venerdì 30 giugno 2017

L'ignoranza deve regnare sovrana. Il sovrano deve essere ignorante

Insomma positivamente o negativamente il PD sembra essere stato, sino ad ora, il riferimento di tutta la sinistra in Italia. Tanta fatica, tanti distinguo, tante sollecitazioni, paletti tattici, anatemi, tutto per un Partito che non esiste più. Certo i voti, anche tanti, ne ha ancora, ma che sia un Partito è tutto da dimostrare. Un collante ideologico, di pensiero comune, di riferimento culturale e politico, di orizzonte teorico, non l'ha più. Renzi è riuscito a svuotare questo contenitore di uomini e donne in politica dal di dentro. Ha lasciato sulla scena solo la parte esterna, una carcassa assolutamente vuota di contenuti, così come il suo capo deve essere.
E perciò vincere o perdere alle elezioni amministrative, o di altro tipo - vedi il recente referendum costituzionale - resta un gioco al massacro casuale: un buon nome, un apparentamento riuscito qua si e là no; un caso di corruzione in campo avverso determina il successo nel proprio il contrario. Solo così si può spiegare come in alcune città di lunga tradizione di sinistra si è andati via via svuotando quella tradizione sull'altare dell'incoerenza modernista, per abbracciare tutto quanto fa spettacolo - intendo proprio spettacolo - e leadership in ambiti ultra modernisti - il mondo omosessuale, ad esempio. Come se questi ambiti fossero decisamente strutturati a livello sociale e rendessero anche seppure solo in termini di voti, quando non di simpatie politiche.
Seguendo questo filone random si può capire come decenni di tradizione di sinistra si siano prima annacquati completamente sulla scena dell'attualità, del qui ed ora, sino a scomparire del tutto. Ma su questo crinale la destra è molto più brava. E se la destra si ricorda un poco la sua tradizione - il futurismo, ad esempio - inchioda il centro sinistra-carcassa con grande rapidità.
È ritornato Berlusconi. Età e pensiero per lo meno datati. Basterebbe il pensiero datato per giocare politicamente a suo sfavore. Si sono viste facce decisamente imbarazzanti agitarsi e gridare al successo - La Russa, De Corato. Posizioni reazionarie e becere, basti sentire le litanie di Salvini, prendere piede in molta parte d'Italia, da solo, con altri. Facce di ambigui politici che in altre epoche sarebbero stati spazzati via - tutto il carrozzone di Area popolare, con Lupi in testa.
Un'inutile fatica prendere posizione rispetto al PD, carcassa morta e sepolta anche nelle cosiddette zone rosse, che più rosse non sono da tempo, ma ora neppure rosa, né arancioni, né gialle. In mano alla destra. Pensiamo a Genova: governo Tambroni, le magliette a righe in piazza, l'antifascismo, i camalli; Sesto San Giovanni, la Stalingrado d'Italia, oramai solo un grande paesone come altri, un paesone equiparabile ad una città media, ha perso anche quella nomea, per sempre. Bologna aveva anticipato tutto questo nel 1999.
Insomma un carrozzone-partito-carcassa che ha infettato e si è fatto infettare da un vento insulso e malato. Il prossimo passo, un legame stretto con il centro destra, che già nelle cose è come lui, il novello Partito della nazione. Spariranno anche le spolveratine laiche. Non bisogna esagerare, con calma, altrimenti la fusione il centro destra sarà troppo difficoltosa e resteranno con il cerino acceso in mano i poveri richiedenti asilo a destra di quel partito che una volta era il DS, prima il PDS, ed ancora prima il PCI.
Ma forse questa reazione a catena verso il passato pochi in quella carcassa di partito la ricordano. Avanti avanti verso lo svuotamento assoluto del senso, dell'origine, della propria storia. L'ignoranza deve regnare sovrana. Il sovrano deve essere ignorante.

giovedì 29 giugno 2017

Una crisi bancaria nell’Unione europea?

Ecco un’informazione che non è apparsa sulle prime pagine dei giornali, e su cui i grandi mezzi di comunicazione, radio e televisione, sono rimasti in silenzio (l’autore si riferisce alla Francia, ovviamente, ndt).
In Italia e in Spagna, alcune banche sono andate in crisi, e sono state acquistate dai concorrenti, in alcuni casi al prezzo simbolico di un euro, o quasi. Si potrebbe dire che se questa informazione non ha fatto notizia è perché non ci sono problemi. In realtà, l’Unione bancaria, creata negli ultimi anni, doveva appunto essere un meccanismo per la risoluzione di queste crisi. Quindi, possiamo pensare che tutto va per il meglio, nel migliore dei modi possibili?
Certamente no, ed è per questo che ho invitato Benjamin Masse-Stamberger, giornalista economico e membro del Comitato Orwell, e Josse Roussel, professore alla Paris School of Business, a venire a discuterne su Radio-Sputnik, nella trasmissione Les Chroniques de Jacques Sapir.

Le crisi in Spagna e in Italia

In realtà, questi eventi sono preoccupanti per due motivi, ragione per cui dovrebbero ricevere una migliore copertura mediatica. In primo luogo perché questi salvataggi – perché è di questo che si tratta in realtà – saranno costosi. E questo è vero in particolare per il salvataggio delle due banche italiane, Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza. In questo caso, le “sofferenze” di questi due istituti saranno trasferite a una particolare istituzione, chiamata “bad bank”. Ciò necessariamente avrà un costo per il contribuente italiano, stimato a 10 miliardi di euro, pari allo 0,6% del PIL. Nel caso della Spagna, il Banco Santander ha acquisito il Banco Popolare al prezzo simbolico di un euro, ma ha anche acquisito tutte le attività, compresi i crediti inesigibili. Questo istituto potrebbe scoprire, nelle prossime settimane, che il costo effettivo di queste operazioni è ben lontano da quello che è stato inizialmente previsto. Va aggiunto che le regole di ripartizione dei costi potrebbero pesare in parte anche sui risparmiatori, benché questi ultimi non siano in alcun modo coinvolti in queste operazioni.
Un colpo mortale all’Unione bancaria?

Vale la pena sottolineare un punto. Quanto è stato fatto in Italia, che da questo punto di vista è molto diverso da quanto è stato fatto in Spagna, rappresenta una negazione del meccanismo dell’ Unione bancaria. Questo è stato chiaramente affermato da Ferdinando Giugliano in un recente articolo pubblicato su Bloomberg, “L’Unione bancaria Europea in punto di morte in Italia”. L’Unione bancaria cercava proprio di evitare il coinvolgimento degli Stati nella risoluzione delle crisi bancarie. Ma il governo italiano ha deciso diversamente, indebolendo ulteriormente un meccanismo in cui la Germania si è impegnata solo con riluttanza. Si può presumere che questa reticenza non potrà che aumentare in seguito all’atteggiamento del governo italiano, e che la Germania sospenderà definitivamente la sua partecipazione alla unione bancaria.

[Riportiamo da Bloomberg:

“Lo schema italiano è radicalmente diverso da quello messo in atto due settimane fa, quando il Banco Santander ha acquistato Banco Popular per un euro. In quel caso Santander ha anche acquistato i prestiti in sofferenza di Popolare e tutti i futuri rischi legali. Inoltre è andato immediatamente sul mercato per raccogliere capitali. Qui Intesa selezionerà solo le attività di suo gradimento e insiste affinché l’operazione non influisca sul suo rapporto di capitale.
Questo piano è uno schiaffo nei confronti dei contribuenti italiani, che secondo alcune stime potrebbero finire per pagare circa 10 miliardi di euro. Il governo avrebbe potuto intraprendere un percorso meno costoso, con il “bail in” degli obbligazionisti senior. Ha scelto di non farlo: molti di questi strumenti sono nelle mani di piccoli investitori che li hanno acquistati senza essere pienamente consapevoli dei rischi. Il governo vuole evitare una ripercussione politica e il rischio di diffusione del contagio nel sistema. Tuttavia, 10 miliardi di euro è un premio enorme da pagare come assicurazione contro un contagio. E Roma può anche non riuscire a evitare la sfida – da parte dei contribuenti che si sentiranno ingannati.
Cosa più importante, questo piano è un pugnale nel cuore dell’Unione bancaria dell’area dell’euro. Questa è stata una delle principali risposte dell’Europa alla crisi del debito sovrano, intesa a limitare il contributo dei contribuenti ai salvataggi bancari e ad assicurare che tutti i creditori dell’area dell’euro si trovassero in una serie coerente di regole.
L’Italia basa il proprio piano sul suo regime di liquidazione interna. Roma effettivamente aggirerà il “comitato di risoluzione unico” dell’UE, che dovrebbe gestire in maniera ordinata i fallimenti delle banche e la “direttiva sul risanamento e la risoluzione delle banche”, che dovrebbe agire come regolamento unico dell’eurozona. Il vantaggio sarà quello di risparmiare gli obbligazionisti senior, ma il costo sarà enorme: indebolire, forse irreversibilmente, la credibilità delle nuove istituzioni europee.
Ciò è importante per il presente quanto per il futuro. L’unione bancaria dell’area dell’euro è incompleta: richiede un regime comune di garanzia dei depositi per garantire che i depositi – fino a 100.000 euro – siano ugualmente protetti in tutti gli Stati membri. Ironia della sorte, tra i sostenitori più decisi di questa misura vi sono due italiani – Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia e Pier Carlo Padoan, ministro delle Finanze in Italia. La Germania è più scettica, temendo un eccessivo rischio di condivisione. Dopo questo salvataggio, sarà molto più difficile convincere Berlino a completare l’unione bancaria. Dopo tutto, la Germania temeva che la garanzia di deposito comune avrebbe potuto essere utilizzata in modo improprio, proprio per salvare gli obbligazionisti senior, per esempio.”]
Crisi rivelatrici di un profondo disordine…

Ma c’è un altro motivo per cui queste notizie avrebbero meritato un posto di primo piano sui media francesi. Stiamo infatti realizzando che queste crisi bancarie significano che la situazione macroeconomica nella zona euro non è ancora tornata alla normalità, e ne è anzi ben lontana, in contrasto con la retorica tranquillizzante delle autorità, ma anche dei giornalisti, su questo argomento. Inoltre, se guardiamo ai prestiti in essere in Francia e in Italia, vedremo che sono ancora lontani dai livelli precedenti alla crisi del 2007-2008.


