, uno dei più alti al mondo” nonché quello “con il più alto costo totale di rifinanziamento in Europa” che “deve essere pagato ogni anno dai contribuenti”. “L’anno scorso l’Italia ha speso lo stesso ammontare per rifinanziare il debito di quanto ha dedicato all’educazione”, evidenzia il vicepresidente della Commissione Ue.
“Mantenere politiche di bilancio solide, e mantenere la fiducia, è cruciale. E’ nell’interesse dell’Italia e della zona euro”, ha detto, aggiungendo che “si tratta di assicurarsi che le aziende italiane possano continuare a finanziarsi a costi d’interesse bassi, cosa che consente loro di svilupparsi e creare nuovo lavoro. Si tratta di pensare alle giovani famiglie italiane che cercano di comprare la prima casa e hanno bisogno di un mutuo ad un costo che possono permettersi. Si tratta inoltre di equità generazionale: che messaggio inviamo ai giovani, lasciandoli con un tale debito?”, conclude Dombrovskis.
Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, si è prontamente allineato a Bruxelles richiamando il governo alla responsabilità: “La logica dell’equilibrio di bilancio non è quella di un astratto rigore”, dice il Capo dello Stato intervenendo all’Assemblea dell’Anci a Rimini, “ci deve sempre guidare uno sguardo più lungo sullo sviluppo, la sua equità e la sua sostenibilità, e, al contempo, occorre procedere garantendo sicurezza alla comunità, scongiurando che il disordine di enti pubblici, e della pubblica finanza, produca contraccolpi pesanti anzitutto per le fasce più deboli, per le famiglie che risparmiano pensando ai loro figli, per le imprese che creano lavoro”.
“Questa responsabilità accomuna chiunque svolga funzioni rappresentative, qualunque sia la sua militanza politica, perché si tratta di un bene comune, di un patrimonio indivisibile”, conclude Mattarella.
Cosa accadrà adesso? Se il governo decidesse di mantenere invariati i saldi della manovra, l’esecutivo comunitario potrebbe aprire una procedura per deficit eccessivo per violazione della regola del debito. La Commissione, in questi casi, invia una lettera di costituzione in mora al paese “disobbediente”, che dovrà inviare una risposta dettagliata in genere entro due mesi.
Se la Commissione ritiene che il paese sia venuto meno ai propri obblighi a norma del diritto dell’Ue, può inviare un parere motivato, vale a dire una richiesta formale di conformarsi al diritto dell’Unione in cui spiega perché ritiene che sia stato violato il diritto dell’UE. La Commissione chiede inoltre al paese interessato di comunicarle le misure adottate.
Se il paese continua a non conformarsi alla legislazione, la Commissione può decidere di deferirlo alla Corte di giustizia. Se, nonostante la sentenza della Corte di giustizia, il Paese dovesse continuare a non rettificare la situazione, la Commissione può deferirlo una seconda volta dinanzi alla Corte, proponendo che quest’ultima imponga sanzioni pecuniarie (forfettarie o addirittura giornaliere).
La bocciatura di Bruxelles della manovra di bilancio “per come è stata presentata era largamente prevista e non ci stupisce”, afferma il portavoce del ministero dell’Economia. Il ministero valuterà ora le richieste e contemporaneamente monitorerà le reazioni dei mercati. Il confronto con l’Ue, comunque, non rallenterà l’iter di presentazione della Legge di Bilancio attesa in Parlamento per la fine di questa settimana o l’inizio della prossima.
“È la prima manovra italiana che non piace alla UE. Non mi meraviglio: è la prima manovra italiana che viene scritta a Roma e non a Bruxelles!”, scrive il vicepremier Luigi Di Maio su Facebook.
“Con i danni che avevano fatto quelli di prima, prosegue il post, non potevamo certo continuare con le loro politiche. Continueremo a raccontare alla Commissione Europea cosa vogliamo fare con rispetto. Ma altrettanto rispetto ci deve essere nei confronti del popolo italiano e del governo che oggi lo rappresenta. Continuiamo a lavorare a testa alta per il bene dei cittadini”.
“Non stanno attaccando un governo, ma un popolo. Sono cose che fanno irritare ancora di più gli italiani e poi qualcuno si lamenta che l’Unione Europea è al minimo della popolarità”, afferma il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, a margine della sua visita a Bucarest.
La conferenza stampa della Commissione europea durante la quale è stata annunciata la bocciatura della manovra dell’Italia si è conclusa con un incidente provocato dall’eurodeputato della Lega Angelo Ciocca. Salito sul palco al termine delle domande dei giornalisti, Ciocca si è tolto una scarpa e ha imbrattato le carte del commissario agli Affari economici Pierre Moscovici, che si è allontanato visibilmente contrariato, rifiutandosi di stingere la mano al leghista. Il tutto è stato ripreso in un video pubblicato dallo stesso europarlamentare.
A Strasburgo ho calpestato (con una suola Made in Italy!!!) la montagna di bugie che Moscovici ha scritto contro il nostro Paese!!!”, scrive Ciocca su Tiwtter pubblicando il video. “L’Italia merita rispetto e questi Euroimbecilli lo devono capire, non abbassiamo più la testa!!!”, aggiunge l’europarlamentare del Carroccio.
Salda anche la posizione del premier Conte: “Non esiste alcun piano B. Ho detto che il deficit al 2,4% del Pil è il tetto. Posso dire che questo sarà il nostro tetto”, chiarisce Giuseppe Conte, intervistato da Bloomberg tv. Alla domanda se si può modificare la sostanza della manovra, criticata fortemente da Bruxelles, Conte ha risposto che questo “sarebbe per me difficile, non potrei accettarlo”. “Siamo pronti ad operare una spending review se necessario”, continua il premier.
Il Governo italiano ha l’occasione di dimostrare con i fatti la sua reale discontinuità rispetto ai precedenti. Deve resistere alle intimidazioni degli eurocrati e delle quinte colonne interne. E può farlo. Il tempo gioca a suo favore. Le elezioni di metà mandato negli States, con Trump che assumerà il controllo della FED, ancora controllata dalle truppe cammellate obamiane, e il rinnovo in primavera del Parlamento europeo, possono indebolire pesantemente l’asse franco tedesco e dare inizio ad una fase nuova nel Vecchio Continente, sia dal punto di vista economico che geopolitico.

