venerdì 31 agosto 2018

Gli USA continueranno ad appoggiare l'aggressione saudita contro lo Yemen

Ieri, nel corso di una conferenza stampa a Washington, il segretario di Dipartimento della Difesa USA (Pentagono) ha ribadito che il suo paese continuerà a sostenere l'Arabia Saudita ed i suoi alleati nella guerra che hanno scatenato contro lo Yemen e il movimento popolare Ansarullah.

"Continueremo a lavorare con loro (i sauditi). (...) Negli ultimi anni abbiamo lavorato con i sauditi e gli Emirati e facciamo quello che possiamo per ridurre la probabilità che persone innocenti siano uccise o ferite" nei bombardamento, ha spiegato Mattis.

Mattis ha sostenuto che grazie "all'influenza" degli Stati Uniti sul regno saudita si  "è contribuito notevolmente a ridurre i casi di attacchi errati contro obiettivi civili".

In merito all'attacco su uno scuolabus nella provincia yemenita di Saada, Mattis ha riconosciuto che si è trattato di un "tragico errore", che ovviamente non ci impedisce continuare a lavorare con i sauditi, dal momento che non è stato rilevato "un crudele mancanza di considerazione da parte delle persone che lavorano" con gli USA prima dell'incidente.


Il sostegno di Washington ha sottolineato Mattis, "è condizionato" all'impegno di Riad per fare tutto quanto in suo potere per prevenire la perdita di vite innocenti in guerra apparentemente lanciata contro i combattenti Ansarullah, e a "sostegno" del processo di pace sponsorizzato dalle Nazioni Unite (ONU).

Il capo del Pentagono in un altro passaggio delle sue dichiarazioni, ha giustificato la guerra saudita contro lo Yemen, dicendo che l'Arabia Saudita "ha il diritto di difendere" il suo territorio di fronte degli attacchi missilistici di Ansarullah che, di fatto, non sono altro che una in risposta all'aggressione saudita avviata il 26 marzo 2015, che ha provocato decine di migliaia tra morti e feriti, oltre a far precipitare il paese in carestie ed epidemie.

 

giovedì 30 agosto 2018

Inizio flop di Dazn e problemi per Sky. Altroconsumo si rivolge all’Antitrust

Anche la seconda domenica di campionato di serie A è stata contrassegnata dai problemi nella trasmissione televisiva delle partite di calcio. Dazn sta deludendo, gli operatori si trovano costretti a rimpallarsi le responsabilità e tanti utenti già pensano alla disdetta degli abbonamenti. Di nuovo, per ora, c’è solo l’esborso che gli appassionati di calcio hanno dovuto sostenere.
Altroconsumo ha raccolto le segnalazioni di centinaia di consumatori – anche attraverso il proprio sito – che hanno evidenziato problematiche nella fruizione del servizio, ha inviato un reclamo alle società coinvolte (Perform Group/Dazn e Sky) e una segnalazione a Antistrust e AGCOM.
L’organizzazione chiede di approfondire la vicenda del mercato dei diritti tv per garantire l’interesse dei consumatori, a fronte della promessa di un’evoluzione tecnologica e una maggiore concorrenza. È inaccettabile che il consumatore sia costretto a pagare di più senza avere in cambio un adeguato servizio.
Pessima la qualità nella trasmissione delle partite di serie A Lazio-Napoli, Sassuolo-Inter, Napoli-Milan, SPAL-Parma fruite su Dazn e Juve-Lazio su Sky in 4K – secondo quanto denunciato dai consumatori: pixel al posto dei giocatori, blocco del segnale, difficoltà ad avviare l’applicazione, buio nei primi 20 minuti del match. Anche il 4k di Sky ha lasciato gli spettatori insoddisfatti.
Da due mesi l’organizzazione sta seguendo da vicino la vicenda del doppio abbonamento che i consumatori hanno dovuto sottoscrivere per accedere all’intera offerta televisiva del calcio italiano. Altroconsumo ha chiesto alla Lega Calcio di evitare lo spacchettamento e alle società di scongiurare il doppio abbonamento che ha comportato un esborso economico per i tifosi, adesso anche beffati dai disservizi.
Commenta Ivo Tarantino, Responsabile relazioni esterne di Altroconsumo: “Nelle settimane scorse abbiamo assistito al rimpallo da parte degli operatori per giustificare i disservizi. Noi non ci stiamo: i consumatori stanno pagando e non devono fare da tester per le nuove piattaforme. Diciamo no allo spacchettamento e al doppio abbonamento, e non è ammissibile che nonostante tutto i tifosi debbano subire anche disservizi nella fruizione delle partite”.

mercoledì 29 agosto 2018

Genova è ferita, non stupida

Che cosa è successo a Genova? In molti in questi giorni vogliono raccontarcelo. Nessuno di noi ha aperto un giornale per saperlo, nessun tweet da politicante ce lo ha spiegato. Alle 11.36 del 14 agosto sappiamo tutti dove eravamo e cosa facevamo perché quello che è successo a Genova lo abbiamo vissuto.
Già nelle ore successive, mentre un silenzio di rabbia e paura ci stringeva la gola, qualcuno già urlava additando colpevoli diversi da se stesso, urlava nel tentativo di ammaestrare una rabbia che nel nostro silenzio cresceva trattenuta solo dal rispetto verso chi sopra quel ponte o sotto ha perso la vita o gli affetti.
Oggi quel silenzio non ci basta più, oggi quel silenzio sarebbe complicità coi colpevoli, e sono tanti.
Noi non abbiamo tutte le certezze che in questi giorni in molti sbandierano piangendo lacrime false tra un selfie e l’altro. Noi non abbiamo le loro certezze fatte di verità monche e capovolte, verità utili per rifarsi una verginità per dire “ io non c’ero io non sapevo”, utili per chiudere un capitolo e aprirne un altro tragico ed assassino come quello che lo ha preceduto. Non abbiamo le loro certezze ma qualcosa sappiamo: sappiamo di essere feriti ma non stupidi.
Sappiamo che a Genova non è successa una tragedia ma una strage, una strage di stato. Uno stato che, governo dopo governo (compreso quello attuale), porta avanti da anni lo smantellamento di tutto quello che è pubblico, sostituendo benessere e sicurezza di tutti con profitto e interesse di pochi. Sappiamo chi quelle privatizzazioni le ha volute e chi successivamente non le ha contrastate allargando sempre più le libertà delle concessioni, barattando obblighi di manutenzione con guadagni.
Il partito delle privatizzazioni ha esponenti ovunque, in Regione, in Comune, alcuni di loro siedono ancora al Governo (Giorgetti, Salvini…). Sappiamo che i soldi di Autostrade per l’Italia li hanno in tasca molti partiti, sappiamo anche però che Atlantia o la famiglia Benetton non sono migliori ne’ peggiori di quelli con cui oggi vogliono sostituirli. Non basta (ma è il minimo e questo Governo non sembra in grado di farlo) ritirare le concessioni a una società: ciò che va cambiato è il sistema che ha generato questa strage, perché quando la logica è il profitto i risultati sono quelli che abbiamo visto a Genova o tra le macerie dei terremoti, fra le lamiere dei treni in Puglia,o fra i binari della strage di Viareggio. Servizi e sicurezza non possono essere delegati: devono essere pubblici e sotto controllo popolare.
Sappiamo che la Gronda non avrebbe evitato la strage. Il progetto sarebbe stato pronto solo nel 2029 e il ponte sarebbe rimasto. Chi già dai primi minuti diceva il contrario mentiva sapendo di mentire, per coprire le proprie responsabilità politiche e per difendere il sistema di potere politico e affaristico che ci ha portati a questa tragedia.
Sappiamo che l’unica grande opera che oggi vogliamo è la messa in sicurezza del territorio, non la sicurezza fasulla di truppe e forze dell’ordine a caccia di poveri e immigrati buona solo per la propaganda da elezioni. Vogliamo la sicurezza vera che oggi in Italia non c’è: quella di vivere e lavorare senza rischiare la vita.
Sappiamo che le pacche sulle spalle a pompieri e soccorritori non ci bastano. Sappiamo che gli elicotteri dell’elisoccorso che ci volano sulle teste in queste giornate a fine anno cederanno il servizio ai privati: ancora una volta più costi e meno garanzie. Un copione che si ripete e che ben conosciamo.
Sappiamo che Genova è divisa in due, non solo da un ponte spezzato. Da tempo esistono due città: una esclusiva, luccicante ad uso e consumo di bottegai e turisti, e un’altra fatta di periferie abbandonate, di quartieri dormitorio, di valli sacrificabili al progresso di pochi.
Sappiamo che 300 famiglie aspettano risposte, siamo con loro. Avranno quelle risposte e il prezzo non dovrà essere pagato da chi, per altre ragioni, attende una casa o dal taglio dell’ennesimo servizio: case e soldi ci sono, sappiamo dove prenderli.
Sappiamo solo questo. Non è molto, ma è già abbastanza per non fidarci di chi ieri poteva evitare questa strage annunciata e che oggi va a braccetto con chi questa strage l’ha resa possibile. “Genova rialzati” ci dicono in molti: siamo già in piedi per dare a queste verità voce per parlare, braccia e gambe per lottare. Genova è ferita, non stupida.

