mercoledì 28 febbraio 2018

Iniziate ora a prepararvi per la prossima crisi finanziaria

La politica monetaria globale è ultra-espansiva già da molti anni. E solo ora sta diventando chiaro che si è infilata da sola in una trappola del debito che essa stessa ha creato.

Continuare sull’attuale percorso di politica monetaria è inutile e sempre più pericoloso. Ma d’altra parte qualsiasi capovolgimento implicherebbe grandi rischi. Ne segue che la probabilità dell’esplosione di una nuova crisi continua a crescere.

Bisogna sperare che i preparativi che i decisori politici stanno facendo per far fronte a una simile situazione stiano evolvendo di pari passo. Limitarsi a incrociare le dita e pregare che “non potrebbe mai accadere” oggi sembra quantomeno imprudente.

Continuare con l’attuale politica monetaria porta al rischio di inflazione. E dato che gli economisti hanno poca comprensione sia del livello “potenziale” che del processo inflattivo stesso, la cosa potrebbe facilmente sfuggir loro dalle mani.

L’inflazione, ad ogni modo, non è l’unico pericolo. Per prima cosa, si è lasciato che gli indici di indebitamento crescessero costantemente per decenni, anche dopo che la crisi è iniziata. Per giunta, mentre prima della crisi questo era essenzialmente un problema delle economie avanzate, ora è diventato globale. In seconda istanza, la tolleranza al rischio minaccia la futura stabilità finanziaria, così come la diminuzione dei margini di profitto di molte istituzioni finanziarie di stampo tradizionale. In terzo luogo, questo tipo di politica monetaria incoraggia la cattiva allocazione delle risorse reali da parte delle banche e di altre istituzioni finanziarie. Se i mercati non sono in grado di allocare appropriatamente le risorse, a causa delle azioni intraprese dalle banche centrali, la probabilità che il servizio del debito non venga onorato cresce fortemente.

Purtroppo anche la normalizzazione della politica monetaria porta con sé rischi significativi. È chiaro che un’economia globale che si rafforza è preferibile ad una barcollante. Tuttavia, in una simile situazione, aumentare le pressioni inflattive probabilmente porterebbe a una stretta della politica monetaria che avrebbe effetti destabilizzanti.

Una conseguenza indesiderata delle riforme normative è stata quella di ridurre la liquidità dei mercati. Nonostante l’assenza di pressioni inflattive, gli stessi mercati finanziari potrebbero reagire disordinatamente a segnali che preannunciano una forte crescita. I rendimenti dei titoli pubblici nelle economie avanzate sono a livelli storicamente minimi, e sono maturi per una inversione. Se ora iniziano nuovamente a crescere, questo potrebbe avere implicazioni importanti per i prezzi già sovrastimati di molti altri asset.

Quale azioni dovrebbero essere intraprese prudenzialmente dalle autorità per prepararsi in anticipo a un tale esito? I governi nazionali e le banche centrali, con le organizzazioni internazionali, dovrebbero negoziare dei memorandum di intesa su chi fa cosa in caso di crisi. Le “simulazioni di guerra” sarebbero un utile complemento. E sono necessarie misure per garantire che possano essere forniti adeguati livelli di liquidità per stabilizzare i mercati e il sistema finanziario. Per come stanno le cose, ad esempio, negli USA, molti provvedimenti del Dodd-Frank Act, approvato in seguito alla crisi finanziaria, ostacolerebbero la Federal Reserve nei suoi tentativi di fornire liquidità sia al mercato interno che a quello internazionale.

La cosa forse più importante è la necessità che i governi e i forum internazionali rivedano le loro procedure per la bancarotta. Il debito che non può essere ripagato non verrà ripagato. I governi devono mettere in atto legislazioni per assicurare che questo possa avvenire nel modo più ordinato possibile. Sfortunatamente i recenti lavori dell’OCSE indicano che le procedure di bancarotta per i privati non sono affatto ottimali in molti paesi. Inoltre, nonostante grandi sforzi, non siamo riusciti a migliorare la nostra capacità legale di affrontare in modo ordinato le banche avviate al fallimento ma “troppo grandi per fallire”. Anche le procedure per la ristrutturazione del debito sovrano sono inadeguate.

È necessario prendere adesso dei provvedimenti per limitare la possibilità di caos nei mercati quando verrà la prossima crisi. Le azioni preventive che possano aiutare a risolvere il problema dell’eccesso di debito potrebbero anche ridurre il rischio che una tale crisi si presenti. La necessità di un’azione propedeutica è amplificata dalla portata limitata delle politiche macroeconomiche anticicliche con cui possiamo reagire. Queste politiche potrebbero innescare il disordine che vogliamo evitare. Molto meglio prepararsi al peggio, anche se speriamo per il meglio.

martedì 27 febbraio 2018

Ue, buco di bilancio post-Brexit: tre paesi non vogliono pagare

Il previsto ritiro del Regno Unito dall’UE il prossimo anno lascerà un buco annuale nel bilancio di Bruxelles di 10 miliardi di euro: questo il tema principale del summit previsto tra i leader europei chiamati a tracciare il bilancio 2021-2027.
Un recente sondaggio di Bloomberg sulle posizioni dei vari governi in merito rivela divisioni interne e in particolare tre Stati – Svezia, Paesi Bassi e Austria –  non sembrano disposti a pagare di più. L’assenza della Gran Bretagna dal prossimo programma pluriennale europeo di spesa si farà sentire visto che Londra è il contribuente numero due dell’Europa. La Germania, che è il più grande, e l’Italia, che è il quarto, affermano entrambi di essere disposti ad aumentare i loro pagamenti nel quadro finanziario, così Portogallo ed Estonia, entrambi beneficiari netti di fondi europei, sono disposti a dare i loro contributi, mentre Francia e Belgio sono ancora indecisi.
Il bilancio europeo di 140 miliardi di euro all’anno fornisce fondi chiave per gli agricoltori, le regioni più povere e la ricerca che va dall’energia alle tecnologie spaziali. Si tratta anche di un barometro dell’umore politico che si respira nelle capitali europee e segnala il rischio di diatribe mentre l’UE cerca di mantenere l’unità nei colloqui con Londra per la Brexit, affrontando nuove sfide in materia di sicurezza frenando le retrocessioni democratiche in paesi come la Polonia. Ieri intanto si è tenuto l’incontro tra Theresa May e i suoi ministri ma finora non è stato rilasciato alcun commento ufficiale. Sembra che sia stato raggiunto un fragile compromesso da parte dei Remainers e dei Leavers che Theresa May annuncerà mercoledì prossimo.
Come hanno reso noto sia la BBC che il Financial Times 11 membri del Comitato per la Brexit avrebbero  avallato una proposta chiamata “Canada plus plus plus” di David Davis. In base a questo piano, la Gran Bretagna cercherebbe di negoziare un accordo di libero scambio simile all’accordo UE/Canada, garantendo un migliore accesso al mercato unico per beni e servizi attraverso una stretta cooperazione normativa.

lunedì 26 febbraio 2018

La nuova rotta balcanica adesso preoccupa l’Italia

La rotta balcanica si è riaperta? Se è presto per parlare di numeri da esodo biblico come fu nel 2015, sicuramente i Balcani sono da settimane in subbuglio per un nuovo flusso che, per quanto calcolabile nell’ordine di poche migliaia di transiti di migranti, sta interessando la metà occidentale della penisola.
Un tempo il flusso partiva dalle isole egee della Grecia, proseguiva fino ad Atene e da lì seguiva una serie di tappe obbligate fino a Vienna o a Monaco di Baviera: Idomeni, al confine greco-macedone, la capitale serba Belgrado e di lì uno dei tanti posti di frontiera al confine con l’Ungheria o con la Croazia.
A partire dal marzo 2016, però, con l’accordo fra Turchia ed Unione Europea, il presidente turco Recep Erdogan ha iniziato a pattugliare seriamente i confini della Mezzaluna e, dietro la promessa di 6 miliardi di euro, è riuscito a bloccare le partenze. La vecchia rotta balcanica si è asciugata come un fiume in secca ma recentemente i migranti hanno ripreso a marciare verso l’Europa. Per altre vie.
Lo scorso 21 febbraio il ministro bosniaco per la Sicurezza, Dragan Mektic, ha riferito al parlamento di Sarajevo che in Erzegovina gli ingressi clandestini sono aumentati anche del 700%. Dal primo gennaio gli attraversamenti illegali del confine registrati dalle autorità bosniache sono oltre 400: più della metà del totale conteggiato nell’intero 2017. Il governo di Sarajevo, che tra l’altro ha annunciato di non avere abbastanza uomini nell’organico della polizia di frontiera, esprime preoccupazione per la mancanza di controlli ai confini fra gli Stati dei Balcani sud-occidentali, soprattutto alla frontiera fra Albania e Montenegro.
Di qui il flusso prosegue attraverso la Bosnia, dove si dirige verso la località di Velika Kladusa, al confine con la Croazia, e poi verso il fiume Kupa, che segna la frontiera fra il territorio croato e la Slovenia. La stampa croata racconta di un flusso che, nonostante le condizioni proibitive in cui i migranti tentano il guado dei fiumi anche a rischio della vita, cresce lentamente ma costantemente.

La rotta che punta all’Italia

La maggior parte di questi viaggiatori proviene o dal Nordafrica o dal Medio Oriente e dall’Asia centrale, con una consistenza minoranza di profughi che parte dalle regioni più povere della penisola balcanica come il Kossovo e l’Albania.
C’è però anche una diramazione di questa rotta, che abbandona la penisola balcanica già nella Grecia settentrionale e che punta dritta verso l’Italia. Da mesi ormai il porto di Patrasso è teatro di continui scontri fra la polizia e i migranti che cercano con ogni mezzo di salire a bordo dei traghetti e dei cargo diretti a Brindisi e negli altri scali pugliesi. Secondo le organizzazioni umanitarie presenti nella città ellenica, il numero di persone accampate nei sobborghi della città è raddoppiato  rispetto a gennaio 2017 e fra i campi profughi di fortuna sorti fra le fabbriche abbandonate e gli edifici in costruzione si è diffusa un’epidemia di scabbia che per i medici volontari in servizio nell’area è “impossibile da debellare”.
Parallelamente, continua indisturbato anche il traffico di piccoli natanti da diporto che, partendo dalle coste di Grecia e Turchia, punta verso le coste del Salento.

venerdì 23 febbraio 2018

La bufala via WhatsApp sulle bollette della luce, il Codacons: state attenti

Il Codacons lancia l’allarme sul caos scoppiato per la questione delle morosità sulle bollette elettriche addebitate a tutti gli utenti, con tanto di pericolosissime bufale che circolano in queste ore sul web e attraverso catene inviate tramite WhatsApp.