Se c’è una crisi bancaria, è bene ricordarlo, è perché nel bilancio di queste banche c’è un accumulo di crediti inesigibili. Ma se c’è un accumulo di crediti inesigibili, è perché un intero settore dell’economia va male, sia le piccole imprese sia le famiglie. Una crisi bancaria è sempre profondamente rivelatrice di problemi molto più profondi nell’economia. Da qui la domanda: è possibile una nuova crisi delle banche europee? Da questo punto di vista, si dovrebbe guardare all’andamento del mercato ipotecario. Se questo mercato dovesse andare in crisi nei prossimi mesi, la posizione di molte banche si indebolirebbe, e potrebbe rievocare lo spettro di una crisi bancaria sistemica nei vari paesi europei.
Per Benjamin Masse-Stamberger, da me invitato a Radio Sputnik:
“Nonostante quello che ci viene detto, l’economia della zona euro è in lieve miglioramento, è vero, ma non c’è una vera ripresa basata su fondamentali veramente solidi. La ripresa è basata in realtà sulla politica condotta dalla Banca centrale europea con le sue iniezioni di liquidità, una politica fortemente espansiva e nuovamente basata sul debito pubblico e sul debito privato.”
Per Josse Roussel, il rischio principale proviene dall’evoluzione del modello di business della banca, ma anche:
” …dal mercato obbligazionario. I mercati obbligazionari sono sopravvalutati, i rendimenti dei titoli sono a livelli storicamente bassi, il che significa che i titoli sono estremamente costosi, dato che i due si muovono in senso inverso. C’è quindi il rischio che i mercati obbligazionari scendano a livelli di valutazione molto più bassi, vale a dire il rischio di un crollo del mercato obbligazionario“.

mercoledì 28 giugno 2017

Pianura Padana super inquinata: come salvare i 23 milioni di abitanti?

Il 40% della popolazione italiana – oltre 23 milioni di persone – risiede nelle regioni che compongono la pianura Padana e in quest’area viene prodotto oltre il 50% del Pil nazionale. Questo comporta elevatissime emissioni in atmosfera nel bacino padano dove, peraltro, la conformazione orografica e le particolari condizioni meteoclimatiche rendono molto difficile la dispersione degli inquinanti, provocando superamenti dei valori limite per polveri, ossidi di azoto e ozono.
Finora tanto si è detto ma pochissimo o nulla si è fatto. Anzi, sono stati anche raddoppiati e potenziati gli inceneritori, tra le altre cose. Ora 18 realtà, istituzionali e non, di quest’area si sono unite per tentare di mettere in campo una strategia che affronti dal basso e in maniera coordinata il problema dell’inquinamento atmosferico, educando, informando e formando. Almeno è questa, sulla carta, la finalità del progetto europeo Prepair (Po Regions Engaged to Policies of Air) per promuovere stili di vita, di produzione e di consumo più sostenibili, cioè capaci di incidere sulla riduzione delle emissioni. Per farlo, saranno realizzate specifiche azioni di sensibilizzazione e divulgazione rivolte ad operatori pubblici, privati e alle comunità locali. La dimensione territoriale è estesa a tutta l’area del bacino del Po e al territorio sloveno, il progetto si svilupperà fino al gennaio 2024. A disposizione ci sono tanti soldi: 17 milioni di euro da investire nell’arco di 7 anni, 10 quelli in arrivo dall’Europa grazie ai fondi del Programma Life.
Cinque i temi sui quali agirà il progetto – agricoltura, trasporti, biomasse, efficienza energetica e monitoraggio & valutazione – mentre i diversi portatori di interesse si sono espressi sulle azioni che verranno realizzate nel corso dei 7 anni di progetto.
I partner del progetto
Sono 18 i partner che partecipano al progetto Life Prepair: oltre alla Regione Emilia-Romagna, che svolge il ruolo di capofila, ci sono Lombardia, Piemonte, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Provincia di Trento, le Agenzie ambientali di Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte, Veneto, Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia e Agenzia per l’ambiente della Slovenia; i Comuni di Bologna, Torino e Milano; Ervet e Fondazione Lombardia per l’Ambiente.

martedì 27 giugno 2017

Cgia, aumenta il divario tra Nord e Sud Italia: nel Mezzogiorno uno su due a rischio povertà

In questi ultimi anni di crisi, il divario economico e sociale tra il Nord e il Sud del Paese è aumentato. A questo risultato è giunto l’Ufficio studi della Cgia. Quasi un meridionale su due si trova in gravi difficoltà economiche.
In termini di Pil pro-capite, ad esempio, se nel 2007 (anno pre-crisi) il gap tra Nord e Sud del Paese era di 14.255 euro (nel Settentrione il valore medio era di 32.680 e nel Mezzogiorno di 18.426 euro), nel 2015 (ultimo anno in cui il dato è disponibile a livello regionale) il differenziale è salito a 14.905 euro (32.889 euro al Nord e 17.984 al Sud, pari ad una variazione assoluta tra il 2015 e il 2007 di +650 euro).
Al Sud le variazioni percentuali più negative si sono registrate in Sardegna (-2,3 per cento) in Sicilia (-4,4 per cento), in Campania (-5,6 per cento) e in Molise (-11,2 per cento). Buona, invece, la performance della Basilicata (+0,6 per cento) e della Puglia (+0,9 per cento).
Sul fronte del mercato del lavoro, invece, le cose non sono andate meglio. Anzi. Se nel 2007 il divario relativo al tasso di occupazione era di 20,1 punti a vantaggio del Nord, nel 2016 la forbice si è allargata, registrando un differenziale di 22,5 punti percentuali (variazione +2,4 per cento). Nella graduatoria regionale spicca la distanza tra la prima e l’ultima della classe. Se l’anno scorso la percentuale di occupati nella Provincia autonoma di Bolzano era pari al 72,7 per cento, in Calabria si attestava al 39,6 per cento (gap di oltre 33 punti).
La divaricazione più importante, tuttavia, emerge dalla lettura dei dati relativi al tasso di disoccupazione. Se nel 2007 era di 7,5 punti percentuali, nel 2016 è arrivata a 12 (gap pari a +4,5 per cento). Sebbene tutte le regioni d’Italia abbiano visto aumentare in questi ultimi 9 anni la percentuale dei senza lavoro, spiccano però i dati della Campania e della Sicilia (entrambe con un +9,2 per cento) e, in particolar modo, della Calabria (+12 per cento).
Anche in materia di esclusione sociale, infine, la situazione è peggiorata. Se nel 2007 la percentuale di popolazione a rischio povertà nel Sud era al 42,7 per cento, nel 2015 (ultimo anno in cui il dato è disponibile a livello regionale) è salita al 46,4 per cento. In pratica quasi un meridionale su due si trova in gravi difficoltà economiche. Al Nord, invece, la soglia di povertà è passata dal 16 al 17,4 per cento. Il gap, pertanto, tra le due ripartizioni geografiche è aumentato in questi 8 anni di 2,2 punti percentuali.