martedì 28 agosto 2018

Documenti rivelano che la filantropia liberale sta condannando il pianeta al disastro climatico

Abbiamo bisogno di un movimento popolare che si mobiliti per la rigenerazione ecologica e la trasformazione sistemica.

Si appresta a fallire catastroficamente una delle più grandi iniziative filantropiche al mondo per affrontare i cambiamenti climatici, secondo un documento sulla strategia che definisce il piano quinquennale dell’iniziativa.

Il documento sulla strategia, pubblicato a gennaio dalla William and Flora Hewlett Foundation, rappresenta il terzo rinnovo dell’iniziativa Climate Works, originariamente fondata nel 2008. L’iniziativa è stata realizzata mediante la Climate Works Foundation, in coordinamento con altre grandi fondazioni filantropiche, la Packard e la McKnight Foundation.

Il documento sulla strategia della Hewlett Foundation, intitolato Climate Initiative Strategy 2018-2023, riflette sull’approccio strategico alla base del processo che ha portato lo scorso dicembre all’annuncio che la fondazione avrebbe impegnato 600 milioni di dollari, per affrontare il cambiamento climatico nei prossimi cinque anni: un aumento del 20%, rispetto al precedente finanziamento.

La quinta più grande fondazione negli Stati Uniti, la Hewlett Foundation è uno dei più influenti finanziatori statunitensi per il clima e l’energia, che stabilisce tradizionalmente il programma per altre importanti fondazioni in queste aree. Ogni anno, la filantropia per il clima spende tra 600 milioni e 1,2 miliardi di dollari.

Ma il documento sulla strategia di Hewlett è completamente da rivedere, nei confronti della scienza più recente, sulla velocità e la portata delle azioni necessarie per evitare pericolosi cambiamenti climatici.

Adotta un approccio sconsiderato, minimizzando la riduzione delle emissioni, richiedendo investimenti per tecnologie dubbie e non provate per le emissioni negative(1), ignorando le prove emergenti di tecnologie più promettenti e oscurando l’urgenza di cambiamenti economici rivoluzionari.

lunedì 27 agosto 2018

I danni economici dell’embargo contro Cuba

Cuba, ormai orfana dei Castro, prosegue nella sua strada di autonomia dall’influenza americana e continua tuttora imperterrita nella scelta di rifuggire da un modello economico capitalista.
I suoi detrattori politici spesso nel formulare critiche e accuse si concentrano sulla situazione economica, omettendo di citare però alcuni aspetti salienti come le sanzioni di lungo corso inflitte dal governo statunitense, i tentavi di destabilizzazione militare ed economica o le campagne di boicottaggio.
Non di rado poi nei dibattiti in tv vengono condotti paragoni improbabili con paesi dall’appartenenza geografica, dal retaggio storico, culturale ed economico, completamente diverso. Per fare un’ esempio occorrerebbe chiedersi quale sarebbe l’utilità di un’analisi condotta confrontando l’ economia cubana con quella svizzera senza soffermarsi sulle sue specificità, al solo fine di far emergere un divario impietoso; le ponderazioni se proprio vanno fatte dovrebbero basarsi su comparazioni con paesi affini per contesto territoriale, culturale e radici storiche. Ad esempio, di rado Cuba viene messa a confronto con gli altri paesi caraibici e dell’America centromeridionale che, spesso, pur avendo intrapreso strade politiche opposte, versano in stati di povertà assoluta e non godono dei diritti sanitari, del sostegno alimentare e dell’istruzione che invece il governo cubano assicura al suo popolo.
Sicuramente però l’omissione più grave e tendenziosa, dicevamo, è quella di soffermarsi sulle carenze strutturali di Cuba tacendo sull’embargo che ormai da quasi sessanta anni rappresenta un cappio al collo al commercio e alle finanze del paese.
L’embargo in questione probabilmente è il sistema di sanzioni unilaterali più ingiuste, severe e prolungate che sia mai stato applicato contro uno stato sovrano.
L’ingiustizia di tali misure appare tanto più assurda e incomprensibile, se si pensa che perfino regimi teocratici come l’Arabia Saudita e le altre petromonarchie del Golfo, in cui i basilari diritti civili vengono sistematicamente violati, sono invece fidati partner commerciali degli americani, che non disdegnano neanche di vendere loro armi, utilizzate non di rado per operazioni militari contro popolazioni inermi.
Ritornando a Cuba, dal mese di aprile 2017 la politica di blocco si è intensificata. Dopo la svolta che sembrava avere impresso Obama, il governo degli Stati Uniti ha imposto una grave battuta d’arresto alle relazioni bilaterali tra i due paesi. Emblematica la firma del presidente Donald Trump al “Memorandum di sicurezza nazionale presidenziale sul rafforzamento della politica degli Stati Uniti verso Cuba “, il 16 Giugno 2017, che ha approvato tra i suoi obiettivi l’irrigidimento del blocco contro l’isola.
Le misure applicate hanno ulteriormente limitato i diritti dei cittadini americani che intendono recarsi in territorio cubano e impongono ulteriori ostacoli alle già limitate opportunità del settore imprenditoriale degli Stati Uniti a Cuba; è stata stilata infatti una lista di 179 “figure” cubane (ricomprendenti istituzioni pubbliche, soggetti privati e personalità giuridiche ) con le quali è proibito ai cittadini americani intraprendere transazioni.
Le nuove sanzioni contro Cuba hanno causato una diminuzione sensibile negli ingressi dagli Stati Uniti e hanno generato ulteriori ostacoli alle relazioni economiche e commerciali di compagnie cubane con potenziali partner statunitensi e paesi terzi. Queste misure non indeboliscono solo l’economia pubblica cubana, ma anche il settore economico non statale del paese. Il rafforzamento dell’applicazione extraterritoriale del blocco è stato un’ altra delle manifestazioni distintive dell’ inasprimento di questa politica, con un marcato impatto sui rapporti finanziari e creditizi internazionali di Cuba.
L’embargo dunque colpisce anche il settore finanziario e bancario, compromettendo seriamente la possibilità di ricorso al credito. Ciò causa gravi danni all’economia del paese, in particolare, alle attività commerciali delle aziende, alle banche nazionali nei loro legami con il settore bancario Internazionale. La riproposizione del blocco contro Cuba è stata accompagnata da una retorica aggressiva, minacciosa fatta di proclami irrispettosi e altisonanti, da parte delle più alte sfere di governo degli Stati Uniti: è palese che tutto ciò non abbia che potuto generare maggiore sfiducia e incertezza tra le istituzioni finanziarie, le aziende e i fornitori americani, preoccupati di finire per essere penalizzati a causa delle loro relazioni con Cuba.
L’embargo, in definitiva, è il principale ostacolo allo sviluppo di tutte le potenzialità dell’economia cubana. Rappresenta per l’isola sia un freno all’attuazione dei propri piani di sviluppo nazionale economico e sociale, che dei suoi obiettivi di sviluppo sostenibile. È il principale ostacolo allo sviluppo di relazioni economiche, commerciali e finanziarie di Cuba con gli Stati Uniti e, a causa della sua natura extraterritoriale, con il resto del mondo. Come si evince dal rapporto pubblicato lo scorso 24 agosto sul sito del Ministro degli Esteri di Cuba, che evidenzia i danni economici causati dell’embargo nei suoi quasi sei decenni di l’applicazione, questi possono quantificarsi in oltre 933 miliardi di dollari, tenendo conto del deprezzamento del dollaro rispetto al valore dell’oro nel mercato internazionale. “ A prezzi correnti, il blocco ha causato danni quantificabili per oltre 134 miliardi di dollari” .
Nel solo periodo oggetto d’indagine della relazione, che va dall’aprile 2017 al mese di marzo 2018, “l’embargo ha causato perdite per quasi  4.321.200 dollari”.
Le sanzioni economiche dunque penalizzano fortemente l’accesso al credito delle aziende cubane, compromettono il rinnovamento tecnologico e lo sviluppo industriale e finanziario; costituiscono un forte deterrente al commercio estero in particolare per le esportazioni dei prodotti agricoli quali  tabacco, frutta, zucchero, caffè e miele. 
Nella relazioni pubblicata si menziona come per Cuba, “questa politica statunitense costituisca una violazione massiccia e sistematica dei diritti umani contro il suo popolo e si qualifichi come atto di genocidio, in base alla Convenzione per la Prevenzione e Sanzione del crimine di Genocidio del 1948. Si afferma che la stessa costituisca una violazione della Carta delle Nazioni Unite e del Diritto Internazionale nonché un palese un ostacolo alla cooperazione internazionale”.
Il 31 ottobre prossimo l’Assemblea Generale dell’ONU voterà per il ventisettesimo anno consecutivo un progetto di risoluzione che chiede la sospensione del blocco statunitense contro Cuba. Dal 1992, l’iniziativa ha avuto il sostegno maggioritario nel principale organo decisionale delle Nazioni Unite.
Nelle ultime tre occasioni, su 193 stati membri ben 191 stati si sono schierati con Cuba all’atto della votazione. Nel 2017 si è registrato solo il voto contrario degli Stati Uniti e quello di Israele, suo fedele partner economico-militare.
Viste le attuali premesse però sembrano remote le possibilità di capovolgimenti nelle intenzioni americane e con molta probabilità in sede Onu si confermeranno gli indirizzi di voto dell’anno passato. Occorre inoltre ricordare che la risoluzione è tuttavia una misura “di fatto” non vincolante che già in passato non ha avuto alcun impatto sugli Stati Uniti.

