venerdì 28 settembre 2018

"Il terrore di stato degli USA nelle zone di guerra ha poco a che fare con la difesa degli americani

La guerra degli Stati Uniti contro l'Afghanistan è stato costruito su una "proficua menzogna " e il "terrore di stato" perpetrato da Washington nelle sue guerre all'estero, ha "poco a che fare" con la tutela e la difesa degli statunitensi, secondo un ex soldato del Corpo dei Marines Stati Uniti.

In un'intervista con 'The Real News', Lyle Jeremy Rubin ha deplorato il fatto che la maggior parte dei suoi concittadini ringraziano le truppe per il loro servizio all'estero, con l'idea di difendere il paese, senza sapere che molti di loro non fanno altro che infondere terrore.

"Quello che molti di noi stanno facendo, in particolare nelle zone di guerra in cui ci operiamo, è terrorizzare le popolazioni disperate e spesso povere", ha affermato Rubin. "E quel terrore di stato del nostro governo ha ben poco a che fare con la difesa degli interessi della maggioranza degli americani", ha aggiunto.

L'ex militare usa come esempio ha preso in considerazione il conflitto contro i talebani, in cui ha prestato servizio per un anno.
"La guerra in Afghanistan, come la maggior parte guerre degli Stati Uniti, mi ha colpito non solo come una menzogna redditizia, ma anche rovinosa", ha scritto l'ex marine su 'The Nation', affermando di essere stato "testimone immediato di morte e distruzioni inutili."

Rubin, che ammette di aver "creduto in ogni parola" del governo dopo l'11 settembre, ora accusa i media statunitensi di non occuparsi adeguatamente delle guerre successive, e condanna che alcuni di loro hanno persino giocato un ruolo importante nella suo "lancio ed espansione".

"Esiste una specie di ristretto spettro di opinioni all'interno del quale è permesso cadere, ma a persone come me raramente è concesso opporsi completamente a queste guerre", ha spiegato Rubin, che dopo cinque anni di servizio militare è diventato un attivista.

giovedì 27 settembre 2018

Il Jobs Act faceva schifo, ma era anche (un po’) incostituzionale

Sono soddisfazioni postume, diciamolo, ma fanno sempre piacere…
La norma sul “contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti” – il cosiddetto “capolavoro teorico” di Pietro Ichino, tradotto in legge da Matteo Renzi e dal Pd – è costituzionalmente illegittima nella parte in cui determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato. Lo ha stabilito la Corte costituzionale.
La Corte ha dichiarato illegittime le disposizioni in materia contenute nell’articolo 3, comma 1, del Decreto legislativo n.23/2015, che non sono state modificate neanche dal successivo Decreto legge n.87/2018, cosiddetto “Decreto dignità” (un altro “capolavoro teorico” del ministro Luigi Di Maio, che non ha né aggiunto né tolto nulla di sostenziale al Jobs Act).
In particolare, la previsione di un’indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è, secondo la Corte, contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione.
Il Jobs act di Renzi prevedeva un indennità di licenziamento compresa tra 4 e 24 mensilità, stabilendo che dovessero essere erogate al momento del licenziamento due mensilità per ogni anno di servizio prestato. Il “decreto dignità” ha modificato semplicemente il numero –da un minimo di sei a un massimo di 36 mensilità – ma senza modificare il meccanismo.
Tutte il resto di quella normativa “democratica” e ora grillin-leghista è invece costituzionalmente ammissibile, pur essendo una oscenità politica.
Non c’è comunque da gioire più di tanto, in attesa della pubblicazione delle motivazioni della sentenza della Consulta, perché – per assurdo – non è detto che un criterio “coerente con i principi di ragionevolezza ed uguaglianza” non possa essere anche peggiore.

mercoledì 26 settembre 2018

Auf Wiedersehen, stranieri!

Bisognerebbe essere ciechi e sordi, oppure vivere in un eremo ai confini del mondo, per non accorgersi di quanto sia sempre più precaria la salute di un’Unione, quella Europea, ormai più di nome che di fatto. Il paradosso odierno, in un panorama di criticità crescenti, ce lo offre uno fra gli Stati insospettabili, anzi, lo Stato insospettabile per antonomasia poiché custode del miglior rigore europeista: la Germania. Succede quindi che diversi cittadini europei, tra cui ovviamente molti Italiani, “emigrati” in Germania e rimasti senza lavoro rischiano di essere espulsi se non dovessero trovare un’occupazione entro sei mesi. Alcuni nostri concittadini hanno persino dichiarato di essere già stati convocati presso l’Ufficio per gli immigrati, ricevendo un ultimatum.
Il Paese della Merkel ha perciò deciso che non potrà prestare parte della propria previdenza ai non cittadini tedeschi, chiedendo – non è uno scherzo – che i migranti possano essere spartiti tra tutti i Paesi dell’Unione. Ma come – viene da chiedersi – non dovremmo essere cittadini europei prima che di ogni singolo Stato membro? Non dovremmo vivere nel mito del no-borders, a maggior ragione se questi borders sono interni all’Unione, con intere generazioni formate a questo dogma nelle migliori università europee? E ancora: non si è scelto, noi Paesi democratici, di sanzionare l’Ungheria in quanto agente frenante di quei meccanismi “democraticissimi” di mobilità dei flussi migratori? E di demonizzare, tra l’altro, chi al di fuori dell’Unione pratica la difesa dei confini esterni (si legga Russia)?
La confusione, dunque, è inevitabile e non si può non osservare – come già ha fatto il Sottosegretario di degli Affari esteri Riccardo Antonio Merlo, commentando la notizia – di vivere in un paradosso in cui si aprono indiscriminatamente e con forza certe porte esterne (quelle, ad esempio, dei confini italiani) per sbattere poi in faccia quelle interne. Un sospetto, però, attanaglia chi scrive: ovvero che finora si sia vissuti non in un paradosso ma in un’Unione in cui, sotto sotto, alcuni Stati siano stati chiamati sin dall’inizio al “nobile” sacrificio della propria sovranità (economica, politica, sociale) mentre altri hanno da sempre perseguito gli interessi dei propri cittadini.
Verrebbe da pensare, quindi, che la Germania abbia sempre avuto un ruolo di predominanza e di dominio sugli altri Paesi membri, potendo applicare politiche più o meno vantaggiose per i propri interessi e magari, perché no, a discapito dei propri vicini. A pensar male si fa peccato, certo, ma a volte – direbbe qualcuno – si indovina.

martedì 25 settembre 2018

Condono, pace fiscale, deficit

Il governo, in questa fase convulsa di preparazione della manovra, gioca sulle parole tra “Condono” e “Pace Fiscale”: in realtà si sta preparando un grosso premio a quella che è stata l’enormità dell’evasione fiscale accumulata nel corso degli anni.
Si parla di 1.050 miliardi.
Arrivano al pettine i nodi creati dal modello economico – produttivo ispirato dal centro-destra nella sua versione “classica” degli ultimi anni’90 del XX secolo e del primo decennio del secolo che stiamo vivendo: quello degli “spiriti animali del capitalismo”, della “imprenditoria rampante”, di un in molti casi ingiustificato e avventuristico, “spirito imprenditoriale” alimentato dalla filosofia del “sogno”, stile “american way life”.
Tutto questo emerge benissimo, ad esempio, in un’intervista rilasciata dall’ex-sindaco di Padova e attuale sottosegretario, Bitonci, che in un assoluto crescendo giustificazionista parla di “ci hanno imposto il nero o non abbiamo potuto lavorare, aiutateci”.
E’ la filosofia del considerare lo stato criminogeno e di considerare quindi l’evasione un “diritto naturale”, del resto proclamata dallo stesso Berlusconi nel suo famoso discorso di giustificazione dell’evasione e dell’elusione tenuto all’ANCE il 2 aprile del 2008 nel corso della campagna elettorale che registrò una rimonta del centrodestra, superato dall’eterogenea “Unione” per soli 24.000 voti.
Il centrosinistra dell’epoca ebbe le sue pesanti responsabilità sotto quest’aspetto per aver espresso una contraddittorietà di fondo tra la “bellezza delle tasse” evocata da Padoa Schioppa e l’adesione complessiva al modello che, a partire dal discorso sulle privatizzazioni dell’industria pubblica, approdò all’accettazione piena e supina del neo – liberismo.
Sono risultati profondamente sbagliati i modelli dei “distretti del Nord – est”, della “fabbrichetta”, del “sciur Brambilla” anni ’80: è lì che nasce la questione dell’evasione fiscale a dimensioni gigantesche, equilibrata drammaticamente dall’esplosione del debito pubblico e fautrice di disuguaglianza, sfruttamento, lavoro nero svolto in particolare dagli immigrati (pensiamo alle concerie di Vicenza), di arricchimenti indebiti.
Così sono stati distrutti i settori portanti e decisivi dell’industria italiana, si è abdicato a qualsiasi idea di programmazione economica, si è data via libera a un mercato selvaggio del quale – appunto – i 1.050 miliardi di evasione e contenzioso fiscale rappresentano l’espressione più evidente, si sono impoveriti interi pezzi di società, demoliti settori portanti come quelli dell’amministrazione pubblica, della scuola, dell’Università.
La differenza tra centro destra e centro sinistra, a suo tempo, è stata quella che il centro destra ha perseguito ferocemente la strategia dell’arricchimento per poco e della disarticolazione e anestetizzazione della società italiana, mentre il centro sinistra in alcune sue parti ha perseguito una stupida politica di accreditamento a palazzo e in altre parti esaltandola necessità di unirsi contro il pericolo della destra facendo finta di non accorgersi di stare sviluppando proprio la politica della destra (un classico “storico”).
So bene che la giustificazione a tutto ciò è stata data dal procedere della tecnologia, dalla necessità di scrostare imposizioni corporative, dall’irrompere della globalizzazione, dallo spostarsi dell’economia verso la finanziarizzazione da cui la scaturigine della crisi del 2008. Non mi è parso però il caso di starci dentro all’epoca, accumulando anche una buona quota di propaganda espressa da luoghi comuni, in una sorta di adeguamento continuo al ribasso, come è stato fatto anche attraverso il tirar fuori come alternativa“i beni comuni”, il “mutualismo” in attesa di riscoprire i falansteri di Fourier e i pre- marxisti. Tutte belle cose ma del tutto insufficienti rispetto alla bisogna che stava esprimendosi pesantemente sulle condizioni materiali di vita, di lavoro, di ambiente.
Sono questi punti sui quali riflettere, così come sarebbe il caso di pronunciarci sulla questione del deficit.
Abbiamo sempre sostenuto la necessità di utilizzo del “deficit – spending” e osteggiato fortemente le politiche rigoriste imposte dall’UE.
Adesso è il caso di affermare che la questione risiede nell’utilizzo dei margini di deficit (al di là della trattativa con Bruxelles): un conto è l’utilizzo del deficit allo scopo di varare un forte piano di programmazione economica e di intervento pubblico destinato all’innovazione tecnologica, alla creazione di lavoro “vivo e vero”, di adeguamento delle infrastrutture, di difesa ambientale (come dimostra purtroppo ancora Taranto) e ben diverso è il quadro che si presenta di utilizzo del deficit per misure assistenziali come il reddito di cittadinanza.
Questo va detto chiaro: il reddito di cittadinanza contiene in sé il rischio di rivelarsi una misura assistenziale che nasconde anche una idea negativa del lavoro (ben diversa dall’idea marxiana del “liberarsi” del lavoro); ricordando anche e sempre che, ad esempio, il tema delle pensioni dovrebbe essere legato, per quel che riguarda l’INPS, alla scissione tra assistenza e previdenza di cui si parla dal 1958 e adesso sparita dall’agenda.
Così come è sicuramente una misura di ulteriore agevolazione verso i ricchi l’altra faccia della medaglia per la quale si vorrebbe utilizzare il “deficit – spending”.
Assistenzialismo, “pro ricchi”, aumento delle diseguaglianze questa pare essere, in pratica, la cifra che esprime attualmente il governo italiano anche oltre il tema politico generale dello spostamento a destra insito nelle logiche razziste – sovraniste.
Personalmente con nessun timore, anzi con orgoglio, di essere definito un retrogrado cultore delle “magnifiche sorti e progressive” e dell’antico scontro di classe: ma rimane questo il punto vero di distinzione filosofica e politica.