lunedì 26 giugno 2017

Diaz, la politica irresponsabile

I leader italiani e in generale le classi dirigenti «hanno affinato modelli collegiali e ultraprotettivi della burocrazia» specializzati nella raffinata arte di arrendersi «di volta in volta all’impossibilità di ricostruire le catene di comando e dunque individuare chi abbia sbagliato». È l’upgrade di un antico male, il consociativismo, quello passato in rassegna in «Irresponsabili. Il potere italiano e la pretesa dell’innocenza» (Rizzoli, 288 pagine, 18 euro) scritto con documentazione ragionata fin nel dettaglio da Alessandra Sardoni, conduttrice di Omnibus (La7) e inviata parlamentare.
Sardoni sceglie alcune vicende recenti come paradigmatiche delle «vie di fuga» dalle responsabilità. Il G8 di Genova, i destini paralleli ma opposti dei ministri Lupi e Cancellieri, il pasticciaccio degli esodati della ministra Fornero, i vantaggi reciproci del guerra fra politica e giustizia, la narrazione postuma del «complotto» che nel 2011 disarcionò Berlusconi. Ne deriva un desolante catalogo di incolpevoli, inconsapevoli, revisionisti, imbrogliatori di matasse, doppiopesisti, professionisti dell’elusione del punto.
L’introduzione parte dal fuoriclasse Matteo Renzi. Che promette «la responsabilità è mia, ci metto la faccia, se non passa la riforma del senato lascio la politica». E poi non lo fa. Ma il conformista di sinistra non si illuda. Con rigoroso uso di un unico metro, Sardoni non risparmia anche quelli che entrano nel racconto da «buoni», nella parte delle vittime. O da capri espiatori, doppi tragici degli incolpevoli.
Così è nel capitolo sulla Diaz dove si ripercorre «l’irresistibile ascesa del capo della polizia» De Gennaro. L’accertamento delle responsabilità giudiziarie – da cui viene assolto – è un percorso accidentato che arriva fino ai nostri giorni. Con quelle politiche va anche peggio: si ferma subito. Non si dimette il capo della Polizia anzi da lì la sua già smagliante carriera ha persino una svolta positiva. Non si dimette il ministro degli Interni Scajola, né il guardasigilli Castelli, che arriva alla caserma Bolzaneto e non vede nulla. Non si dimette il vicepremier Fini: stava in un luogo in cui non doveva, la caserma di Forte San Giuliano. Il magistrato Alfonso Sabella, coordinatore di Bolzaneto per il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, si trasforma poi in tutore della trasparenza. Anche per lui il gip non rileva responsabilità penali. Ma nella sentenza lascia scritto che «la situazione complessiva – e la sensibilità istituzionale che è lecito attendersi da un magistrato – avrebbero probabilmente consigliato maggiore attenzione e prudenza». Il reato di tortura a sedici anni di distanza non è stato approvato. «In qualsiasi altro paese si sarebbe dimesso» diventa il motto di una classe dirigente adolescente, in continua ricerca di alibi, per la quale «scartare la responsabilità personale è funzionale alla conservazione del potere, qualunque esso sia».

venerdì 23 giugno 2017

“PrestO”: il ritorno dei voucher, dal Pd con furore

Erano stati cancellati a metà marzo dal Governo Gentiloni per disinnescare il referendum promosso dal sindacato ed evitare, in caso di una nuova batosta per il Pd, un effetto domino alle amministrative e un riflesso negativo sulle elezioni amministrative, ma sono stati di fatto reintrodotti con la “manovrina”.
Si scrive “PrestO”, acronimo che sta per prestazione di lavoro occasionale, ma sono di fatto i vecchi voucher introdotti dal Jobs Act.
Non ci sarà più bisogno di acquistare i tagliandi in tabaccheria: la procedura potrà essere eseguita via internet. Potranno far ricorso al “PrestO” solo le aziende con meno di 5 lavoratori subordinati a tempo indeterminato, ovvero la maggioranza delle attività che compongono il nostro tessuto imprenditoriale.
Come gli “antenati”, precarizzano e flessibilizzano ciò che è già precario, azzerando le tutele per dei tipi di lavori per i quali i contratti già ci sono, dal part-time al lavoro a chiamata.
L’inquadramento del lavoro occasionale accessorio al tempo di Gentiloni, avrà due nomi: “Libretto Famiglia” per le persone fisiche e “PrestO” per le imprese.
Per quanto riguarda il libretto famiglia, sono ammesse solo le seguenti attività: piccoli lavori domestici, compresi quelli di giardinaggio, pulizia e manutenzione; assistenza domiciliare a bambini e persone anziane o ammalate o affette da disabilità; insegnamento privato supplementare. In entrambi i casi le attività svolte per il medesimo committente devono rispettare il limite delle 280 ore di lavoro nell’anno civile.
Il libretto contiene titoli di pagamento del valore nominale di 10 euro l’uno. Il singolo voucher può remunerare non più di un’ora di lavoro e un’ora di lavoro può essere retribuita anche con più di un voucher. La singola ora di lavoro occasionale accessorio, invece, non può essere remunerata con meno di 9 euro.
Nel settore agricolo, il minimo è pari alla retribuzione media oraria stabilita dal contratto collettivo per il lavoro subordinato. In entrambi i casi non è previsto il voucher cartaceo.
“PrestO” potrà essere utilizzato solo dalle piccolissime aziende, fino a 5 dipendenti, ed entro un tetto complessivo di 5mila euro l’anno. Ogni lavoratore potrà essere pagato fino a 2. 500 euro. Il contratto “occasionale” è espressamente escluso in edilizia e negli appalti.
I compensi da lavoro occasionale accessorio devono rispettare questi tre vincoli: il prestatore non può ricevere più di 5.000 euro per anno civile dal complesso dei committenti; il committente non può erogare più di 5.000 euro per anno civile al complesso dei prestatori di cui si avvale; il prestatore non può ricevere più di 2.500 euro per anno civile dallo stesso committente. Al superamento del limite annuale di 280 ore di lavoro e/o del limite annuale di 2.500 euro nel rapporto tra prestatore e singolo committente, il rapporto di lavoro si trasforma a tempo pieno e indeterminato. Un automatismo che non vale quando il committente è un’amministrazioni pubblica.
Il ricorso al contratto di prestazione occasionale è vietato per: le imprese con oltre 5 lavoratori subordinati a tempo indeterminato; imprese attive in edilizia, escavazione, lavorazione lapidei, estrazione in miniere, cave, torbiere; imprese esecutrici di appalti di opere e servizi. Sono escluse anche le imprese del settore agricolo.
Il contratto di prestazione occasionale prevede limitazioni per il settore agricolo. E’ possibile, infatti, avvalersi esclusivamente di: pensionati di vecchiaia e invalidità; giovani con meno di 25 anni regolarmente iscritti a un ciclo di studi scolastico o universitario; disoccupati; percettori di prestazioni integrative del reddito da lavoro, di REI (Reddito di inclusione), o di altre prestazioni di sostegno del reddito. Un ulteriore limite è costituito dal fatto che nessuno degli appartenenti a queste categorie, deve essere stato stato iscritto l’anno prima negli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli.
Riguardo il trattamento tributario, la normativa attuale, come quella precedente, prevede compensi esenti da imposta. Per quanto riguarda il trattamento assicurativo e previdenziale, sono a carico del committente la contribuzione pensionistica del 33% alla Gestione separata dell’INPS, la contribuzione assicurativa per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali del 3,5% all’INAIL.
Nel caso del libretto famiglia, per ogni voucher utilizzato, oltre ai 10 euro di valore nominale, sono a carico del committente 1,65 euro di contribuzione pensionistica alla Gestione separata dell’INPS, 0,25 euro di contribuzione assicurativa per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali all’INAIL. Insieme agli infortuni sul lavoro, sono assicurate anche le malattie professionali.
Per poter attivare una prestazione occasionale, è innanzitutto necessario che committente e lavoratore si registrino, con le loro credenziali, all’interno del portale Inps. Successivamente si accede a un’apposita piattaforma telematica, nella quale il committente dovrà attivare la prestazione inserendo una apposita comunicazione che deve essere inviata almeno un’ora prima dell’inizio della prestazione. E’ possibile avvalersi anche dell’aiuto di un intermediario o attivare il contratto attraverso i servizi del contact center Inps Inail.
Se la prestazione non viene resa, il datore di lavoro ha 3 giorni per comunicarlo all’Inps. Decorso il termine, l’Inps liquiderà quanto dovuto. Il pagamento della prestazione viene effettuato dall’Inps entro il 15 del mese successivo a quello in cui è stata svolta l’attività lavorativa e avviene direttamente nel conto corrente indicato dal lavoratore o tramite bonifico domiciliato alle Poste.