«Sui social network e attraverso testi inviati da cellulare messaggi che annunciano un addebito da 35 euro sulla bolletta della luce di aprile, finalizzato a coprire i debiti degli utenti morosi, quelli cioè che non hanno pagato la propria bolletta elettrica - denuncia il Codacons - Un messaggio pericolosissimo perché invita anche a non pagare la bolletta in attesa di una non meglio specificata sentenza del Tar, e a decurtare questi 35 euro dal bollettino postale. Si tratta di una bufala a tutti gli effetti, che solo in parte si fonda su un aspetto reale».

La deliberazione dell’Autorità per l’energia, spiegano i consumatori, si prefigge infatti l’obiettivo di spalmare sugli utenti finali le morosità, ma solo relativamente agli oneri di sistema non pagati dagli operatori ai distributori dell’energia.

Un principio per il Codacons palesemente ingiusto perché, al di là degli importi e dell’entità dei ricarichi in bolletta, spalma sui consumatori onesti parte dei debiti accumulati sulle bollette elettriche. Proprio in tal senso il Codacons sta preparando un ricorso al Tar della Lombardia, dove si impugnerà la delibera dell’Autorità per l’energia chiedendone l’annullamento nella parte in cui addebita all’intera collettività gli oneri di sistema non pagati.

Anche Altroconsumo, citato nei messaggi come fonte, prende le distanze: «Continua a generare il panico tra i consumatori. Parliamo della notizia che mette in allerta i clienti in regola con le bollette dell’energia: presto dovranno farsi carico anche delle fatture non pagate dagli altri utenti morosi. Per alimentare la polemica, su WhatsApp sta circolando un messaggio che cita Altroconsumo per dare stime e consigli sbagliati: si tratta di una bufala»

giovedì 22 febbraio 2018

Il modello tedesco che ci impone l’Europa è disoccupazione e precarietà

La crisi attuale ci viene spesso spiegata come l’inevitabile esito della nostra incapacità di adottare un modello di sviluppo moderno e vincente: il modello tedesco. L’Europa viene rappresentata come divisa tra un “centro” dinamico e vitale, capitanato dalla Germania, che costituisce la locomotiva della crescita e l’avanguardia dello sviluppo economico, ed una “periferia” inefficiente e improduttiva. Ma cosa c’è dietro questa visione così aspramente dicotomica della geografia europea?
In breve, i Paesi del centro europeo – Germania in primis – sarebbero più efficienti e produttivi dei Paesi periferici – tra cui l’Italia – in quanto riuscirebbero meglio, dati alla mano, a vendere i loro prodotti sui mercati esteri. Tuttavia, analizzando le ragioni della leadership tedesca ci si accorge immediatamente che i beni realizzati in Italia sono diventati dal 1999 ad oggi più cari del 20% rispetto alle merci tedesche della stessa identica qualità: in altre parole, il segreto del modello tedesco risiede soprattutto nella capacità di produrre le stesse merci a costi minori. Risultato: i Paesi centrali hanno sono cresciuti grazie alla domanda estera, mentre l’area periferica ha progressivamente perso pezzi pregiati della propria industria – con risultati drammatici sull’occupazione.
La Commissione Europea vede nel costo dal lavoro il principale criterio per valutare l’efficienza di sui mercati esteri: più si contiene il livello dei salari, voce principale che concorre alla determinazione del prezzo di un bene, più si risulta competitivi e virtuosi. Questa corsa al ribasso scaturisce direttamente dai meccanismi economici operanti nel particolare assetto istituzionale dell’unione monetaria, laddove i Paesi della periferia europea sono costretti a recuperare la competitività esterna ricorrendo al contenimento salariale perché non hanno più la possibilità di svalutare la propria moneta rispetto al marco tedesco. Se in passato potevamo agire sul tasso di cambio tra lira e marco per difendere la competitività delle nostre merci, dal 1999 con l’Euro abbiamo di fatto accettato la stessa moneta dei tedeschi, cosicché tutta la pressione competitiva dei mercati internazionali finisce per scaricarsi unicamente sulle spalle dei lavoratori. Viceversa, qualora il Paese meno competitivo fosse munito dello strumento della sovranità monetaria, un aggiustamento del tasso di cambio sarebbe da considerarsi un normale meccanismo di riallineamento della competitività che, evitando il contenimento dei salari, preserverebbe il potere di acquisto dei lavoratori, il cosiddetto salario reale.
È chiaro che nel contesto europeo questo strumento di correzione non può operare, e pertanto eventuali squilibri commerciali possono essere corretti solo tramite la svalutazione del lavoro. Esiste tuttavia un limite minimo al di sotto del quale le retribuzioni non possono scendere: si tratta di quella soglia di salario socialmente accettabile che consente di garantire la sopravvivenza fisica e morale del lavoratore. La disoccupazione di massa e la precarizzazione del lavoro che oggi colpiscono l’intera periferia europea si devono proprio a questo: non tutti i lavoratori riescono a trovare un impiego in corrispondenza di quel ‘salario di sussistenza’. Per ovviare a queste criticità, le autorità di politica economica europee continuano ostinatamente a proporre la ricetta delle riforme strutturali: in questo direzione vanno le politiche di austerity ed il Jobs Act, un provvedimento che, sulle orme della rimozione dell’articolo 18, favorisce il precariato e riduce le tutele dei lavoratori, contribuendo in ultima istanza ad abbassare quella soglia minima salariare sotto la quale un individuo si vede costretto ad abbandonare il mercato del lavoro. Così, in un sistema caratterizzato dalla libertà di movimento dei capitali quale l’Unione Europea, i vari governi di centrosinistra e centrodestra alternatisi negli ultimi trent’anni hanno pensato bene di attrarre investimenti esteri promuovendo l’Italia come un paese in cui gli ingegneri costano meno che altrove: in una recente brochure, Invest in Italy, si ammette candidamente che l’Italia offre una forza lavoro altamente qualificata ad un prezzo competitivo – cioè ad un salario che cresce meno che nel resto d’Europa.
Un ulteriore quesito da porsi è come si sia potuti giungere, nel contesto europeo, ad una tale situazione di squilibrio centro-periferia. A riguardo, due sono le considerazioni da avanzare. La prima è che nel 1999, data di introduzione dell’Euro, la Germania presentava addirittura un deficit commerciale: senza l’euro, era tra i Paesi meno competitivi. La seconda considerazione è che i tedeschi stanno registrando surplus commerciali perché dal 2003 hanno intrapreso una vigorosa svalutazione salariale (riforme Hartz, agenda Schröder 2010) nonché un imponente processo di delocalizzazione di una parte consistente delle loro produzioni in Polonia ed Ucraina. Vige attualmente in Germania un mercato del lavoro fortemente duale, in cui le grandi imprese che operano sui mercati esteri, quelle che rendono la Germania competitiva, assumono lavoratori qualificati garantendo un equo salario, mentre il resto dell’economia, specialmente nel settore dei servizi, è caratterizzato da contratti di lavoro precari con salari estremamente bassi (mini-job, addirittura pagati un euro l’ora). In altre parole, i tedeschi sono riusciti a diventare competitivi perché hanno svalutato a dovere il lavoro e, malgrado l’inevitabile stagnazione della domanda interna dovuta all’impoverimento della classe lavoratrice – giacché minori salari tedeschi hanno portato minori consumi interni – sono riusciti comunque a promuovere crescita e occupazione esportando all’estero quelle merci che gli stessi tedeschi non potevano più acquistare. È questo il modello economico trainato dalla domanda estera, tutto fondato sul contenimento dell’inflazione – cioè dei salari. Ma il successo del cosiddetto ‘modello tedesco’ si deve anche a quello che succedeva, contemporaneamente, nei Paesi della periferia europea, Italia inclusa: politiche di austerità, rinuncia ad una politica industriale, riduzione del potere contrattuale dei lavoratori hanno prodotto simultaneamente crescita delle disuguaglianze, disoccupazione, stagnazione economica e impoverimento tecnologico senza tuttavia conseguire il medesimo grado di raffreddamento dell’inflazione prodotto in Germania. Il modello di sviluppo affermato in Europa non è altro che una corsa al ribasso su salari e diritti che ha indebolito tutti i lavoratori europei, dai tedeschi ai greci, ma che premia solo i primi arrivati, quei Paesi centrali che hanno anticipato le riforme di precarizzazione del lavoro senza mai abbandonare una rigorosa politica industriale. Insomma, perché vi sia una locomotiva tedesca devono esserci dei semplici vagoni merci privi di qualsiasi autonomia e capaci solo di assorbire passivamente il surplus commerciale dei Paesi centrali. Un centro solido richiede necessariamente una periferia debole: non può aversi un modello tedesco per tutti i Paesi europei, perché quel modello richiede che il centro scarichi sulla periferia le sue merci.
Si intravede a questo punto come, più che una partita tra la Germania e la periferia, l’attuale situazione europea si configuri chiaramente come un conflitto di classe: il contesto dell’Unione Europea e della moneta unica rappresenta l’arma che i capitalisti usano contro i lavoratori del Vecchio Continente per ottenere una porzione maggiore del prodotto sociale sotto i colpi della competizione internazionale. La spartizione di questo bottino, sottratto ai lavoratori europei, avviene poi secondo la regola del più forte, animando un conflitto tutto interno alla classe capitalista in cui i Paesi centrali stanno schiacciando le borghesie dei Paesi periferici. D’altro canto non ci sorprende, dato che il modello economico europeo è ispirato da principi ultraliberisti, per cui oltre alla sovranità politica si è scelto di rinunciare anche alla sovranità monetaria, perdendo così un ulteriore strumento di controllo dell’economia.
La libera concorrenza tra sistemi nazionali eterogenei ha prodotto, in un sistema di cambi fissi quale l’Eurozona, una corsa al ribasso sui salari sospinta dalla competizione internazionale che ha radicalmente spostato i rapporti di forza in favore dei capitalisti e a scapito dei lavoratori. Anche in vista della prossima scadenza elettorale, appare quindi sempre più urgente convogliare le forze nella direzione di un superamento dell’attuale assetto istituzionale europeo, verso la rottura di un sistema capace solo di generare povertà e disoccupazione attraverso i meccanismi della moneta unica e le regole dell’Unione Europea.