lunedì 24 settembre 2018

EVASIONE IVA ITALIA REGINA

L'Italia resta il primo Paese europeo per l'Iva evasa. Mancano all'appello, secondo i dati diffusi oggi dalla Commissione Europea, circa 36 mld di euro (35,988 mld nel 2016), su un totale nell'Ue a 28 di 147 mld. Il Vat gap, cioè la differenza tra l'Iva che teoricamente dovrebbe essere riscossa e quella effettivamente incassata, nel nostro Paese è del 25,9%, in miglioramento rispetto al 26,13% del 2015 e al 30,09% del 2013, ma sempre più che doppio rispetto alla media Ue (12,32%).
Il 'record' dell'Iva evasa per il nostro Paese è un dato storico abbastanza consolidato (anche nel 2016 l'Italia risultava in testa, sulla base dei dati relativi al 2014); come nel 2014, l'Italia pesa per circa un quarto dell'Iva evasa in tutta l'Ue. Il gettito dell'Iva per l'Italia nel 2016 è stato di 102,957 mld, a fronte di 101,061 mld nel 2015.

venerdì 21 settembre 2018

Disoccupazione: male necessario o arma dei padroni?

Sono tempi molto confusi, nei quali le tradizionali categorie del discorso politico sembrano sfaldarsi sotto la pressione di nuovi termini dal significato volutamente ambiguo (“populismo” e “sovranismo”, in particolare). Sotto l’apparente confusione, però, continuano a operare i meccanismi che caratterizzano il capitalismo e, quindi, la lotta di classe. Può essere utile, allo scopo di fare chiarezza su tali meccanismi, ricorrere alle analisi dei più lucidi studiosi del capitalismo.
A tal fine, proponiamo ai lettori un breve ma denso pezzo del 1943 ad opera di Michał Kalecki (Lodz, 1899 – Varsavia, 1970), uno dei maggiori economisti eterodossi del ‘900. Di formazione marxista, ha contribuito in maniera decisiva agli studi sul ruolo della domanda effettiva sullo sviluppo delle economie capitalistiche, scrivendo pagine fondamentali sulla dinamica di un sistema economico moderno. L’articolo si intitola “Political Aspects of Full Employment” (in italiano, “Aspetti politici del pieno impiego”) e la domanda alla quale Kalecki cerca implicitamente di rispondere in esso è la seguente: se è vero, come la Storia e la teoria economica keynesiana insegnano, che i governi possono, attraverso la politica economica, ottenere il pieno impiego dei lavoratori, come mai ciò non accade? L’argomento è senz’altro di attualità e la lettura di Kalecki ci offre la possibilità di avere un’interpretazione coerente di ciò che quotidianamente leggiamo nel dibattito politico.
L’autunno che si prospetta per l’Italia è potenzialmente esplosivo: il governo gialloverde sarà finalmente impegnato sul primo, vero, banco di prova: la legge di bilancio. Fino ad ora ha avuto gioco facile nel mostrare i muscoli contro dei disgraziati alla deriva, ma il provvedimento che dovrà approvare ci farà capire quale sarà la direzione intrapresa dal nuovo esecutivo. Se fotografassimo ora la situazione, vedremmo dal punto di vista economico alcune questioni: si parla molto della nazionalizzazione delle autostrade a seguito della tragedia di Genova, si discute di quali siano i migliori provvedimenti da adottare in materia di politiche fiscali, spingendo per reddito di cittadinanza e flat tax, ci si chiede come gli investitori reagiranno alle mosse del governo, guardando febbrilmente al livello dello spread, si guarda preoccupati il dato della crescita, visto che veniamo da ormai dieci anni di stagnazione.
Negli ultimi decenni il ruolo dello Stato nell’economia è stato smantellato, sulla base di una retorica tossica sulla maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico. Una retorica presente anche nel DNA e nelle esternazioni dei principali esponenti del cosiddetto “governo del cambiamento”, alla faccia delle bellicose dichiarazioni seguite al crollo del ponte Morandi. Proprio per aiutarci a capire cosa ci sia dietro queste dichiarazioni dalla quantomeno dubbia consistenza teorica, ci viene in aiuto Kalecki.
L’economista polacco ci dice, sostanzialmente, che a opporsi alle politiche di pieno impiego è la classe dominante, quella dei capitalisti. L’avversione del grande capitale nei confronti dell’intervento pubblico nella sfera economica, scrive Kalecki, non è immediatamente comprensibile: lo Stato, aumentando la capacità dell’economia di assorbire la produzione corrente tramite spesa in deficit, può di fatto aumentare la massa di profitti che il settore privato è in grado di realizzare. In altre parole, se lo Stato si aggiunge al settore delle famiglie e al settore estero, può contribuire ad acquistare beni prodotti dal privato, a tutto beneficio dei capitalisti. Perché dunque tanto astio? L’autore riporta tre fondamentali aspetti in merito, che in parte si sovrappongono tra essi:
  1. l’avversione nei riguardi della ingerenza dello Stato nella gestione dell’economia;
  2. l’avversione nei confronti di specifiche tipologie di intervento pubblico;
  3. il punto più fondamentale: l’avversione alle trasformazioni sociali e politiche che deriverebbero dal mantenimento costante del pieno impiego.
1. Il primo aspetto riguarda l’attitudine dei capitalisti nei confronti dell’intervento dello Stato nell’economia. Il grande capitale avversa tale intervento con tutte le sue forze e Kalecki ci ricorda le ragioni che i sostenitori del laissez faire e il grande capitale adducono a sostegno del non intervento dello Stato: l’attivismo dei governi nell’economia andrebbe a minare la cosiddetta “atmosfera di fiducia” che regola il comportamento degli imprenditori, portando, quindi, a una riduzione degli investimenti privati. Tale intervento viene dipinto come tanto più nocivo, quanto più ricorre alla spesa in deficit, considerata particolarmente perniciosa.
Sembra difficile non sentire l’eco degli infiniti dibattiti sul fatto che un governo deve agire responsabilmente in fatto di bilancio, pena la fuga dei capitali e l’aumento dello spread. Stando al Vangelo mainstream, le misure di austerità dovrebbero aiutare gli investitori a tranquillizzarsi ed effettuare più investimenti. In realtà, come ci insegna l’esperienza recente, queste misure non conducono a più investimenti, né a una maggior occupazione. Come ci spiega Kalecki, le ragioni dietro l’avversione dei grandi capitalisti all’espansione del ruolo dello Stato, è ben diversa e meno nobile: il loro obiettivo è esattamente opposto all’espansione dell’occupazione, come spiegheremo nel punto 3.
2. Successivamente, Kalecki ci dice che oltre alla generale avversione dei capitalisti riguardo la spesa pubblica, essi hanno una particolare ritrosia nei riguardi dell’investimento pubblico e del sovvenzionamento del consumo di massa.
L’investimento pubblico, per i capitalisti, deve essere assolutamente scoraggiato in quanto quel tipo di strategia potrebbe condurre alla ‘possibilità che il governo, agendo secondo la logica di tale politica possa spingersi a nazionalizzare i trasporti o i servizi pubblici, per poter allargare l’ambito del suo intervento’. Kalecki è ovviamente contrario a questo modo di ragionare, ben consapevole del fatto che gli investimenti pubblici, “occupando” settori produttivi, sottraggono una parte dell’economia al controllo dei capitalisti privati e, dall’altro, tendono al raggiungimento del pieno impiego, cosa che, come Kalecki argomenta nel terzo punto del suo ragionamento, i capitalisti temono più di ogni altra. Non potrebbe essere più attuale il rimando al dibattito che sta montando sulla necessità di nazionalizzare il comparto autostradale a fronte della catastrofica caduta del ponte Morandi, misura che incontra fortissime resistenze, e che eventualmente segnerebbe solo una piccola inversione di rotta in un processo che ha visto le privatizzazioni farla da padrone negli ultimi decenni. Ammesso, per l’appunto, che si faccia, perché, allo stato attuale, si è sentito molto abbaiare, ma si sono visti ben pochi morsi.
Per quanto riguarda il sovvenzionamento del consumo di massa, ovvero tutte quelle misure di politica economica volte ad aumentare direttamente il potere d’acquisto della classe lavoratrice, Kalecki pensava che esso incontrerebbe uno sfavore ancor più aspro visto che permetterebbe ai lavoratori di potersi sostentare senza lavorare e questo li renderebbe più forti in fase di contrattazione salariale, così come il pieno impiego. Sembrerebbe, dunque, che l’idea di “reddito di cittadinanza”, cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle, sia una notizia positiva per i lavoratori oppure, smentendo clamorosamente Kalecki, un provvedimento gradito alla classe dominante. Le cose stanno diversamente e il ragionamento di Kalecki non risulta in alcun modo scalfito: proprio perché il capitale ha ottenuto delle vittorie enormi sul piano delle privatizzazioni, della austerità e della rinuncia all’investimento pubblico, ad oggi sembra politicamente accettabile lasciare qualche briciola elargita mediante politiche di reddito minimo, in modo da tenere bassa la pressione nei riguardi di altre forme di intervento statale, purché, sia chiaro, si tratti per l’appunto di briciole e non di interventi più sostanziosi. Tutto deve cambiare, affinché nulla cambi.
3. Infine, l’autore ci offre una illuminante chiave di lettura dal punto di vista storico. L’intervento pubblico nell’economia e, in particolare, gli investimenti pubblici e il sostegno al consumo di massa, oltre alle ragioni viste sopra, costituiscono una minaccia, agli occhi dei capitalisti, per un motivo più fondamentale: essi conducono il sistema più vicino al pieno impiego. Una bassa percentuale di disoccupati, però, crea grandi tensioni di carattere politico, in quanto i lavoratori possono spingersi a rivendicare più salario e diritti, in quanto meno ricattabili. Spieghiamo meglio questo punto. La ragione per la quale una maggiore disoccupazione tende a far ridurre i salari reali e a indebolire i diritti dei lavoratori risiede nel fatto che, se c’è alta disoccupazione, il lavoratore teme maggiormente il licenziamento. In primis, perché se la disoccupazione è ampia, sarà più difficile per lui trovare un’altra occupazione. In secundis, in quanto se c’è alta disoccupazione, è più ampio il cosiddetto esercito industriale di riserva di marxiana memoria. In altri termini, l’imprenditore ha un più ampio bacino di disoccupati al quale attingere per sostituire il lavoratore licenziato: per un lavoratore che alza la voce per ottenere migliori condizioni di lavoro, ci saranno centinaia di disoccupati disposti ad accettare qualsiasi condizione pur di lavorare. Se il lavoratore ha, dunque, paura di perdere il lavoro, sarà più facile, per il capitalista, spuntare salari più bassi e peggiori condizioni di lavoro.
Kalecki ci insegna, quindi, che ci sono almeno due ragioni per le quali chiunque abbia davvero a cuore le condizioni di vita dei lavoratori dovrebbe sostenere l’intervento pubblico nell’economia. Il primo è che, attraverso l’intervento pubblico, lo Stato può nazionalizzare settori produttivi e diventare protagonista della produzione a tutto vantaggio della collettività. Inoltre, e questa è la ragione più importante, in quanto l’intervento dello Stato può annullare la piaga della disoccupazione (il che è un valore in sé) e ciò indirettamente può condurre ad un rafforzamento del potere contrattuale dei lavoratori e, quindi, ad una distribuzione del reddito a essi più favorevole.
Il contributo di Kalecki è un faro nella nebbia che avvolge il dibattito politico odierno. Ogni volta che si parla di regole sul deficit e sul debito, di nazionalizzazioni, di sostegno ai consumi e di flat tax, si sta parlando di una sola cosa: la ricattabilità dei lavoratori. Dietro le parole velenose di chi proclama solennemente di voler salvare l’economia dai “disastri” che il deficit porterebbe con sé, di chi dichiara che il privato è più efficiente del pubblico, di chi sostiene che meno tasse sui ricchi porteranno a più investimenti, l’antidoto di Kalecki ci permette di scorgere in controluce il vero significato: “vogliamo che i vostri salari siano bassi e che i vostri diritti siano spazzati via”. Conoscere le menzogne di tali ciarlatani è il punto di partenza per combatterli.