giovedì 22 giugno 2017

Fuga dall'Italia per trovare lavoro: via in 800mila

Dal 2008 al 2016 più di 500mila connazionali si sono cancellati dall’anagrafe per trasferirsi all’estero. Al primo posto tra le destinazioni dei nuovi emigrati italiani c’è la Germania, seguita da Regno Unito e Francia.
A questo numero va aggiunto un altro dato: i quasi 300mila stranieri, soprattutto provenienti dai Paesi dell’Est, che in questi anni sono rimpatriati nel Paese di origine non trovando più opportunità in Italia.
E' la fotografia scattata dall'Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro nel rapporto 'Il lavoro dove c’è. Un’analisi degli spostamenti per motivi di lavoro negli anni della crisi', presentato oggi a Roma, nel quale vengono esaminati i cambi di residenza e i comportamenti degli italiani partendo dalla crisi occupazionale del 2008, che ha cambiato le esigenze della popolazione e incrementato il numero di soggetti decisi a spostarsi in un’altra città per lavorare.
L’indagine presenta e chiarisce gli aspetti di un altro fenomeno, per certi versi altrettanto significativo del trasferimento all’estero, ma spesso meno considerato: l’emigrazione interna tra le regioni. L’Italia è un paese con opportunità molto diverse e una situazione di disomogeneità interna che non ha pari in Europa: per questo motivo i cambi di residenza da una regione a un'altra sono notevoli e frequenti.
Dal rapporto si evince che, tra il 2008 e il 2015, più di 380mila italiani si sono trasferiti da una regione del Sud in un altro territorio del Centro o del Nord Italia: si tratta principalmente di lavoratori qualificati che vedono nella fuga dal Mezzogiorno la via migliore per guadagnare di più.
È facile notare anche come il lavoro nelle città di residenza sia diminuito in questi anni e come le opportunità siano distribuite in modo diverso da territorio a territorio. Lavorare nel comune di residenza sembra, infatti, un privilegio riservato agli occupati tra i 15 e i 64 anni residenti in 13 grandi comuni con oltre 250mila abitanti, in cui Genova, Roma e Palermo superano il 90% di occupati residenti nel 2016. Inoltre, oltre un occupato su dieci lavora in una provincia diversa da quella di residenza.
Questo spaccato conferma quanto già rilevato dallo stesso osservatorio nel rapporto annuale sulle dinamiche del mercato del lavoro nelle province italiane, in cui le possibilità occupazionali nelle 110 aree provinciali italiane si differenziano enormemente da Nord a Sud. Si passa, infatti, da un tasso di occupazione del 37% nella provincia di Reggio Calabria ad un tasso del 72% nella provincia di Bolzano.
Se il dato della mobilità è ben presente nei cambi di residenza altrettanto si può dire per il pendolarismo, quotidiano ed interprovinciale, che può incidere fortemente sullo stipendio, la soddisfazione dei lavoratori e la qualità della vita.
Dal rapporto emerge, ad esempio, che Milano - per le sue brevi distanze, l’intensità delle occasioni di lavoro e i servizi di trasporto efficienti - è l’epicentro degli spostamenti interprovinciali in Italia.
Il capoluogo lombardo, infatti, è presente fra le province di destinazione o di partenza degli occupati 'pendolari' in ben 6 delle 10 principali tratte pendolari. Al primo posto ci sono i 118mila lavoratori che ogni giorno si muovono da Monza e Brianza per lavorare a Milano. Al secondo posto 59 mila lavoratori residenti a Varese che vanno abitualmente a lavorare in un comune della provincia di Milano mentre al terzo posto troviamo 48 mila residenti a Bergamo che raggiungono abitualmente il capoluogo lombardo per motivi di lavoro.

mercoledì 21 giugno 2017

La natura si sta ribellando

Il clima sta cambiando, la natura si sta ribellando, le disuguaglianze stanno aumentando e non basta fare un G7 a Bologna o un accordo a Parigi per fermare questo disastro ecologico e sociale. La tecnologia non basterà a salvare il pianeta. Occorre abbandonare un modello di sviluppo basato sulla “crescita infinita”, che mira a far crescere il Pil, sottomettendo la natura, abbattendo i costi ambientali e sociali, facendoci consumare il più possibile. Una ruota per criceti, non per esseri umani.
Non bastano più le vuote promesse di un mondo migliore, non basta schierarsi contro il cattivo Trump per dire che i buoni fermeranno il disastro ambientale, con l’aiuto della tecnologia, senza rinunciare (ovviamente) alle comodità conquistate. In una società dove ci sono almeno 122 telefonini e 62 auto ogni 100 abitanti, dove si producono mezza tonnellata di rifiuti annui a testa, dobbiamo comprendere i nostri eccessi: “accompagnare l’eco-efficienza alla sufficienza” (Wolfang Sachs). Per questo, l’11 giugno a Bologna, contemporaneamente al G7, cento scienziati italiani e duecento realtà della società civile hanno marciato e protestato, presentando un manifesto per una società ecologica con dieci proposte per un’Italia a zero emissioni e zero veleni.
Per questo Francesco Gesualdi e Gianluca Ferrara hanno recentemente scritto un manuale, La società del BenEssere comune, in cui si legge:
“Secondo il rapporto della ong britannica Oxfam, i 62 uomini più ricchi del mondo posseggono un patrimonio equivalente a quello dei 3,6 miliardi più poveri. Oggi ci troviamo a un bivio. Pensare in Occidente di intraprendere una nuova stagione come quella cominciata dopo il secondo conflitto mondiale è utopico. La folle presunzione di poter crescere in maniera infinita in un pianeta dalle risorse finite non è più praticabile”.
Lo stesso “terrorismo” non è altro che una ripercussione di politiche imperialiste finalizzate ad accaparrare sempre nuove risorse. Nel libro si avanzano concrete proposte per realizzare una società del benessere comune: dal reddito minimo di cittadinanza, alle eco-tasse sui prodotti e attività più inquinanti, affinché le esternalità siano incluse nel prezzo del prodotto: carbon tax, distance tax: una sorta di iva differenziata che andrebbe a colpire i prodotti o le attività più futili, inquinanti, creati con energie non rinnovabili o proveniente da lontano. Per combattere l’obsolescenza programmata, i produttori dovrebbero essere obbligati a riprendersi gli scarti da imballaggio (come accade dal 1991 in Germania) e le carcasse dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (detti raee: elettrodomestici, pc e cellulari), oppure si potrebbero incentivare forme di noleggio: dal car sharing alla condivisione di lavatrici.
In una società del benessere comune occorre ridurre l’orario di lavoro, renderlo etico, a servizio dell’ambiente e della comunità: anche i sindacati devono ripensare ai loro obiettivi. Non possono limitarsi a difendere il posto del lavoro senza capire le ripercussioni ambientali e sanitarie di quel lavoro: devono capire che non c’è lavoro in un pianeta morto. Una riduzione dell’orario di lavoro permetterebbe di “liberare” tempo: per il volontariato, per le relazioni familiari e sociali, per l’auto-produzione. Occorre difendere la fiscalità progressiva, e pensare anche ad altre forme di tassazione (sul tempo e non solo sul reddito: si chiede a tutti qualche ora di lavoro socialmente utile). In questo modo, anche i servizi pubblici e la tutela dell’ambiente, ne gioverebbero.

martedì 20 giugno 2017

Mali: attacco jihadista in un residence a Bamako, due i morti

Al grido di “Allah Akhbar” un gruppo di terroristi a Bamako, capitale del Mali, ha attaccato un resort e preso in ostaggio alcuni turisti occidentali. Secondo i media africani, al momento il bilancio sarebbe di due vittime. Le forze speciali maliane sarebbero comunque riuscite a liberare i trentadue ostaggi che si trovavano all’interno della struttura.
Al momento non risulta ancora che vi siano italiani fra i turisti coinvolti nel rocambolesco sequestro messo in atto dai jihadisti, sulla cui natura ed appartenenza peraltro continuano ancora ad esservi dubbi: più che dell’ISIS, infatti, potrebbero essere appartenenti ad Al Qaeda, che nel paese è molto attiva e che ha collaborato alla secessione del nord del paese di tre anni fa. La Farnesina è comunque al lavoro insieme alle autorità maliane per individuare eventuali presenze italiane nel paese.
Il ministro della sicurezza nazionale, Salif Traore, ha dichiarato che “E’ un attacco jihadista” e che “le forze speciale maliane sono intervenute… Purtroppo per il momento ci sono due morti, incluso un cittadino franco-gabonese”.