mercoledì 21 febbraio 2018

Malcolm X e i diritti dei neri negli Usa

Il suo nome inizia ad andare sulla bocca di tutti nel 1957. Johnson Hinton, un membro della Nazione Islamica, quel movimento afroamericano creato nel 1930 con l’obiettivo, forse un po’ estremista, di creare negli Stati Uniti una nazione nera filo-islamica, è picchiato – riceve diversi colpi alla testa – e arrestato dalla polizia di New York. Per sua fortuna, però, un uomo riesce a radunare centinaia di persone davanti alla stazione dei poliziotti, chiedendo di vederlo e averlo in custodia. Ci riesce, e lo trasporta in ospedale salvandogli la vita.
L’uomo di cui parliamo è conosciuto all’anagrafe come Malcolm Little, ma tutti lo conoscono come Malcolm X, uno degli esponenti più importanti del movimento dei diritti civili dei neri e che, dopo una lunga serie di battaglie, sarà ucciso con 21 colpi di pistola in un hotel di New York, durante un suo ennesimo comizio. È il 21 febbraio 1965, 53 anni fa. La sua figura, però, che molti opponevano a un altro leader dell’epoca, Martin Luther King, fa riflettere e discutere ancora oggi.
Little – che a proposito del suo nome dirà: “mio padre non conosceva il suo vero cognome. Lo ricevette da suo nonno che a sua volta lo ricevette da suo nonno che era uno schiavo e che ricevette il cognome dal suo padrone” – nasce nel 1925 nello stato del Nebraska e ha un’infanzia molto complicata. Perde il padre a soli sei anni, mentre la madre viene ricoverata poco tempo dopo in una clinica psichiatrica. Giovanissimo, è il 1946, Malcolm X è arrestato per alcuni furti in appartamento e condannato a otto anni di reclusione.
Nel carcere di Charlestown, vicino Boston, fa un incontro fondamentale per la sua vita. Conosce la Nazione Islamica e, dopo essersi avvicinato al gruppo e convertito alla loro versione dell’Islam – era una setta islamica militante -, trascorre la maggior parte del tempo in prigione leggendo libri e studiando. Quando esce, è il 1952, diventa un membro importante dell’organizzazione e uno dei suoi leader religiosi. Comincia anche il suo impegno militante per i diritti civili, e decide di cambiare cognome.
Dopo l’episodio del 1957, Malcolm X inizia davvero a farsi conoscere in modo esponenziale. È invitato molte volte in radio e in televisione, le sue dichiarazioni occupano spessissimo le prime pagine dei giornali, e il suo attivismo si fa sempre più intenso, anche per via dei suoi insegnamenti. È convinto, infatti, – così come la Nazione Islamica – che all’epoca, ci fosse la supremazia dei neri sui bianchi, e l’idea che tutti i bianchi fossero intrinsecamente malvagi, o comunque colpevoli dell’oppressione dei neri. In uno dei suoi più famosi discorsi, Malcolm X dichiara che i neri degli Stati Uniti dovevano lottare per i loro diritti “con tutti i mezzi necessari”.
Queste sue convinzioni lo portano in molteplici circostanze, ad avere posizioni opposte a quelle di Martin Luther King. Egli lo definisce uno “strumento” della repressione dei bianchi. Critica a più riprese le sue teorie sulla non-violenza, sostenendo che facevano il gioco dell’oppressore e insegnavano ai neri a non reagire. È anche contrario alla famosissima marcia su Washington del 1963, una delle più grandi manifestazioni per i diritti civili nella storia degli Stati Uniti, da lui definita la “farsa su Washington”. E nello stesso anno, ma a novembre, commentando l’assassinio del presidente John F. Kennedy, non esita ad affermare che fosse felice dell’accaduto e che la violenza che i Kennedy non erano riusciti a fermare gli si era “ritorta contro”.
L’anno successivo, il 1964, è un anno cruciale per la sua vita. Interrompe i suoi rapporti con la Nazione Islamica, perché perde fiducia nel suo leader Elijah Muhammad. Forti erano infatti i dissapori tra i due. Inizia ad effettuare numerosi viaggi in giro per il mondo, toccando anche La Mecca, dove vede pregare insieme musulmani dalla pelle scura e chiara, biondi o con i capelli neri. In questa circostanza si convince di nuovi modi per risolvere il problema dei diritti dei neri negli Stati Uniti e comincia a non considerare più i bianchi come nemici.
Quello di Malcolm X è perciò un cambiamento radicale, tanto che in un famosissimo discorso, dirà: “I diritti umani sono qualcosa che avete dalla nascita. I diritti umani vi sono dati da Dio. I diritti umani sono quelli che tutte le nazioni della Terra riconoscono. In passato, è vero, ho condannato in modo generale tutti i bianchi. Non sarò mai più colpevole di questo errore; perché adesso so che alcuni bianchi sono davvero sinceri, che alcuni sono davvero capaci di essere fraterni con un nero. Il vero Islam mi ha mostrato che una condanna di tutti i bianchi è tanto sbagliata quanto la condanna di tutti i neri da parte dei bianchi. Da quando alla Mecca ho trovato la verità, ho accolto fra i miei più cari amici uomini di tutti i tipi – cristiani, ebrei, buddhisti, indù, agnostici, e persino atei! Ho amici che si chiamano capitalisti, socialisti, e comunisti! Alcuni sono moderati, conservatori, estremisti – alcuni sono addirittura degli ‘Zio Tom’! Oggi i miei amici sono neri, marroni, rossi, gialli e bianchi!”.
Negli Stati Uniti torna nel febbraio 1965, ed è un ritorno drammatico. Il 14 febbraio riesce a sopravvivere a un attentato dinamitardo, ma esattamente sette giorni dopo, è assassinato da alcuni membri della Nazione Islamica.
Non ha aveva ancora compiuto 40 anni. Ma ancora oggi i neri d’America si interrogano sulla sua eredità…

martedì 20 febbraio 2018

IL GRANDE FRATELLO DEL DEBITO

A chi transita in questi giorni nelle principali stazioni ferroviarie, non sarà sfuggita la trovata pubblicitaria del Centro Studi Bruno Leoni, think tank iper-liberista: il debitometro, che calcola in tempo reale l’aumento del debito pubblico italiano. Come un’enorme Grande Fratello, tra la marca di un profumo e la proposta di un viaggio esotico, il debitometro compare per ricordare a tutti la trappola dentro la quale va rinchiuso ogni desiderio di una vita più dignitosa.
La trovata è interessante perché esprime appieno le contraddizioni del capitalismo, che, dopo neppure tre decenni dalla “fine della storia”, non può più proporsi come un orizzonte generalizzato di benessere e, su questo, costruire un altrettanto generalizzato consenso; al contrario, può giocare la propria sopravvivenza solo sull’espropriazione feroce dei diritti delle persone, dei beni comuni e della democrazia.
È così che, sui grandi schermi delle stazioni, il messaggio che viene presentato passa, nell’arco di pochi secondi, dall’immagine etico-morale dell’”uomo colpevole del debito”, perché non lavoriamo abbastanza, andiamo in pensione troppo presto, sperperiamo e viviamo costantemente al di sopra delle nostre possibilità; a quella dell’”uomo innocente e spensierato del consumo” che merita di possedere ciascuna delle merci paradisiache che sfilano sullo schermo.
Ma se si guarda con ancora più attenzione, si scopre come l’insieme del messaggio non sia rivolto ad un generico pubblico, bensì a due categorie sociali nettamente distinte: i ricchi e i poveri. Già, perché i prodotti pubblicizzati ossessivamente riguardano l’economia del lusso, ovvero quella parte di società che, non solo non ha risentito della crisi, ma vi ha trovato persino nuove fonti di arricchimento; mentre il debitometro incombe per bloccare qualunque desiderio di chi appartiene a fasce sociali diverse, sia esso un anelito individuale a voler entrare a far parte dell’elite, sia essa una rivendicazione collettiva verso una trasformazione della società.
Nel frattempo, il debito pubblico a fine 2017 è arrivato a 2.256,1 miliardi, con un aumento di 36,6 miliardi rispetto all’anno precedente e di 119 miliardi dopo tre anni di governi austeritari, che della riduzione del debito pubblico avevano fatto il proprio ‘mantra’. Uno scenario perfetto per proporre, con il beneplacito del Centro Studi Bruno Leoni, una novità mai sperimentata nel nostro Paese: le privatizzazioni, ovvero una nuova stagione in cui si proceda, attraverso il transito in Cassa Depositi e Prestiti, a consegnare al mercato beni immobili e servizi pubblici locali.
È per questo che la stretta al collo dei Comuni non conosce sosta, e, nonostante il contributo degli stessi al debito pubblico nazionale non superi l’1,8 per cento (in diminuzione), si trovano a vedersi scaricare la gran parte delle misure prese a giustificazione dello stesso. Varrà la pena, a questo proposito, ricordare come, pur avendo, nel periodo 2010-2016, aumentato le imposte locali di 7,8 miliardi, i Comuni dispongano oggi di risorse complessive inferiori di 5,6 miliardi rispetto a quelle che detenevano nel 2010.
Da qualunque parte la si prenda, quella del debito pubblico è la gabbia perfetta per l’approfondimento delle politiche liberiste e di austerità; non a caso, nell’imminenza di un appuntamento elettorale che dovrebbe vedere le forze politiche cimentarsi su questo tema, le stesse paiono quasi tutte impegnate nel medesimo gioco di prestigio: far credere che siano realizzabili tutte le promesse messe in campo senza mettere in discussione l’attuale dinamica sul debito imposta dai vincoli europei da Maastricht al Fiscal Compact, passando per il Patto di stabilità e il Pareggio di bilancio.