giovedì 25 ottobre 2018

Pensioni, disinnescare la bomba sociale

I sistemi pensionistici vanno disegnati in rapporto sia alle esigenze previdenziali cui devono corrispondere sia al contesto dei più complessivi equilibri economici e sociali, tenendo conto che i due livelli interagiscono e che gli assetti stabiliti o i loro cambiamenti generano effetti che, da un lato, si proiettano nel lungo periodo, d’altro lato, ingenerano aspettative che influenzano gli equilibri sociali ed economici anche nel breve periodo. Purtroppo, gli interventi pensionistici che il governo sta proponendo e il dibattito che li accompagna trascurano queste interrelazioni e continuano ad eludere, da un lato, il disastro sociale che sta maturando in campo previdenziale e, d’altro lato, i suoi effetti negativi anche immediati.
La questione di grande rilievo che si sta trascurando può essere riassunta nel fatto che quasi la metà dei lavoratori dipendenti entrati nel mercato del lavoro dopo il 1995, avendo sperimentato retribuzioni saltuarie e basse, per le quali non si prospettano miglioramenti risolutivi, matureranno una pensione del tutto inadeguata. Attualmente, questi lavoratori sono “distratti” da esigenze di sussistenza molto più immediate che già pregiudicano scelte rilevantissime e più ravvicinate come mettere su casa e fare figli; ma quando fra qualche anno realizzeranno che il futuro solo vagamente temuto sta per concretizzarsi – cioè che l’inadeguatezza di reddito della vita lavorativa si riproporrà ulteriormente aggravata nella fase finale della propria esistenza – non ci si potrà sorprendere di reazioni ed effetti anche rilevanti sui complessivi equilibri sociali, economici, politici e civili.
Per cercare di contrastare questa “bomba sociale” con effetti multipli, occorre da subito intervenire nell’assetto pensionistico, combinando i suoi obiettivi previdenziali con quelli favorevoli al rilancio anche immediato della crescita economica che, a sua volta, renderà sostenibili prestazioni più adeguate anche in futuro. Per andare in questa direzione, da tempo, nel Rapporto sullo Stato Sociale elaborato in Sapienza – evidenziando le conseguenze perverse della combinazione del passaggio dal metodo di calcolo delle pensioni retributivo a quello contributivo e della diffusione dei nuovi contratti di lavoro che hanno reso più instabili le retribuzioni – si propone di riconoscere ai lavoratori una contribuzione figurativa per i periodi di disoccupazione accertatamente involontaria. Questa misura non peserebbe affatto sui conti pubblici attuali e sui relativi vincoli europei.
Nel futuro, le maggiori prestazioni che maturerebbero andrebbero rapportate ai valori contemporanei del Pil i quali dipenderanno anche dalle politiche attuali. Iniziare a disinnescare oggi la “bomba sociale” in formazione, iniettando nei giovani ed ex giovani di oggi qualche rassicurazione per il loro futuro, favorirebbe non solo la loro stabilità di vita, ma anche la generale propensione a consumare nell’immediato e, conseguentemente, le decisioni d’investimento delle imprese che non dipendono solo e tanto dal costo del lavoro, ma anche e soprattutto dalla presenza di una domanda effettiva adeguata a quanto possono produrre.
Se gli 80 euro concessi dal governo Renzi hanno avuto un basso impatto sulla stabilità e la qualità della crescita e dell’occupazione è perché, pur essendo stati erogati a percettori di redditi non elevati, sono stati in buona parte risparmiati per fronteggiare i rischi della precarietà. Per le stesse preoccupazioni del futuro, personale e della propria famiglia, “quota 100”, cioè la possibilità di anticipare l’età di pensionamento a 62 anni (ma solo avendo almeno 38 annualità contributive) – pure avendo il pregio di ampliare i margini di scelta in un delicato passaggio di vita – potrà essere praticata da una parte limitata dei potenziali fruitori. Infatti, andare prima in pensione implica anticipare il normale calo di reddito dovuto al passaggio dalla retribuzione alla pensione, per di più accentuato dalla riduzione dell’assegno pensionistico provocata dall’anticipo del collocamento a riposo.
Un lavoratore con una retribuzione di 2000 euro netti che avesse un’adeguata storia contributiva e potesse contare a 67 anni su un buon tasso di sostituzione, supponiamo il 75%, a quell’età vedrebbe calare il suo reddito a 1500 euro; ritirandosi a 62 anni, non solo anticiperebbe di 5 anni questo calo di reddito, ma lo accentuerebbe di circa un ulteriore 15%, riducendo la pensione per il resto della sua vita a 1275 euro. Dunque, è ragionevole pensare che le adesioni a “quota 100” non potranno riguardare una parte consistente della platea potenziale. Ciò significa anche che questo provvedimento, da un lato, avrà un costo inferiore alle attese (da alcuni strumentalmente esagerato), d’altro lato, non potrà aiutare molto a risollevare il clima delle aspettative economiche.
I tagli alle cosiddette pensioni d’oro (intese, sembra, come quelle superiori a 4500 euro netti mensili), che darebbero risparmi di spesa molto inferiori al miliardo annunciato, non potrebbero tener conto dei contributi versati (di cui non esistono tutte le informazioni necessarie), ma dipenderebbero dalla differenza tra delle età di pensionamento arbitrariamente fissate oggi e retrodatate e quelle legalmente vigenti e rispettate all’epoca da ciascun pensionato. Ciò si presterebbe a rilievi di incostituzionalità che, peraltro, come è già accaduto in passato, si applicherebbero anche all’eventuale riduzione dell’indicizzazione delle pensioni all’inflazione che si vorrebbe reintrodurre (misura anch’essa di scarso effetto finanziario). Paradossalmente, dopo tante legittime critiche alla Legge Fornero, si tornerebbe ad individuare nel settore pensionistico l’ambito per attuare politiche redistributive, per di più mal concepite, mentre contemporaneamente si propongono condoni fiscali e si prospetta la flat tax, misure che riducono la progressività. L’effetto principale sarebbe quello di ridurre ulteriormente la fiducia nel sistema pensionistico pubblico con un effetto destabilizzante che, come si è visto prima, è il contrario di quello che serve per invertire la tendenza al declino economico, sociale e civile del nostro paese.
Entrambi i provvedimenti difettano di una visione d’assieme dei problemi strutturali del nostro sistema previdenziale e dei suoi collegamenti con il complessivo sistema economico. Peraltro, la complessiva manovra economica del governo è negativamente condizionata dalle richieste di Bruxelles intrise di quella visione fondata sul controsenso della ”austerità espansiva” che ha peggiorato pericolosamente gli equilibri economici sociali e civili, pregiudicando l’intero progetto d’unificazione europeo che, invece, rimane necessario perseguire se si vogliono salvaguardare le prospettive di benessere dei cittadini europei in un contesto di risorgenti protezionismi e nazionalismi e di continua crescita di flussi finanziari speculativi del tutto incontrollabili da istituzioni nazionali di piccole e medie dimensioni come quelle dei singoli paesi europei.
Le reazioni più o meno inconsulte alla fissazione del rapporto deficit/Pil al 2,4% sono palesemente incongrue (in Francia è su livelli superiori al nostro da molti anni); una sua riduzione non favorirebbe l’esigenza italiana (che dovrebbe interessare l’intera Ue) di ridurre il nostro divario negativo di crescita rispetto alla media europea e sarebbe controproducente in rapporto al generale peggioramento delle aspettative economiche a livello mondiale. Peraltro, l’aritmetica mostra che, pur adottando l’ipotesi minima che nel 2019 il nostro Pil nominale cresca del 2,5% (valore prudenzialmente inferiore a quanto attualmente previsto da tutte le istituzioni economiche, nazionali e internazionali, UE inclusa), per non aumentare il nostro rapporto debito/Pil (attualmente pari a 1,31), si potrebbe arrivare ad un rapporto deficit/Pil pari al 3,3% (essendo 2,5×1,31= 3,3). Dunque, fissando il rapporto deficit/Pil al 2,4% il rapporto debito/Pil diminuirebbe di circa un punto%.
L’Italia e l’Unione europea dovrebbero liberarsi dalla vecchia visione che ha favorito e accentuato la “Grande recessione” e i suoi effetti, ma senza cadere in pericolose scorciatoie che sottovalutino la complessità della situazione attuale e delle sue interazioni con le aspettative per il futuro.

mercoledì 24 ottobre 2018

Istat: l’economia sommersa in Italia vale oltre 200 miliardi

La ricchezza prodotta nel 2016 da economia sommersa e attività illegali è salita a 210 miliardi dai 208 del 2015, anche se il suo peso sul Pil è lievemente calato dal 14,4 al 12,6%. Le sole attività illegali, cioè produzione e traffico di droga, prostituzione e contrabbando di tabacco, che dal 2014 sono inserite nei conti nazionali e contribuiscono al prodotto interno lordo, hanno generato un valore aggiunto di quasi 18 miliardi in aumento dai 17,2 del 2015. La spesa delle famiglie per questo tipo di “prodotti” è salita da 19 a 19,9 miliardi come conseguenza di “un aumento dei prezzi degli stupefacenti a fronte di una sostanziale stabilità dei volumi”. Sono i dati dell’annuale rapporto dell’Istat sul nero e l’illegalità, da cui emerge anche che i lavoratori irregolari sono 3,7 milioni (in lievissimo calo rispetto al 2015) contro i 20 milioni in regola. Chi lavora in nero, emerge dalle tabelle dell’istituto, viene contato nelle statistiche ufficiali degli occupati. Il valore aggiunto generato dall’economia sommersa, che va dalle sotto-dichiarazioni fiscali all’impiego di lavoro irregolare agli affitti in nero, ammonta a poco meno di 192 miliardi di euro, a cui vanno aggiunti i quasi 18 miliardi dell’illegalità e del suo indotto.
Le stime «confermano la tendenza alla discesa dell’incidenza della componente non osservata dell’economia sul Pil dopo il picco del 2014», quando il valore totale era salito a 211 miliardi di euro. Per quanto riguarda le attività illegali, l’Istat segnala che l’incremento complessivo è determinato dal traffico di stupefacenti il cui valore aggiunto è salito di 0,8 miliardi per effetto dell’aumento dei prezzi. Per i servizi di prostituzione si stima un valore aggiunto pari a 3,7 miliardi di euro e consumi per 4 miliardi, sostanzialmente invariati rispetto al 2015. Anche le attività di contrabbando di sigarette mantengono un livello analogo all’anno precedente, con un valore aggiunto pari a 0,4 miliardi e un ammontare di consumi di 0,6 miliardi. L’indotto connesso alle attività illegali, riferito per la maggior parte al settore dei trasporti e del magazzinaggio, si è mantenuto costante, generando un valore aggiunto pari a circa 1,3 miliardi di euro. Quanto alla composizione dell’economia non osservata, la sotto-dichiarazione pesa per il 45,5% del valore aggiunto (-0,6 punti percentuali rispetto al 2015) e il resto è attribuibile per il 37,2% all’impiego di lavoro irregolare (37,3% nel 2015), per l’8,8% alle altre componenti (fitti in nero, mance e integrazione domanda-offerta) e per l’8,6% alle attività illegali (rispettivamente 9,6% e 8,2% l’anno precedente).
Per quanto riguarda la ripartizione tra i settori economici, il sommerso pesa di più nei servizi, in cui l’incidenza è del 33,3%, nel comparto commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (23,7%) e nelle costruzioni (22,7%). Anche il peso della sotto-dichiarazione sul complesso del valore aggiunto risulta è più rilevante in quei settori. Nell’industria, l’incidenza è relativamente elevata nella produzione di beni alimentari e di consumo (7,5%) e molto contenuta in quella di beni di investimento (2,3%). Le unità di lavoro irregolari nel 2016 erano 3,7 milioni, in calo di 23mila unità rispetto al 2015. Lavorano in nero 2,7 milioni di dipendenti e 1 milione di autonomi. Il tasso di irregolarità, calcolato come incidenza delle unità di lavoro non regolari sul totale, è pari al 15,6%, 0,3 punti in meno rispetto all’anno precedente. L’incidenza del lavoro irregolare è particolarmente rilevante nel settore dei servizi alle persone (47,2% nel 2016, in calo di 0,4 punti percentuali rispetto al 2015), ma è significativo anche nell’agricoltura (18,6%), nelle costruzioni (16,6%) e nel comparto commercio, trasporti, alloggio e ristorazione

martedì 23 ottobre 2018

Politici, armaioli e banchieri italiani: tutti e sempre in ginocchio dai re Saud (e dagli altri petrogolfisti)