lunedì 19 giugno 2017

Qatar e guerra valutaria mondiale

Le richieste al Qatar dei vicini del GCC comprendono la cacciata dei capi di Fratelli musulmani e Hamas, la chiusura dei media al-Jazeera, Quds al-Arabi, The Huffington Post, Middle East Eye e Araby al-Jadid, dei think tank statunitensi The Brookings Institution e The Rand Corporation, che chiedevano di dare il potere ai Fratelli musulmani per ‘contenere’ l’ondata islamista nel mondo arabo, e la cacciata del caporedattore Azmi Bishara, ex-membro della Knesset fuggito da Israele nel 2007. Un alto funzionario saudita avrebbe anche detto che, “non si fermeranno finché l’emiro Tamim non si dimette, unica soluzione della crisi“. Questo è ciò che pretende da Doha una parte del GCC (Gulf Cooperation Council): Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrayn, sostenuta da Egitto, Giordania, Niger e Senegal; mentre il Qatar, supportato da Quwayt, Oman e Turchia, vi si oppone. L’Oman si oppone anche all’iniziativa saudita di unificare le forze armate del GCC sotto il comando militare congiunto saudita, e si è anche rifiutato di sostenere le operazioni dell’Arabia Saudita nello Yemen. L’emiro Tamim aveva anche l’appoggio della tribù dei Bani Tamim, una delle più importanti dell’Arabia Saudita e presente anche in Iraq. Dei Bani Tamim fanno parte anche le famiglie religiose più influenti del regno saudita, come gli Shayq al-Ash e gli Uthaymin.
Il caporedattore di Middle East Eye, David Hearst, uno dei media che i sauditi vogliono far bandire dal Golfo Persico, scriveva: “Il Qatar non è Gaza. Ha amici dai grandi eserciti, un Paese con una popolazione più piccola di Houston ha un fondo sovrano di 335 miliardi di dollari. È il più grande produttore di gas naturale in Medio Oriente. Ha relazioni con la Exxon“. Invece, il ministro degli Esteri del Qatar, Muhamad bin Abdurahman bin Jasim al-Thani, appena tornato da Mosca, dichiarava, “Il Qatar non si arrenderà mai alla pressione… e non cambierà la sua politica estera indipendente“. In risposta il ministro degli Esteri degli EAU Anwar Gargash affermava che non ci saranno “legami economici” con il Qatar, se Doha non s'”impegna in modo certo” a non finanziare più gli islamisti, altrimenti le operazioni assumeranno la forma di “embargo sul Qatar”. Inoltre, il capo della polizia degli EAU, Dhafi al-Qalfana, proponeva l’annessione del Qatar agli Emirati Arabi Uniti, giustificandola con il fatto che il Qatar era sotto l’autorità dell’emiro di Abu Dhabi prima dell’occupazione coloniale inglese. Qalfana fece arrestare 75 membri della Fratellanza musulmana con l’accusa di tentato colpo di Stato, e definì la vittoria elettorale del presidente turco Erdogan, “il peggior disastro politico per il futuro della Turchia, essendo Erdogan paragonabile all’islamista Mursi in Egitto“. Riyadh imbarcava nella sua guerra contro Doha anche sei Paesi africani: Niger, Mauritania, Senegal, Ciad, Comore e Mauritius, che ritiravano i loro ambasciatori a Doha, mentre Gibuti riduceva il personale dell’ambasciata in Qatar, visto che Doha aveva mediato la disputa di confine tra Gibuti ed Eritrea.
L’Arabia Saudita utilizzava gli ambasciatori nelle capitali africane per convincerne i presidenti a richiamare i rispettivi ambasciatori a Doha e a rompere le relazioni diplomatiche con il Qatar. Infattu, Riyadh controlla il Fondo Arabo per lo Sviluppo Economico e Sociale (Fades) attivo in Africa. La Nigeria, però, si rifiutava di prendere posizione nel conflitto, assieme a Marocco, Algeria, Tunisia, Sudan e Somalia, che hanno legami diplomatici ed economici con sauditi e qatarioti. Il presidente somalo Muhamad Abdullahi Muhamad rifiutava l’offerta saudita di 80 milioni di dollari in cambio dell’interruzione totale delle relazioni diplomatiche con il Qatar. Il ministro per la Pianificazione e lo sviluppo economico della Somalia, Jamal Muhamad Hasan, annunciava tuttavia che l’Arabia Saudita aveva accettato di aumentare la quota dell’Haj dalla Somalia del 25%. L’importanza strategica della Somalia per i Paesi del Golfo spiega tale accordo nonostante il rifiuto ad aderire alla campagna saudita anti-Qatar.
L’ambasciatore degli EAU negli Stati Uniti, Yusif al-Utayba, lanciava un’imponente campagna lobbistica a favore dell’azione saudita ed emiratina. Ed Royce, presidente del Comitato affari esteri del Congresso degli Stati Uniti, del partito repubblicano, avvertiva: “Se non cambia atteggiamento, il Qatar subirà sanzioni nell’ambito di un nuovo disegno di legge che presenterò per punire i sostenitori di Hamas”. Eppure, il 14 giugno, Washington e Doha firmavano l’accordo per l’acquisto di 36 cacciabombardieri F-15, per 12 miliardi di dollari. L’accordo fu completato dal ministro della Difesa del Qatar Qalid al-Atiyah e dall’omologo statunitense James Mattis, a Washington. Atiyah aveva detto che l’accordo sottolinea “l’impegno di lunga data del Qatar a collaborare con i nostri amici e alleati degli Stati Uniti, portando avanti la nostra cooperazione militare e una più stretta collaborazione strategica nella lotta all’estremismo violento, promuovendo pace e stabilità nella nostra regione e oltre“. Il ministro della Difesa del Qatar definiva l’accordo, “ulteriore passo nella nostra relazione su difesa e cooperazione strategica con gli Stati Uniti, e non vediamo l’ora di continuare i nostri sforzi militari congiunti con i nostri partner, qui negli Stati Uniti”. “L’accordo darà al Qatar un’avanzata capacità ed aumenterà la cooperazione per la sicurezza e l’interoperabilità tra Stati Uniti e Qatar”. Infine, 2 navi da guerra dell’US Navy giungevano a Doha per le esercitazioni congiunte con la Marina del Qatar. Secondo Abdalbari Atwan, caporedattore del quotidiano Rai al-Yum, il contratto del Qatar per l’acquisto di 20 miliardi di materiale militare dagli Stati Uniti costringerà l’Arabia Saudita a cedere sulle pretese verso Doha, “Dato che gli Stati Uniti hanno cambiato posizione sul Qatar, c’è la possibilità che Arabia Saudita ed alleati ritirino alcune loro richieste“.
Il Qatar controlla riserve di gas per oltre 25 trilioni di metri cubi, ed è il quarto produttore di gas mondiale dopo Stati Uniti, Russia e Iran. Il gasdotto del Qatar verso Emirati Arabi Uniti e Oman fornisce a Dubai il 40% del gas che importa, mentre l’Egitto riceve dal Qatar il 60% del gas importato. Il Qatar possiede anche notevoli risorse di elio; è tra i primi quattro Paesi al mondo. Nel 2005 fu attivato l’impianto di elio di Ras Lafan che rifornisce i mercati asiatici. Il 24% dei depositi nelle banche del Qatar proviene da Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Inoltre, il Qatar ospita la base aerea al-Udayd, con circa 10000 soldati statunitensi, mentre il parlamento turco decideva d’inviare presso la base turca in Qatar almeno 3000 soldati. Il vicepresidente del Partito Repubblicano del Popolo turco Ozturk Yilmaz, all’opposizione, avvertiva: “Sappiamo che certi Paesi vogliono rovesciare l’emiro e sostituirlo con un nuovo sovrano… Se il Qatar volesse utilizzare quelle truppe per preservare la famiglia regnante, dovremmo sostenerlo?” La posizione della Turchia è dettata da un altro fattore: i Fratelli musulmani che governano ad Ankara. La Turchia punta sul Qatar, ma se Doha dovesse riavvicinarsi all’Arabia Saudita, cosa non impossibile, la Turchia rimarrà ancor più isolata nel mondo arabo. Ma se il Qatar, alleato dei Fratelli musulmani, venisse sconfitto, la Turchia sarebbe il prossimo obiettivo di Ryadh, perciò il 14 giugno, il ministro degli Esteri turco Mevlut Çavusoglu visitava Doha per mostrare il sostegno turco al Qatar, mentre lo stesso giorno, il primo ministro iracheno Haydar al-Abadi si recava in Arabia Saudita per colloqui con re Salman. Anche il ministro degli Esteri saudita Adil al-Jubayr s’incontrava a Washington con il segretario di Stato degli USA Rex Tillerson, il 13 giugno, dichiarandosi disposto ad inviare forniture alimentari e mediche in Qatar, “se necessario”. Il Qatar confermava invece la persistenza del blocco dei collegamenti che definiva “un assedio, non un boicottaggio“. L’Oman, inoltre, mantiene aperti i propri porti ai traffici del Qatar, mentre il ministro degli Esteri della Germania Sigmar Gabriel definiva l’azione saudita, “completamente sbagliata e certamente non è la politica tedesca. Ciò potrebbe potrebbe portare a una guerra“.
A fine marzo 2017, rappresentanti di Hezbollah incontravano i capi dell’Hayat Tahrir al-Sham, finanziato dal Qatar, per accordarsi sulla liberazione dei residenti delle città sciite di Fuah e Qafraya in Siria, in cambio del permesso ai terroristi dell’Hayat Tahrir al-Sham di lasciare le città di Madaya e Zabadani presso Damasco, spaventando Riyadh su presunti rapporti tra Doha e Teheran. Inoltre, anche l’Oman rafforzava i legami con l’Iran, svolgendo dal 2011 esercitazioni navali congiunte con la Marina iraniana. Infine, il Quwayt invitò e ricevette il presidente iraniano Hassan Rouhani, nel febbraio 2017. La possibilità che anche il Qatar si unisse a Oman e Quwayt nell’apertura verso l’Iran, minacciava la primazia dell’Arabia Saudita nel GCC. Inoltre, ad aprile scadeva la moratoria di 12 anni sullo sviluppo della parte qatariota del mega-giacimento North Field nel Golfo Persico, il cui gas naturale liquefatto (LNG) doveva essere destinato all’Unione europea attraverso un gasdotto da costruire attraverso Arabia Saudita, Siria e Turchia, in alternativa al gasdotto Iran-Iraq-Turchia; ciò portò il Qatar a suscitare ed alimentare la guerra per procura contro la Siria. Ma ora che tale guerra è fallita, il Qatar punta ai mercati asiatici, utilizzando le infrastrutture controllate dall’Iran. Se Doha tagliasse i rapporti con Teheran, si precluderebbe il mercato asiatico per il gas del giacimento North Field.
Nel 2012, l’Iran accettava lo yuan per l’acquisito dei suoi petrolio e gas, e nel 2015 accettava il rublo. “Il dollaro è la moneta di riserva mondiale solo perché il petrolio è oggi negoziato in dollari. I Paesi che cercano riserve in valuta estera tendono a guardare al dollaro proprio perché “convertibili” in petrolio. Ciò consente agli Stati Uniti di stampare quantità infinite di dollari, venendo scambiati con beni e servizi reali da altri Paesi. Questo è conosciuto come “privilegio del signoraggio”, ovvero assorbire quantità crescenti di beni e servizi da altri Paesi senza contraccambiare con qualcosa di valore equivalente. A sua volta, tale privilegio permette di finanziare la macchina militare statunitense, che oggi costa oltre 600 miliardi di dollari all’anno”. Nel 2012 la Banca Popolare cinese annunciava che non avrebbe più incrementato le proprie riserve in dollari statunitensi, e nel 2014 la Nigeria aumentava le proprie riserve valutarie in yuan dal 2% al 7%. Allo stesso tempo, la Cina avviava la valutazione dell’oro in yuan nell’ambito di ciò che il presidente della Shanghai Gold Exchange definì “internazionalizzazione dello yuan”, rendendolo convertibile in oro e aprendo la possibilità di commerciare il petrolio in oro/yuan piuttosto che in dollari cartacei. Da qui l’azione per impedire al Qatar di creare una joint venture con l’Iran per rifornire l’Asia di LNG secondo prezzi basati sullo yuan/oro. Va notato che il 18 giugno iniziavano le esercitazioni navali congiunte tra Marina Militare cinese e Marina militare iraniana. La squadra cinese, comprendente il cacciatorpediniere Chang Chun, la fregata Jin Zhou e la nave da rifornimento Chao Hu, partecipava con navi iraniane alle esercitazioni nello stretto di Hormuz, tra Golfo Persico e Golfo di Oman, volte a “rafforzare le relazioni amichevoli tra Teheran e Pechino e a promuoverne la collaborazione marittima“. Dallo stretto di Hormuz passa un terzo del traffico di petroliere del mondo.
Nel frattempo, il Presidente egiziano Abdalfatah al-Sisi chiedeva di allargare il boicottaggio del Qatar alla Turchia durante la riunione con re Hamad Bin Isa al-Qalifa del Bahrayn. La Turchia e il Qatar sostengono la Fratellanza musulmana che aveva governato brevemente e in modo controverso l’Egitto con il presidente Mursi, nel 2012-2013. La Fratellanza musulmana oggi è vietata in Egitto. Qatar e Turchia s’inserirono negli affari interni dell’Egitto finanziando e sostenendo il regime dei Fratelli musulmani,