lunedì 19 febbraio 2018

Berlusconi: "Il fascismo? Morto e sepolto

"Il fascismo è morto e sepolto. Il caso di Macerata è stato il gesto di un singolo fuori di testa che ha agito per conto suo. Mentre invece c'è questo movimento dell'antifascismo che a Piacenza ha picchiato un esponente delle forze dell'ordine: è un movimento pericoloso che viene dai centri sociali ed ha un programma di iniziative inaccettabile". Così Silvio Berlusconi ospite ieri sera di Fabio Fazio a 'Che Tempo che fa' su Rai 1.
"Fascismo e nazismo - ha poi aggiunto Berlusconi - sono nati come movimenti socialisti. Per arrivare ad essere quello che sono stati c’è stato bisogno di un Mussolini o un Hitler. Senza un Mussolini o un Hitler in giro non succede niente".

venerdì 16 febbraio 2018

Il terrorismo psicologico sul debito pubblico

Da qualche giorno nelle principali stazioni di Roma e Milano aleggia un contatore dell’Istituto Bruno Leoni che ci ricorda a quanto ammonta il debito pubblico italiano e ci invita a pensare, dato che quel debito lo pagheremo anche noi. Sul loro sito vanno più a fondo: “Tante promesse, ma una sola certezza: il debito. Più di 2mila miliardi di euro. Quasi 40mila euro sulle spalle di ogni italiano, bebè compresi. Eppure, in questa campagna elettorale, la politica promette, promette, promette. Ricorda, ogni promessa è debito. Ogni promessa fa debito.” Avete capito? Ogni Italiano ha un debito di 40mila euro, bebè compresi! Occhio quindi a procreare, che non fareste altro che mettere al mondo persone indebitate!
Sapete perché, se un comune cittadino inizia a stampare banconote nel suo garage, va in galera con l’accusa di essere un falsario? E perché se raccoglie tasse nel suo quartiere viene denunciato per associazione a delinquere? Risposta banale, ma vedendo questi contatori nelle stazioni per nulla scontata, purtroppo. Perché è un semplice cittadino, e non uno stato. Questo, in quanto tale, ha il potere di battere moneta, di raccogliere le tasse e di esercitare la forza. Il cittadino no. Quando si parla di debito pubblico, l’errore più grave e infantile che si possa fare è proprio quello di considerare lo stato come una famiglia: ossia confondere il settore privato con quello pubblico.
Surreale come cosa, dato che dopo ormai dieci anni dallo scoppio della crisi si sta ancora blaterando del problema del debito pubblico, quando questa è scoppiata a causa del debito privato e anche la Commissione Europea ha recentemente ribadito che il debito pubblico italiano è sostenibile. Stiamo curando una malattia che non c’è, cercando di raggiungere valori scelti arbitrariamente a tavolino senza nessun filo logico. D’altra parte però, il debito privato continua ancora a trainare la crescita di molti paesi, foraggiando un modello di sviluppo malato dove il debito privato costituisce un vero e proprio doping per sopperire alle carenze teoriche e pratiche dei sistemi liberisti.
L’amministrazione Obama ha risollevato gli USA dalla crisi con un enorme aumento del debito; Trump finanzierà la detassazione delle imprese col deficit. Inoltre pochi giorni fa ha svelato il piano per le infrastrutture, consistente in 200 miliardi di fondi federali che andrebbero a stimolare almeno 1500 miliardi di investimenti nei prossimi dieci anni. Il deficit pubblico degli Stati Uniti del prossimo anno dovrebbe superare i 1.000 miliardi di dollari, più del doppio di quello previsto. Quanti hanno il coraggio di dire che gli Stati Uniti rischiano il fallimento? Nessuno, perché un paese che ha una banca centrale semplicemente non può fallire. Mai.
Sebbene in campagna elettorale siamo abituati a sentirne di tutti i colori, c’è un limite a tutto. Minacciare le persone comuni affermando che hanno quarantamila euro di debito pubblico sulle spalle è semplicemente terrorismo psicologico. Ad ogni debito corrisponde un credito: se lo stato ha debito pubblico, i cittadini hanno un credito privato. L’economia si fa almeno in due. I liberali non hanno perso occasione per ricordarci quanto la loro teoria economica sia semplicemente e oggettivamente infondata.

giovedì 15 febbraio 2018

QUANTO CONSUMA LO STANDBY

Una lucetta rossa che paghiamo molto cara. Talvolta inconsapevolmente, per pura ignoranza, in altri casi per banale disattenzione. In ogni caso il costo dello spreco dello stand-by è davvero gigantesco. Sessanta miliardi di euro l’anno nel mondo, circa 80 euro per ogni famiglia italiana, 1 miliardo di litri di acqua che servono per produrre l’elettricità sprecata. Tutto per nulla. Ma andiamo con ordine. Vediamo che cosa è esattamente lo stand-by e come funziona. Quali sono i suoi costi. E quali i semplicissimi rimedi.

CONSUMI ENERGETICI ELETTRODOMESTICI IN STANDBY

I conti più attendibili, fatti sulla base di misurazioni e controlli sul campo, dicono che questa distrazione, questa totale indifferenza nei confronti dello spreco, nelle case degli italiani che sono al mare o in montagna, soltanto per il mese di agosto costa 15 euro. Un vero record su base annuale, a conferma del fatto che diventiamo più spreconi proprio quando alcuni consumi elettrici, pensate all’uso del computer o alla tv, dovrebbero diminuire per effetto del tempo trascorso fuori casa e lontani dagli uffici. Il puntino rosso, apparentemente innocuo, in realtà comporta ancora consumi che poi paghiamo nelle bollette.
Lo standby è uno spreco molto diffuso nel mondo: nell’intero pianeta vale 60 miliardi di euro, nelle nostre bollette può significare un aggravio pari al 7-9 per cento del costo complessivo, con una cifra pro-capite di circa 500 euro totali. Inoltre, l’energia così sprecata è anche un danno ambientale considerando le emissioni di CO2 che si potrebbero invece evitare.

COME RIDURRE I CONSUMI CAUSATI DALLO STANDBY

Secondo il gruppo di ricerca eErg del Politecnico di Milano lasciare la cucina accesa comparta giornalmente questi consumi: frigorifero 480 Wh, stereo 197 Wh, computer e stampante 175 Wh, router per connettersi a Internet 108 Wh, DVD 94Wh. Allora perché facciamo questo clamoroso errore? Per tre motivi. Ignoranza: molte persone non sanno che lo standby non comporta la fine del consumo di elettricità, ma semplicemente la sua riduzione. Cattive abitudini: è esattamente come quando lasciamo le luci accese in casa prima di uscire. Uno stile di vita oggi molto meno difendibile che in passato. Infine, il terzo motivo è che le industrie produttrici di apparecchi elettrici ed elettronici non si sono ancora del tutto adeguate alla normativa dell’Unione europea che tende a ridurre questo tipo di spreco energetico. Con il risultato che il 35 per cento degli apparecchi venduti non ha l’eliminazione automatica dello standby prevista dalla legge. Ma in ogni caso, anche se non volete cambiare frigorifero o computer, potete fare una cosa molto semplice: acquistate una ciabatta e caricate qui la spina di più apparecchi. Basterà così schiacciare un solo tasto e saranno tutti spenti, senza standby, contemporaneamente. Un bel risparmio, vedrete, sulla bolletta energetica domestica.

mercoledì 14 febbraio 2018

Gli Stati Uniti incrementano di 191 milioni di dollari il fondo per le guerre in Iraq, Siria e Afghanistan

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha pubblicato ieri il suo secondo piano di bilancio in cui ha considerato un aumento di 191 milioni di dollari per l'anno fiscale 2019, che sarà utilizzato per operazioni militari in Iraq, Siria e Afghanistan.


"Il bilancio richiede anche 12 miliardi di dollari per finanziare i costi eccezionali delle operazioni di emergenza all'estero, principalmente nelle aree di guerra, come la Siria, l'Iraq e l'Afghanistan (...), che rappresenta un aumento di 191 milioni rispetto a il bilancio del 2018", si precisa nel testo.

Di fatto, l'iniziativa include 716 miliardi di dollari per la spesa per i programmi militari, 23 milioni di dollari per la sicurezza delle frontiere e 200 miliardi di dollari per la spesa infrastrutturale negli Stati Uniti.

Di questi dati, 18.000 miliardi di dollari saranno investiti nel controverso muro di confine tra il Messico e gli Stati Uniti e nei centri di detenzione per immigrati.

In particolare, la proposta inquilino della Casa Bianca stanzia 24 miliardi di dollari per modernizzare e sostenere la triade nucleare degli Stati Uniti.

Il Congresso degli Stati Uniti esaminerà il piano di $ 4,4 miliardi di dollari, ma si prevede che apporterà modifiche considerevoli al documento di 160 pagine. È probabile che venga criticato dai conservatori per aver previsto una spesa in deficit, anche se prevede di ridurre il deficit del bilancio federale di 3 trilioni in 10 anni riducendo le spese non militari.