Il 24 settembre 2018, all'Hotel parco dei principi, Roma, festa nazionale per gli 88 anni dell'Arabia saudita (l'unico paese al mondo che reca la famiglia regnante perfino nel nome). Ecco chi c'era: la sindaca della capitale Raggi Virginia (Movimento 5 stelle), la deputata Carfagna Mara (FI), il deputato Malan Lucio (FI, ex Lega), il deputato Crosetto Guido (Fratelli d'Italia).  Lato business: Leonardo e Ansaldo industrie belliche, e poi Intesa San Paolo. E sicuramente molti altri, aspettiamo video interviste.
Il 26 settembre 2017, a villa Miani, festa nazionale per gli 87 anni del reame. Ecco chi c'era, per l'Italia (fra gli altri): Khalid Chaouki (deputato del Pd), Lucio Malan (deputato FI, prima era della Lega), la banda dei carabinieri.
Nessuno ha mai una zia ammalata come onorevole scusa per disertare almeno le feste, in mancanza di coraggio per dire di no.
Ricordiamo i continui omaggi europei e italiani ai monarchi del Golfo.
Ecco, nel luglio 2016, la Mogherini e l' UE letteralmente genuflessi davanti a re, emiri, sceicchi nell’incontro ministeriale congiunto fra Consiglio d’Europa e Consiglio di Cooperazione del Golfo-Ccg che comprende Arabia saudita, Kuwait, Emirati arabi, Qatar, Bahrein, Oman.
Ricordiamo una delle manifestazioni di Rete No War a Roma nel 2015 contro Renzi piazzista di armi a Riad, poi seguito da Gentiloni.
Nel febbraio 2016, un convegno di Rete No War si intitolava "Italia saudita?". La domanda era retorica, comunque la risposta sarebbe: "Sì, certo."
 E' l'ossequio ai petrodollari con i quali emiri re e sceicchi hanno praticamente comprato l'Europa (pecunia non olet)? Oppure c'è, inconfessata, una sudditanza psicologica alle corone, anche quelle dalle gesta impresentabili, come è il caso dell'Arabia saudita di cui tutti dicono che ha "le mani sporche di sangue" in Yemen e che ha sostenuto formazioni terroristiche?
 

lunedì 22 ottobre 2018

Lavoro nero e malaffare valgono 12% Pil

Nel 2016 l’economia non osservata (sommerso economico e attività illegali) vale circa 210 miliardi di euro, pari al 12,4% del Pil. Il valore aggiunto generato dall’economia sommersa ammonta a poco meno di 192 miliardi di euro, quello connesso alle attività illegali (incluso l’indotto) a circa 18 miliardi. Lo indica l'Istat, le cui stime al 2016 confermano la tendenza alla discesa dell’incidenza della componente non osservata dell’economia sul Pil dopo il picco del 2014. Si riscontra infatti un’ulteriore diminuzione di 0,2 punti percentuali dopo quella di 0,5 punti registrata nel 2015.
La composizione dell’economia non osservata registra variazioni limitate. Nel 2016 la componente relativa alla sotto-dichiarazione pesa per il 45,5% del valore aggiunto (circa -0,6 punti percentuali rispetto al 2015). La restante parte è attribuibile per il 37,2% all’impiego di lavoro irregolare (37,3% nel 2015), per l’8,8% alle altre componenti (fitti in nero, mance e integrazione domanda-offerta) e per l’8,6% alle attività illegali (rispettivamente 9,6% e 8,2% l’anno precedente).

Le Altre attività dei servizi (33,3% nel 2016), il Commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (23,7%) e le Costruzioni (22,7%) si confermano i comparti dove l’incidenza dell’economia sommersa è più elevata. Anche il peso della sotto-dichiarazione sul complesso del valore aggiunto risulta più rilevante nei medesimi settori: 16,3% nei Servizi professionali, 12,4% nel Commercio, trasporti, alloggio e ristorazione e 11,9% nelle Costruzioni. Nel Manifatturiero, l’incidenza è relativamente elevata nella Produzione di beni alimentari e di consumo (7,5%) e molto contenuta nella Produzione di beni di investimento (2,3%).
La componente di valore aggiunto generata dall’impiego di lavoro irregolare incide maggiormente nel settore degli Altri servizi alle persone (con un peso del 22,8% nel 2016), dove è principalmente connessa al lavoro domestico, e nell’Agricoltura, silvicoltura e pesca (16,4%).
Nel 2016, le unità di lavoro irregolari sono 3 milioni 701 mila, in prevalenza dipendenti (2 milioni 632 mila), in lieve diminuzione rispetto al 2015 (rispettivamente -23 mila e -19 mila unità). Il tasso di irregolarità, calcolato come incidenza delle unità di lavoro (ULA) non regolari sul totale, è pari al 15,6% (-0,3 punti percentuali rispetto all’anno precedente).
L’incidenza del lavoro irregolare è particolarmente rilevante nel settore dei Servizi alle persone (47,2% nel 2016, in calo di 0,4 punti percentuali rispetto al 2015) ma risulta significativo anche nei comparti dell’Agricoltura (18,6%), delle Costruzioni (16,6%) e del Commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (16,2%).
Le attività illegali considerate nella compilazione dei conti nazionali, conclude l'Istat, hanno generato poco meno di 18 miliardi di euro di valore aggiunto (compreso l’indotto) con un aumento di 0,8 miliardi, sostanzialmente riconducibile alla dinamica dei prezzi relativi al traffico di stupefacenti.

venerdì 19 ottobre 2018

Apre a New York il Museo della pizza: “Grazie Napoli per aver benedetto il mondo…”

Ha aperto a New York il museo della pizza. “Mopi”, così è stato soprannominato, si trova nel quartiere di Brooklyn e sarà aperto al pubblico per più di un mese, fino al 18 novembre. Esso è nato da un’idea dello studio di design “Nameless Network”, che ha tramutato in installazioni di Pop Art la magia e la bontà della pizza.
Si può dire che il museo sia una sorta di percorso esperienziale della pizza, che incrocia l’arte e si mischia ad essa. E’ possibile, ad esempio, osservare una riproduzione della Venere di Sandro Botticelli mentre mangia una fetta di pizza sbucando da una scatola da asporto invece che dalla conchiglia.
L’apertura del Museo della Pizza “americano” aveva scatenato molto polemiche a Napoli nei mesi scorsi. Ad infastidire la città partenopea era, appunto, la decisione di realizzare questo tipo di iniziativa nella Grande Mela e non a Napoli, riconosciuta da sempre come la patria di uno dei cibi più amati e consumati al Mondo”.
Ai microfoni dell’Ansa, Kareem Rahma, fondatore del museo e ceo di ‘Nameless Network’, ha spento così la discussione: “Perché non ci hanno pensato loro?”. 
Per Napoli, però, anche un messaggio di gratitudine: “Grazie Napoli, per aver benedetto il mondo con la miglior creazione, lo apprezziamo. La pizza è come le piramidi d’Egitto del cibo”.