giovedì 20 settembre 2018

L’Italia è un paese per ricchi!

Lo sapete che in Italia una Flat Tax c’è già? È quella che volle fortemente l’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi e che poi è diventata attuativa col suo successore, Paolo Gentiloni. Grazie a quella che lo stesso Sole 24 Ore di ieri definisce “flat tax per i super-ricchi” in un anno in 160 hanno trasferito la propria residenza fiscale nel Belpaese. Dopo CR7 è ora il turno di Davide Serra, finanziere amico di Matteo Renzi (sarà un caso?) e fondatore di Algebris, “società di gestione del risparmio con attivi per 12,3 miliardi di euro”.
Ma di cosa si tratta? È un’imposta per chi – italiano o straniero – decide di trasferirsi in Italia. Il contribuente paga 100.000 euro all’anno per i redditi prodotti all’estero. Non importa che siano di 1, 10, 100, 1000 milioni di euro. Su quei redditi non dovranno pagare un centesimo in più di 100.000 euro, né in Italia né nel paese di provenienza. E ci stupiamo se i Paperon de Paperoni di ogni dove si sperticano in un profluvio di lodi senza fine per la Flat Tax?
Ci ripetono ossessivamente che attirare i ricchi farà bene anche a noi. Che, come una goccia, i benefici arriveranno a tutti. Che qualche briciola dalla tavola di questi nababbi cadrà e sarà per le nostre bocche. I governi del PD e quello giallo-verde di Di Maio e Salvini su questo sono assolutamente d’accordo. Alla super Flat Tax di Renzi e Gentiloni seguirà la Flat Tax di Salvini e Di Maio.
Peccato che l’esperienza degli ultimi 30 anni ci dica che i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Che la Flat Tax sia l’ennesimo regalo a chi ha già le tasche piene.
Né per giovani, né per vecchi. Tutti i partiti in Parlamento stanno semplicemente costruendo un paese per ricchi.
Il sistema fiscale andrebbe sì modificato, ma nella direzione opposta. Rispettando l’articolo 53 della Costituzione che prescrive la progressitivtà delle imposte, così che chi ha di più paghi di più. E facendo una lotta senza quartiere all’evasione fiscale. Per rimettere in carreggiata le classi popolari dell’intero Paese. Che invece le Flat Tax di ogni colore e tipo non fanno altro che penalizzare sempre di più.

mercoledì 19 settembre 2018

Grecia, austerity parte due: nessun rinvio a taglio pensioni

Dopo otto anni di austerity lo scorso 20 agosto la Grecia si è avviata verso la fine della stagione del salvataggio finanziario ma affermare che il Paese è risanato è tutt’altra cosa.
La Grecia infatti rimare ancora fortemente indebitata e sottoposta al monitoraggio fiscale anche se in maniera molto meno forte da parte dell’Ue e del Fondo monetario internazionale e e come ha riportato tempo fa il Financial Times, in cambio Atene dovrà perseguire una media di avanzi primari di bilancio del 2,2% del Pil fino al 2060 (e 3,5% fino al 2022).
Qualche giorno fa il premier greco Alexis Tspiras aveva annunciato l’impegno del suo governo a ridurre gradualmente l’imposta sulle società dal 29% al 25% a partire dal prossimo anno, insieme ad un taglio dell’IVA dal 2021 e un taglio tra il 30% e il 50% dell’imposta sugli immobili.
Nel corso di un’intervista  al quotidiano Naftemporiki, il ministro delle finanze ellenico Euclide Tsakalatos ha annunciato un nuovo allentamento dei controlli sui capitali molto presto. Era luglio 2015 quando Atene per arginare la fuga di liquidità dalle sue banche ha imposto controlli sui capitali e ora l’annuncio del ministro.
“La Grecia prevede di ridurre ulteriormente i controlli sui capitali e  presto verranno eliminate tutte le restrizioni imposte tre anni fa. (…) Con questo nuovo allentamento completeremo il secondo pilastro dei regolamenti riguardante i prelievi di contante e l’apertura di conti bancari e entreremo nella fase finale per la piena abolizione dei controlli sui capitali, il terzo e ultimo pilastro..in materia di restrizioni sul trasferimento di capitali all’estero”.
Il 1° gennaio 2019 invece dovrebbe entrare in vigore il taglio sulle pensioni. Inizialmente si era paventato un rinvio del taglio  ma la Commissione Ue ha negato seccamente. “Pacta sunt servanda” ha sentenziato Alexander Winterstein, portavoce di Bruxelles.
“Bisogna realizzare quanto era stato accordato in precedenza”.
Così il portavoce della Commissione che ha anche rifiutato di confermare o negare le informazioni in possesso della stampa secondo le quali Atene e Bruxelles avrebbero raggiunto un accordo per abbandonare i tagli durante la missione delle istituzioni ad Atene.

martedì 18 settembre 2018

Spagna, otto milioni di euro da Coca-Cola a organizzazioni mediche e scientifiche.