I repubblicani sostengono che il piano corre il rischio di aumentare il già profondo deficit della nazione. I democratici, a loro volta, si rammaricano del fatto che l'iniziativa non offra alcuna garanzia ai figli degli immigrati privi di documenti negli Stati Uniti.
 

martedì 13 febbraio 2018

Tulipani a colazione

È nei campi di calcio, in oratorio o in strada, che i bambini italiani conoscono per la prima volta l’iniquità e l’ingiustizia. Ricordate quando l’arbitro era il migliore amico del portiere avversario e non vi fischiava mai un fallo a favore? Sbucciature, sangue, lacrime: nulla bastava, per lui era sempre tutto regolare. Crescendo poi ci si imbatte in nuove forme di ingiustizia, come quella a cui stiamo assistendo in questi giorni sul caso Ema. Nelle nostre menti è ancora fresco il ricordo del sorteggione fantozziano con cui Amsterdam ha visto affidarsi la sede centrale dell’Agenzia Europea del Farmaco ai danni di Milano. Possiamo facilmente immaginarli, i rappresentanti olandesi che svengono dall’incredulità per aver ottenuto una vittoria inaspettata, un po’ come l’ingegner Ugo nell’udire di essere stato scelto per accompagnare il Duca Conte Semenzara al casinò del Principato. Tuttavia Milano, imbestialita per le modalità con cui è stata assunta la decisione, ha deciso di fare ricorso. “Ben fatto!”, direte voi. Peccato si sia messo in mezzo lo zampino della Corte Europea, che ha affidato il ricorso (guarda caso) ad un giudice olandese. Che è un po’ come chiedere ai parenti di un ergastolano di decidere delle sue sorti in sede d’appello. O come chiedere ad un giudice israeliano di giudicare un ribelle palestinese (no aspettate, questo già accade).
Bisogna però placare i nostri bollenti spiriti da uomini e donne “latini”. Bisogna reprimere i nostri istinti, le nostre ire da uomini primitivi. Insomma, dobbiamo fare come i tedeschi, gli svedesi, i norvegesi e, perché no, anche gli olandesi: popoli saggi, dove prevale la ragione. Per essere parte integrante dell’Unione Europea dobbiamo migliorare. Per condividere i valori di civiltà degli Stati del Nord dobbiamo riconoscere le nostre bassezze, comprenderle, superarle. Rinunciamo dunque alla litigiosità, all’ottusità, al conflitto. Peace & Love, diceva qualcun’altro. Bisogna dare un esempio in questo senso, e bisogna farlo al più presto. Solo così potremo farci perdonare dai nostri virtuosissimi amici nordici per la nostra inadeguatezza. È quindi il caso di iniziare fin d’ora, non polemizzando sulla decisione della Corte Europea.
C’è una vocina che vi dice che tutto ciò è profondamente ingiusto? Sbaglia. Vi sale un moto d’orgoglio patriottico? Reprimetelo. Vi sentite presi in giro? Sono le vostre manie di persecuzione, tipiche del popolo italiano. Accettate di buon grado ciò che l’Europa decide, perché ciò che l’Europa decide è solo per il vostro bene, un bene che voi, esseri primitivi e (diciamolo) un po’ bifolchi, non potrete mai capire. Se va tutto bene, da qui a dieci anni mangerete tulipani a colazione.

lunedì 12 febbraio 2018

La crisi delle banche è finita?

Sbilanciamo le elezioni/Il sistema bancario ha bisogno di smaltire i crediti deteriorati il più rapidamente possibile e deve essere compito dei pubblici poteri aiutare in tutti i modi possibili tale processo. Con le necessarie contropartite
Come è noto, la crisi dei mutui subprime ha visto il sistema bancario come un protagonista fondamentale del gioco. Dopo lo scoppio delle difficoltà, nonostante le promesse fatte a suo tempo dal mondo politico al di qua e al di la dell’Atlantico, le riforme del sistema sono state complessivamente insufficienti e ora, almeno negli Stati Uniti, assistiamo alla volontà di Trump di cancellare gran parte di quello che era stato comunque fatto nel paese.
Alcuni studiosi e persone di buona volontà a questo punto rincarano la dose per quanto riguarda le ipotesi di riforma del sistema e propongono una ristrutturazione radicale dello stesso. Intanto avanza rapidamente e parallelamente l’innovazione tecnologica, che sta di fatto rivoluzionando il settore finanziario come quello dei veicoli, della grande distribuzione e così via.
In tutto questo turbinio, il caso italiano appare possedere delle caratteristiche molto specifiche.
Dopo che la crisi del 2008 aveva, tra l’altro, fatto rilevare la pessima situazione del sistema bancario di molti paesi, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, dalla Spagna alla Germania, le nostre classi dirigenti, sostanzialmente compatte, avevano ripetuto a lungo che il nostro sistema finanziario era invece sano e non aveva problemi. Poi, col procedere delle difficoltà nel tempo, ma anche con l’arrivo della vigilanza della Bce al posto di quella più benevola della Banca d’Italia, almeno per quanto riguardava le grandi strutture, la musica è cominciata a cambiare e, di nuovo unanimemente, l’establishment ha cominciato a dirci che la colpa era tutta della crisi. Ma lo scoppio di molti scandali, dal nord al sud del paese, ha mostrato come, accanto indubbiamente al problema relativo al fatto che molte imprese erano andate in difficoltà e che, ad esempio, almeno il 20% del nostro sistema industriale è stato spazzato via in poco tempo dalla crisi, sono venuti fuori prepotentemente, oltre all’inaffidabilità della nostra classe dirigente, anche alcuni mali storici del nostro sistema bancario, ben precedenti la crisi. Si tratta, da una parte, della sua scarsa efficienza e capacità gestionale, dall’altra della presenza di una corruzione diffusa e di rapporti di tipo clientelare/familiare presenti tra i vari attori del gioco; infine un sistema di supervisione che presenta molti problemi.
Tali mali sono in effetti endemici al nostro sistema, ma nel periodo delle vacche grasse i pessimi risultati economici risultanti da tali condotte erano per la gran parte annegati nelle pieghe dei bilanci.
L’analisi in particolare di un caso, quello del Monte dei Paschi di Siena, il più noto di tutti ed anche il più rilevante come dimensione tra quelli di cui si è discusso, ha messo in rilievo un altro grande problema del nostro paese, quello dell’esistenza di un livello di complicità diffusa e pervasiva sostanzialmente tra tutti i molti protagonisti della scena.
Nel caso citato nessuno ha visto e sentito niente di quello che stava succedendo, pur in presenza di eventi eclatanti. Gli amministratori e il management tutto, il collegio sindacale, gli azionisti, a partire dalla Fondazione che possedeva il pacchetto di controllo della banca, il Comune, la Provincia, la Regione, i giornali locali e nazionali, i partiti di destra e di sinistra, il Parlamento, l’Abi, le altre banche, la Borsa, la Banca d’Italia, la Consob, dovunque silenzio piatto.
Un altro problema storico del nostro sistema, che vogliamo ancora ricordare, riguarda i rapporti malsani con la politica. La gestione Profumo ha prodotto danni rilevanti all’Unicredit per un volume molto grande di miliardi di euro. Eppure il manager è stato messo a capo della Finmeccanica/Leonardo, tra l’altro un’azienda operante in un settore molto particolare e ben lontano da quello di origine del suddetto, probabilmente soltanto perché si dice che egli sia amico di un politico molto importante. Il caso Etruria ha messo poi di nuovo il dito sulla piaga, mostrando dei rapporti non proprio trasparenti tra un politico del Pd, il padre, il sistema bancario.
Con la crisi, le banche hanno ridotto fortemente gli affidamenti all’economia. Le cifre della Banca d’Italia ci dicono che dall’inizio del 2012 ad oggi il livello del credito per le sole imprese è diminuito di circa 110 miliardi di euro.
E questo nonostante che negli ultimi anni le banche abbiano ricevuto dalla BCE un fiume di denaro a tassi bassissimi, che apparentemente quindi non è stato girato alle imprese, me è stato sostanzialmente utilizzato dagli istituti per rimpinguare i loro profitti.
Ma le banche hanno comunque privilegiato nelle loro politiche di affidamento le grandi imprese, che hanno ricevuto più credito e a costi nettamente inferiori rispetto alle piccole e medie; ma le prime le hanno ripagate con una molto più alto livello di sofferenze.
Le aziende, per quanto hanno potuto, hanno reagito alla carenza di credito bancario aumentando un poco i mezzi propri, accedendo di più a fonti alternative (obbligazioni, anche mini, venture capital, private equity, pir, crowfunding, ecc.), nonché razionalizzando la loro gestione finanziaria e sono quindi diventate un po’ meno dipendenti dal credito bancario, ciò che comunque è un bene; ma tutto questo non è certo bastato a colmare il buco.
Solo negli ultimi mesi si tende a registrare una qualche timidissima ripresa dei finanziamenti, ma di nuovo concentrati sulle grandi imprese.
Di nuovo oggi ci vorrebbero far credere che la bufera è ormai passata. Tutto questo perché le crisi più importanti sono state alla fine in qualche modo governate, sia pure con molta fatica e sotto l’occhio rigido delle autorità europee, che hanno mostrato di non risparmiarci nulla, mentre il livello dei crediti deteriorati è stato in qualche misura ridotto. Esso in effetti è stato ridimensionato di circa 60 miliardi nel corso del 2017. Ma ricordiamo che ancora oggi il livello dei “non performing loans” delle nostre banche è di gran lunga quello più elevato tra i paesi occidentali di una certa dimensione, che il livello di redditività dei nostri istituti è tra i più bassi e che quello dei mezzi propri appare di nuovo tra i più deboli.
Ma si preoccupano di ricordarcelo ogni giorno le autorità internazionali. Peraltro il quadro nazionale si inserisce in quello complessivo di un sistema bancario europeo che presenta risultati in genere peggiori di quelli statunitensi; inoltre tali risultati appaiono ancora minacciati nel nostro continente dalla presenza di troppa capacità produttiva in eccesso e di costi troppo elevati.
A fronte di tale situazione, una serie di progetti di riforma che stanno andando avanti per il settore a livello europeo e internazionale può portare a nuove difficoltà per le nostre banche, visto anche il debolissimo peso politico del nostro paese nel continente, anche per una serie di nostri errori passati.
Per fortuna un prima problema è stato superato senza gravi danni. In effetti il comitato di Basilea ha finalmente emesso le nuove regole per quanto riguarda l’esigenza di un livello adeguato dei mezzi propri degli istituti dei vari paesi e ne siamo usciti forse con solo qualche scalfittura.
Ma il peggio deve ancora venire. Intanto aleggia ancora, mentre in particolare i tedeschi non mollano in proposito la presa, la questione dei titoli di stato presenti nei bilanci delle banche. È prevista nei progetti europei l’introduzione di una soglia pari al 33% del patrimonio di base di una banca entro la quale deve essere limitata l’esposizione verso i titoli pubblici di un paese. Inoltre, potrebbe essere assegnato un livello di rischio adeguato a tali titoli, rischio oggi valutato come pari a zero. Esso, per paesi come l’Italia, dovrebbe essere considerato elevato e prevedere quindi accantonamenti di rilievo. O almeno, le autorità ci imporranno in alternativa di diversificare il portafoglio dei titoli pubblici, vendendo una quota di quelli nazionali e comprando quelli di altri paesi, misura che sarebbe per noi ancora parecchio penalizzante. Ricordiamo che attualmente il livello dei titoli nazionali nei bilanci delle nostre banche è pari a circa 320 miliardi.
Ancora, da qualche tempo Danièle Nouy, responsabile della vigilanza della BCE, ha cominciato ad insistere, a partire da un suo documento noto ormai come “addendum”, che, a fronte dei nuovi prestiti deteriorati presenti nei bilanci delle banche, bisognerà appostare dei fondi di riserva più elevati di quelli attuali. In particolare, viene proposto che tali crediti, nel caso non siano già garantiti, siano svalutati al 100% dopo due anni, mentre quelli garantiti lo siano entro sette. Non appare chiaro cosa succederà invece ai crediti in difficoltà passati.
A poco, rispetto a tale progetto, sono valse le proteste del governo italiano, dell’Abi che ha paventato una riduzione conseguente nei prestiti alle imprese, del parlamento Europeo, che ha decretato che la responsabile della vigilanza, nel fissare le nuove regole, andava al di là del suo mandato. Le proteste sono servite soltanto a far rimandare di qualche mese una decisione orami considerata inevitabile. Restano peraltro da definire importanti dettagli.
Si può solo cercare di lavorare da parte delle nostre autorità per cercare di limitare i danni.
Incidentalmente, sta arrivando anche il nuovo principio contabile Ifrs9 ( i principi contabili internazionali sono emessi secondo un sistema complesso de un certo numero di organismi internazionali e vengono poi recepiti secondo una procedura standard dall’Unione Europea e poi dai singoli Stati nazionali) che cambierà i criteri di classificazione dei crediti deteriorati e spingerà ad una loro valutazione più tempestiva.
Ricordiamo per completezza che in particolare i tedeschi continuano ad opporsi all’istituzione della garanzia comune sui depositi, il terzo ed ultimo pilastro dell’Unione Bancaria, dopo la vigilanza unica sul sistema bancario (che peraltro, grazie sempre alle pressioni tedesche è stato limitato alle banche più grandi) e le regole comuni sui salvataggi. E questo, secondo i tedeschi, proprio in ragione del troppo alto livello dei crediti deteriorati rilevabili nei bilanci nelle banche del Sud Europa e dei troppi titoli pubblici presenti in quelli delle banche italiane. Nessuno a livello europeo parla invece del problema dell’alto livello di derivati e di asset illiquidi che gonfiano i bilanci delle banche tedesche.
Intanto avanza rapidamente l’innovazione tecnologica anche in tale settore. In particolare i grandi protagonisti del web, i grandi gruppi cinesi e statunitensi in particolare, da Alibaba a Google, insieme anche a molte start-up di molti paesi, stanno dando l’assalto al settore bancario come a quello della grande distribuzione e dei veicoli, costringendo sulle difensiva le banche tradizionali. Basti pensare al fatto che una filiale di Alibaba, la Ant Financial, è in grado ormai da qualche tempo di rispondere alle richieste di prestiti in un tempo molto rapido. In tre minuti ed un secondo il richiedente, se considerato meritevole, si troverà i soldi nel conto. Questo grazie alla presenza di gigantesche banche dati relative a molte centinaia di milioni di persone e ai programmi di intelligenza artificiale che si possono mettere in campo. Da considerare poi anche la specifica introduzione della tecnologia del blockchain che potrebbe contribuire a cambiare fortemente il quadro operativo.
Una conseguenza di tale assalto è quello della necessità, per gli istituti, di investire grandi somme nel settore delle tecnologie digitali, nel front come nel back office, mentre l’innovazione tende a falcidiare l’occupazione, con la chiusura della gran parte delle filiali e la riduzione degli spazi per le attività lavorative anche nel back office.
I vari governi che si sono succeduti nel tempo nel nostro paese non hanno mai mostrato di avere una visione adeguata del settore finanziario. Quelli più recenti, di fronte alla crisi bancarie, si sono fatti per la gran parte sorprendere dagli eventi, trovando alla fine delle vie confuse e pasticciate per uscire dai guai.
L’esecutivo attuale e il partito di maggioranza si sono tra l’altro impelagati in una sciagurata commissione d’inchiesta sul sistema bancario e sul problema del rinnovo della carica a Visco con un impegno degno di miglior causa. Certo la commissione avrebbe in teoria dovuto verificare l’adeguatezza delle disposizioni legislative e regolamentari nazionali ed europee sul sistema bancario e su quello di governo e sorveglianza dello stesso; è noto come, ad esempio, siano emerse durante le audizioni della commissione delle rilevanti mancanze di coordinamento tra Banca d’Italia e Consob, così come dei problemi di governance dei vari istituti e la constatazione ormai palese dell’impossibilità di tutelare come una volta gli investitori, così come le carenze nella gestione dei crediti deteriorati da parte di tutto il sistema; ma nulla di tutto questo sarà probabilmente recepito dalla politica, interessata visibilmente soltanto a cercare di guadagnare qualche voto a scapito degli avversari.
Che fare?
A questo punto possiamo tentare di individuare alcuni punti di una possibile riforma del sistema italiano.
  • Pensiamo intanto che il sistema bancario abbia bisogno di smaltire i crediti deteriorati il più rapidamente possibile anche per presentarsi in maniera credibile sulla scena internazionale e che, comunque, esso debba cercare in tutti i modi di spingere per l’aumento del livello dei mezzi propri del nostro sistema bancario in misura rilevante, probabilmente nell’ordine di almeno qualche decina di miliardi di euro.
Deve essere compito dei pubblici poteri aiutare in tutti i modi possibili tale processo, anche con l’intervento finanziario, laddove necessario. Così come essi devono più in generale spingere in direzione del mutamento delle norme e procedure di supervisione e controllo del sistema, anche a livello europeo, nonché di facilitare l’innovazione tecnologica e la tutela del lavoro nel settore.
2) Parallelamente, deve essere compito dei pubblici poteri quello di cercare di indirizzare il sistema bancario in direzione di un maggiore livello di finanziamento dell’economia, dirigendo peraltro lo sforzo più di prima verso la piccola e media impresa ed accompagnando il necessario processo di ristrutturazione della nostra economia in direzione di un maggior livello tecnologico, di una crescita degli investimenti, dello sviluppo di un’economia sostenibile e maggiormente creatrice di lavoro stabile.
3) A questo fine appare poi importante utilizzare il Monte dei Paschi di Siena ormai a controllo pubblico nella direzione di sostenere questo processo, gestendo la banca in modo attivo e non lasciandola semplicemente nelle mani di un management solo tecnico senza fornirgli degli input adeguati.