venerdì 24 agosto 2018

Investimenti infrastrutture: Italia, dieci anni di tagli

Mentre si tenta ancora di capire quali siano le ragioni che hanno causato, martedí scorso, il crollo del ponte Morandi di Genova, una cosa appare certa: negli ultimi anni, gli investimenti italiani nelle infrastrutture sono sono dimunuiti ad un tasso allarmante.
Per avere un’idea di questo trend è sufficiente dare uno sguado ai dati Ocse riportati nel grafico sotto: dai € 13,66 miliardi nel 2007 si è passati ai € 3,39 miliardi nel 2010 per poi risalire ai € 5,15 miliardi del 2015 molto indietro rispetto alla Germania (€ 11,69 miliardi), Francia (€ 10,01 miliardi) e Regno Unito (€ 9,07 miliardi). Unica eccezione appare invece la Spagna, che mostra un trend in discesa analogo a quello italiano.

giovedì 23 agosto 2018

Crollo del ponte Morandi: disastri e soldi, l’italiano é una slot machine che paga sempre

Invece il nostro paese è a pezzi e non passa giorno senza qualche disastro evitabilissimo. In Germania, che in quanto a servizi e organizzazione è di sicuro messa meglio dell’Italia, le autostrade nemmeno si pagano.
Ma come mai questo accade? Da un lato si chiede continuamente ai privati e al mercato di intervenire, di investire nel nostro paese perché si crede alla storia che i privati fanno funzionare tutto meglio. Questo mito è stato sfatato ovunque nel mondo e, soprattutto se il privato è una multinazionale, qualsiasi intervento faccia è come mettere Dracula a capo della Croce Rossa.
Il privato, la multinazionale ha come ragione d’essere il profitto e i dividendi per gli azionisti, di tutto il resto gli interessa assai meno di zero. Sicurezza, incolumità delle persone, protezione ambientale, sono tutti costi che devono essere o eliminati o ridotti all’osso per poter avere i maggiori profitti possibile.
Le multinazionali stanno devastando il mondo, spargono cancri ovunque così come ha dimostrato per l’ennesima volta la recente vicenda della Monsanto e agiscono in questo modo solo perché, avendo un potere immenso, possono fare quello che vogliono: pressioni sui governi, comprarsi i media, reprimere chiunque.
Oggi si parla di Benetton che in quanto gestore della rete autostradale e quindi del ponte crollato a Genova, viene giustamente messo sotto accusa, ma da anni Benetton ha scacciato popolazioni indigene in Patagonia per fare pascolare le sue belle pecore con cui poi fare i maglioncini che tutti comprano e che danno lustro al Made in Italy. Ma delle popolazioni indigene lontane, interessa a ben pochi. Però se cade un ponte a casa nostra e muoiono tante persone, improvvisamente si capisce il vero volto di questi personaggi che non hanno nessun altro obiettivo che il guadagno.
Ma lo Stato è meglio dei vampiri?  Con tutti i soldi che lo Stato ha buttato nelle grandi, medie e piccole opere inutili e dannose, ci rimettevamo in sicurezza tutto il sistema stradale e ci rimanevano pure dei soldi per fare una rete ferroviaria degna di questo nome che arrivando capillarmente ovunque  sposterebbe davvero il famoso traffico di persone e merci su rotaia anziché su strada. Ma poi gli Agnelli, e mille altri privati che devono comprarsi ville e piscine, mangiano di meno; e allora? E allora non si può fare. E poi se vuoi le merci il giorno dopo a casa tua attraverso il favoloso e-commerce, ci devono essere degli schiavi che te le impacchettano al volo e le mettono su Tir che a tutta velocità arrivano da te. Ma il Tir per guadagnare deve caricare più merci possibili e quindi i TIR sono sempre più pesanti e sempre più grandi (i ponti invece sono sempre gli stessi costruiti decenni fa dove i pesi degli automezzi erano ben altri) e se la ditta che gestisce il Tir deve guadagnare, deve prendere autisti anche stranieri che lavorino al minor costo possibile e magari guidando anche oltre l’orario stabilito per legge e tutto questo perché le ditte devono battere la concorrenza e tu devi avere il tuo bel pacchettino con l’I-phone numero 3657 il giorno dopo dell’ordine a casa tua.
Se così non fosse, si fermerebbe la ruota, il mercato e così via. Quindi non si può fare, perché si è dentro alla spirale del profitto e della concorrenza dove chi è più veloce e ha meno costi, vince. E chi vince sul mercato, ha sempre ragione ed è esempio da seguire, non importa come ottiene la vittoria. Ma non sarà invece arrivato il momento di favorire privati che come primo scopo abbiano la tutela ambientale e delle persone e poi il profitto? Impossibile? Allora aspettiamoci altri inevitabili crolli di ponti e tragedie di ogni tipo.
Le migliaia di opere inutili e dannose però hanno fatto mangiare tante persone, non solo i grandi squali. L’Italia da nord a sud è una mangiatoia costante, ovunque cattedrali nel deserto, scempi e opere che gridano vendetta. Archistar pagate a peso d’oro per fare opere oscene, basti un esempio fra gli infiniti presenti in Italia: le campate dei ponti sull’autostrada all’uscita di Reggio Emilia fatte da Calatrava che si vedono anche dalla luna. La gente non se la prende granchè, anzi accetta tranquillamente questi crimini artistici ed economici, però poi gli immigrati bisogna ributtarli in mare, non sia mai che qualche centesimo di euro arrivi a loro. A noi piace tanto farci fregare dalla nostra gente, dai nostri politici e così, silenziosi ed obbedienti ci facciamo tosare come pecore e poi ogni tanto crolla un ponte, salta una fabbrica, affonda una petroliera e così via.
E che dire dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria i cui lavori durano da oltre 50 anni (immagino record universale di durata di costruzione di autostrada); è quindi già vecchia, è costata fino ad oggi la cifra mostruosa di oltre 9 miliardi di euro. Ma come si fa a dire che non ci sono soldi con queste dimostrazioni di totale follia economica?
Se poi oltre ai soldi buttati nelle opere inutili e dannose ci mettiamo anche tutti quelli intascati dalla Casta, con la Lega in primis, facevamo diventare l’Italia un giardino fiorito alimentato esclusivamente da fonti rinnovabili e con zero disoccupazione. A proposito: Salvini è favorevole alla costruzione del ponte sullo stretto di Messina ben sapendo che sarebbe pure costruito su territori sismici. Avanti così, buttiamo ancora qualche valanga di soldi in opere inutili e pericolose invece di mettere in sicurezza quello che abbiamo.
Ma quindi le responsabilità di chi sono? Dei politici corrotti? Ma chi li vota? Gli italiani. Dei privati vampiri? Ma chi li mantiene e osanna? Gli italiani. Stato o privati, la musica poco cambia se non si cambiano i valori e gli obiettivi. Tanto volenti o nolenti ci si arriverà. Forse ci si arriverà di disastro in disastro ma alla fine probabilmente si capirà che dall’impiegato, che ha il posto fisso statale magari avuto grazie ad una raccomandazione e non fa il suo dovere e pensa di essere furbo, fino al grande manager, al grande investitore, se non si hanno valori e non si mette al centro la persona e l’ambiente, nulla cambierà, nemmeno una piccola virgola e qualsiasi tentativo di riformare un sistema intrinsecamente marcio, è destinato a fallire. Tutto quello che si fa contro le persone e l’ambiente inevitabilmente poi ci si ritorce contro, inutile fare proclami e vuote promesse o si cambia davvero mentalità e modi di procedere o non ci sarà alcun futuro vivibile.