Coca-Cola ha versato otto milioni di euro, tra il 2010 e il 2017, a decine di organizzazioni mediche e scientifiche spagnole e una ricerca accusa la compagnia di finanziare studi che servono i suoi interessi commerciali. Lo scrive il quotidiano El Pais, sulla base dei dati della stessa società, da cui risultano finanziamenti alla Fundación Iberoamericana de Nutrición (835 mila euro), alla Fundación Española Del Corazón (640 mila euro) e alla Fundación Española de Nutrición (567 mila euro). Nella lista compare anche la Fundación SHE (Scienza, Salute ed Educazione), che ha ricevuto 363 mila euro ed è presieduta da un prestigioso cardiologo, Valentín Fuster.
Intanto, una nuova ricerca appena pubblicata dalla rivista della European Public Health Association, sostiene che gli studi scientifici finanziati dalla Coca-Cola “servono i suoi interessi commerciali e, in molti casi, sono in contrasto con gli sforzi per migliorare la salute del popolazione”. Lo studio calcola in 74 le organizzazioni operanti nel campo della salute che hanno ricevuto finanziamenti da Coca-Cola tra il 2010 e il 2016. Le organizzazioni dedicate a nutrizione e cardiologia sono quelle che hanno ricevuto il maggior sostegno finanziario. I ricercatori hanno individuato 20 articoli derivati da due progetti di ricerca, 14 dei quali sono allineati con le strategie di marketing utilizzate da Coca-Cola, ad esempio concentrandosi sull’inattività fisica come causa principale dell’obesità.
L’epidemiologo Carlos Alberto González, dell’Istituto Catalano di Oncologia, autore della ricerca insieme a Juan Pablo Rey, dell’Università di Sydney, osserva che “nessuno immagina un congresso della Società spagnola di Oncologia medica finanziato da Philip Morris”. Eppure “questo sta accadendo nel campo della nutrizione” ma “non c’è consapevolezza che sia uno scandalo”.
El Pais scrive che fonti di Coca-Cola affermano come “in tutte le collaborazioni l’indipendenza delle società scientifiche e delle università è totalmente garantita” e che dal 2016 queste sponsorizzazioni sono dichiarate annualmente “in un esercizio di trasparenza”.

Questo “esercizio di trasparenza” è iniziato dopo lo scandalo scoppiato nell’agosto 2015 negli Stati Uniti, in seguito a un articolo del New York Times che aveva svelato come, nel 2014, Coca-Cola avesse finanziato occultamente, con 1,5 milioni di dollari, il Global Energy Balance Network, un’organizzazione no profit molto popolare negli Stati Uniti, il cui vice-presidente, Steven N. Blair, era finito sotto accusa per un video in cui invitava a concentrarsi solo sull’attività fisica, negando l’importanza della dieta per combattere l’obesità. Due mesi dopo, Coca-Cola pubblicò l’elenco dei destinatari di circa 120 milioni di dollari di finanziamenti concessi dalla compagnia a varie organizzazioni mediche e del campo sociale statunitensi dal 2010.
Nel giugno 2016, Coca-Cola ha pubblicato anche l’elenco riguardante l’Italia, da cui risultava che nei cinque anni precedenti erano stati spesi 4,7 milioni di euro per finanziare progetti e ricerche scientifiche “a supporto della salute e del benessere” e per “svolgere un ruolo attivo nell’affrontare il problema dell’obesità”.

lunedì 17 settembre 2018

Don Pino Puglisi, il prete che sorrideva ai suoi assassini

15 Settembre 1993. E’ il 56° compleanno di Don Pino Puglisi, tutti i ragazzi del centro “Padre Nostro” insieme ai collaboratori sono pronti a festeggiare e aspettare che don Pino torni a casa. Sono le 20.45: don Puglisi sta rientrando a casa dopo una lunga giornata di lavoro in comune per cercare di farsi assegnare lo stabile in via Hazon, da tempo luogo di spaccio, per trasformarlo in una scuola. Arriva in piazza Anita Garibaldi, nel quartiere Brancaccio ad est di Palermo, con la sua Fiat Uno rossa. Don Pino sta per varcare il portone di casa quando Gaspare Spatuzza lo afferra per un braccio e gli dice: “Padre questa è una rapina”. “3P” si volta e sorridendo gli dice: “Me l’aspettavo”. Dietro il prete si nasconde Salvatore Grigoli, che impugna la pistola e dopo pochi secondi spara due colpi alla nuca del parroco. Il corpo morto di don Pino si accascia a terra, ma il suo viso continua a sorridere. “Mafiosi vigliacchi avete ucciso un uomo coraggioso e indifeso” si leggerà su un lenzuolo appeso sulla cancellata della parrocchia di San Gaetano dopo la morte di don Puglisi.

Contro la mafia
Don Pino nasce a Palermo nel quartiere Brancaccio da una famiglia semplice. Terminati gli studi teologici nel seminario palermitano diventa parroco di diverse parrocchie nel palermitano: a Godrano, allo Scaricatore e a Brancaccio nel 1990. E’ così che arriva alla chiesa di San Gaetano a Brancaccio, nella morsa dei boss stragisti Filippo e Giuseppe Graviano. Brancaccio è un quartiere difficile e privo di strutture come scuole e parchi. Un luogo dove la mafia è padrona e i ragazzi sono preda di questa unica possibilità. E’ da questo che inizia l’opera di Padre Puglisi: togliere i ragazzi dalle grinfie della mafia e dare loro una possibilità lontana dalla violenza. Il parroco si rimbocca le maniche e insieme ai collaboratori inizia a predicare, consegnando per strada volantini e invitando passanti, sopratutto i più piccoli, a frequentare la parrocchia. “L’obiettivo di padre Puglisi era liberare l’uomo libero vero - racconta una collaboratrice di don Puglisi, suor Carolina Ivazzo - Non portava i bambini in chiesa a pregare, perché non era bigotto e perché nessuno l’avrebbe seguito su questa strada. Puntava invece a far capire che esiste una cultura diversa, una cultura della legalità e dell’onestà”. E’ con questo spirito che don Pino aiuta la gente bisognosa ad avere dignità: lavorando per non diventare manovalanza della mafia ed istruendo i più piccoli. A gennaio 1993 don Pino riesce a creare, grazie al proprio salario e alle lotterie della parrocchia, il centro Padre Nostro, diventato un punto di riferimento per molti giovani.
Il prete conquista tanta gente nel quartiere, che pian piano decide di non affidarsi più alla malavita. Organizza marce in ricordo delle stragi di Capaci e via D’Amelio dove riscontra molta partecipazione da parte degli abitanti di Brancaccio.
 Cosa nostra, però, non accetta la sfida alla sua autorità nel quartiere. Così dà inizio alle prime intimidazioni a padre Puglisi e ai suoi collaboratori: chiamate, lettere anonime, minacce, scritte sui muri, pestaggi e incendi. Il culmine arriva nel maggio-giugno 1993 quando sia don Pino che il vice parroco, Gregorio Porcaro, ricevono minacce personali, denunciate regolarmente alle forze dell’ordine.
Questo non riesce a fermare don Puglisi che continua ancora con più determinazione la sua lotta. “Mi rivolgo anche ai protagonisti delle intimidazioni che ci hanno bersagliato - dice don Puglisi nell’omelia in ricordo della strage di Via D’Amelio - Parliamone, spieghiamoci, vorrei conoscervi e sapere i motivi che vi spingono a ostacolare chi tenta di aiutare ed educare i vostri bambini alla legalità, al rispetto reciproco, ai valori della cultura e della convivenza civile. Perché non volete che i vostri bambini vengano a me? Ricordate: chi usa la violenza non è un uomo. Noi chiediamo a chi ci ostacola di appropriarsi dell’umanità. E comunque facciamo sentire la nostra solidarietà e coloro che sono stati colpiti. Andiamoli a trovare a casa, rimaniamo uniti. Abbiamo avuto la conferma che tutto ciò voleva essere un avvertimento per il nostro operato. Ma noi andiamo avanti. Perché, come diceva san Paolo, se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?”. Il prete pian piano si rende conto di essere un condannato a morte e che presto Cosa nostra gli avrebbe fatto pagare il conto. Ai suoi collaboratori, preoccupatissimi, dice: “Il massimo che possono farmi è ammazzarmi. E allora?”.