giovedì 18 ottobre 2018

Il Culto della Personalità sta mettendo in ombra la Vita Reale

Chi tipo di persone pensate che siano le più intervistate dai giornali? Sono persone che hanno un sacco di cose da dire, forse, o forse sono persone che ci possono raccontare le loro esperienze più ricche e più strane? Forse potrebbero essere filosofi, ricercatori o medici che lavorano in zone di guerra, rifugiati, scienziati che lavorano al polo, bambini che vivono in strada, pompieri, voltagabbana, attivisti, scrittori, pionieri del mare? No.
Si tratta di attori e, senza aver fatto nessuno studio empirico, mi immagino che un terzo, se non la metà delle interviste sui giornali più importanti siano fatte a gente che si guadagna da vivere fingendo di essere  qualcun altro e parlando con le parole di qualcun altro.
È un fenomeno talmente assurdo che, se ormai non ci fossimo abituati lentamente, ci potrebbe sembrare incredibile. Mi sembra emblematico, ma così è come funzionano i media. Il vero problema va ben oltre le fake news, perché i media ci stanno raccontando un mondo falso.
Non sto certo dicendo che i giornali non debbano mai intervistare gli attori o che gli attori non abbiano dentro di sé qualcosa che possano insegnarci, ma è questa ossessione esagerata che hanno i media di venderci questo tipo di informazione che fa scomparire tutte le altre voci. Uno dei risultati raggiunti con questo modo di fare notizia è che un problema non è un problema fino a quando non ne parla almeno un attore.
Crisi climatica, rifugiati, diritti umani, violenze sessuali: nessuno di questi problemi, a quanto pare, non è mai stato un problema fino a quando non è arrivato a Hollywood.
Questo non significa voler sminuire gli attori che hanno contribuito a portare certi problemi all’attenzione di tutti, men che meno sminuire il ruolo di quelle splendide donne coraggiose che hanno denunciato Harvey Weinstein e reso popolare il movimento #MeToo. Ma esistono molte altre splendide donne coraggiose che hanno alzato la loro voce per dire la stessa cosa però, dato che non erano attrici famose, nessuno le ha mai ascoltate. Sembra quasi che il movimento #MeToo sia partito solo un anno fa, con le accuse a Weinstein. Ma in realtà è cominciato nel 2006, quando l’attivista Tarana Burke coniò il motto #MeToo.  Né lei, né i milioni di altre (splendide) donne che hanno cercato di far sentire le loro voce sono mai state, né letteralmente né metaforicamente, sotto i riflettori dei media.
Diciamo comunque che almeno gli attori servono a qualcuno. Ma al secondo posto della classifica dei più intervistati, secondo il mio sondaggio non scientifico, potremmo definirla dei ” i camerieri dei ricchi”, si tratta di ristoratori, sarti dell’alta moda, interior designer e altra gente del genere, idolatrata e sbattuta sulle nostre facce come se ci interessi conoscerli, perché noi potremmo anche essere dei loro clienti. E’ questo il mondo del farci-credere, nel quale noi siamo indotti ad immaginare di essere-noi-stessi dei giocatori e non dei semplici passanti.
E’ abbastanza brutto trovare un effetto occhio di bue tra le pagine dedicate alla cultura. È peggio ancora quando la stessa inquadratura, la stessa messa a fuoco,  viene usata per i politici, non solo durante la stagione dei comizi, ma anche in altri periodi dell’anno, quando ogni esternazione pubblica sembra provocare un dramma personale. La Brexit, che probabilmente modificherà la vita di tutti in Gran Bretagna, si riduce a cercare di farci capire se  Theresa May manterrà  o se perderà il suo lavoro. A chi gliene importa qualcosa? Per il momento, forse, questo non interessa nemmeno Theresa May.
Né la May, né Jeremy Corbyn hanno la forza per sobbarcarsi tutto il peso del culto della personalità che i media stanno cercando di costruire intorno a loro. Sono diffidenti e goffi in pubblico e sembrano fremere sotto i riflettori. Entrambi i partiti sono alle prese con enormi problemi e devono mettere al lavoro centinaia di persone per inventare una politica, una tattica e un modo di presentarla. Eppure queste enormi e complesse questioni sembrano essere meno importanti del dramma che vediamo vivere da una sola persona che lotta. Chiunque entri nel mirino dei media, diventa un attore. La realtà è sostituita dalla rappresentazione.
Anche quando la cronaca politica non si riduce al culto della personalità, troviamo la fotografia politica che può fare la stessa cosa. Un articolo può essere profondo e complesso, ma viene sempre accompagnato da una foto di uno dei 10 politici che devono apparire su qualsiasi notizia pubblicata sui giornali.
Dov’è lo stupore di chi anche oggi vede un’altra foto della May – per non parlare di una foto di Boris Johnson? Le immagini, come gli attori, cancellano dalla nostra vista altre immagini di altra gente e ci lasciano dimenticare il contenuto dell’articolo anche se questo articolo parla della vita di milioni di persone e sposta la nostra attenzione sulla vita, sul caso di una sola persona, quella della foto.
Nel circo dei media, i clown hanno un ruolo da star. Ed i clown in politica sono pericolosi”.
Foto: Daniel Leal-Olivas/PA
La mancanza di fantasia e di prospettiva da parte dei media non è solo fastidiosa: è pericolosa. C’è una particolare specie di politici che si è costruita interamente intorno alla personalità. È una politica in cui sostanza, evidenza e analisi vengono sostituite da simboli, slogan e sensazioni. Si chiama fascismo. Se si costruisce una storia politica sugli psicodrammi dei politici, anche quando nessuno lo chiede, si apre la strada a chi, questo gioco, lo sa giocare in modo veramente efficace.
Questo modo di fare informazione ha già portato alla ribalta persone che, sebbene non siano fasciste, hanno tendenze demagogiche. Johnson, Nigel Farage e Jacob Rees-Mogg sono tutti, come Donald Trump, delle star dei reality TV. La realtà  della TV su cui appaiono non è quella di  The Apprentice, ma quella del Question Time a e di altri programmi di informazione e di attualità. Nel circo mediatico, i pagliacci hanno il ruolo del protagonista. E i clown in politica sono pericolosi.
L’effetto occhio di bue  consente a pochi privilegiati di impostare l’agenda. Quasi tutte le questioni più importanti rimangono nell’ombra oltre il cerchio di luce. Ogni giorno i media pubblicano migliaia di pagine e mettono in rete migliaia di ore di trasmissione. Ma quasi niente di questi spazi rimasti in ombra e di questo tempo dietro le quinte viene messo a disposizione di argomenti che contano davvero:  degrado ambientale, disuguaglianze, esclusione,  rovesciamento della democrazia con l’uso del denaro. In un mondo dove tutto è contraffatto, ormai siamo ossessionati dalla banalità delle cose. Il titolo di una notizia passata da BBC News la scorsa settimana era Meghan chiude la porta della macchina”.
La BBC ha appena annunciato che ben due dei suoi programmi, per due volte a settimana, parleranno dei cambiamenti climatici. Data l’indifferenza totale e qualche  volta l’assoluta ostilità verso chi ha cercato di portare in televisione questo problema nel corso degli ultimi 20 anni, è già un progresso. Ma le notizie dell’economia, anche se meno importanti di quelle dell’ambiente, vengono trasmesse ogni minuto, sia perché vengono scelte da chi gestisce i media e sia perché quelli di maggior interesse per chi è sotto i riflettori. Ci fanno vedere solo quello che vogliono che noi vediamo. Il resto rimane nell’ombra.
Compito di tutti i giornalisti è spegnere i riflettori,  abbassare le zone d’ombra e mostrare che cosa si intravede sullo sfondo. Ci sono magnifici esempi di come si possano fare queste cose, per esempio il servizio sullo scandalo Windrush , dove Amelia Gentleman e altri del Guardian, hanno raccontato la storia della gente che vive fuori dalla luce dei riflettori. I loro articoli mostravano le foto delle vittime e non quelle di qualcuno dei politici che li aveva fatti arrivare a quel punto: le loro tragedie sono state raccontate senza spostare i riflettori sul dramma di qualcun altro e con una forza che ha costretto – chi è veramente sotto i riflettori  – a rispondere.
Compito di tutti i cittadini è comprendere cosa stiamo vedendo. Il mondo che ci raccontano non è il mondo così com’è. Il ridurre argomenti complessi a qualcosa di personale ci confonde e ci manda fuori strada, facendoci solo credere che stiamo  lottando per comprendere e per reagire alle nostre difficoltà.

mercoledì 17 ottobre 2018

Fmi: Italia fa il contrario di quello che diciamo, rispetti regole europee

Per l’Italia”non è il momento di rilassarsi sulle politiche fiscali (…) Siamo d’accordo con la Commissione europea, l’Italia deve rispettare le regole”: lo ha fatto sapere il responsabile del Dipartimento Europa del Fondo monetario internazionale (Fmi), Poul Thomsen, in un’intervista rilasciata alla Cnbc nella quale ha precisato come il Paese “avrebbe dovuto fare più aggiustamenti fiscali in passato”.
Secondo il rappresentante del Fmi il governo italiano starebbe andando verso una manovra finanziaria che allontanerà la finanza pubblica “dal percorso di raggiungimento del pareggio di bilancio, al fine di ridurre il divario di crescita con gli altri Paesi europei, in particolare dell’area euro e, nel medio-lungo termine, conseguire un migliore rapporto del debito/Pil, intervenendo sulla crescita del denominatore”.
L’ex membro del consiglio direttivo Bce, Lorenzo Bini Smaghi, aveva citato i rischi legati al rialzo dei rendimenti dei titoli pubblici per il sistema bancario, in un’intervista a Cnbc: “Tassi d’interesse più alti colpiscono la redditività del sistema bancario italiano e questo potrebbe portare le banche italiane a cessare le attività di credito all’economia”, con effetti negativi sulla crescita del Paese.
Nel frattempo il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, ha incontrato il suo omologo statunitense, Steven Mnuchin, nell’ambito delle assemblee annuali del Fmi e della Banca mondiale in corso a Bali. Il ministro ha ribadito la volontà dell’esecutivo di attaccare i debito pubblico, di rilanciare la crescita e di farlo rimanendo saldamente nell’Eurozona.
Tria “ha illustrato lo spirito e i contenuti della manovra di bilancio per il 2019, mirata al rafforzamento della crescita economica italiana”, spiega in una nota del Tesoro. “Abbiamo parlato di tutto”, ha dichiarato il ministro