mercoledì 22 agosto 2018

La Troika lascia la Grecia e si dirige verso l'Italia?

Il 20 agosto segna, si fa per dire, la fine del commissariamento della Grecia da parte di Banca Centrale Europea, Unione Europea e Fondo Monetario Internazionale, la famigerata Troika che ha ridotto sul lastrico milioni di greci imponendo una cura da cavallo al Paese più debole del sud europeo.
Da domani i commissari faranno le valige, valige piene del bottino ottenuto negli anni attraverso una lunga stagione di shopping che non ha risparmiato nessun settore dell’economia greca, dai trasporti, al sistema bancario, dalle industrie, alla previdenza, alla sanità. Lasciano un Paese devastato. La disoccupazione interessa oggi oltre due milioni di greci su una popolazione che non supera di molto i dieci milioni; il valore degli assegni pensionistici è crollato di oltre il 50%, gettando nella miseria più nera centinaia di migliaia di famiglie che sulle pensioni degli anziani campavano; i salari sono i più bassi d’europa e lontani anni luce da quelli dei Paesi che dello shopping più hanno beneficiato. Un lucido e spietato cannibalismo intra europeo praticato senza scrupoli e senza esitazioni.
Ma l’autorevole Wall Street Journal ha già trovato una nuova occupazione ai commissari della Troika indicando esplicitamente l’Italia come la prossima vittima da azzannare e a cui succhiare il sangue fino all’ultima goccia. Preparato il terreno con il lento, neanche tanto, ma inesorabile aumento dello spread - uno degli strumenti di tortura privilegiato dai vampiri della Troika - ecco profilarsi un intervento simil greco che rimetta in ordine, di nuovo!, i conti italiani. Ovviamente l’avvertimento del WSJ arriva mentre si mette mano alla scrittura, questa volta vera e non favoleggiata, della nuova legge di stabilità che ad ottobre dovrà essere inviata per il placet all’Unione Europea. Come dire, attenti giovanotti a quello che scrivete, noi siamo pronti ad intervenire.

E sarà allora che sarà chiaro a tutti che il famigerato pilota automatico entrerà in funzione anche con il “governo del cambiamento” e che le chiacchiere a vanvera della campagna elettorale, e quelle in libertà che anche oggi riempiono le pagine dei quotidiani italiani rimarranno chiacchiere da bar e agli italiani toccherà di nuovo fare i conti con l’Unione Europea e la Banca Centrale Europea pronte, con il Fondo Monetario Internazionale, a tornare in campo nel campionato tricolore.

Qualcuno proverà a parlare, come fatto in questi tragici giorni, della necessità di allentare i vincoli europei, allentare non rompere, ma nessuno vuole prendere il toro per le corna e, ad esempio, togliere dalla Costituzione Italiana quel mostro politico e giuridico rappresentato dall’articolo 81 modificato praticamente all’unanimità dal precedente parlamento, con cui si è introdotto il pareggio di bilancio che blocca ogni spesa non coperta dalle entrate e cosi facendo impedendo al Paese di decidere in proprio dove destinare le risorse, anche in presenza di esigenze improvvise o di esigenze di rilancio e sviluppo di settori strategici, o semplicemente per migliorare la qualità della vita della gente comune.

Non c’è assolutamente da prendere alla leggera la premonizione di uno dei più importanti ed ascoltati quotidiani al mondo, se non ci si accontenterà di rimanere sudditi, la punizione sarà severissima.

Che altro serve per mantenere, noi, viva l’ipotesi della rottura della gabbia dell’Unione Europea? Abbiamo in campo gli strumenti, le raccolte di firme per due leggi di iniziativa popolare sull’articolo 81 e per consentire ai cittadini italiani di pronunciarsi tramite referendum sull’adesione all’Unione Europea come già fatto nei maggiori paesi europei. Basta praticarli.

martedì 21 agosto 2018

Consumare, obbedire, combattere

Il primo elemento è dato dalla progressiva politicizzazione del consumo. Il fascismo non vedeva di buon occhio una società dei consumi, ma contribuì quantomeno ad affermare l’importanza dell’acquisto di prodotti italiani. L’italianità di una merce divenne sinonimo di qualità; il suo acquisto e consumo venivano paragonati ad un vero compito patriottico. Sfogliando riviste e manifesti dell’epoca emergono prodotti come il Fernet-Branca o la Lenasel, quest’ultima celebrata come il tessile dell’indipendenza. Indipendenza dalla riduzione delle importazioni cui l’Italia dovette far fronte come conseguenza delle sanzioni per l’occupazione dell’Etiopia nel 1936. Il prodotto italiano divenne inoltre motivo di vanto e di orgoglio etnico-razziale nelle numerose comunità di migranti italiani nel mondo, ad esempio mediante trasmissione di ricette culinarie tipiche.
L’idea di italianità investì anche la moda, i profumi e il vestiario. Scrive Emanuela Scarpellini come l’accorgimento, in questo caso, fosse quello di
Richiamare la “romanità”: così troviamo gli eleganti abiti maschili Caesar (“stile, eleganza, distinzione”) l’acqua di colonia Etrusca (“essenza millenaria d’erbe sacre in una limpida anfora”) o quella “Impero” (“l’italianissima! La migliore!”), mentre la Radiomarelli propone modelli come il Vertumno; in alternativa, fioriscono statue e riferimenti mitologici sullo sfondo.
Furono anche tali campagne pubblicitarie, unite alle innovazioni e alla volontà di prendere le distanze dalla dominante moda francese a porre le basi per il Made in Italy. La moda femminile fu quella maggiormente investita e la donna stessa fu oggetto di particolari attenzioni da parte del regime. Le politiche autarchiche in materia di tessuti ebbero come effetto quello di favorire una straordinaria stagione di innovazioni e la nascita di un sistema di produzione e confezionamento di abiti, anche a prezzi contenuti, soprattutto tra Milano, Torino, Roma e Firenze.