Il sorriso della vita
Proprio il sorriso di Don Pino nel momento della sua morte ha fatto maturare al suo assassino, Salvatore Grigoli, la decisione di collaborare con la giustizia. Il killer ha raccontato l’esecuzione dell’omicidio e chi sono stati i mandanti ed esecutori. All’ergastolo per l’omicidio di don Pino sono finiti: i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, come mandanti, e come esecutori Gaspare Spatuzza, Nino Mangano, Cosimo Lo Nigro e Luigi Giaccone.
Mentre per Grigoli sono state considerate le attenuanti per aver collaborato. Grazie al sorriso di don Puglisi anche Spatuzza nel 2008 si è pentito, dando un contributo importante per l’accertamento della verità sulla strage di via D’Amelio.
Nel 2006 i teologi consultatori della congregazione delle cause dei Santi hanno riconosciuto nella morte di padre Puglisi “i requisiti del martirio”, segnando una tappa importante nel processo di beatificazione del parroco. Quest’anno, Papa Francesco, nel giorno del 25° anniversario dell’assassino del parroco di Brancaccio, ha deciso di rendergli omaggio nella sua città.
Padre Puglisi è stato assassinato per aver concesso una via d’amore ai ragazzi di Brancaccio. Sulla lapide della tomba di don Pino nel cimitero di Sant’Orsola sono scolpite delle parole del vangelo di Giovanni: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”.

venerdì 14 settembre 2018

L’Italia è una Repubblica fondata sulle piccole imprese

L’Italia è il Paese europeo che può contare sulla platea più ampia e “decisiva” di piccole e medie imprese. A dirlo è l’Ufficio studi della Cgia di Mestre. Le micro imprese in Italia sono la specificità e la forza del Paese.Italia: milioni di micro imprese fondamentali per l’occupazione

Secondo l’ufficio studi di Mestre le micro imprese in Italia con meno di 20 addetti sono oltre 4 milioni (il 98,2% del totale) e danno lavoro a 8 milioni tra operai e impiegati, pari al 56,4% di tutti gli addetti del settore privato in Italia.
Inoltre, nelle realtà italiane con meno di 20 addetti lavora il 56,4% degli occupati del settore privato. La media Ue è ferma al 39,9%, ovvero il 16,5% in meno rispetto all’Italia. Emblematici sono poi i dati di Francia e Germania: nella prima l’incidenza è del 34,7%, nella seconda scende sino al 30,5%.
Da leggere: Italia, patria di lavoratori autonomi.

Micro aziende italiane: fatturato e valore aggiunto

Stando agli ultimi dati riferiti al 2015, le aziende italiane con meno di 20 addetti hanno generato 1.071 miliardi di fatturato che incidono per il 35,9% sul totale nazionale.
Quanto al valore aggiunto, ovvero la ricchezza prodotta nel Paese, queste piccole o piccolissime realtà, che spesso eccellono nelle loro nicchie di mercato, hanno realizzato 286 miliardi di euro, pari al 9,9% del totale nazionale.

giovedì 13 settembre 2018

Trump chiude la missione diplomatica palestinese a New York

Dopo lo stop di 365 milioni di dollaridestinati annualmente all’agenzia dei profughi palestinesi Unrwa, i  200 milioni per progetti umanitari nei Territori occupati e il taglio di 25 milioni di dollari destinati agli ospedali palestinesi a Gerusalemme Est, oggi l’Amministrazione Trump ha ufficialmente informato l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) della chiusura della propria sede a Washington. A comunicarlo è stato il segretario generale dell’Olp Saeb Erekat, ripreso dall’agenzia di stampa nazionale Wafa. “L’amministrazione statunitense chiude la nostra ambasciata a Washington per punirci del fatto che noi continuiamo a lavorare con la Corte penale internazionale contro i crimini di guerra israeliani”, ha spiegato Erekat che ha definito decisione Usa “un nuovo colpo di Trump contro la pace e la giustizia”.
Ad anticipare la notizia era stato il quotidiano Wall Street Journal,  ripreso dai media israeliani, secondo cui la decisione è frutto in particolare dell’iniziatica del Consigliere per la sicurezza nazionale Usa John Bolton, un noto falco della politica americana che non ha mai nascosto la sua profonda avversione verso i palestinesi.  Un altro motivo della decisione – secondo il Wsj  – è il rifiuto palestinese di accettare la mediazione Usa in eventuali negoziati con Israele dopo il riconoscimento lo scorso dicembre di Trump di Gerusalemme come capitale di Israele e il trasferimento a maggio da Tel Aviv a Gerusalemme dell’ambasciata Usa. L’Olp e l’Autorità nazionale palestinese da allora hanno congelato ogni rapporto con gli Usa di Trump definiti non più mediatori di pace credibili e respingono il cosiddetto “Accordo del secolo”, un presunto “piano di pace” sul quale sta o starebbe lavorando l’Amministrazione americana.
Bolton come ulteriore forma di pressione dovrebbe annunciare al più presto anche provvedimenti contro il Tribunale Penale dell’Aja se l’organismo avvierà indagini su crimini di guerra commessi da Israele. Husam Zomlot, capo della missione dell’Olp a Washington, ha detto ai giornalisti a Ramallah che quest’ultima mossa americana è volta a “proteggere Israele da una pounizione per i crimini di guerra e contro l’umanità che sta commettendo nei Territori palestinesi occupati”. Sia Erekat che Zomlot si sono impegnati a portare avanti gli sforzi palestinesi nella Cpi.

mercoledì 12 settembre 2018

Dieci anni dopo Lehman: prossima crisi, le pensioni

Dieci anni dopi le ore più tese della storia a Wall Street (il 15 settembre Lehman Brothers ha dichiarato ufficialmente bancarotta), un giornalista e commentatore di mercato del Financial Times dice di essere convinto che la prossima crisi non riguarderà il sistema finanziario, specialmente non quello statunitense, bensì “l’insidioso pericolo che i fondi pensione implodano, lasciando un’intera generazione senza soldi” con cui sostentare una volta usciti dal mercato del lavoro.
“Le banche americane sono le uniche società del mondo finanziario più sicure oggi di quanto non fosse allora”, scrive il Financial Times. “Hanno aumentato i livelli di capitale e il rischio di un collasso improvviso è minimo. Il problema è che per risolvere quel problema si sono dimenticati di ridurre altri rischi“.
Nell’ammettere di non aver riportato la manipolazione dei prezzi (con quella degli scambi di oro che si può considerare “la base delle manipolazioni di tutti i mercati”), perché “altrimenti il sistema finanziario avrebbe veramente rischiato di collassare”, dieci anni dopo il crac della banca d’affari americana John Authers, editorialista del Financial Times, racconta la verità su quei giorni di panico totale del 2008.
“I banchieri di alto profilo temevano per i loro risparmi. La differenza con Northern Rock (la prima banca inglese dopo 150 anni a fallire per colpa di una corsa agli sportelli) è che non sono state pubblicate foto di code agli sportelli, nonostante nel cuore finanziario di Manhattan il 17 settembre ci fosse in atto una “bank run” a Wall Street.
Ma nessuno ne dava un resoconto per paura di peggiorare la situazione. “Sarebbe stato come urlare ‘al fuoco, al fuoco’ in un cinema affollato, scrive Authers. La testimonianza del giornalista, che non ne ha mai discusso finora nelle pagine del giornale della City sinora, arriva con dieci anni di ritardo. Il motivo? Scongiurare che il sistema collassasse.

Dopo Lehman corsa sportelli dei leader di Wall Street

“Avevo tanti soldi nel mio conto in banca presso Citigroup. Avevo una somma che superava il limite assicurato dal fondo di garanzia depositi americano. Se la banca fosse fallita, un evento prima inconcepibile che invece in quel momento era diventato plausibile, avrei perso per sempre i miei soldi”, racconta Authers oggi, dieci anni dopo il crac di Lehman Brothers.
All’ora di pranzo Authers si è dunque recato a una filiale di Citi per prelevare metà dei suoi soldi e trasferirla in un altro conto corrente presso la banca Chase. “In quel modo potevo raddoppiare la quantità di risparmi assicurati”.
Mi trovavo a Manhattan, circondato da edifici di banche d’affari. Da Citi c’era una lunga fila di protagonisti di Wall Street vestiti bene. Stavano facendo la stessa cosa che facevo io”, ossia facevano la corsa per mettere al sicuro i propri risparmi. Nella porta della filiale di Chase a fianco, la stessa scena: “una lunga fila di banchieri in ansia“.
In pochi minuti sono riuscito a quadruplicare l’assicurazione sui miei depositi. Ora ero esposto ai rischi che presentavano gli Stati Uniti ma non più a una singola banca.
“Con un sorriso – racconta il giornalista – la bancaria mi ha spiegato che non ha fatto altro tutta la mattina. Né lei né la sua collega che lavorava da Chase avevano mai avuto questo tipo di richieste fino a quella settimana“.
In quegli attimi “facevo fatica a respirare correttamente: c’era una corsa agli sportelli in atto, nel cuore del quartiere finanziario di New York. Le persone nel panico erano banchieri di Wall Street che sapevano molto meglio di altri cosa stava avvenendo”.
Avrei potuto scattare delle foto di questi banchieri ben vestiti che facevano la coda per prelevare i loro soldi e lasciare una didascalia di accompagnamento per spiegare cosa stava avvenendo”, dice Authers.
Ma così facendo il reporter del Financial Times rischiava di mettere ancora più in pericolo il sistema finanziario e quindi i risparmi di milioni di cittadini. Dieci anni fa, con la crisi nella sua fase peggiore, “penso di aver fatto la cosa giusta, ma ora che è passato un decennio dalla crisi del 2008 sento il bisogno di parlarne” e svelare il segreto.

martedì 11 settembre 2018

Gli Stati Uniti sanzioneranno la Corte dell'Aia se indagherà su crimini commessi in Afghanistan

L'agenzia di stampa britannica Reuters ha pubblicato oggi, la bozza della dichiarazione del Consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Bolton: "Gli Stati Uniti useranno tutti i mezzi necessari per proteggere i loro cittadini e quelli dei nostri alleati dall'ingiusta persecuzione da parte di questo tribunale illegittimo", si legge nella bozza del discorso di Bolton.

Il discorso di Bolton indica che l'amministrazione nordamericana guidata da Donald Trump, "passerà al contrattacco", se la Corte penale internazionale (CPI) dell'Aia procederà formalmente per aprire un'inchiesta sui presunti crimini di guerra commessi dai militari statunitensi e dai Professionisti del servizio e dell'intelligence in Afghanistan, paese che gli Stati Uniti hanno invaso nel 2001.
 Tra le risposte che Washington potrebbe adottare, ci sarebbe quella di  vietare ai giudici e ai magistrati di entrare negli Stati Uniti, imporre sanzioni sui fondi che hanno nel sistema finanziario statunitense e farli processarli dal sistema giudiziario statunitense.