venerdì 9 febbraio 2018

Braccialetto elettronico? Le aziende italiane hanno “bruciato” Amazon

Il bracciale elettronico brevettato da Amazon non è nulla di nuovo. Forse il simbolismo che lo associa a quello dei carcerati fa paura, ma le cassiere dei supermercati un braccialetto simile – anche se non visibile – lo subiscono da una vita.
Già, perché il sistema di elaborazione elettronica delle aziende della GDO da tempo si concentra sul calcolo della produttività oraria di una cassiera: quanti prodotti all’ora passa sullo scanner, quant’è lo scontrino medio, quante promozioni e così via.
E la testimonianza di Alessia, una delle tante cassiere di supermercato che ci ha segnalato le sue difficoltà, sta lì a dimostrarlo senza ombra di dubbio: “Ebbene sì. Ieri mi è stata controllata la media cassa a fine turno. La responsabile sostiene che dobbiamo avere una media superiore ai 27 articoli battuti al minuto. La mia ieri è stata di poco superiore ai 29. Sono nella media insomma.
Poco importa se sono prima cassa dalle 8.00 alle 13.30 o dalle 14.15 alle 20. Poco importa di come vengono calcolati i “tempi morti” rispetto ad una collega seconda cassa che viene chiamata a smaltire all’occorrenza e pertanto, in proporzione, “si fa” un numero nettamente inferiore di clienti e matematicamente ha quindi meno “tempi morti” che pesano sulla media. Più stai in cassa, infatti, più ci sono tempi “morti” da smaltire. È palese. È inopinabile. Chi afferma il contrario mente spudoratamente. Mente perché è ignorante o perché è probabilmente in malafede.
Con i tempi morti intendo storni e annulli da effettuare, codici EAN da digitare a mano, frutta e verdura da pesare, le etichette del pane sempre sbiadite con numeri poco chiari, clienti che mentre guardano lo schermo si accorgono che il prezzo non corrisponde a quello esposto, clienti che ad un tratto si ricordano del bicarbonato, della carta fedeltà, del bancomat o del compleanno della prozia alla quale regalare i biscotti in latta… E se tu, prima cassa, non sei abbastanza celere da stoppare lo scontrino con il tastino #enter, la media si abbassa inesorabilmente.
Perché nel frattempo ti urlano che vanno in sconto del 30% i pomodorini, o il cliente ti interroga sulla differenza degli assorbenti con le ali o senza e, contemporaneamente una cliente ti riempie di zucchero il nastro cassa e il sapientone del momento tiene lezioni di economia urlando allo scandalo perché deve pagare il sacchettino dell’ortofrutta. E l’azzeccagarbugli, anche lui in coda, mette il carico da undici sostenendo che è illegale far pagare le shoppers poiché, essendoci stampato il logo del supermercato, trattasi di pubblicità.
I minuti passano e la tua media articoli scende. Quindi tu, cassa fissa, ricordati sempre di guardare negli occhi i clienti, di chiedere e proporre la fidelity card, di proporre il prodotto civetta, di accertarti della coda che si forma, di verificare il numero esatto delle shoppers, di prestare attenzione al Mistery Client, di non chiamare mai, anche perché in cassaforte non c’è il cambiamonete.
E poi sorridi, sorridi, sorridi e sii sempre gentile con la clientela. Infine, se la tua supercollega pseudo responsabile entra in cassa per sbaglio 15 minuti e da una media di rapporto chiusura lei sfiora addirittura anche i 40 pezzi al minuto, tu continua a sorridere. Sorrisi falsi per tutti. Disagio vero per molti.”
Ecco, il bracciale elettronico esisteva già, prima del brevetto Amazon. Non si vedeva, ma c’era. E si allacciava stretto in quella zona grigia che viaggia ai confini della legalità. Bastava saperlo vedere…