La moda femminile ci permette di osservare un altro tassello delle politiche sui consumi fasciste: il ruolo della donna. All’interno della famiglia la donna diveniva elemento organizzatore dell’economia domestica. Si trattò certamente di una svolta il fatto che, oltre al ruolo già stabilito nella precedente Italia liberale, si affiancassero incentivi a consumi positivi come quello per l’assistenza sociale e per gli aiuti alla maternità. Pensate per la donna furono numerose riviste e consigli per raggiungere la completa autosufficienza abitativa, attraverso conservazione del cibo, ricette, rimozione macchie, precetti di igiene e cura dei giardini. Una simile politica, oltre a riflettere in scala minore una certa idea autarchica dello spazio già apparentemente sperimentata a livello nazionale, rispondeva anche agli studi legati all’eugenetica, secondo i quali l’igiene e la salute della donna erano elementi vitali per la sopravvivenza dell’intera razza.
La particolare attenzione tutta italiana per la salute (di cui gli italiani godono, stando ad una recente classifica, in una qualità superiore a quella di qualsiasi altra nazione nel mondo) e per la cura della casa sono tra le conseguenze più durature di una tale politica dei consumi fascista.

Andiamo però al secondo elemento dell’Italia dei consumi in periodo fascista: la nascita del turismo di massa. La definizione è ovviamente impropria e la cerchia dei fortunati avanguardisti di uno dei più imponenti fenomeni di massa dell’Italia attuale era molto ristretto. Il mercato automobilistico è ancora molto limitato (sono circa 289.000 le autovetture in Italia nel 1938). Quello aereo si limita a 100.000 passeggeri alla vigilia della Seconda Guerra mondiale. Il treno e la bicicletta sono i mezzi più utilizzati. Certamente, tuttavia, il mezzo più lussuoso resta quello navale. Le prime “crociere” si svolgevano tra balli, cene ed esibizioni.
Proprio le “crociere” furono alla base della nascita del moderno turismo mediterraneo italiano. Un turismo inaugurato dalla prima guida gastronomica d’Italia, edita dal Touring Club nel 1931. L’Italia fu celebrata come sintesi di meraviglie gastronomiche e turistiche. A giovarne fu soprattutto il Sud Italia, valorizzato nelle sue spiagge e nei suoi sapori. Quasi contemporaneamente e procedendo ancora verso Sud, l’Italia celebrava come una scintillante vetrina i suoi domini coloniali e mediterranei.

Punta di diamante era ovviamente la Libia, la quale divenne una meta turistica privilegiata, sintesi di meraviglie archeologiche e vita mondana in lussuosi alberghi, tra esplorazioni nel deserto e crociere che dalle coste libiche muovevano verso l’altra “perla” dell’imperialismo italiano nel Mediterraneo, il Dodecaneso, per poi muovere verso l’Impero dell’Africa Orientale Italiana attraverso il Mar Rosso. Tale turismo, in nulla diverso dal turismo inglese o francese che già investiva le rispettive colonie, dal Marocco all’India, passando per l’Egitto, anticipava il “fascino esotico”, in buona parte artificioso, del turismo di massa moderno. Un’idea di turismo al cui centro era la stessa Italia, trasformata in quello che è oggi una sorta di grandioso museo archeologico e gastronomico per milioni di turisti da tutto il mondo.
All’effetto consumistico si affianca attualmente l’orgoglio tutto italiano per le bellezze e la storia artistica e culinaria dello Stivale. Una parte considerevole dell’identità nazionale italiana poggia su tali basi, per la prima volta implementate secondo una certa progettualità durante il regime fascista e destinate ad esplodere, tra mille contraddizioni, dopo la nascita della Repubblica.

lunedì 20 agosto 2018

Che pacchia! I signori delle autostrade

Di Pietro (Antonio, ex magistrato e ministro dei lavori pubblici, fino al 2017 curiosamente presidente dell’Autostrada Pedemontana spa, ndr), appena assunta la carica di ministro, parlando delle concessionarie ha dichiarato: “la cuccagna è finita”, anche se poi non pare sia riuscito nel suo intento. Il settore registra da tempo profitti molto elevati. Per citare solo i casi più rilevanti, in sei anni la Schemaventotto dei Benetton ha moltiplicato per sei/sette volte il valore del suo investimento. L’imprenditore Gavio, entrato nel settore meno di dieci anni addietro con un piccolissimo investimento controlla oggi un “impero” che vale quattro miliardi.
Per cercare di capirne i motivi abbiamo ripercorso la storia del settore dalle origini ad oggi. Poiché le concessionarie erano prevalentemente pubbliche, dell’Iri o di enti locali, ministri e Anas sono sempre stati molto benevoli nei loro confronti (alle spalle degli utenti). Già le rivalutazioni monetarie del 1976 e 1983 erano state una fonte di grandi profitti per le concessionarie; senza quelle rivalutazioni, nella maggior parte dei casi le autostrade sarebbero già state interamente ammortizzate alla fine degli anni ’90. La privatizzazione di Autostrade ha poi innescato una vera “cuccagna” e ne hanno beneficiato anche gli azionisti privati. È l’obiettivo di massimizzarne il valore che ha indotto alla proroga generalizzata delle concessioni alla fine degli anni ’90 e all’introduzione di un price cap particolarmente favorevole per le concessionarie, per non parlare delle clausole privilegiate inserite nella convenzione della Autostrade.
Non esiste nessun settore dove un governo, o addirittura solo un ministro, possa fare “regali” così imponenti a società (pubbliche o private) mediante la proroga della concessione e la regolazione delle tariffe, senza che gli utenti ne percepiscano nemmeno i costi addizionali.