Washington non ha ratificato lo Statuto di Roma che costituiva nel 2002 la Corte penale internazionale, il cui obiettivo è di assicurare alla giustizia i responsabili di crimini di guerra, crimini contro l'umanità e genocidio.

lunedì 10 settembre 2018

2008-2018: così sono cambiati i padroni del mondo

Pare che gli ex dipendenti inglesi della Lehman Brothers si siano dati appuntamento a Londra, attorno alla metà di settembre, per festeggiare. Sono passati infatti dieci anni da quando, era il 15 settembre 2008, la holding statunitense dichiarò il fallimento sotto il peso di oltre 600 miliardi di dollari di debiti. Fino a quel momento l’azienda aveva più di 26mila dipendenti. Non è chiaro che cosa ci sia da celebrare, visto che quel giorno è comunemente ricordato come l’inizio di una gigantesca crisi del sistema economico-finanziario globale. Nessuno dei protagonisti della vicenda pagò le proprie responsabilità, e anzi oggi la Borsa di New York, dalla quale la crisi si propagò, naviga a gonfie vele.
Sono passati dieci anni nei quali sono aumentate disuguaglianze e precarietà, iniqua distribuzione delle ricchezze e allarmi ambientali, ma tant’è -devono aver pensato gli ex dipendenti-, la vita va avanti lo stesso, specie ai “piani bassi” della società. Non tutto è rimasto uguale nemmeno ai “piani alti” però. L’Unctad (United nations conference on trade and development, unctad.org) stila ogni anno la classifica delle 100 maggiori multinazionali non finanziarie del Pianeta. Nel 2008 in testa c’era la Exxon, con oltre 459 miliardi di dollari di fatturato; e delle prime dieci aziende, sei erano petrolifere e due produttrici di auto. Nel rapporto 2018 dell’Unctad (relativo a dati del 2017) le multinazionali del petrolio nei primi 10 posti sono scese a quattro mentre hanno fatto la loro comparsa realtà che nel 2008 non erano proprio in classifica: Apple e Samsung, la prima con un fatturato di quasi 230 miliardi di dollari (sesto posto), la seconda con quasi 212 miliardi di dollari. Amazon è all’undicesimo posto (178 miliardi di dollari il fatturato), Alphabet (ovvero Google) al ventesimo (110 miliardi di dollari). Più in là Microsoft con quasi 90 miliardi di dollari di fatturato e Facebook (oltre 40 miliardi di dollari).
Dieci anni di “crisi” hanno portato a un riassestamento. Sono cambiati -almeno in parte- i padroni del mondo. Il caso di Apple è particolare: in dieci anni non solo ha moltiplicato fatturati  e utili, ma oggi lambisce la cifra monstre di mille miliardi di dollari di capitalizzazione in Borsa: un traguardo mai tagliato da alcuna società nella storia. Amazon, Microsoft e Google rincorrono stabilmente sopra quota 800 miliardi di dollari. 
Con valori che superano di gran lunga i Pil della maggior parte dei Paesi cosiddetti “in via di sviluppo”, questi padroni del mondo hanno un potere evidentemente enorme. Quel potere che ha permesso ad Apple di non dare troppo peso alla sanzione da 13 miliardi di euro comminata dall’Ue all’Irlanda per il trattamento fiscale favorevole alla multinazionale di Cupertino; quel potere per il quale avrebbe rifiutato a giugno di partecipare all’audizione presso la Commissione speciale per i crimini finanziari e l’evasione fiscale del Parlamento europeo. Quel potere per il quale Google non si è curata molto della multa di 4,34 miliardi di euro arrivata a luglio dall’Antitrust europeo per aver danneggiato la concorrenza (dopo quella di 2,42 miliardi del 2017). Quel potere che permette a Google di trattare per una versione “censurata” del motore di ricerca col governo cinese -dopo un accordo dello stesso tenore di quest’ultimo con Apple-. Quel potere forte del quale Facebook ha chiesto quest’anno alle grandi banche americane di condividere col social network le informazioni finanziarie dei propri clienti. Il lato più oscuro di tutto questo potere riguarda la geopolitica, perché ormai sappiamo che negli Stati Uniti, in Europa occidentale e in Asia le piattaforme on line sono in grado di influenzare la politica estera, la politica interna e le relazioni commerciali.
Sono cambiati i padroni del mondo, ma siamo cambiati anche noi. Secondo una ricerca di Barclaycard, in Gran Bretagna una persona su 10 ammette di aver comprato un vestito su internet e averlo subito dopo restituito: il tempo necessario per indossarlo e fare un post su Instagram (società di Facebook). A fine luglio nel centro di Milano è stato inaugurato un “Apple Store”. Pare ci fossero persone in coda già 12 ore prima dell’apertura ufficiale.

venerdì 7 settembre 2018

Quanti siamo sul pianeta? E che effetto ha sul clima?

Diciamo riproposta e non proposta perché il rapporto tra popolazione e ambiente è questione antica. Anche da un punto di vista formale. Uno dei libri di riferimento è quello della coppia Anne e Paul Ehrlich, che già nel 1968 denunciava The population bomb: la crescita incontrollata della popolazione umana che avrebbe avuto (che stava già avendo) un forte impatto sul pianeta Terra. Ricordiamo che nel 1960 la popolazione umana era di 3 miliardi di persone, ma già si prevedeva che sarebbe raddoppiata entro il 2000. La preoccupazione dei coniugi Ehrlich ritornò alla vigilia del vertice della Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo di Rio de Janeiro del 1992, con la pubblicazione, due anni prima, di un nuovo libro, The population explosion.
Ma la formalizzazione del rapporto tra popolazione e ambiente e, quindi, anche tra popolazione e clima venne proposta all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso da Paul Ehrlich insieme a John Holdren (futuro consigliere di Barack H. Obama) in un’equazione pubblicata prima su The Bulletin of the Atomic Scientists e poi sulla stessa rivista Science. L’impatto umano sull’ambiente (e, quindi, anche sul clima), I, è il prodotto di tre fattori: P, la popolazione appunto; A, l’affluence, ovvero il consumo pro-capite di materia e di energia; T, un fattore che potremmo tradurre con impatto ambientale per unità di consumo.
L’equazione ci dice, in modo chiaro, che a parità di consumi e di qualità di consumi, l’impatto umano sull’ambiente cresce linearmente con la crescita della popolazione. Partendo dall’assunto per cui – a parità dei fattori A e T – se i consumi individuali di materia ed energia fossile fossero congelati o, ancor meglio, diminuiti, il fattore A potrebbe diminuire più velocemente di quanto non aumenti la popolazione umana. È questa l’ipotesi base di una serie di teorie economiche sulla sostenibilità: dallo stato stazionario di Hermann Daly alla decrescita (più o meno felice) di Serge Latouche.
Sulla diminuzione di T, da perseguire attraverso il consumo di beni sempre più intangibili e di energie sempre più rinnovabili e carbon free, puntano invece i teorici di uno sviluppo sostenibile che utilizza di più la scienza e la tecnologia verdi. Ma, poiché non è pensabile che i consumi di materia e di energia si azzerino né che le nove tecnologie abbiano un impatto zero sull’ambiente, in ogni caso il fattore P, il fattore popolazione, resta importante. Tanto più se, come prevedono i nuovi scenari demografici da qui alla fine del secolo, il pianeta vedrà aumentare la sua popolazione di 4 miliardi di persone e arriveremo a contare 11,5 miliardi di abitanti umani della Terra.
E allora, si chiedono John Bongaarts e Brian O’Neill, perché nei documenti tecnici e politici che si occupano di clima il fattore popolazione viene costantemente sottovalutato? L’indice è puntato, anche, verso l’IPCC, l’Intergovernmental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite.
I motivi che adducono Bongaarts e O’Neill sono quattro. Quattro percezioni infondate. Che fanno capolino anche nella testa di studiosi e politici. La prima è che quello della crescita della popolazione non sia più un problema. O perché risolto o perché ininfluente. Che non sia stato risolto ce lo dicono le previsioni degli esperti cui abbiamo già accennato. Che non sia ininfluente ce lo dice l’equazione di Ehrlich e Holdren. La seconda percezione infondata è che le politiche di controllo della crescita demografica non siano efficaci. Al contrario, molte delle strategie utilizzate hanno dimostrato una notevole efficacia e se la popolazione umana non è cresciuta secondo le previsioni preoccupate dei coniugi Ehrlich, bensì un po’ di meno, lo si deve proprio alle diverse politiche di controllo delle nascite. La terza percezione infondata è che la crescita demografica non abbia un impatto significativo sul clima. Sbagliato, dicono John Bongaarts e Brian O’Neill, studi accurati dimostrano che, rallentando lo sviluppo demografico, si potrebbero ridurre le emissioni attese di gas serra del 40%. Non è certo una percentuale da poco.
Infine, molti sostengono che le politiche di controllo sono troppo controverse perché si possa programmare il loro successo. Nulla di tutto questo, dicono i due ricercatori americani. E portano il caso di due Paesi, il Pakistan e il Bangladesh, che negli anni ’80 del secolo scorso avevano una curva di crescita simile. Ebbene, la curva di crescita della popolazione pakistana continua imperterrita in sostanziale assenza di politiche di pianificazione, mentre la curva di crescita della popolazione del Bangladesh, Paese che ha implementato una politica di controllo delle nascite, ha subito un drastico rallentamento.
Queste percezioni infondate vanno tutte rimosse, se vogliamo mettere in campo tutti gli strumenti efficaci possibili per contrastare i cambiamenti del clima, sostengono John Bongaarts e Brian O’Neill. Tuttavia anche loro, probabilmente, sottostimano un quinto elemento che in qualche modo impedisce che il fattore popolazione compaia nei documenti ufficiali di contrasto ai cambiamenti del clima: la demografia è un tema sensibile. Sia dal punto di vista politico sia da un punto di vista religioso. Le differenze ideologiche tra i vari Paesi sono le più diverse. Così, per non scontentare nessuno, non se ne parla. Perdendo opportunità forse decisive.