giovedì 8 febbraio 2018

L’amministrazione Trump pianifica un golpe alla Pinochet in Venezuela

L’amministrazione retrograda di Donald Trump progetta un colpo di Stato militare in Venezuela per estromettere il governo socialista del Presidente Nicolas Maduro. Il segretario di Stato Rex Tillerson, parlando all’Università del Texas prima d’intraprendere un tour in America Latina e Caraibi, ha detto che l’esercito è spesso intervenuto nella politica latinoamericana durante le crisi. Le osservazioni di Tillerson hanno evocato scene dal buio passato dell’America Latina. A peggiorare le cose, Tillerson invocava la dottrina imperiale Monroe del 1823, sottolineando che è “rilevante oggi come il giorno in cui fu scritta”. La Dottrina Monroe, nella storia americana, fu usata dagli Stati Uniti per giustificare l’intervento armato in America Latina, spesso allo scopo d’istituire “repubbliche delle banane” asservite ai capricci di Washington. Secondo la BBC, Tillerson fece l’affermazione dichiarando che non “difende il cambio di regime e che non ha informazioni su alcuna azione programmata”. Il consigliere per la sicurezza nazionale di Richard Nixon Henry Kissinger fece commenti simili prima del sanguinoso colpo di Stato dell’11 settembre sostenuto dall’Agenzia per l’Intelligence Centrale, nel 1973, contro il Presidente socialista cileno Salvador Allende. Mentre respingeva pubblicamente qualsiasi coinvolgimento degli Stati Uniti nella destabilizzazione del governo democraticamente eletto del Cile, Kissinger lavorava dietro le quinte con le forze armate cilene per rovesciare e assassinare Allende. Undici giorni dopo il colpo di Stato cileno, Kissinger fu premiato da Nixon venendo nominato segretario di Stato e mantenendo il portafoglio di consigliere per la sicurezza nazionale.
Da quando il predecessore di Maduro, Hugo Chavez, salì al potere nel 1999, la CIA tentò almeno un colpo di Stato militare, rapidamente annullato, nel 2002, diverse proteste e sommosse in stile “rivoluzione colorata”, guerra economica e scioperi generali iniziati dalla CIA per scacciare Chavez e Maduro dal potere. Tillerson, ex-amministratore delegato di Exxon-Mobil, ha lungamente supervisionato il controllo degli Stati Uniti sulla società petrolifera statale del Venezuela Petróleos de Venezuela, SA (PdVSA). L’itinerario latinoamericano di Tillerson tradisce i piani sul Venezuela. Tillerson si recherà in Messico, nazione dalla relazione travagliata con gli Stati Uniti per la retorica di Trump. Il consigliere per la sicurezza nazionale di Tillerson e Trump, HR McMaster, accusava la Russia, senza la minima prova, d’interferire nell’attuale campagna elettorale presidenziale in Messico. Il candidato del partito di sinistra MORENA, il leader Andres Manuel Lopez Obrador, o “AMLO”, ha dovuto respingere le false accuse di aver accettato finanziamenti dai russi. Il candidato di destra Jose Antonio Meade, il favorito di Washington, accusava AMLO di essere sostenuto dalla Russia. AMLO, rispondeva alle ridicole accuse di Meade, che corre col Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI), corrotto dal narcotraffico, indossando spesso scherzosamente una giacca col nome “Andres Manuelovich”. Oltre al Messico, Tillerson visiterà anche Argentina, Perù, Colombia e Giamaica. Le soste di Tillerson svelano le sue reali intenzioni. L’Argentina, governata da Mauricio Macri, immobiliarista di Trump, e Perù, il cui scandaloso presidente Pedro Pablo Kuczynski elogia Trump e guida le azioni anti-Venezuela nell’Organizzazione degli Stati americani e in altre istituzioni internazionali. La Colombia è la base per le operazioni paramilitari e d’intelligence della CIA contro il Venezuela. A causa delle sanzioni USA contro il Venezuela, la Colombia ora ospita migliaia di rifugiati economici venezuelani, terreno fertile per reclutare le pedine per un colpo di Stato contro Maduro. Tutte le soste di Tillerson in America Latina, con l’eccezione della Giamaica, sono Paesi membri del Gruppo Lima, un blocco di nazioni che cerca di rovesciare Maduro dal potere in Venezuela. Lo scalo di Tillerson in Giamaica è ovviamente volto a staccare dall’orbita venezuelana diversi Stati insulari della Comunità Caraibica (CARICOM) che hanno beneficiato del petrolio poco costoso del Venezuela.
Secondo la BBC, Tillerson aveva persino scherzato in Texas sul destino di Maduro: “Se la cucina diventa un po’ troppo calda per lui, sono certo che ha qualche amico a Cuba che potrebbe dargli una bella hacienda in spiaggia“. Per i venezuelani che sostengono il governo, la “battuta” di Tillerson ricorda che Chavez, dopo essere stato destituito dal colpo di Stato dell’aprile 2002, fu tenuto prigioniero presso la stazione aeronavale Antonio Diaz sull’isola venezuelana di La Orchila. Se il colpo di Stato non fosse fallito, si ritiene che gli Stati Uniti avrebbero esiliato Chavez, possibilmente a Cuba, nella stazione navale e gulag degli Stati Uniti nella baia di Guantanamo. Tillerson, che apparentemente continua a portare acqua ad Exxon-Mobil, riprende il ruolo svolto da Harold Geneen, presidente dell’International Telephone and Telegraph (ITT). Geneen, lavorando con la CIA, diede 1 milione di dollari all’avversario di Allende nelle elezioni presidenziali del 1970, Jorge Alessandri. Si scoprì anche che ITT aveva sostenuto finanziariamente i piani del golpe del 1973 in Cile. Nel 1964, Geneen e ITT collaborarono con la CIA per rovesciare il governo brasiliano eletto democraticamente di Joao Goulart. Oggi sono Exxon-Mobil e la sua dirigenza nell’amministrazione Trump, Tillerson, a fare gli straordinari interpretando i ruoli di ITT e Geneen nel tentativo di rovesciare Maduro in Venezuela; processare con accuse inventate Luiz Inácio Lula da Silva e Cristina Fernandez de Kirchner, ex e possibili futuri presidenti di Brasile e Argentina rispettivamente; e far tornare la “diplomazia delle cannoniere” degli Stati Uniti nell’emisfero occidentale. In una conferenza stampa a Città del Messico, il ministro degli Esteri messicano Luis Videgaray respinse l’idea di Tillerson del colpo di Stato militare in Venezuela per estromettere il governo di Maduro. Alla conferenza era presente la ministra degli Esteri canadesi Chrystia Freeland, nemica dichiarata di Venezuela e Russia.
Tillerson ha un odio viscerale per il Venezuela che trascende Maduro e Chavez. Nel 1976, l’anno dopo che Tillerson iniziò a lavorare per Exxon, il presidente venezuelano Carlos Andres Perez nazionalizzò l’industria petrolifera venezuelana. Tra le attività nazionalizzate c’erano le partecipazioni di Exxon. Chavez rinazionalizzò i beni di Exxon-Mobil nel 2007, durante il regno di Tillerson. Exxon-Mobil e Tillerson combatterono il Venezuela per un risarcimento da Caracas. Exxon-Mobil portò il caso all’arbitrato della Banca Mondiale e chiese al Venezuela di risarcire la società con 115 miliardi di dollari. La banca optò per un risarcimento di soli 1,6 miliardi, spennando Tillerson, che non ha mai dimenticato che il Venezuela ha vinto la battaglia per compensare Exxon-Mobil. Tillerson ora intende vendicarsi cercando di rovesciare il successore di Chavez, Maduro. Nel 2015, Exxon-Mobil avviò le operazioni petrolifere al largo delle coste della Guyana, a est del Venezuela, nel territorio conteso di Essequibo. Sebbene Venezuela e Guyana abbiano cercato un arbitrato internazionale sul caso, ciò non impedì a Tillerson, alla guida di Exxon-Mobil, di ordinare alle controllate in Guyana, Esso Exploration e Production Guyana Ltd., di continuare ad esplorare nella regione contesa. Per Tillerson e il suo capo, Trump, apparentemente gli accordi legali non valgono la carta su cui sono stampati. Mentre si trovava in Giamaica, Tillerson si aspettava che il Primo Ministro Andrew Holness acquistasse il 49 percento venezuelano della società giamaicana di raffinazione del petrolio, Petrojam. Tillerson vuole assoggettare le nazioni caraibiche che hanno accordi di cooperazione con l’industria petrolifera venezuelana attraverso l’alleanza PetroCaribe, per annullare tali accordi e conformarsi all’ordine esecutivo punitivo di Trump 13808, che estende le sanzioni “alla Russia” anche al Venezuela. Tillerson non vorrebbe altro che aumentare i profitti di Exxon-Mobil limitando gli accordi di PetroCaribe con nazioni come Haiti, Nicaragua, Giamaica, Guyana, Belize, Honduras, Bahamas, Suriname, St. Kitts-Nevis e St. Lucia, costringendole ad acquistare petrolio e benzina più costosi di Exxon-Mobil. Tillerson ha mostrato il vero volto dell’amministrazione Trump in America Latina. Non solo vuole deportare milioni di residenti senza documenti dagli Stati Uniti con un’operazione di massa che non si vede dalla Seconda Guerra Mondiale, ma vuole cambiare coi colpi di Stato governi non graditi a Trump in America Latina.

mercoledì 7 febbraio 2018

"Smettiamola di parlare di crisi: parliamo di ineguaglianza."

La sinistra e gli antiliberisti in genere dovrebbe smetterla di definire la realtà e la società con le categorie imposte dal neocapitalismo e dai suoi media; perché a usare il linguaggio dell’avversario se ne assorbe l’ideologia e si diventa come lui. L’ideologia della crisi, per esempio: secondo la quale la ragione per cui si sta peggio è che l’economia non tira. Balle.


Il PIL del mondo continua a crescere e non c’è nessuna crisi per i ricchi e i benestanti: qualsiasi statistica dimostra che praticamente ovunque, dai paesi più sviluppati a quelli più poveri, la classe dirigente si è enormemente arricchita negli ultimi tre decenni, ossia dalla svolta liberista e globalista imposta da Reagan e Thatcher e diventata egemonica dopo il crollo dell’Unione Sovietica.


Mai nella Storia i benestanti e i loro portavoce e pretoriani hanno avuto tanto denaro e tanti privilegi. La crisi riguarda solo i lavoratori e le classi più deboli.


In sostanza essa non è altro che una scusa per giustificare lo stesso sfruttamento e la stessa oppressione che un tempo venivano fatti risalire alla scarsità di risorse, insufficienti per tutti. Oggi sarebbero ampiamente sufficienti per tutti e non lo sono solo perché una parte della popolazione vuole molto di più degli altri e pensa di meritarselo. Smettiamola di parlare di crisi: parliamo di ineguaglianza.