martedì 16 ottobre 2018

Fisco, verso condono totale su cartelle fino a mille euro

Nella discussione sul decreto fiscale che accompagnerà la prossima manovra economica, e che dovrebbe arrivare lunedì in Consiglio dei ministri, spunta l’ipotesi di uno sconto delle cartelle esattoriali, ma solo per quelle “mini” affidate alla riscossione dal 2000 al 2010.
Secondo quanto riferisce oggi Il Sole 24 Ore, la norma allo studio dovrebbe prevede la cancellazione di tutti i debiti fino a mille euro, che interesserà anche multe stradali e bolli auto.
L’ultima bozza circolata prevede, infatti, la cancellazione di tutti i debiti fino a mille euro (importo che deve comprendere capitale, interessi per ritardata iscrizione a ruolo e sanzioni) affidati alla riscossione dal 2000 al 2010. Una cancellazione per cui il contribuente non dovrà attivarsi, perché saranno gli agenti della riscossione a procedere con il “pilota automatico” entro la fine del 2018. La misura a cui sta lavorando il Governo e che servirebbe a ripulire il magazzino dell’ex Equitalia, strappando circa un quarto di tutte le cartelle.
Secondo il quotidiano, non sono solo i debiti tributari a rientrare nel perimetro di questa nuova mega sanatoria. “Nei ruoli affidati all’agente della riscossione fino al 2010, infatti, c’erano anche multe stradali e tributi locali, come ad esempio l’Ici e la tassa rifiuti o il bollo auto”.
La norma non prevederebbe però la restituzione delle somme già versate prima della data di entrata in vigore del decreto.
Una conferma in questo senso è arrivata anche ieri dal sottosegretario leghista all’Economia Massimo Bitonci:
“Stiamo valutando con il Mef – ha detto ai microfoni di Radio anch’io – una possibile soglia per poter effettuare uno stralcio complessivo di tutte quelle cartelle piccole sotto i 1000 euro o i 5000 euro. Queste cartelle costituiscono il 55% del “magazzino complessivo che sono 850 miliardi”, ha spiegato il sottosegretario. “E’ vero che dal punto di vista quantitativo non pesano molto – ha aggiunto – ma interessano quasi 15 milioni di contribuenti“.

lunedì 15 ottobre 2018

Governo a tre sulla graticola, spunta l’ombra di Draghi

Il “governo a tre” sta arrivando al punto di massima tensione interna. Le due anime che vengono chiamate “populiste” pretendono alcune misure di ammorbidimento dell’insoddisfazione dei rispettivi elettorati – entrambi fortemente “inter-classisti”, ma a guida piccolo-medio borghese – in vista di elezioni europee e locali in cui cercano la conferma promessa oggi dai sondaggi. L’anima tecnocratica-europeista, assolutamente prona ai desiderata dei “mercati”, incarnata soprattutto dai ministri Tria e Moavero Milanesi (economia ed esteri, non per caso), oltre che dal presidente Mattarella, deve invece garantire a tutti gli organismi sovranazionali che “la tenuta” dei conti rispetta i diktat della Troika.
Lo scontro tra Di Maio e Tria sulla “partecipazione pubblica limitata” all’azionariato di Alitalia è solo un capitolo di questa tensione.

Mancano ormai solo 48 ore all’invio del testo del Def a Bruxelles, per l’esame di rito, e i bulloni si vanno stringendo intorno a nodi che muovono miliardi. Com’è noto, flat tax e reddito di cittadinanza sono le bandiere rispettivamente di Lega e Cinque Stelle. Nella versione promessa in campagna elettorale sono impossibili da realizzare se si resta dentro il vincolo dei trattati europei; ma sono anche in aperto conflitto tra loro.
La flatx tax infatti, avvantaggiando soltanto i ricchi (in proporzione alla loro ricchezza, perché per i salariati meno fortunati resterebbe l’aliquota minima al 23%, che pagano già oggi), va nella direzione di concentrare quote maggiori della ricchezza prodotta in poche mani. Mentre il reddito di cittadinanza – in astratto – andrebbe in direzione opposta, verso la redistribuzione quote della ricchezza prodotta verso le fasce più povere.
Dunque il reddito di cittadinanza andrebbe finanziato innalzando la tassazione sulle fasce più ricche, ma questo metterebbe fine all’alleanza di governo. La soluzione che si profila, perciò, è quella di un “forfettone” per professionisti e piccole imprese, “compensato” da un reddito-ricatto per costringere a lavorare anche a salari bassissimi, ma concesso con tante e tali clausole escludenti da restringere la platea a pochissimi s-fortunati.
Il punto programmatico comune – una piccola revisione della legge Fornero, con l’introduzione di una “quota 100” di ancora indefinita formulazione (quanti anni di età? quanti di contributi?) – sembra fatto per soccorrere lavoratori privati del Nord e fasce anziane del pubblico impiego. Ma sappiamo dallo stesso Tria che si tratta di una misura chiesta dalle imprese di ogni dimensione, che vorrebbero liberarsi di lavoratori anziani e con buone retribuzioni (frutto delle lotte degli anni ‘70, ormai) per sostituirli con giovani precari e sottopagati. Se avessero avuto altre esigenze, “quota 100” potevi sognartela…
Misura comunque costosa anche questa, se si continuano ad accettare i parametri europei, anche se decisamente meno dei “100 miliardi” urlati dal bocconiano Tito Boeri, messo da Renzi a capo dell’Inps per smantellare rapidamente la previdenza pubblica. Per diminuirne l’impatto sui conti circolano addirittura voci sul rinvio del pagamento della liquidazione comunque ai 67 anni di età. In soldoni, ti mano in pensione a 63-64 anni, con un assegno più basso per ogni anni di anticipo, ma il grosso dei contanti – la liquidazione, appunto – te la farò avere solo quando la pensione sarà maturata secondo i tempi della Fornero. Hai visto mai che nell’attesa stiri le zampe, così “risparmiamo pure”…
Come si vede, sono tutte versioni “ridotte” di quanto promesso. Insufficienti a cambiare l’esistenza dei soggetti sociali interessati, ma abbastanza da poterle rivendicare come “cose fatte” nella prossima campagna elettorale a breve termine. L’attuale classe politica, del resto, sembra aver compreso perfettamente il motto keynesiano più famoso: “nel lungo periodo saremo tutti morti”. Dunque si preoccupa soprattutto di sopravvivere nel brevissimo periodo (la durata della legislatura, insomma…).

Comunque è una manovra che “concede troppo”, agli occhi di un numero spaventoso di “istituzioni” pubbliche e private che rappresentano il punto di vista dei “mercati”.Persino ANgela Merkel, che pure ha grossi problemi politici interni (al punto che potrebbe abbandonare la Cancelleria tedesca per candidarsi come leader del Partito Popolare Europeo) ha dichiarto di non volersi esprimere “sulla manovra finanziaria italiana prima che i rappresentanti del governo ne discutano con le autorità dell’Unione europea”. Non si capisce a quale titolo, ma comunque lo farà… (a proposito di “chi comanda qui”, ovvero di chi detiene “la sovranità”).

Il Mario Draghi che da Bali, al vertice del Fondo Monetario Internazionale (FmI), si dichiara “ottimista su una soluzione di compromesso” con il governo grillin-leghista, è lo stesso che ha fatto visita qualche giorno fa al presidente Mattarella per minacciare indirettamente sfracelli finanziari nel caso la manovra fosse stata “inaccettabile”. E le consuete voci interessate lo indicano come possibile primo ministro in caso di crisi di governo e ricorso al classico “governo tecnico”. In fondo il suo mandato alla Bce termina a metà 2019, ma per statuto ha la possibilità di lasciare anche sei mesi prima. A gennaio, insomma, sarebbe tecnicamente disponibile…

venerdì 12 ottobre 2018

In Italia 1 milione e 300 mila minori a rischio denutrizione nelle famiglie povere