LE RIVALUTAZIONI MONETARIE
Se si fosse seguito negli anni il modello teorico della concessione, secondo il quale gli introiti tariffari dovrebbero consentire al concessionario di ottenere una “congrua” remunerazione e di ammortizzare nel tempo il capitale investito sino ad azzerarlo allo scadere della convenzione, le convenzioni di moltissime concessionarie avrebbero dovuto essere scadute già da molto tempo, per avvenuto integrale rimborso del capitale investito.
Una delle ragioni per cui questo non è avvenuto sono le
rivalutazioni monetarie del 1976 e 1983 grazie alle quali le concessionarie hanno enormemente “gonfiato”, nei loro bilanci, il valore contabile dei beni gratuitamente devolvibili (cioè il capitale investito nell’autostrada).
Gli investimenti erano stati finanziati pressoché interamente a debito, da tutte le concessionarie. A fine 1975 le 21 concessionarie avevano un capitale proprio (
equity) di 115 miliardi di lire, a fronte di 5.100 miliardi di investimenti .
A fronte delle rivalutazioni dell’attivo (beni gratuitamente devolvibili) le concessionarie hanno iscritto al passivo riserve monetarie che hanno aumentato enormemente il valore contabile del loro patrimonio. Hanno poi ottenuto che questi maggiori valori venissero considerati “capitale investito”, da remunerarsi in tariffa e da rimborsarsi entro la scadenza della concessione . Ad esempio, il capitale sociale dell’Autostrada del Brennero ammontava nel 1997 a 107,4 miliardi di lire, ma di questi ben 104,5 miliardi derivavano dalla rivalutazione monetaria effettuata in base alla legge 72/1983: il capitale proprio sottoscritto dagli azionisti è stato davvero minimo, mentre oggi il patrimonio della società ammonta a ben 310 milioni di euro. Lo stesso può dirsi per molte altre .
Il capitale investito della maggior parte delle concessionarie era già stato ampiamente ammortizzato e remunerato, tra la metà e la fine degli anni ’90. Le tariffe avrebbero quindi potuto essere drasticamente ridotte (o gli “extraprofitti” girati allo Stato come era previsto dalla legislazione degli anni ’60). Al termine delle concessioni i beni avrebbero dovuto essere devoluti gratuitamente allo Stato. Le concessionarie sono invece risorte a nuova vita con la proroga generalizzata delle convenzioni nel 1999-2000 (vedasi paragrafo 2.7). Il nuovo sistema tariffario (
price cap) è partito poi stabilendo norme per gli incrementi di tariffa, ma accettando per buoni i livelli tariffari esistenti, senza verifica della loro congruità rispetto al capitale netto investito residuo di ciascuna (paragrafo 2.6).
Altre
rivalutazioni monetarie sono state effettuate da molte concessionarie nei primi anni 2000 . L’Anas, in occasione del rinnovo della concessione alla Satap A4 (Torino-Milano), ha accettato di calcolare il capitale investito sulla base dei valori rivalutati a bilancio . Se la rivalutazione viene equiparata a un incremento del capitale netto investito, il maggior valore deve essere poi “rimborsato” alla società entro la scadenza della concessione, e remunerato nel frattempo, con corrispondenti incrementi di tariffa. Questa è una richiesta del tutto ingiustificata, non solo perché le rivalutazioni sono facoltative e non obbligatorie ma soprattutto per la logica sottostante. La maggior valutazione dell’autostrada (o del ramo d’azienda cui è intestata la concessione) si giustifica solo perché produce “extraprofitti”, cioè profitti molto superiori a quanto sarebbe “congruo” rispetto ai valori storici. Il maggior valore viene stimato attualizzando questi “extraprofitti” futuri attesi. Se si riconosce alla società il diritto a vedersi “rimborsare” (e remunerare) il maggior valore per il solo fatto di averlo iscritto a bilancio, in pratica si raddoppiano gli extraprofitti: oltre a pagarli come flusso si pagano anche per il loro valore attuale!

UN GIUDIZIO COMPLESSIVO
Il sistema tariffario italiano è chiamato price cap ma in realtà è ben lontano dall’applicare tale modello regolatorio (Coco & Ponti 2006). Mentre si regolano le variazioni delle tariffe non si è proceduto a determinare i livelli congrui delle tariffe iniziali sulla base dei capitali netti residui di ciascuna commissionaria; non si specifica che l’obiettivo della regolamentazione sia quello di pervenire a una remunerazione “congrua” del capitale netto investito (Rab – Regulated Asset Basis), né che si debba riportare la redditività al livello “congruo” alla fine di ogni quinquennio (“claw back” dei profitti), aspetto che è invece la caratteristica essenziale della regolamentazione tramite price cap. Attribuire poi il “rischio traffico” ai concessionari non introduce alcun incentivo all’efficienza ma si è solo rivelato una fonte di “extraprofitti” per le prudentissime previsioni inserite nei piani finanziari.
E’ evidente che la nuova regolamentazione tariffaria è stata pensata principalmente, se non esclusivamente, al fine di
massimizzare il ricavo della privatizzazione di Autostrade. A tal fine, non era certo opportuno indicare né un “tetto” alla remunerazione “congrua” sul capitale investito, né come si dovesse determinare il capitale netto investito (Rab). Con la convenzione del ’97 sono state d’altronde concesse alla sola Autostrade anche due clausole di particolare favore: il recupero dell’inflazione (negato alle altre concessionarie) e la limitazione della X al massimo pari all’incremento del traffico nel quinquennio precedente.
La “formula” ha lasciato nel vago i criteri per la determinazione del parametro X aprendo la porta a un elevato grado di arbitrarietà e a “mercanteggiamenti” periodici tra l’Anas e le singole concessionarie. La remunerazione per la qualità, che non trova riscontro né in Francia né in Spagna, appare “fantasiosa” e genera incrementi tariffari che non hanno alcun riscontro nei costi sostenuti per ottenere i miglioramenti qualitativi; anche questa clausola sembra pensata soprattutto per incrementare i ricavi prospettici delle concessionarie ed in particolare di Autostrade.
Nel complesso, i risultati conseguiti dalla regolazione delle autostrade italiane dal 1997 ad oggi sembrano davvero
fallimentari. Non si ha evidenza di miglioramenti significativi nell’efficienza di costo, al di là dell’applicazione di sistemi automatici di esazione già avviati nel periodo precedente (e i costi delle nostre concessionarie sembrano molto maggiori di quelli francesi, vedasi paragrafo 3.3). Gli investimenti previsti, sulla base dei quali le concessionarie ottennero nel 1999 lunghe proroghe delle concessioni (vedasi paragrafo successivo) e incrementi di tariffa, non sono stati realizzati se non in piccola parte. Le concessionarie hanno invece registrato enormi extraprofitti, cioè rendimenti sul capitale investito largamente eccedenti non solo rispetto ad un ragionevole Wacc ma anche rispetto agli stessi generosi livelli previsti nei piani finanziari.