venerdì 16 giugno 2017

L'intreccio Tesoro-Morgan Stanley

Una delle più colossali truffe della storia italiana, seconda forse solo a quella sulla manipolazione di mercato da parte delle agenzie di rating del 2011-2012, sta venendo alla luce grazie all’opera paziente dei pubblici ministeri della Corte dei Conti, che ha invitato le parti a fornire deduzioni (vedi documento in evidenza).
Le parti hanno nomi e cognomi ben precisi. Da un lato c’è la Morgan Stanley, advisor del Tesoro per la gestione del debito pubblico, accusata dalla Corte dei Conti di “palesi violazioni dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione contrattuale“, di violazione dell’obbligo professionale di assistenza “anche mediante attività di consulenza e ricerca” (Dm 13 maggio 1999, n.219) e di aver ingiustamente sottratto €4,1 miliardi allo Stato italiano attraverso contratti derivati truffaldini.
Dall’altro ci sono i dirigenti del Tesoro, Maria Cannata, il suo predecessore Vincenzo La Via e gli ex direttori del Tesoro, Domenico Siniscalco e Vittorio Grilli, accusati di “negligenza”. Insieme sono corresponsabili per il 30% del danno erariale, quindi per circa €1 miliardo.
procura corte dei conti
La notizia di oggi, riportata persino dal bollettino della finanza internazionale meglio noto col nome di “Repubblica” (“Derivati, l’accusa della Corte dei Conti: “Tesoro negligente””) riguarda il deposito delle deduzioni delle parti che consente al procedimento guidato dalla Corte dei Conti di avviarsi a conclusione.
Personalmente lavoro da anni su questo filone e l’idea che mi sono fatto è che vi siano commistioni strutturali e durature nel tempo tra i dirigenti del Tesoro e i massimi dirigenti delle banche d’affari, un’idea avvalorata anche dalle evidenze emerse nel filone giudiziario “cugino” relativo alle agenzie di rating, che sono possedute dalle stesse banche d’affari che trattano i derivati con il Tesoro italiano.
A comprova di ciò basti pensare che nonostante queste pesantissime accuse da parte del maggiore organo di magistratura contabile dello Stato, la Morgan Stanley resta stabilmente nella lista degli specialisti selezionata dal Tesoro per la gestione del debito pubblico, e Maria Cannata è tuttora Direttore del dipartimento, oltre ad essere in forza al Tesoro dal 1990 (cioè dalla caduta del muro di Berlino…).
Denunciai la gravità del “problema derivati” già nel 2015, quando pubblicai uno dei primi articoli sul tema “I tassi scendono ma non per l’Italia” (31 Agosto 2015), nel quale rilevavo che nel 2008 l’Italia ha pagato in media il 4,6% di interessi passivi sul debito pubblico e nel 2014 il 4,3%. Negli stessi anni i tassi di mercato interbancario sono crollati dal 3,7% allo 0,4%!
Come è stato possibile tutto ciò? Proprio a causa dei derivati. Infatti non mi sfuggì una dichiarazione di Maria Cannata che affermò che a fine 2014 questi contratti derivati generavano 42,6 miliardi di perdita per il Tesoro. Infatti, mentre il Tesoro si faceva prestare la moneta dalle banche internazionali attraverso la vendita di BOT e BTP, si impegnava anche a pagare degli extra-premi nel caso i tassi di mercato fossero scesi, rinunciando quindi volontariamente a beneficiare della discesa dei tassi. Ecco perché in Italia la spesa per interessi continua ad essere di decine di miliardi di Euro nonostante i tassi rasentino lo zero.
Dunque, sappiamo che la Morgan Stanley è tuttora messa a “protezione” del debito pubblico italiano, ed una compagnia di negligenti è incaricata di interagire con essa! Che dire?
Successivamente alle mie analisi ed indagini sui derivati compresi che il problema era molto più profondo, e riuscii a metterlo pienamente a fuoco soltanto pochi mesi fa quando ebbi modo di visionare alcuni dei famigerati contratti derivati oggetto dello scandalo.
Così lo scorso 13 Febbraio 2017 scrissi e feci circolare l’articolo “L’emorragia da derivati: l’intreccio Tesoro-banche d’affari (prima parte)” che invito tutti a rileggere perché contiene spunti decisivi per capire cosa sta accadendo, anche al di là di quanto i pubblici ministeri della Corte dei Conti hanno fatto trapelare sino a questo momento.
dbpix-morgan2-blog480
In un passaggio chiave dell’analisi accennavo alla possibilità di una “simulazione contrattuale” dato che l’estinzione anticipata di questi contratti, fruttati alla Morgan Stanley €3,1 miliardi nel solo mese di Gennaio 2012, fu possibile grazie ad una clausola unilaterale che scattava al superamento di una soglia di €50 milioni oltre la quale Morgan Stanley aveva il diritto unilaterale di estinguere il contratto in anticipo e di incassare il profitto. Dunque, contratti a termine, che conferiscono diritti simmetrici tra le parti, sono stati di fatto trasformati in contratti di opzione, che hanno natura a-simmetrica, a vantaggio della Morgan Stanley, senza però che la banca pagasse al Tesoro il premio che le opzioni prevedono!
Relativamente all’intreccio tra dirigenti pubblici e banchieri d’affari rilevavo che nel corso degli anni 2000 il Tesoro abbia sottoscritto numerosi altri contratti derivati con la Morgan Stanley, come risulta dalla citata audizione di Maria Cannata, nonostante la clausola di estinzione anticipata unilaterale fosse già in essere (a questo proposito Cannata, nei documenti raccolti dalla Corte dei Conti, ha affermato di non essersene accorta…).
Ecco dunque profilarsi un quadro di intrecci, di conflitti di interessi permanenti, di manipolazione, di abuso di posizioni e ruoli consolidatisi nel tempo come le peggiori monarchie ereditarie.
Non pensavo che un giorno sarei arrivato a citare Repubblica, ma lo faccio volentieri quando ricorda che “La situazione di deferenza del Tesoro è evidente…..Chi ha debiti, è da sempre in mano alle banche. Come vadano, poi, le carriere dei direttori del Tesoro è sotto gli occhi di tutti: Draghi approdò in Goldman Sachs, Siniscalco in Morgan Stanley e Grilli in Jp Morgan”. Qualche magistrato in ascolto coglierà questa poco velata denuncia di conflitto di interessi rivelata persino da Repubblica?
Già, quel Siniscalco che, lo ricordavo 5 mesi fa, nel 2004 sottoscrisse il derivato con la Morgan Stanley quando era Direttore Generale del Tesoro, e che poi ritroviamo nel 2012 come Direttore della Morgan Stanley…ad esercitare la clausola di estinzione anticipata contro il Tesoro!
Verrebbe quasi da pensare che Repubblica abbia letto il mio articolo dove sostenevo che la finanza predatoria ha tentacoli infiniti il cui fine ultimo è quello di sottrarre risorse dall’economia reale a vantaggio della sfera finanziaria e che il debito rappresenta l’habitat naturale nel quale la finanza predatoria muta e si riproduce come una colonia batterica inserita in un ambiente umido.
Già, il debito, l’invenzione più tragica, astratta e predatoria che l’uomo abbiamo potuto concepire, senza la quale nessuna speculazione finanziaria, rating, derivati, manipolazione avrebbero più la possibilità di attaccare il tessuto sociale ed economico, e senza la quale i popoli, ovvero le comunità politiche di donne e uomini liberi, prospererebbero senza terrore, senza sopraffazione, senza catene.

giovedì 15 giugno 2017

Bloomberg: Il problema più grosso è l’esportazione tedesca di capitali, non di automobili

Donald Trump si cruccia per il massiccio surplus commerciale della Germania e in particolare per le automobili che Volkswagen, BMW e Daimler esportano negli Stati Uniti.
Trump ha ragione su una cosa: lo squilibrio delle partite correnti tedesche è un problema. Ma c’è un tipo di esportazione tedesca che è meno scontata e potenzialmente più problematica di quella delle automobili: l’esportazione del denaro.
È un po’ sciocco accusare la Germania di vendere cose che il resto del mondo vuole comprare. Ma il fatto che la Germania poi non acquisti a sua volta una quantità equivalente di cose la costringe a esportare i propri risparmi, diventando così un enorme creditore netto verso il resto del mondo.