Secondo il primo “Report sulla Salute Alimentare Infantile”, realizzato da Helpcode in collaborazione con l’Istituto Giannina Gaslini di Genova, «Nel nostro Paese, sono quasi 1 milione e 300 mila i minori che vivono in condizioni di povertà assoluta non riuscendo ad alimentarsi in modo adeguato. E la malnutrizione infantile apre la strada – contrariamente a quanto si pensi – all’obesità: infatti, 1 bambino su 3 in Italia è in sovrappeso o obeso a causa di abitudini alimentari non corrette e uno stile di vita sedentario».
L’allarmante fotografia sul fenomeno della malnutrizione infantile è stata presentata alla vigilia della Giornata mondiale contro l’Obesità dell’11 ottobre da Helpcode Italia Onlus – che ha lanciato nell’occasione anche la campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi “C’era una volta la cena”.
Il rapporto evidenzia che «La malnutrizione infantile – che sta acquisendo una portata sempre maggiore anche in Italia – rappresenta, infatti, uno dei maggiori problemi di salute pubblica nel mondo; si tratta di un fenomeno complesso, che presenta due facce: da un lato, quella della denutrizione (nel mondo si contano circa 51 milioni di bambini gravemente denutriti) e dall’altro, quella dell’obesità (negli ultimi 40 anni, il numero dei bambini e adolescenti obesi – tra i 5 e i 19 anni di età – è più che decuplicato, passando da 11 a 124 milioni)».
Il presidente di Helpcode Italia, Giorgio Zagami, ha ricordato che «Denutrizione e obesità non sono condizioni tra loro estranee. E’ molto probabile che una persona obesa ha mangiato male nella sua infanzia. È quindi fondamentale lavorare con i bambini fin da tenera età e con le donne durante la gravidanza. Per questo vogliamo accompagnare le famiglie, soprattutto quelle che si trovano in condizioni di difficoltà economica, per aiutarle a far mangiare bene i propri figli. Il nostro progetto, C’era una volta la cena, ha l’obiettivo di prevenire ed eliminare la malnutrizione infantile attraverso aiuti concreti e una maggiore educazione alimentare. Il progetto, grazie all’utilizzo dei nuovi media si rivolge alle famiglie, alle scuole, ai decision makers e a tutte le componenti della società. Non vogliamo solo dare consigli e aiuti ma vogliamo iniziare un dialogo diretto e costruttivo perché siamo convinti che comprendere sia un buon inizio per risolvere. Infine, come accade per tutti i progetti di Helpcode, abbiamo previsto un’attività di monitoraggio sull’efficacia dell’azione e sull’utilizzo dei fondi» .
Il rapporto evidenzia che «Tanto nei Paesi ricchi quanto in quelli a basso reddito, il meccanismo alla base della correlazione tra povertà economica e obesità appare ormai consolidato: quando le risorse per il cibo scarseggiano e diminuiscono i mezzi per accedere a un’alimentazione sana, ci si affida ad alimenti meno salutari che possono portare a sovrappeso e obesità. Di fatto, la malnutrizione porta – contrariamente a quanto si pensi – all’obesità, che non è mai sintomo di opulenza, ma di dieta contrassegnata da un consumo preoccupante di junk food, cibo spazzatura, bevande dolci e gassate, alimenti con scarsi nutrienti e alto livello calorico».
Helpcode Italia aggiunge che L’obesità nel mondo sta aumentando a ritmi allarmanti ed è ormai universalmente riconosciuta come una patologia, per la cui cura non esiste una risposta farmacologica, ma si rende necessario un investimento culturale in chiave preventiva – sostiene. “Inoltre, se vogliamo raggiungere l’obiettivo ‘zero fame’ entro il 2030 serve un deciso cambio di rotta: le cause della malnutrizione infantile, di fatto, non sono da ricercare solo nella mancanza di risorse economiche, ma anche nella diffusa carenza di una cultura dell’alimentazione».
E il nostro Paese, dove bambini ne nascono sempre meno, non è messo per niente bene:  secondo ilGlobal Status Report on Non-Communicable Diseases 2010” dell’Organizzazione mondiale della sanita (Oms), già 8 anni fa in Italia un bambino su tre risultava obeso o sovrappeso e il nostro Paese, malgrado i miglioramenti registrati negli ultimi 10 anni, si colloca al secondo posto in Europa per diffusione dell’obesità infantile tra i maschi (21%) e al quarto per obesità infantile femminile (14%).
Il rapporto scende nel dettaglio: «in Italia il 21,3% dei bambini è in sovrappeso e il 9,3% risulta obeso. Le cause di questi fenomeni sono da ricercare nelle abitudini alimentari non corrette e nei comportamenti sedentari adottati (in particolare, l’8% dei bambini salta la prima colazione; il 33% consuma una colazione non adeguata e il 36% assume ogni giorno bevande zuccherate e/o gassate). L’impatto di tutto ciò sul Sistema Sanitario nazionale è stimato in 4,5 miliardi di euro all’anno».
Secondo i dati dell’Oms, «La malnutrizione è corresponsabile di oltre 3 milioni (pari al 45%) di tutte le morti infantili sotto i 5 anni; inoltre, i bambini e gli adolescenti affetti da obesità e sovrappeso sono esposti fin da piccoli a difficoltà respiratorie, problemi articolari, mobilità ridotta, ma anche disturbi dell’apparato digerente e di carattere psicologico. Obesità e sovrappeso diventano anche fattori di rischio per le principali malattie croniche che si sviluppano in età adulta. Infatti, chi è obeso in età infantile, lo è spesso anche da adulto; aumenta quindi il rischio di sviluppare precocemente fattori di rischio di natura cardiovascolare (ipertensione, malattie coronariche, tendenza all’infarto) e condizioni di alterato metabolismo (come il diabete di tipo 2 o l’ipercolesterolemia). Conseguenza di ciò è che, nella sola Unione Europea, 2,8 milioni di morti all’anno sono dovute a cause associate con il sovrappeso e l’obesità».
Offrire assistenza concreta ai bambini a rischio malnutrizione a causa del disagio economico delle loro famiglie è la finalità principale della campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi “C’era una volta la cena”, che Helpcode ha realizzato in collaborazione con l’Ospedale Gaslini di Genova.
La campagna, ai nastri di partenza, ha l’obiettivo di finanziare un progetto di “Assistenza ed Educazione Alimentare”, tramite un programma di “Cash and Voucher”, per garantire ai bambini bisognosi i mezzi per una sana e corretta alimentazione: ogni famiglia assistita riceverà, infatti, un codice che la collegherà a un supermercato, all’interno del quale verrà preselezionata una lista di prodotti salutari e idonei alla composizione familiare, selezionati dai nutrizionisti dell’Ospedale Gaslini. Le famiglie beneficiarie potranno recarsi nei supermercati convenzionati, scegliere gli alimenti necessari al proprio fabbisogno e, per pagare, presentare il codice ricevuto da Helpcode.
Helpcode opererà, inoltre, anche nelle scuole tramite laboratori educativi, formazione del personale, diffusione di strumenti informativi (libri, giochi, applicazioni) per promuovere una corretta educazione alimentare e prevenire la malnutrizione.