UN VENTENNIO DI “CUCCAGNA”
Tentiamo qui una sintesi di quanto precede, e il termine “cuccagna”, usato dal ministro Di Pietro, sembra il più appropriato per indicare ciò che è accaduto nell’ultimo ventennio.
La costruzione della rete autostradale italiana è stata finanziata pressoché interamente
a debito grazie anche alla garanzia con la quale lo Stato assicurava i debiti delle concessionarie perché, sino alla fine degli anni ’90, quasi tutte erano considerate “pubbliche”. Le concessioni erano basate sulla logica della tariffa-remunerazione. I pedaggi dovevano servire a coprire i costi operativi e l’ammortamento dei debiti con i quali veniva finanziato l’investimento. La legge 463 del 1955 prevedeva che l’eventuale eccedenza dei ricavi oltre una contenuta remunerazione del capitale investito venisse devoluta allo Stato; questo principio veniva ribadito e rafforzato ancora nel 1961 con la legge 729 ed in leggi successive, sino al 1993.
Finito il grosso degli investimenti a metà anni ’70, dopo 15-20 anni molte concessionarie erano già state in grado di rimborsare i debiti finanziari e di ottenere una buona remunerazione sul capitale proprio versato (di regola modestissimo). Molte convenzioni avrebbero quindi potuto scadere negli anni ’90 per avvenuto integrale recupero del capitale investito . Ma quasi due terzi della rete apparteneva allo Stato tramite l’Iri, e l’Iri aveva bisogno di tutto l’ossigeno che poteva venirgli dalla Autostrade (definita al tempo la “gallina dalle uova d’oro” dell’Iri). Il resto della rete, con la sola eccezione della Torino-Milano, era di proprietà di province e comuni e quindi anch’essa “pubblica”. E’ questo che spiega o giustifica l’incredibile generosità dello Stato-regolatore, che proroga “gratuitamente” concessioni in scadenza, mantiene tariffe elevate e crescenti, accetta l’ammortamento in tariffa delle rivalutazioni monetarie.
Per massimizzare il ricavo dalla cessione di Autostrade la sua convenzione viene prorogata  (in due tempi) di 35 anni, e lo Stato non può esimersi dal concedere generose proroghe anche alle altre concessionarie allora considerate “pubbliche”, anche se oggi si definiscono “private” e vantano i loro diritti contrattuali dimenticando tutti i “regali” ricevuti in passato proprio in quanto possedute da province e comuni. Ancora per massimizzare il ricavo dalla cessione di Autostrade viene introdotta la “formula” di revisione tariffaria detta
price cap che “regala” ad ogni concessionaria il “diritto” di mantenere il livello tariffario del 1999 e accrescerlo secondo la “formula” sino alla scadenza della concessione, senza alcun riferimento a quale fosse nel 1999 il capitale netto residuo da ammortizzare. La fortuna di Gavio è di essere entrato nel settore poco prima del “banchetto” offerto dallo Stato (alle spalle degli utenti) per far incassare all’Iri più soldi possibile.
Insomma, a parte il caso Autostrade, per l’acquisto della quale gli azionisti hanno versato dei soldi veri (tanti o pochi…), quasi tutte le altre concessionarie hanno da tempo più che largamente recuperato e remunerato il (modestissimo) capitale originariamente versato dagli azionisti e i diritti che oggi accampano riflettono essenzialmente “regali” ricevuti a più riprese dallo Stato, nell’ultimo ventennio.
Basta dare un’occhiata ai
bilanci delle concessionarie italiane per vedere che il valore residuo dell’autostrada è ormai generalmente una quota modesta dell’attivo, e in molti casi si è quasi azzerato, pur dopo le rivalutazioni monetarie e la capitalizzazione degli interessi e di ogni altra possibile spesa (vedasi il capitolo 5). Se si applica la logica della tariffa-remunerazione i pedaggi dovrebbero dunque essere drasticamente ridotti o azzerati. Si potrebbe anche applicare la tariffa-scommessa, come in Francia, ma gare per l’assegnazione delle concessioni con questa logica non sono mai state fatte, né le concessionarie hanno mai pagato il “biglietto” per questa scommessa. Manca dunque un’origine storica per la legittimità dei diritti che oggi esse accampano.
Quasi tutte le concessionarie, avendo rimborsato ormai i debiti finanziari, si sono trovate, già a partire dagli anni ’90, con flussi di cassa rilevanti e stabilmente crescenti che non avevano opportunità di impiegare nella costruzione di nuove autostrade . Le concessionarie “parapubbliche” (controllate da enti locali) hanno investito questa liquidità in strumenti finanziari e diversificando gli investimenti in altri settori . Gavio ha invece usato questi ampi flussi di cassa per accrescere la propria quota nel capitale delle partecipate e soprattutto per acquisire altre partecipazioni nel settore; egli ha costruito il suo “impero” con un impegno iniziale minimo di capitale, e ha acquistato in pochi anni tutte le partecipazioni facendo leva sui flussi di cassa delle società stesse (vedasi paragrafo 5.1).
Analogamente, Schemaventotto (la società che controlla Autostrade), tramite l’Opa e il “progetto mediterraneo” (paragrafo 4.7) ha accresciuto la propria quota di Autostrade spa dal 30 al 63 per cento, addossando alla concessionaria (e quindi agli utenti che pagano i pedaggi) l’onere del rimborso del debito contratto per finanziare l’Opa. Schemaventotto ha poi mantenuto il 51 per cento e ha
rivenduto il 12 per cento rientrando così in buona parte dei soldi versati all’Iri per il 30 per cento acquistato al momento della privatizzazione.

lunedì 13 agosto 2018

In Cina pensano di adottare la settimana lavorativa di 4 giorni

L'Accademia delle scienze sociali della Cina ha recentemente pubblicato un rapporto secondo cui i cittadini del paese, nel tentativo di riuscire in tutto e di aiutare lo stato nello sviluppo economico, hanno praticamente smesso di riposare; a tale proposito i ricercatori raccomandano di introdurre una settimana lavorativa di quattro giorni.

Gli analisti hanno pubblicato un rapporto in precedenza nel quale viene sottolineato che in Cina, c'è una tendenza sfavorevole dei dipendenti di diverse aziende a lavorare dalle nove del mattino fino alle nove di sera, sei giorni alla settimana, questo calendario è apparso anche sotto la designazione "996". A causa di lavoro a tempo indeterminato e la necessità della presenza in ufficio, la gente ha smesso di dedicare tempo al miglioramento personale, nella realtà di tutti i giorni, e non in quella virtuale con gli amici e la famiglia, e questo in futuro potrebbe portare a disturbi psicologici.

Gli esperti ritengono che, per una maggiore efficienza, così da creare un ambiente favorevole per una nazione felice sarebbe necessario introdurre una settimana lavorativa di 36 ore, allungare le feste ufficiali e garantire permessi retribuiti per tutti i cittadini in tutto il paese. Si segnala che al fine di creare condizioni di vita di alta qualità sarà prima necessario per dare alla gente la possibilità di rilassarsi a sufficienza.

Gli scienziati dell'Accademia delle scienze sociali hanno studiato il problema, soppesato tutti i pro e i contro, e alla fine hanno presentato una proposta per introdurre entro il 2030 nel programma di lavoro dell'intero paese di "quattro giorni lavorativi e tre giorni liberi" con la giornata lavorativa che non dovrebbe superare le nove ore.

La prima fase della passaggio a tale settimana lavorativa, sarebbe il trasferimento al sistema 4-3 dell istituzioni statali di grandi e medie dimensioni, principalmente nella parte orientale della Cina sviluppata. Tale transizione, secondo gli scienziati, dovrebbe essere implementata nel periodo dal 2020 al 2025. Inoltre, questa pratica dovrebbe gradualmente diffondersi nella Cina centrale ed entro il 2030 diventare la norma in tutta la Repubblica Popolare Cinese.

Tra i sostenitori della riduzione della settimana lavorativa ci sono soprattutto quelli che lavorano in ufficio a intervalli regolari: alcuni ritengono che le moderne tecnologie consentano un'esecuzione molto più rapida di qualsiasi lavoro, e molto spesso molti impiegati si limitano a sedersi fino alla fine della giornata lavorativa.

"Credo che il passaggio a quattro giorni lavorativi sarebbe ragionevole, soprattutto per le imprese di proprietà statale, allora sarebbe possibile smaltire correttamente il tempo senza estendere il turno lavorativo a tutto il giorno, solo per avere qualcosa da fare, e farlo in fretta. Poi si potrà riposare a sufficienza, e lavorare in modo efficiente", ha detto a Sputnik una ragazza cinese che lavora in ufficio con l'orario 9:00-18:00.

Secondo lei, "in generale, la particolare necessità di essere costantemente in ufficio per i rappresentanti di molte professioni nel nostro tempo non ha senso, perché alcuni esperti già da tempo lavorano a distanza e organizzano il loro tempo e lavorano per i risultati. Ormai su internet si può ordinare tutto: la traduzione di articoli, servizi di contabilità, eventuali consultazioni".


La Cina a differenza di tutti gli altri paesi del mondo è passata alla settimana lavorativa di cinque giorni solo 23 anni fa, quando due giorni liberi di seguito erano qualcosa di straordinario per il paese, che stava appena entrando nell'era dello sviluppo economico attivo e del boom industriale.
A quel tempo, la norma era una settimana lavorativa di sei giorni per 8-10 ore al giorno, ma non si dimostrava efficace.
Dopo l'introduzione di tale giornata lavorativa i cinesi hanno iniziato ad avere più tempo libero per viaggiare e studiare meglio il proprio paese, cosa che ha provocato un boom dell'industria del turismo.