giovedì 6 settembre 2018

Governo: “Rispetteremo vincoli Ue”, Spread in calo

L’Italia “rispetterà i limiti dell’UE” afferma il ministro dell’interno Matteo Salvini. Parole che in un certo senso stano convincendo gli investitori che il governo non sarà irresponsabile quando tratta delle sue finanze. Ma il diavolo è davvero nei dettagli se me lo chiedi.
Rassicurazioni che fanno bene ai titoli di stato per cui si segnala un avvio stabile con il differenziale di rendimento tra il BTp decennale benchmark e il pari scadenza tedesco che si attesta a 268 punti base, stabile rispetto alla chiusura di ieri. Stabile anche il rendimento del BTp decennale benchmark, che si conferma su un rendimento del 3,03%, invariato rispetto ai valori della vigilia.
Il ministro dell’interno ha anche ribadito continuamente che la riforma delle pensioni è una priorità e che il taglio delle tasse sono un obiettivo a cui il governo sta lavorando per raggiungere. In merito al reddito minimo però gli analisti hanno qualche perplessità sul fatto che il governo riesca a rispettare i limite dell’Ue e alla fine potrebbe presentare una proposta che è sotto il limite del 3% fissato dall’UE.
Intanto è in corso a Palazzo Chigi il vertice di maggioranza tra il premier Giuseppe Conte e i suoi due vice Matteo Salvini e Luigi Di Maio Presenti anche il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, quello dell’Economia, Giovanni Tria, e quello degli Affari Europei, Paolo Savona. Tra i temi al centro della riunione, le priorità della manovra economica.
“Vogliamo rispettare gli impegni presi con gli italiani restando nei vincoli imposti dagli altri. Se per mettere in sicurezza l’Italia dovessimo spendere un miliardo in più, lo spenderemmo. Cercheremo di fare tutto, rispettando quello che ci è chiesto da altri, sebbene non sia rispettato da altri paesi”.
Così ieri il ministro dell’interno a Radio Anch’io. Interessante l’analisti realizzata da Neil Mellor, analista di BNY Mellon secondo cui i due partiti alla guida dell’Italia, sono diversi ma uniti per quanto riguarda la questione del superamento dei vincoli Ue al bilancio, ma qualsiasi cambio improvviso di opinione potrebbe far aumentare le pressioni sui BTP.
Secondo l’analista inoltre il mercato segue quello che dice e fa il ministro dell’economia Giovanni Tria, il quale rappresenta l’ago di bilancia della coalizione di governo. Però, come intermediario tra le parti, e tra l’Italia e l’Europa, il professore si trova a dover gestire una situazione complessa e ad aspettarlo “c’è una sfida scoraggiante”.
“Il fattore che unisce la coalizione dei due partiti politici diversi è il fermo accordo sulle imperfezioni dei limiti di disavanzo dell’UE, e il rischio è che qualsiasi conciliazione con l’UE da parte del ministro Tria non sia altro che un espediente politico. Inoltre, la volontà del governo di aumentare la spesa si è bloccata solo dopo il disastro del ponte di Genova e la decisione di Fitch di ridimensionare le prospettive dell’Italia”.
Ma a parte  i problemi noti su deficit, debito ‘monstre’ e fine del QE della Bce, il problema per l’Italia è che ha poco tempo, “meno di tre mesi per racimolare sul mercato gran parte dei finanziamenti necessari quest’anno, circa 6 miliardi di euro di nuovo debito“.

mercoledì 5 settembre 2018

Big Food vorrebbe farvi credere che l’obesità è dovuta alla mancanza di esercizio fisico e non al cibo spazzatura

Secondo il New York Times, nel 2017 c’erano in tutto il mondo 700 milioni di persone obese, di cui 108 milioni di bambini. In Brasile, la multinazionale Nestlé manda dei venditori porta a porta per rifilare ai clienti il suo cibo spazzatura ricco di calorie e concede loro un mese intero per pagarlo. La Nestlé chiama gli agenti di vendita del suo cibo spazzatura, anch’essi degli obesi, “micro-imprenditori.”
Big Food [l’insieme delle multinazionali dell’alimentazione] considera le nazioni in via di sviluppo alla stregua di “mercati emergenti,” per compiacere Wall Street e i propri azionisti, forse perché nei paesi ricchi il far ingrassare la gente e renderla dipendente dal cibo spazzatura ha ormai raggiunto il limite massimo.
Sostituire nei paesi poveri le diete locali con fast food, merci conservate e bevande zuccherate è immorale per moltissimi motivi. Oltre a causare obesità, diabete, malattie cardiovascolari, patologie croniche e carie dentale, il cibo spazzatura fa sì che l’agricoltura di sussistenza locale venga soppiantata dal mais OGM e dalla soia. Anche alcune organizzazioni filantropiche, come la Bill & Melinda Gates Foundation, si sono bevute la narrativa di Big Food sugli OGM che “nutrirebbero il mondo.” In pratica, gli OGM inondano di pestidi le coltivazioni dei paesi in via di sviluppo e inquinano le loro acque.
Lo sfruttamento dei poveri da parte della Nestlé risale ormai a più di quarant’anni fa, quando era riuscita a convincere le madri dei paesi in via di sviluppo a rifiutare il proprio latte, l’unica cosa che le madri povere potessero dare ai loro figli, per passare a quello artificiale. Secondo le organizzazioni di protesta, i bambini, nelle zone povere dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina muoiono proprio perché le loro madri li alimentano all’occidentale, con il latte in polvere.
Il Times, in un suo articolo sull’influenza delle multinazionali alimentari in Brasile, afferma cheil maggior finanziatore dei candidati al Congresso era stato, nel 2012, il gigante della carne brasiliano JBS, che aveva offerto 112 milioni di dollari ai vari candidati.” (JBS aveva acquisito nel 2007 la Swift & Company, in ordine di grandezza la terza azienda degli Stati Uniti nel trattamento della carne di manzo e di maiale, e macella la stupefacente cifra di 51.400 capi di bestiame al giorno). Nel 2014 la Coca Cola aveva speso in Brasile 6,5 milioni di dollari in contributi elettorali e McDonald 561.000 dollari.
Alcuni anni fa, la Reuters aveva riferito che la Pan American Health Organization, l’Ufficio Regionale per le Americhe della World Health Organization, aveva ricevuto centinaia di migliaia di dollari e “linee-guida sull’obesità” dalle aziende del cibo spazzatura e delle bevande zuccherate. Non c’è da meravigliarsi se queste indicazioni si focalizzano sull’esercizio fisico e trascurano il marketing aggressivo sui bambini. Si è forse meravigliato qualcuno se la Coca Cola è diventata la prima azienda messicana di bevande gasate, quando il suo ex-presidente ed ex-direttore generale era anche il Presidente del Messico, Vicente Fox?
La Coca Cola si è assicurata un’enorme influenza presso le istituzioni scientifiche. Dà fondi all’American Heart Association, all’American Lung Association, all’American College of Cardiology, all’American Academy of Pediatrics e all’Harvard Medical School & Partners in Health. Elargisce donazioni alle maggiori università, alle associazioni ricreative e di fitness e a quelle che si prendono cura delle minoranze etniche, i cui membri sono fra i più esposti all’obesità.
La Coca Cola contribuisce anche alla stessa CDC (Centers for Disease Control and Prevention) attraverso la CDC Foundation, creata dal Congresso nel 1992 per incoraggiare i “rapporti” fra l’industria e il governo.
Anche la stampa ne risente. L’anno scorso, il British Medical Journal aveva parlato dell’influenza occulta che la Coca Cola esercita sui giornalisti medico-scientifici tramite contributi a conferenze stampa, comprese quelle organizzate dalla prestigiosa National Press Foundation di Washington, D.C. Non c’è da meravigliarsi quindi se si sente dire, non solo dalle figure professionali medico-governative, ma anche dai giornalisti che “l’obesità è causata dalla mancanza di esercizio fisico” e non dalla Coca Cola.
(Nota: una volta ero stata invitata da Big Food ad una presentazione alla stampa, con tutte le spese pagate, di alcuni allevamenti di polli in Colorado, e poi dis-invitata dopo la pubblicazione del mio articolo).
Nel suo film del 2014 “Fed Up,” Katie Couric mostra come il governo degli Stati Uniti esorti le persone a mangiare nel modo giusto, mentre, allo stesso tempo, le spinge a consumare gli stessi alimenti che le faranno ingrassare e come le mense scolastiche siano state ormai comprate da Big Food. Il film rivela come le aziende avicole, saccarifere e di altri comparti alimentari abbiano completamente rovesciato la linee-guida del Rapporto McGovern del 1977 (che raccomandavano alla popolazione di mangiare meno cibi ricchi di grassi e di zuccheri),  calpestando così le indicazioni del Senatore McGovern.
Nel 2006 Big Food aveva triofato in modo simile. Di fronte alle raccomandazioni alimentari della Organizzazione Mondiale della Sanità delle Nazioni Unite (WHO), che erano simili a quelle del Rapporto Mc Govern, l’allora Segretario per gli Health and Human Services (HHS), Tommy G. Thompson, era volato di persona a Ginevra e aveva avvertito la WHO che, se quelle linee-guida fossero rimaste in vigore, gli Stati Uniti avrebbero fatto mancare il loro supporto finanziario alla WHO. Certo, il sostegno dell’agricoltura per il governo degli Stati Uniti è molto più importante della salute dei suoi cittadini.
L’estate scorsa, il New York Times aveva rivelato gli effetti devastanti del cibo spazzatura, dell’obesità e del diabete sulla popolazione povera dell’Appalachia, la maggior parte della quale ha un’assistenza sanitaria minimale o addirittura mancante. “La popolazione dell’Appalachia è più malata di quella del Centro America,” fa notare il Dr. Joseph Smiddy, un volontario della sanità in Virginia. “Nell’America Centrale mangiano riso e fagioli e vanno dappertutto a piedi. Non bevono Mountain Dew e non mangiano dolci. Non hanno un’epidemia di obesità e di diabete.” Naturalmente stava parlando delle zone [dell’America Centrale] non invase dalla Nestlé, dalla Coca Cola e da McDonald’s.
A Chicago c’è stata, l’anno scorso, una battaglia feroce sulla tassa “un penny-per-oncia” che era stata imposta sulle bibite zuccherate. L’industria delle bevande ha speso più di 1,4 milioni di dollari in spot televisivi per cercare di far eliminare la tassa e ha vinto. L’industria ha tramutato il desiderio di bere bibite ad alto contenuto calorico, causa di obesità, diabete e carie dentaria, in una “scelta del consumatore.” Le maggiori sostenitrici del ritiro della tassa erano state le comunità povere di Chicago, quelle più colpite dalle bevande zuccherate e dai “deserti alimentari,” [i quartieri] dove è difficile trovare cibo di buona qualità.
Una persona che ingerisca le normali 2000 calorie giornaliere dovrebbe ricavarne solo 200 dagli zuccheri, l’equivalente di una bibita da16 once [473 ml.]. Comunque, la maggior parte degli Americani consuma almeno il doppio della quantità raccomandata e solo poche persone che hanno “l’abitudine alla bibita” ne bevono una al giorno. Alcuni ammettono di aver sviluppato dipendenza.
Una volta, con il termine “zucchero” si intendeva lo zucchero di canna o quello da barbabietola. Ma, dal 1980, i produttori di bevande zuccherate hanno preferito usare lo sciroppo di mais ad alto tenore di fruttosio (HFCS) e sono stati poi imitati dalla maggior parte delle più grandi aziende di produzione e trasformazione alimentare. Le restrizioni commerciali messe in atto dai paesi esteri per proteggere le produzioni locali hanno, di fatto, reso ancora più dispendioso l’uso dello zucchero, anche perché gli agricoltori americani, grazie alle sovvenzioni agricole e alle sementi OGM, producono enormi quantitivi di mais. L’HFCS è anche più economico da produrre, immagazzinare e trasportare.
L’HFCS è stato associato all’obesità, al diabete, ai danni epatici, ai problemi di memoria ed anche ad una possibile contaminazione da mercurio, ma questo non significa che i dolcificanti artificiali siano meglio. Gli incrementi nell’assunzione di aspartame, che si trova nella Diet Coke, e del sucralosio, che è presente nella Pepsi One, sono correlati ad un aumento delle persone ritenute obese, come riportato dallo Yale Journal of Biology and Medicine.