giovedì 11 ottobre 2018

Le mani delle coop nere sul business dei migranti

Ci sono i piccoli boss locali. E poi i colossi del sociale che macinano decine di milioni. Tutti con gli amici giusti, in contesti dove la politica pesa, senza distinzioni di schieramento.
Se Mafia Capitale era il cancro che infettava Roma corrompendo politica e amministrazione, è vero che il suo sistema si ripete, in piccolo, in tutta Italia. Il cuore del business dei migranti si chiama Cas, sigla delle strutture gestite da privati attraverso bandi delle prefetture. Nati nel disastro della disorganizzazione dell’emergenza, con la politica che non ha potuto o in alcuni casi voluto occuparsi del fenomeno, i Cas sono spuntati come funghi. A fine anno erano 9.132 (il 99,8% delle strutture di prima accoglienza) e gestivano 148.502 richiedenti asilo (il 93,5% del totale).
I Cas sono spesso semplici case risistemate, senza grandi pretese. Hanno un vantaggio: i piccoli numeri sono più gestibili e hanno un minor impatto sul territorio. E uno svantaggio: non sono gli Sprar, organizzati dagli enti locali e sottoposti a un sistema di controlli molto più rigido. Aggiungeteci che nel 2017 lo Stato ha elargito qualcosa come 1,68 miliardi di euro ai Cas, come poteva finire? Accanto a cooperative, onlus e organizzazioni serie, che da sempre si occupano del sociale, sono arrivati i predoni. Che spesso sono legati a chi è al potere in quei territori.
A differenza di quel che vuole la vulgata, chi intasca i famigerati 35 euro per richiedente asilo sfruttando situazione e migranti, prime vittime del sistema, può dunque avere un diverso colore politico. Anche «nero».
Cooperative con la mano tesa  
Prendete il caso Fondi, nel cuore del Sud Pontino, l’area in provincia di Latina che si spinge fino al confine con Caserta. Quarantamila abitanti, sede del più importante mercato ortofrutticolo all’ingrosso del centro Italia, è da almeno 15 anni la roccaforte laziale della destra, soprattutto di Forza Italia. Gli affari a Fondi non riguardano solo frutta e verdura. Due Onlus, Azalea e La Ginestra, dal 2015 gestivano i centri di accoglienza per richiedenti asilo con un giro d’affari di quasi sei milioni di euro.
Nel 2016 scoppia una rivolta, gli ospiti scendono in strada, si ribellano, qualcuno chiama la Polizia. I magistrati di Latina decidono però di capire meglio cosa accade nei centri gestiti da piccoli imprenditori locali, famiglie fondane conosciute. La squadra mobile scopre le condizioni disumane di quelle case di accoglienza: sovraffollamento, 1,66 euro spesi per fornire due pasti, vestiti recuperati qui e lì nei cassonetti dei rifiuti.
La Onlus più attiva è la Senis Hospes. L’anno scorso ha incassato 20 milioni
In altre parole una cresta sui finanziamenti destinati a rendere la vita perlomeno dignitosa a chi aveva scelto l’Italia per sfuggire a guerre e persecuzioni. Pochi giorni fa il pm Giuseppe Miliano ha chiuso l’inchiesta, chiedendo il rinvio a giudizio.
In città i movimenti dell’ultra destra intanto cercavano di fatturare politicamente. Forza Nuova annunciava manifestazioni contro le vittime, dimenticando di raccontare fino in fondo chi fossero i carnefici. Uno di questi, Luca Macaro, ha una storia interessante. Candidato nella lista Progetto Fondi, che appoggiava insieme alla Lega Lazio il candidato della destra Franco Cardinale, un padre – anche lui coinvolto nella gestione del centro di accoglienza, ma non indagato – che su Facebook metteva la classica manina tesa a mo’ di saluto romano e cliccava like sul profilo proprio dei camerati di Forza Nuova. Una passione per i migranti, quello della famiglia Macaro, recentissimo. Scorrendo il profilo Facebook di Luca Macaro fino a qualche anno fa erano ben altri gli interessi: movida fondana e aperitivi.
Il colosso che finanzia Fi  
Se le due Onlus laziali in fondo erano piccole imprese, un vero e proprio gigante dell’accoglienza è invece il gruppo Senis Hospes / MediHospes, il gestore del centro di Borgo Mezzanone in provincia di Foggia. Travolto dallo scandalo nato dopo l’inchiesta giornalistica dell’Espresso, non si è perso d’animo. E, soprattutto, non è mai uscito dal giro. Secondo i dati del Viminale nel 2017 ha gestito 15 centri, da Pordenone a Messina, per un totale di 2.067 ospiti e un incasso superiore a 20 milioni di euro.
Anche qui amicizie e legami puntano a destra. Nelle dichiarazioni depositate alla Tesoreria della Camera dei deputati relative alle elezioni del 2013 il gruppo Senis Hospes risulta nell’elenco dei donatori del Popolo delle libertà di Silvio Berlusconi, con un versamento di 15 mila euro. Il presidente del gruppo, Camillo Aceto, ha poi staccato personalmente un assegno da 5 mila euro a Maurizio Lupi, che poco dopo diverrà ministro delle Infrastrutture.
Ma i rapporti tra Aceto e Lupi erano prima di tutto ideologici, grazie al legame dei due con il movimento cattolico Comunione e Liberazione.
In Sicilia c’è l’Udc  
Raccontano le cronache che a Trapani, con il picco del flusso di migranti, i vecchi Ras si siano messi a rastrellare case, cascine, piccole strutture. Posti letto da utilizzare per l’accoglienza. Nulla a che vedere con lo spirito umanitario che pur contraddistingue una parte dell’isola. Nel 2016 le indagini portarono ad arrestare anche un sacerdote, don Sergio Librizzi, con pesanti accuse di molestie sessuali e di affari illeciti con i richiedenti asilo (condanna a 9 anni appena tornati in Appello dopo un passaggio in Cassazione).
Le indagini, però, non si sono fermate. Da un’intercettazione spunta una nuova pista, che conduce lo scorso luglio a un arresto eccellente. L’ex deputato regionale dell’Udc, Onofrio Fratello, finisce in manette con l’accusa di aver gestito una capillare rete di strutture attraverso prestanome. L’ex deputato regionale era stato condannato per mafia il 13 dicembre 2006 ed era sottoposto a una vigilanza sui movimenti patrimoniali. Da Cosa nostra al business sulla pelle di chi fugge dall’inferno di Tripoli il passo è stato breve.
Profondo Nord e politica  
Prima la Dc, poi il Pdl. Simone Borile, la politica, la masticava da sempre. Così come la monnezza, il suo primo business nel Veneto dei padroncini. Poi sono arrivati i migranti e ha intuito il nuovo filone. Le cose, però, non sono andate bene. Lo scorso marzo la Finanza di Padova ha sottoposto a sequestro preventivo 3 milioni di euro per la sua attività con i rifiuti. Quindi è arrivata l’inchiesta sulla gestione dei migranti dei centri di Cona e Bagnoli, dove è indagato. E anche in questo caso le indagini erano partite dalle proteste degli ospiti.
Ispezioni e contestazioni  
Centinaia di bandi, controlli difficoltosi, che spesso arrivano dopo le inchieste giornalistiche o le proteste degli ospiti. Nel 2017 solo il 40% di queste strutture ha ricevuto un’ispezione e, in 36 casi, si è arrivati alla revoca dell’affidamento per gravi inadempienze. Le contestazioni sono state 3.000 e le penali applicate ammontano a 900.000 euro. Numeri in fondo piccoli se si pensa all’intero sistema. Recita la Relazione sul sistema di accoglienza, appena resa pubblica e a firma del ministro dell’Interno Salvini: «Nell’indire le gare finalizzate al superamento degli affidamenti diretti, i prefetti hanno affrontato oggettive difficoltà riconducibili all’inidoneità di molti immobili proposti, non rispondenti agli standard previsti od offerti da soggetti non qualificati o addirittura collegati ad ambienti malavitosi».
Anche per questo dallo scorso 1° dicembre il ministero ha assegnato un prefetto al coordinamento delle ispezioni e si è concordato con l’Anticorruzione uno schema unico dei capitolati d’appalto per rendere omogenei requisiti e standard. Sarà però difficile e ci vorrà tempo per liberarsi dei predoni. Un’idea sarebbe partire dal Lazio, la regione più critica. Se a livello nazionale la media delle contestazioni per centro visitato è stato di 0,79, qui siamo a 2,38: tre volte tanto. Forse non è un caso se a Roma tutti ricordano la frase di Salvatore Buzzi, il Ras delle coop alleato con il nerissimo ex Nar Massimo Carminati: «Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno».

mercoledì 10 ottobre 2018

L’industria pubblica va forte, il “privato” è scappato

Il 20 ottobre Us, Potere al Popolo e altre organizzazioni sociali e politiche manifesteranno a Roma per pretendere “Nazionalizzazioni qui e ora!”. Dopo il crollo del ponte Morandi a Genova è infatti diventato chiaro a tutti che i “prenditori” italiani sono dei fancazzisti che adorano fare soldi stando comodamente seduti a un casello – immaginario o reale, come quello autostradale – a prender soldi grazie a una posizione di rendita monopolistica.
Ma se c’è da produrre, rischiare, inventare, beh, da tempo hanno alzato bandiera bianca e venduto i gioielli di famiglia a società estere. Anche del made in Italy più famoso, ormai, non è rimasto granché.Si salvano piccoli gruppi di giovani “startuppari”, che almeno provano a inventare qualcosa, ma – se bravi – presto cannibalizzati da multinazionali con sedi altrove.

Eppure si continua a raccontare che “il privato è più efficiente del pubblico”, con seriosissimi giornalisti “democratici” che vanno a registrare le molte inefficienze della pubblica amministrazione, ma senza azzardarsi mai a mettere il naso negli affari dei privati (al massimo leggono i mandati di cattura, quando scoppia l’ennesimo scandalo).
E invece “il pubblico” – inteso come industria, residuo di quello che era l’immenso patrimonio dell’Iri (smantellato dai “grandi democratici” come Prodi, D’Alema, Bersani, Berlusconi, Bossi, ecc) – è praticamente rimasto l’unica “eccellenza italiana in grado di competere sui mercati globali”. Questa sintetica ricostruzione postata da Giuseppe Masala, accorpando le “buone notizie” industriali degli ultimi giorni, chiarisce la questione meglio di tanti slogan.
Ci si vede in piazza…

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Apro il Sole24Ore e vedo un articolo dove si illustra la trattativa in dirittura d’arrivo tra Leonardo e la società aerospaziale cinese statale Comac per la costruzione di un aereo civile da 280 posti. Notizia che arriva dopo quella di ieri dell’accordo tra ENI, British Petroleum e la statale libica Noc per riattivare le esplorazioni petrolifere nel paese. Tornando indietro alla settimana scorsa poi pensiamo alla vittoria dell’appalto miliardario in USA per la fornitura di elicotteri militari AgustaWestland. Non so se ci avete fatto caso ma c’è un qualcosa che unisce queste tre notizie: tutte le aziende italiana interessate o sono pubbliche o ad azionista di maggioranza pubblico. Nessun privato. Ecco, basta un po’ sfogliare i giornali all’indietro nei giorni e si nota che le uniche aziende vincenti a livello mondiale – o comunque in grado di competere – sono a gestione pubblica. Le private non pervenute. E anzi, forse è arrivato il momento di dire un’altra verità: dopo trenta anni di sbronza liberale e privatizzatoria siamo di fronte ad un enorme fallimento industriale, produttivo e finanziario. Tutto ciò che è stato privatizzato – e che eccelleva durante la gestione pubblica – è finito male. L’industria agroalimentare l’abbiamo persa sommersa anche dagli scandali finanziari (ricordate i bond cirio di Cragnotti?), l’acciaio italiano è stato distrutto dopo 20 e passa anni di gestione Luchini, la Telecom è distrutta dopo 25 anni di cure di vari capitani coraggiosi (ma coraggiosi in che senso?), l’Alitalia è in balia di un fallimento dopo le cure Ethyad-Montezemolo. Poi mi viene da pensare all’industria dell’allumio sarda, dopo decenni di cura privata è tutto chiuso e l’Italia non produce più un grammo di alluminio, ma possiamo enumerare all’infinito una giagulatoria di disastri senza soluzione di continuità. Possiamo dirlo che la sbronza liberale e privatizzatoria si è dimostrata un vero è proprio terremoto per il nostro tessuto produttivo. E alla fine di questo le uniche aziende che brillano nell’agone internazionale sono quelle poche rimaste pubbliche. Questo è quanto. Spero di non passare troppo per comunista, fascio-corporativo, statal-tangentista e chissà cos’altro. Ma questo è il punto: il frutto peggiore assieme a quell’altra leccornia dell’Euro che ci lascia la Seconda Repubblica è il disastro delle privatizzazioni. Se vogliamo andare avanti facciamo. Continuiamo su questa strada.