Ma il Paese è pronto per passare a una settimana lavorativa di quattro giorni? Ha bisogno di questo? Al momento della pubblicazione della ricerca, le opinioni dei residenti del paese sono state in qualche modo divise, a giudicare dai commenti sui social network, le persone non credono nella realtà di tali cambiamenti drastici e sperano di avere la garanzia delle ferie pagate.

Un certo numero di utenti è indignato dal fatto che in alcune aziende non possano nemmeno offrire dei fine settimana liberi ai propri dipendenti, quindi il pensiero di un periodo lavorativo di "quattro giorni" dovrebbe essere scartato per il prossimo secolo. L'altra parte del pubblico richiede almeno un congedo retribuito e ore di straordinario per tutte le fasce della popolazione.

Il rapporto presenta i risultati del sondaggio, secondo il quale il 40,1% degli intervistati ha riferito di non avere ferie annuali retribuite, 4,1% hanno diritto al congedo, ma che non può essere utilizzato, anche il 18,8% hanno delle ferie, ma il loro orario di lavoro è abbastanza flessibili, al punto che il resto non funziona, solo il 31,1% degli intervistati ha dichiarato di aver avuto delle ferie pagate e che le usano a loro discrezione.


Secondo la legislazione sul lavoro, questo è principalmente applicabile alle società e agli istituti statali, dove ogni dipendente ha diritto a ferie annuali retribuite. In tali luoghi di lavoro il dipendente acquisisce giorni di ferie in base all'esperienza lavorativa: per esempio, con 10 anni d'esperienza, il dipendente riceve una vacanza di cinque giorni, con una lunghezza da 10 a 20 anni: 10 giorni, e solo dopo 20 anni di lavoro, è possibile ottenere 15 giorni di vacanza. Certamente, in alcune società private e straniere, le ferie potrebbero essere più o meno dipendenti dalle condizioni con le quali il dipendente è d'accordo.

Inoltre, v'è anche il fine settimana di vacanza ufficiale per il nuovo anno cinese, il Giorno della Repubblica Popolare Cinese e il primo di maggio, che tutti cercano di usare per andare nelle città natali o in viaggio, che è una vera sfida per il sistema dei trasporti del Paese.

I giovani sono dell'opinione che ora la Cina è sulla strada dello sviluppo attivo e che in questa maniera si perderebbero opportunità che possono essere ottenute con la necessaria diligenza.

"È inutile introdurre un fine settimana di tre giorni, soprattutto ora, quando tutto si sta sviluppando velocemente, si sa che i cinesi lavorano duramente, e che lavorano molto anche nei fine settimana, alcuni dei miei colleghi vengono a lavorare ogni fine settimana", ha condiviso con Sputnik la sua opinione Zhang Qiang, che lavora nel dipartimento delle risorse umane di una delle più grandi banche cinesi.

Tra chi si oppone alla riduzione della settimana lavorativa ci sono anche quelli che sono impegnati nel settore dei servizi, in quanto il loro reddito è direttamente dipendente dalla quantità di ore di lavoro e dagli sforzi.

"Io lavoro per 10-12 ore al giorno, tutti i giorni, in un mese ho un massimo di tre giorni di riposo, ma sono felice di lavorare così: il lavoro è denaro, con il resto non si ottiene niente e per me tali idee come la riduzione della settimana lavorativa non significano nulla, è più importante per i "colletti bianchi"", ha detto la massaggiatrice Ma Jianmei   

venerdì 10 agosto 2018

Luce e gas: mercato libero slitta al 2020, che cosa cambierà con le tariffe?

La fine del mercato tutelato per luce e gas è slittato al 2020 e non più al 2019. Dunque ancora due anni di mercato a maggior tutela per gli italiani. E’ quanto è emerso nell’emendamento al decreto Milleproroghe numero 91/2018, approvato in Commissione Affari Istituzionali del Senato. Non sarà dunque il prossimo anno a segnare lo stop del mercato a maggior tutela per luce e gas ma il 2020. Che cosa cambierà in sostanza?

Mercato libero, ancora due anni

L’obiettivo dello slittamento, come ha fatto notare il sottosegretario allo Sviluppo economico con deleghe all’Energia, Davide Crippa, è “migliorare le condizioni per la realizzazione di un sistema competitivo che sia in grado di coniugare migliori prezzi per il consumatore con sicurezza e tranquillità delle famiglie, con contratti luce e gas chiari, trasparenti e senza condizioni vessatorie nei loro confronti”. Il fatto è che molti italiani erano ancora poco informati sul mercato libero nonostante la possibilità di trovare le offerte a seconda delle proprie necessità. In tal senso, come dichiarato da Crippa, “nel precedente termine di luglio 2019, non sussistono le necessarie garanzie di informazione per i consumatori, di mercato, di competitività e di trasparenza.”

Ancora troppe famiglie con il mercato tutelato

Nel mercato a maggior tutela le offerte per luce e gas vengono redatte ogni 3 mesi dall’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico basandosi sulle quotazioni internazionali degli idrocarburi mentre nel mercato libero, quello che sarà obbligatorio dal 2020, le tariffe saranno proposte dalle società in libera concorrenza le quali offriranno vari tipi di contratti ai consumatori un pò accade nel mercato della telefonia, in cui è l’utente a scegliere l’offerta che più si sposa con i propri consumi.
Il mercato per energie e gas è già diviso in libero e tutelato ma solo nel 2017, considerando che il processo di liberalizzazione era iniziato negli anni ‘90 con il decreto Bersani, il 60% delle famiglie erano ancora ancorate al mercato tutelato per quanto riguarda la fornitura elettrica e il 63% delle famiglie per quella del gas.
Dunque tutto rinviato al al 1° luglio 2020 e non sarebbe la prima volta visto che inizialmente si parlava del 2018 per poi essere spostato al 2019. Intanto da luglio scorso le bollette hanno iniziato nuovamente a costare di più, un rincaro che non è passato inosservato.

mercoledì 1 agosto 2018

Piantiamo alberi in città: è importantissimo. E vi spieghiamo perché

A fronte di ambienti urbani sempre più intensamente popolati e cementificati e a fronte di tutte le conseguenti problematiche che questo comporta, vi spieghiamo perché oggi è sempre più importante piantare alberi in città. E lo facciamo con l'aiuto dello studio di progettazione Architettura Etica.
> Un accurato posizionamento degli alberi nelle aree urbane può raffreddare la temperatura dell'aria dai 2°C agli 8°C;
> Alberi posizionati in maniera appropriata attorno agli edifici possono ridurre l'utilizzo del condizionatore del 30% e far risparmiare dal 20% al 50% sui costi per il riscaldamento;
> L'introduzione di spazi verdi, specialmente se dotati di alberi, aumenta il valore immobiliare almeno del 20%;
> Un albero può assorbire fino a 150kg di CO2 all'anno e i grandi alberi, all'interno delle aree urbane, sono eccellenti filtri di agenti inquinanti;
> La vegetazione incrementa la permeabilità dei terreni con la conseguente attenuazione del run-off, lo scivolamento dell'acqua su superfici impermeabili, e la diminuzione di dissesti;
> Passare del tempo nel verde migliora la salute fisica e mentale, poiché diminuisce la pressione sanguigna e lo stress;
> Gli alberi forniscono cibo agli animali e protezione alle piante, con il conseguente aumento della biodiversità;
> Gli alberi forniscono cibo anche all'uomo (frutta, bacche, noci, semi...).
Naturalmente, poi, occorre evitare di intervenire successivamente con capitozzature o potature selvagge (come purtroppo spesso succede, con grande scempio delle piante che soffrono così moltissimo) che non fanno altro che mettere a rischio la vita stessa degli alberi messi a dimora. Anche questo dovrebbe essere un punto fermo di presa di coscienza delle tante amministrazioni pubbiche che ancora in questo ambito agiscono senza criteri ragionevoli e di competenza.