martedì 4 settembre 2018

Usa: gli ex presidenti interventisti “santificano” John McCain

Preceduta in Italia dai lacrimoni di molti politici, principalmente del Pd, ieri a Washington si è svolta la cerimonia funebre per dare l’ultimo saluto al senatore repubblicano John McCain. Lungo il percorso che ha condotto la bara con le spoglie del “falco” alla cattedrale di Washington, il corteo si è fermato davanti al memoriale che ricorda i caduti del Vietnam. La vedova, Cindy McCain, ha reso omaggio ai soldati caduti nella lunga e sanguinosa guerra, deponendo una corona di rose rosse e bianche. McCain, pilota da combattimento durante il conflitto, fu catturato e tenuto prigioniero ad Hanoi per cinque anni e mezzo.
Il funerale, stando alle notizie circolate negli States, è stato attentamente pianificato dallo stesso McCain negli ultimi mesi vita. Alla cerimonia, trasmessa in diretta televisiva, hanno partecipato, tra gli altri, Bill e Hillary Clinton, gli ex vicepresidenti Al Gore e Dick Cheney, gli ex segretari di stato Madeline Albright, John Kerry e Henry Kissinger. Non solo figure di spicco della politica a stelle e strisce ma “apostoli” di quel pericoloso messianismo unipolare atlantico che fanaticamente, anche in Italia, si continua a propagandare, ignorando le dinamiche e i nuovi equilibri di un mondo che, per la presenza di nuovi attori non solo su scala intercontinentale ma anche a livello regionale, è sempre più multipolare.
McCain è stato magnificato da Obama e Bush, due dei suoi ex rivali per la presidenza, intimamente uniti al senatore repubblicano dalla militanza nel partito trasversale della guerra. Grande assente alla cerimonia funebre, il presidente Donald Trump. C’erano la figlia Ivanka e il genero Kushner. Il tycoon, che non ha dato l’assenso alla pubblicazione di un comunicato ufficiale in cui John McCain veniva definito un “eroe”, ha preferito trascorrere la giornata sui campi da golf.
Carichi di retorica e di ipocrisia i ricordi di Bush junior e di Obama.  Per George W. Bush, il senatore che voleva interventi militari ovunque (dall’Iraq alla Siria, dall’Ucraina alla Georgia, senza dimenticare Libano, Nicaragua, Sudan, Iran, Kosovo, Corea del Nord, Afghanistan), “detestava i despoti”. “Forse più di tutto John detestava l’abuso di potere: non poteva tollerare i bigotti e i despoti spavaldi”. Questo John McCain nel ricordo di George W.Bush. “Amava la libertà con la passione di chi ne ha conosciuto l’assenza; e rispettava la dignità insita in ogni vita. Una dignità che non si ferma alle frontiere e non può essere cancellata dai dittatori”, ha proseguito l’ex presidente americano Bush.
Barack Obama ha descritto il suo antagonista alle presidenziali del 2008 come “un uomo straordinario, un combattente, uno statista, un patriota che ha incarnato il meglio dell’America”. “Ci sono cose per le quali vale la pena rischiare tutto, ha detto Obama, principi che sono eterni, verità che sono durature. John ci ha mostrato al meglio cosa significa. Per questo, siamo tutti profondamente in debito con lui”. L’ex presidente degli States ha ricordato “il disprezzo di John per l’autocommiserazione: era stato all’inferno ed era tornato e in qualche modo non aveva mai perso la sua energia o il suo ottimismo per la vita”.
Meghan McCain, conduttrice di Abc e figlia del senatore dell’Arizona, ha chiuso il suo accorato saluto al padre con una frase che nel Donbass, in Siria e in Iraq avrà fatto sobbalzare chi quotidianamente soffre per le destabilizzazioni pianificate dal padre in combutta con il collega senatore Lindsey Graham: “L’America di John McCain è l’America di Abraham Lincoln, che rispetta la promessa della Dichiarazione di Indipendenza secondo cui tutti gli uomini sono generati uguali e si battono con tutti gli sforzi per vederla realizzata”.

Tra le colpe più gravi di McCain, non si può non annoverare il sostegno dato al radicalismo islamista nelle periferie calde dell’Europa. A metà degli anni ’90, il senatore fu un esplicito sostenitore dell’allora presidente Bill Clinton in Bosnia, come puntualmente hanno ricordato i colleghi di geopoliticsalert.com in uno dei pezzi più dettagliati e veritieri sulle sue “opere”. http://geopoliticsalert.com/history-john-mccain-war
Molti musulmani raggiunsero la Bosnia per unirsi ai mujaheddin che da allora hanno dato vita all’arcipelago del terrore in cui ha proliferato e prosperato l’Isis. Le bandiere nere del Califfato sventolano in molti punti della ex Jugoslavia anche per “merito” di McCain, di cui non deve essere dimenticato l’apporto all’intervento americano in Kosovo alla fine degli anni ’90. Nel conflitto in Kosovo, il repubblicano ha sostenuto l’Esercito di liberazione del Kosovo, un’organizzazione jihadista genocida con legami con Al Qaeda di Osama Bin Laden.
Elemento preponderante nel McCain pensiero, è la russofobia. Le foto che ritraggono il senatore repubblicano sorridente in compagnia dei capi dei battaglioni neonazisti ucraini al soldo della giunta di Kiev, sono facilmente reperibili in rete.
Il suo sostegno ai massacratori di civili nel Donbass, è stato continuo. E il conflitto in corso dal 2014, rischia di arroventarsi ancora di più dopo che Alexander Zakharchenko, presidente della Repubblica di Donetsk, è rimasto ucciso in un’esplosione nel bar “Separ”, situato nel centro della città. Mosca ha subito incolpato Kiev di essere responsabile dell’omicidio. I servizi di sicurezza ucraini (SBU) hanno negato ogni coinvolgimento, paventando “conflitti interni” alle nuove oligarchie di Donetsk.
In questi quattro anni, oltre diecimila persone sono rimaste uccise dal fuoco delle artiglierie o dei cecchini nel silenzio di quei cantori “democratici” che in coro piangono la scomparsa di un “campione” di quella doppia morale che a loro piace tanto. Per fortuna la rete offre spazi liberi anche a chi, come noi, rifiuta con consapevolezza ed ostinazione la visione del mondo cara a Washington. A noi John McCain non mancherà. Neanche un po’