Perché negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Italia, le pensioni vengono tagliate, i servizi pubblici resi inefficienti, le infrastrutture lasciate in abbandono?


Per un solo motivo: perché i ricchi e le multinazionali non vogliono pagare tasse in proporzione ai loro profitti, come se per realizzarli non usassero risorse naturali e sociali che loro non hanno creato ma solo depredato. Smettiamola di parlare di crisi: parliamo di lotta di classe. Per la maggioranza della gente la crisi finirà, istantaneamente, quando in tutto il mondo ad andare in crisi fossero i miliardari e i milionari, quando venissero costretti a tornare persone normali, magari dieci o venti volte più abbienti del cittadino medio, non cento o mille volte di più – o un milione di volte, come Mark Zuckerberg a trent’anni, il mito di tanti italiani che si accontentano di sognare di diventare come lui piuttosto che impegnarsi un minimo per non sprofondare nella miseria maledicendo la crisi.

martedì 6 febbraio 2018

Camminare con lo smartphone, così diventiamo gobbi, sbilenchi e più lenti

DANNI POSTURA SMARTPHONE

Più lenti, sbilenchi e con la gobba. Siamo noi, prigionieri dello smartphone anche quando camminiamo. E questi sono i principali danni per la nostra salute causati da una cattiva abitudine che sta modificando, in peggio, i nostri stili di vita.
Molte persone, mentre camminano, hanno gli occhi incollati agli schermi. C’è chi telefona, chi controlla i social, chi manda mail e messaggi. Addirittura c’è anche chi gioca ai videogame.
Chi cammina normalmente senza utilizzo dello smartphone, tende ad avere un’andatura più spedita fino a raggiungere una certa velocità, con passi lunghi, gambe distese e senza sbilanciamenti del corpo.
Chi, invece, avanza per strada con una camminata definita “zombie walk“, ovvero usando lo smartphone, si limita a fare passi corti, evitando di guardare avanti a sè e mantenendo una postura “sbilenca“.

POSTURA DA SMARTPHONE

Lo ha rilevato una ricerca scientifica dell’Università britannica Anglia Ruskin: ormai lo smartphone sta modificando il nostro modo di camminare e di guardare quello che abbiamo intorno.
Lo studio condotto ha rilevato anche come l’uso del telefono influisce sul modo in cui le persone guardano e su come evitano un ostacolo per terra lungo il loro percorso.
Per arrivare a tale conclusione gli studiosi britannici hanno analizzato alcune persone con tracciatori oculari e sensori di analisi del movimento, mettendole di fronte ad ostacoli. Dai risultati è emerso che, quando si utilizzava il telefono, si tendeva a guardare per terra meno spesso e per meno tempo.
In particolare, il tempo di osservazione del suolo risultava diminuita fino al 61%. Non solo: la ricerca ha evidenziato che quando le persone analizzate erano intente a scrivere un messaggio, il piede “guida” era più alto del 18% e il 40% più lento.

lunedì 5 febbraio 2018

Abolire riforma Fornero? Ecco quanto costerebbe secondo Boeri

Uno dei cavalli di battaglia dei partiti politici alle prese con la campagna elettorale 2018 è il tema previdenziale e soprattutto la cancellazione della tanto discussa riforma Fornero che nel 2011 ha allungato l’età pensionabile per donne e uomini.

“L’abolizione della pensione anticipata e il ritorno all’anzianità con 40 anni di contributi o con il meccanismo delle quote avrebbe un costo aggiuntivo attorno ai 15 miliardi l’anno, con un’incidenza sul debito pensionistico implicito di 85 miliardi, vale a dire cinque punti di Pil, che finirebbero sulle spalle delle generazioni più giovani”.
In sostanza il ritorno ai requisiti pre-Fornero con l’abbandono dell’attuale meccanismo dell anticipo provocherebbe un maggiore numero di pensioni per 5-600mila unità nei primi anni per il complesso delle gestioni. Per fare un esempio concreto, il numero uno dell’Istituto nazionale di previdenza sociale – già sottoaccusa per il rosso accertato dalla Corte dei Conti di 6 miliardi nella gestione 2017 –  ha indicato il potenziale di costo di una pensione di mille euro per le casalinghe d’età compresa tra i 60 e i 65 anni che nei primi cinque anni provocherebbero un costo di circa 10 miliardi.
Qualche giorno fa anche l’ex commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, che oggi dirige il nuovo Osservatorio sui conti pubblici messo in piedi all’Università Cattolica di Milano, aveva stimato che la cancellazione della riforma Fornero, per quanto fattibile, sarebbe stata costosa.
“Si parte da qualche miliardo per salire a 10-15 miliardi con punte di 1,5 punti di Pil. Nell’intero periodo in termini cumulati sono 20 punti percentuali di Pil. Per un paese già con debito al 130% non è una cosa da niente”

giovedì 1 febbraio 2018

La politica estera in sei regole principali

Prima regola della politica estera: "Mai fare la guerra in Afghanistan" diceva il ministro esteri britannico Anthony Eden. La guerra in Afghanistan ha eliminato un regime radicale sunnita ostile all’Iran e fatto del Paese la calamita del jihadismo, prima di al Qaida  e dei talebani oggi anche dell'Isis

Seconda regola: mai fare la guerra in Iraq. La guerra in Iraq nel 2003 ha consegnato al regime sciita di Teheran l’influenza sulla Mesopotamia che pure è stata occupata per quasi un decennio dalle forze armate americane. La resistenza anti-americana e anti-sciita ha fatto dell’Iraq un Paese devastato dal terrorismo prima di Al Qaida e poi da quello dell’Isis nato da una sua costola e dagli accordi con ex ufficiali baathisti.
 
Terza regola: mai fare la guerra in Siria se non sai contro chi la fai e con chi la fai. La guerra in Siria, dopo una legittima rivolta popolare contro un regime dittatoriale, si è quasi subito trasformata in una guerra per procura contro lo storico alleato dell’Iran. Come è andata a finire? La Russia è intervenuta nel settembre 2015 e ora è un attore ineludibile in Medio Oriente, l’Iran ha aumentato la sua influenza regionale e la Turchia, storico membro della Nato, ha cambiato campo alleandosi con Mosca e Teheran. Per la verità il cambio di campo della Turchia era prevedibile. Ankara si era già opposta nel 2003 alla guerra in Iraq e il problema curdo costituisce per la Turchia un nodo irrisolto da quattro decenni.
 
Quarta regola: mai fare la guerra a un regime senza avere una soluzione di ricambio. La Libia di Gheddafi era un Paese isolato nel mondo arabo che aveva dovuto proiettarsi nel Sahel dove era diventato il guardiano del deserto. La sua caduta ha fatto crollare i confini di qualche migliaio di chilometri dentro al continente africano con gli effetti che sappiamo in termini di anarchia, migrazioni e traffici criminali di ogni genere. Anche qui le potenze sunnite concorrenti tra loro hanno provato a esercitare la loro influenza con i risultati pessimi che sappiamo e la Libia costituisce oggi invece di una risorsa un problema per il Nordafrica e una proiezione delle rivalità del Medio Oriente. Con la Russia, la Francia e l'Egitto che sostengono il generale Khalifa Haftar, mentre l'Italia appoggia il governo riconosciuto dall'Onu di Al Sarraj a Tripoli

Quinta regola: in politica estera diffidate delle regole, sono state fatte per essere ignorate.
Prendete il caso dei curdi siriani. Oggi sono nel mirino dell'esercito turco eppure si sono alleati con gli Usa contro l'Isis. La Turchia appare quasi come uno stato fuorilegge. Ma chi ha illuso Ankara? Proprio gli americani che hanno dato il via libera a Erdogan alla guerra per procura contro Assad nel 2011: il 6 luglio di quell'anno l'ambasciatore Usa Ford passeggiava in mezzo ai ribelli di Hama e il segretario di stato Hillary Clinton diede la sua approvazione al passaggio dei jihadisti dalla Turchia alla Siria. Ecco perché Erdogan ha cambiato campo e si è schierato con Mosca quando ha capito che gli americani non avrebbero abbattuto Assad e ai suoi confini stava per nascere una zona curda autonoma. E l'Italia che ci sta a fare in mezzo al Mediterraneo? Perché non interviene con decisione e viene regolarmente sbeffeggiata dai suoi stessi alleati come è accaduto in Libia?

Sesta regola: mai fare la guerra se ne hai già persa una ed era la seconda guerra mondiale. Continuiamo a fare missioni militari inutili nella speranza di trarne qualche vantaggio, come se fossimo ancora ai tempi della guerra di Crimea a metà Ottocento. Ma quali sono stati i vantaggi di mandare soldati in Afghanistan e in Iraq al seguito degli americani? Hanno difeso i nostri interessi in Libia? Hanno costretto gli europei ad aiutarci di fronte alle ondate migratorie? Non sembra. Adesso inviamo soldati anche in Niger, cioè a casa della Francia di Macron. Cosa speriamo di ottenere? Il controllo dei flussi dei migranti? I francesi prima faranno i loro interessi e dei loro clienti africani poi, forse, anche i nostri. La Germania non manda soldati quasi da nessuna parte ma pensa invece a farsi la sua difesa nel cuore dell'Europa. 

Nel 2011 dopo un mese ci siamo accodati ai bombardamenti sulla Libia ma avremmo invece dovuto negare le basi a Usa, Gran Bretagna e Francia. Sei mesi prima avevamo firmato accordi miliardari con Gheddafi e poi ci siamo messi a tirargli bombe e missili. Non sono comportamenti che passano inosservati: non solo avevamo abbandonato il nostro più importante alleato sulla Sponda Sud ma abbiamo contribuito a dargli il colpo di grazia. Sono cose che si notano, anche nel pur flessibile mondo arabo.

Le regole servono e non servono: ma della dignità e dell'indipendenza nazionale non si parla mai se non con vaghi discorsi retorici che oscillano tra il multilateralismo spinto e la nostalgia per il fascismo che la seconda guerra mondiale ci ha fatto perdere. “Gli Stati non hanno amici ma solo interessi”, diceva il generale Charles de Gaulle. E questa, forse, è la sola regola aurea.