martedì 9 ottobre 2018

Non solo Italia, da Fmi monito alla Spagna sui conti pubblici

Il Fondo monetario internazionale, nell’avvertire la Spagna sulle migliori politiche fiscali da adottare in vista del futuro, può offrire qualche spunto di riflessione anche per il governo italiano. Negli ultimi anni, com’è noto, il rapporto deficit/Pil della Spagna è stato costantemente più elevato di quello italiano; tuttavia, il governo Rajoy ha introdotto una riforma del mercato del lavoro ritenuta più decisa dello stesso Jobs Act in termini di flessibilizzazione.
La somma di questi fattori ha portato la Spagna a crescere in modo sostenuto, anche se adesso – come nel resto d’Europa – ci si attende un rallentamento. In questo contesto, ecco cosa suggerisce il Fmi in vista della finanziaria per il 2019:
“I paracolpi fiscali, che si sono esauriti durante la crisi, devono essere ricostruiti. Ciò significa che la politica fiscale dovrebbe sfruttare appieno le condizioni economiche ancora forti per abbattere più rapidamente l’alto livello di debito pubblico. Altrimenti, la Spagna sarebbe costretta a intraprendere una stretta fiscale pro-ciclica quando l’economia sarà colpita da shock futuri. Pertanto, la creazione di buffer oggi crea più spazio fiscale in futuro che contribuirà a proteggere meglio la popolazione dalle grandi oscillazioni nel mondo del lavoro”.
In altre parole, scrive il Fmi, è importante che in una fase di crescita il governo non ecceda nel deficit, perché questo incremento di spesa farebbe sentire il suo peso in misura consistente quando in seguito a una crisi le entrate fiscali dovessero crollare. In questo caso, per correggere il tiro, si renderebbero necessarie strette alla spesa pubblica nel momento in cui l’economia andrebbe, invece, sostenuta. Nel dettaglio il piano proposto da Madrid “implica uno sforzo [sul deficit] strutturale dello 0,5% del Pil: “questo ritmo di aggiustamento annuo dovrebbe persistere sintantoché il bilancio fiscale strutturale e il debito non saranno su chiaro percorso discendente”.

Il governo socialista in carica attualmente ha previsto un rapporto deficit/Pil all’1,9% per il 2019, inferiore al 2,4% previsto dall’esecutivo italiano: negli ultimi 10 anni non è mai accaduto che il deficit spagnolo fosse più contenuto di quello italiano.
Per raggiungere maggiore equilibrio fra spese e entrate il Fmi non suggerisce di aumentare le tasse, bensì di operare ulteriori riforme sul fronte del lavoro e delle pensioni. Nel primo caso assicurare che gli incrementi salariali siano legati a quelli della produttività e, nel secondo, che l’equilibrio venga mantenuto tramite, ad esempio, “l’aumento del contributo minimo per i lavoratori autonomi e l’innalzamento del reddito massimo soggetto a contributi, nonché il collegamento dell’età pensionabile legale direttamente alla speranza di vita”.

lunedì 8 ottobre 2018

Il doppio regalo che riceveranno i ricchi

Povertà e disoccupazione sono due piaghe che vanno affrontate, ma pretendere di risolverle facendo altro debito è un inganno. Per la situazione in cui si trova l’Italia, l’unico modo per finanziare la spesa in deficit è affidarsi alle banche e agli investitori privati, che significa condannarci a maggiore povertà e ingiustizia futura. A generare preoccupazione non è tanto la restituzione del capitale, che in un modo o nell’altro si trova sempre il modo di rifinanziare, quanto il pagamento degli interessi, che rappresentano il vero meccanismo attraverso il quale  il debitore si impoverisce a vantaggio del creditore. Va ricordato, infatti, che a differenza del capitale che rappresenta ricchezza passata, cristallizzata e inoperosa, gli interessi rappresentano ricchezza fresca corrente che invece di essere goduta dalla collettività è goduta dai creditori. E al colmo del paradosso, come spiega la Banca d’Inghilterra nel suo dossier “Money creation in the modern economy”, nell’odierna ingegneria monetaria, le banche riescono a prestare denaro creato dal niente, attraverso delle semplici scritture contabili. In altre parole prestano carta, addirittura moneta creditizia elettronica e ottengono indietro ricchezza reale. E poi si continua a gridare allo scandalo perché la ricchezza risulta distribuita in maniera sempre più iniqua. Il debito è uno dei meccanismi di fondo che genera iniquità.
Il dramma dell’Italia è che si procede per fanatismi e dopo un periodo in cui si pensava che l’unico obiettivo da perseguire  fosse quello di rassicurare i creditori sulla nostra capacità di pagamento, ora si pensa che l’unica cosa da fare sia quella di lasciare più soldi nelle tasche dei cittadini per rilanciare i consumi e quindi la crescita. Ma appurato che la crescita deve essere selettiva per non peggiorare lo stato di salute dell’ambiente, il rilancio dei consumi diventa un vero inganno quando si pretende di usarlo per abbassare le tasse anche ai ricchi. È dimostrato che i consumi decrescono al crescere della ricchezza, per cui nessuna politica di rilancio dei consumi può prescindere dall’equità e l’equità si realizza aumentando il carico fiscale non solo sugli alti redditi, ma anche sui consumi di lusso. E’ un vero assurdo che si debba pagare la stessa aliquota IVA su un carico di legna per scaldarsi e su un panfilo per solcare i Caraibi. In conclusione flat tax non fa rima né con crescita né con rilancio della domanda, ma solo con iniquità e fa veramente male vedere una forza che si dice a favore del popolo creare le premesse per più ingiustizia e povertà.
Abbassare le tasse sui redditi alti e nel contempo finanziare le spese sociali a debito è un doppio regalo che si fa ai ricchi. Il primo quando si lasciano nelle loro tasche più soldi. Il secondo quando si fanno crescere ulteriormente i loro portafogli a causa degli interessi riscossi sui prestiti che lo stato ha dovuto chiedere in prestito per i mancati incassi dovuti alla riduzione delle tasse. Pretendere di eliminare la povertà mettendo sempre più soldi nelle tasche dei ricchi è una farsa che si addice solo alla commedia di un comico. E’ l’apoteosi di chi dichiarandosi né di destra né di sinistra, invece di assumersi la responsabilità di risolvere le storture sociali ed economiche che affliggono l’Italia, cerca di fare un figurone con un festino organizzato a debito. Ma le bugie hanno le gambe corte e ce ne accorgeremo quando la montagna degli interessi sarà così alta da mangiarsi buona parte delle nostre entrate fiscali e non lasciarci più nessuna margine di manovra sociale.


La storia del debito pubblico italiano è ancora tutta da scrivere, ma in attesa che un serio audit popolare  appuri il ruolo giocato dalla corruzione, dalle spese inutili e dannose, dagli interessi usurai pagati negli anni ottanta e novanta del secolo scorso, è ormai certo che se ci troviamo con un debito così mostruoso è anche a causa all’evasione e di una pessima gestione fiscale. Le fonti ufficiali collocano l’evasione a 110 miliardi di euro all’anno, mentre l’economia sommersa al 27% del Pil. Per non parlare delle controriforme fiscali che dal 1974 hanno fatto passare gli scaglioni fiscali da 32 a 5 con grande gioia degli alti redditi che ora aspettano a gloria la flat tax.
La lotta alla povertà e alla disoccupazione è un dovere morale prima che politico e non per rimettere l’economia sulla strada della crescita, ma per dare dignità a chi l’ha persa, senza distinzioni di nazionalità, di sesso e di età. Ma va perseguita senza compromettere il futuro, ossia senza fare altro debito, soprattutto per noi che ormai siamo oltre il 132% del Pil. Le possibilità ci sono, ma bisogna avere il coraggio di schierarsi e di porre questioni di fondo non per difendere l’individualismo nazionale, ma per costruire un’Europa più sociale e più giusta. Tre le proposte possibili. La prima: il ritorno a una seria tassazione progressiva per prendere i soldi dove si trovano e non sono neanche utilizzati per fini produttivi, ma speculativi. La seconda: lanciare un serio programma di moneta complementare per il rilancio dell’occupazione in ambito pubblico. La terza: un’azione forte per mettere all’ordine del giorno  la riforma della  Banca Centrale Europea e  l’avvio di una ristrutturazione del debito pubblico di tutti i paesi europei a partire dal congelamento degli interessi. Un messaggio chiaro che la povertà vogliamo eliminarla, ma attraverso l’eliminazione delle iniquità di cui il debito è la peggiore espressione.