Dunque, poiché i suoi risparmi nazionali superano di gran lunga gli investimenti, la Germania non è solo il più grande esportatore al mondo di automobili, ma anche il più grande esportatore netto al mondo di capitali.
Dato che la sua popolazione sta invecchiando (e ha scarse prospettive di crescita demografica) non c’è da sorprendersi che la Germania generi un surplus di risparmi che poi investe in asset redditizi al fine di assicurarsi entrate con cui pagare le pensioni [1].

Questo approccio, tuttavia, secondo HSBC [2], comporta dei rischi. L’eccesso di risparmi della Germania potrebbe contribuire all’aumento dell’indebitamento e dell’instabilità finanziaria nei paesi che hanno grossi deficit di partite correnti (come gli USA e il Regno Unito). L’ossessione della Germania per il risparmio (che il resto dell’eurozona sta cercando sempre più di imitare, si veda il grafico sotto) potrebbe ostacolare l’uscita dell’intero continente da una ormai prolungata crisi economica. E d’altra parte l’accumulo di attività estere da parte della Germania potrebbe non renderle alla fine i redditi sperati (ma di questo Trump non sembra preoccuparsi molto).
L’anno scorso il surplus di partite correnti della Germania ha raggiunto i 261 miliardi di euro [3], che corrispondono a circa 230 miliardi di euro di esportazione netta di capitali. Questi deflussi sono stati esacerbati dal programma di acquisto titoli condotto dalla Banca Centrale Europea (BCE), che ha schiacciato i rendimenti dei bund tedeschi e ha costretto i gestori degli asset a cercare altrove titoli che garantissero rendimenti migliori. (Deutsche Bank ha definito questa tendenza come “euroglut” [“eurosaturazione”] [4].)

Gli Stati Uniti sono stati il paese di destinazione di oltre 60 miliardi di dollari di capitali tedeschi, di cui circa la metà sono stati investiti in azioni. Il denaro tedesco ha contribuito ad aumentare i prezzi delle azioni statunitensi (rendendo così gli americani più ricchi), a finanziare nuovi impianti manufatturieri (creando posti di lavoro) e ha contribuito a finanziare il deficit del bilancio pubblico [5].
Cosa ci sarebbe di male in tutto questo, da una prospettiva americana? Be’, l’abbondanza di risparmi tedeschi ha anche abbassato i tassi di interesse di equilibrio, rendendo più difficile per i fondi pensione americani mantenere i rendimenti promessi (e, per la Federal Reserve, normalizzare la politica sui tassi) [6].
Nel frattempo perfino il governo tedesco ammette che “i capitali in cerca di investimenti possono contribuire a creare boom del credito e/o bolle finanziarie in altri paesi“.
Bisogna sapere che prima del 2008 il surplus di acquisti di titoli ipotecari da parte tedesca ha contribuito a gonfiare la bolla statunitense dei mutui subprime, determinando, alla fine, perdite per le banche tedesche. I risparmi interni hanno contribuito anche a investimenti poco efficienti verso le economie periferiche dell’eurozona, come la Grecia e la Spagna [7].
La Storia non si ripete, ma spesso fa la rima. Negli Stati Uniti il crollo dei mutui subprime sembra sul punto di essere sostituito da nuove bolle del credito al consumo in prestiti agli studenti e per acquisti di automobili. È possibile che il surplus dei risparmi tedeschi stia contribuendo a gonfiare alcuni di questi eccessi [8].
E se le banche tedesche hanno drasticamente ridimensionato la propria esposizione verso la periferia dell’eurozona ora in crisi, la banca centrale non ha fatto altrettanto. A causa del programma di acquisto titoli da parte della BCE, la Bundesbank ha accumulato quasi 860 miliardi di euro di esposizione verso la BCE tramite il cosiddetto sistema Target2. Si tratta di quasi la metà del proprio patrimonio netto verso l’estero. Per ora questo sembra solo un tecnicismo contabile. Ma se una banca nazionale dell’Europa del sud dovesse decidere di non onorare le proprie passività su Target2 verso la BCE, i contribuenti tedeschi potrebbero soffrire delle perdite molto concrete [9].
Quindi dimenticate le automobili, Trump dovrebbe concentrare i propri sforzi al fine di deviare gli investimenti tedeschi pubblici e privati quanto più possibile verso la Germania, in modo da incrementare la sua crescita potenziale e rendere più semplice per la BCE mettere fine ai propri esperimenti monetari di indebolimento dell’euro, che consolidano sempre di più il surplus tedesco delle partite correnti. Il governo tedesco ha promesso di incrementare la spesa in infrastrutture, ma chiunque conosca la precaria condizione delle strade e dei ponti in Germania sa che potrebbe fare ben di più (a dire il vero gli Stati Uniti non sono messi molto meglio, da questo punto di vista).
Ma nel timore che Trump possa leggere questo pezzo ed essere tentato di fare subito il bullo su Twitter, non voglio dimenticare di sottolineare un’altra debolezza nella retorica anti-tedesca del Presidente.
Trump ha definito “un errore catastrofico” la decisione della Germania di accogliere centinaia di migliaia di rifugiati in fuga dalla Siria e da altrove. Eppure un afflusso di giovani immigrati è il tonico perfetto per rimediare all’invecchiamento della popolazione tedesca e alla scarsità di domanda interna (gli immigrati tendono a comprare cose e ad avere bisogno di un posto dove vivere). Se Trump fosse coerente dovrebbe contestare l’esportazione tedesca di capitali ma al tempo stesso approvare la politica delle porte aperte. Ma a Trump piacciono i soldi. Anche i rifugiati? Non altrettanto.

mercoledì 14 giugno 2017

Teologia delle privatizzazioni

La Prima Repubblica era fondata sulla partecipazione statale. Non era possibile altrimenti, perché lo sviluppo che si è avuto nel dopoguerra non era concepibile senza l’apporto decisivo dei finanziamenti pubblici. Era lo stesso capitalismo in embrione che, per crescere, aveva bisogno dell’intervento dello Stato. Ma quando il capitalismo è cambiato, quando non ha avuto più necessità di appoggiarsi alla mano pubblica, e anzi questa diventava un ostacolo all’ulteriore espansione dei profitti, ecco che ciò che fino a quel momento veniva considerato come necessario, diventava improvvisamente superato e “inefficiente”. Così, dagli anni Novanta, nel nostro paese si è incominciato a parlare di privatizzazioni. Ciò è avvenuto anche a causa di una mutata cornice politica nazionale e internazionale: non c’era più il PCI, come tutti i partiti maggiori della Prima Repubblica, i quali erano, almeno in parte, statalisti (DC e PSI); non c’era più l’Unione Sovietica che serviva da monito e avvertimento per il capitalismo occidentale. La sinistra era diventata liberista e si trovava in prima fila nel promuovere la dismissione dei beni pubblici. Le ragioni della sua urgenza venivano individuate nella necessità di ridurre il debito pubblico, di rendere le aziende statali (“carrozzoni”, come venivano chiamate) più efficienti e competitive e, infine, di contrastare fenomeni di corruzione e clientelismo.
A distanza di oltre vent’anni si può dire che nessuno di questi scopi sia stato raggiunto. Il debito pubblico non è diminuito (se non di poco per un breve periodo, per poi tornare di nuovo a crescere più di prima) le aziende privatizzate non sono più efficienti, anzi, presentano numerosi disservizi e hanno rischiato il fallimento, l’illegalità esiste nel privato tanto quanto nel pubblico. Gli effetti delle privatizzazioni, senza il bisogno di scomodare dati tra l’altro inoppugnabili, sono evidenti empiricamente a chiunque. Se si prende il caso dell’Enel, i costi per l’utenza sono aumentati, a fronte di un peggioramento nella qualità del servizio. Subito dopo la privatizzazione dell’energia elettrica gli investimenti industriali impegnano solo il 30% dei fondi dal 59 del quinquennio precedente. Stesso discorso per le Autostrade, dove crollano i cavalcavia perché la società risparmia sulla manutenzione e le tariffe hanno raggiunto livelli inediti noti a qualsiasi automobilista, mentre i ricavi sono cresciuti in misura considerevole. Ma ciò non è bastato e si è continuato ossessivamente a ripetere il mantra delle privatizzazioni, alimentato dai sacerdoti delle facoltà di economia (quelli che hanno sbagliato tutte le previsioni) che sono giunte all’ultima tranche con la quotazione in borsa delle Poste e di una parte delle Ferrovie (nessuno si domanda cos’altro ci si venderà quando si sarà venduto tutto).
Un quadro delle privatizzazioni in Italia
Un quadro delle privatizzazioni in Italia
Che cos’è che non funziona nella privatizzazioni?
Non si tratta del “modo” in cui si è privatizzato: gli stessi effetti si notano infatti in tutti i settori, anche in quelli maggiormente liberalizzati, come la telefonia (contrariamente alla filastrocca della liberalizzazione del mercato come passo successivo alla privatizzazione per renderla benefica). Non si tratta di una qualche tara nazionale, che come spesso avviene, nasconde le vere cause dietro un pregiudizio autorazzista. Gli stessi disagi, infatti, si possono osservare in molti altri paesi, anche quelli considerati dalla retorica autorazzista come “virtuosi” (basti pensare all’Olanda dove la privatizzazione delle poste ha causato la chiusura del 90% degli uffici). Il vero problema è strutturale, e riguarda la differenza tra utilità privata e aziendale e benessere pubblico e sociale. Le due cose non coincidono. Non si tratta affatto di un assunto banale, perché molti economisti hanno teorizzato il contrario. Secondo l’ideologia liberista se ogni individuo privato agisce per il proprio interesse personale, questo, per una sorta di congiunzione astrale, dovrebbe assicurare il benessere collettivo. L’individuo è l’unico a conoscere il proprio interesse e l’unico a sapere come soddisfarlo, ma così facendo, egli, collaborerebbe senza volerlo al benessere di tutti. Questa credenza religiosa (perché tale è) prima ancora che filosofica – e solo conseguentemente economica – è il vero fondamento del liberismo. Per questo i liberisti credono nelle virtù salvifiche del mercato, dove ogni operatore ricercando il proprio guadagno lavorerebbe per il bene collettivo. Questa teoria è stata sviluppata nel XVIII secolo per un’unica ragione: contrastare il potere dello Stato; lo Stato non sarebbe “per natura” in grado di assicurare il bene né per l’individuo, né (e questa è la vera innovazione del liberismo) per la società. L’unica possibilità è che lo Stato sia ridotto alle funzioni essenziali e il resto venga lasciato alla libera contrattazione dei privati (che in realtà, poi, tanto “libera” non è). Così per i liberisti privatizzare è un imperativo ideologico e religioso, non “tecnico” e scientifico. Per loro la gestione statale è sempre sbagliata e quella privata sempre corretta.
Fatta questa parentesi, torniamo alla distinzione tra interesse privato e interesse collettivo. Poiché per i liberisti le due cose coincidono – in quanto, come si è detto, agendo il soggetto privato per il proprio interesse agisce anche, involontariamente, per l’interesse di tutti – l’utile aziendale vuol dire sempre un beneficio per la società. Peccato però che i fatti, come diceva qualcuno, “hanno la testa dura” e non ne vogliono sapere delle teorie dei liberisti. Si possono aumentare i profitti, certo, investendo, assumendo nuovi lavoratori, ampliando la produzione, migliorando il prodotto, persino aumentando i salari. Ma questa non è la via comunemente scelta, soprattutto nell’attuale periodo storico nel quale si tende a tagliare investimenti, posti di lavoro, salari e a risparmiare sulla qualità del prodotto. Ciò assicura guadagni agli azionisti, ma non si può certo dire che comporti un bene per la società, poiché fa crescere la disoccupazione, rende beni e servizi più costosi e riduce i salari dei lavoratori. Il bene privato non coincide con il bene pubblico, e questa è una verità difficilmente contestabile.
Alcune delle esternalità negative delle privatizzazioni
Perché allora i liberisti si ostinano a sostenere il contrario?
Sicuramente in parte lo fanno per fede: piuttosto che rimettere l’ideologia in discussione preferiscono negare la realtà: è una difesa psicologica abbastanza comune e diffusa. Ma questo non basta a spiegare la ragione per cui una teoria errata (e, in questo caso, palesemente e clamorosamente errata) continua a resistere. C’è un altro motivo, che va ricercato non nelle idee e nelle credenze, ma nel fatto materiale “nudo e crudo”. La domanda che bisognerebbe porsi ogni volta che si valuta la fondatezza di una teoria è: “a chi giova e a chi nuoce?” ovvero: “a quale gruppo sociale conviene e quale gruppo sociale penalizza?”. Rispondere a questa domanda significa aver fatto luce su buona parte dei fondamenti della teoria. Nel nostro caso, quindi, chiedendoci a chi giovino il liberismo e le privatizzazioni, la risposta non può che essere: ai grandi colossi industriali e finanziari. Le privatizzazioni sono state una irrinunciabile opportunità di guadagno per le multinazionali, che hanno potuto acquisire ex aziende pubbliche indebitate, ristrutturarle e rivenderle realizzando così immensi profitti. In una fase del capitalismo di saturazione dei mercati, le aziende pubbliche hanno rappresentato la “gallina dalle uova d’oro”. Questa e soltanto questa è la ragione del persistere delle privatizzazioni compulsive e delle mistiche che hanno il compito di giustificarle. L’elemento ideologico, come insegna Marx, è sempre unito all’elemento economico. Una certa visione del mondo può imporsi solo laddove si saldi con gli interessi materiali di un gruppo sociale abbastanza forte.

martedì 13 giugno 2017

La lezione inglese: se i socialisti tornano a fare i socialisti

Tutte le elezioni degli anni della crisi sono state caratterizzate dai risultati catastrofici dei partiti socialisti, che in vari casi – ultimi due l’Olanda e la Francia – da formazioni che competevano per il governo si sono ridotti a gruppetti irrilevanti. Sono i risultati di lungo termine della loro mutazione genetica, iniziata con la truffaldina “Terza via” blairiana che li ha portati ad accogliere senza riserve l’ideologia neoliberista. In vari casi i loro elettori tradizionali ci hanno messo un po’ a capire che erano passati dall’altra parte e quindi in una prima fase hanno avuto successo, usufruendo di un patrimonio di adesioni consolidatosi storicamente e raccogliendone altre nuove dall’area moderata. Ma poi hanno cominciato a franare, perché non c’è tradizione che tenga quando si sceglie di rappresentare interessi opposti a quelli per tutelare i quali il partito era nato. Questa è stata anche la parabola del Labour, che dopo il grande e anche lungo successo di Blair ha cominciato a perdere sempre più terreno, avviandosi a seguire quella stessa sorte.
L’elezione a sorpresa di Jeremy Corbyn alla segreteria – grazie a primarie che hanno dato più peso alla base e meno ai notabili – ha rappresentato una rottura e un ritorno alla linea precedente. Non c’è stato osservatore o analista politico che non abbia Jeremy Corbynaccolto questa sterzata con commenti impregnati di uno scetticismo a volte ai limiti del dileggio: in questo modo, si è detto, il Labour si condanna a una sterile opposizione, senza alcuna speranza di tornare prima o poi al governo. I sondaggi sembravano confortare questa tesi, visto che fino a un paio di mesi fa accreditavano al Labour consensi intorno al 25%, con un abissale distacco di una ventina di punti rispetto ai rivali Tory. Poi Corbyn ha presentato il suo programma, subito bollato come “massimalista” e “populista”. In realtà, al di là di qualche esagerazione da campagna elettorale, era semplicemente un programma che rovesciava i paradigmi neoliberisti: basta all’austerità diretta a senso unico verso le classi più svantaggiate, basta riduzioni del welfare, ri-nazionalizzazione di servizi essenziali come poste e ferrovie (queste ultime oggetto di una privatizzazione particolarmente fallimentare).
Basta con l’università così costosa da escludere gran parte di coloro che non hanno possibilità economiche: e probabilmente proprio questa è stata la carta vincente nei confronti dei giovani, che sono andati a votare (mentre al referendum sulla Brexit si erano astenuti per due terzi) e hanno votato in maggioranza per Corbyn. Il risultato è stato che un partito che sembrava avviato verso la triste sorte degli altri confratelli ha ottenuto un successo a cui il numero di seggi non rende giustizia: il Labour è arrivato al 40%, testa a testa con il 42,5 dei Tory. Altro che che “così non vincerà mai più”: la linea Corbyn ha dimostrato di essere l’unica che possa sperare di contendere il potere ai conservatori. Una speranza tutt’altro che peregrina: quando le percentuali sono così vicine basta l’ulteriore spostamento di un numero abbastanza limitato di voti per rovesciare la maggioranza dei seggi conquistati. Frutto di un sistema elettorale che produce risultati paradossali: anche questa volta, per Carlo Clericettiesempio, l’irlandese Dup con lo 0,91% conquista 10 seggi, mentre il 7,36 dei Libdem ne vale appena 2 in più e il 3% dei nazionalisti scozzesi gliene assegna 35.
Insomma la lezione, per chi la vuol capire, è molto chiara: se i socialisti non fanno i socialisti prima o poi vanno incontro alla scomparsa. Ogni paese ha le sue dinamiche e le sue specificità: per alcuni quel “poi” è già arrivato, in altri casi – come quello dell’Italia – non ancora, ma è sulla buona strada. Ne dovrebbero tener conto, per esempio, i fuoriusciti dal Pd, le cui analisi sulla globalizzazione, sull’Europa e sull’economia non recidono ancora quel legame con la Terza via che ha distrutto o sta distruggendo la sinistra. Cosa che invece ha fatto, per esempio, il francese Jean-Luc Mélenchon, ottenendo alle recenti presidenziali un successo che – anche in quel caso – nessuno aveva previsto. Il mondo è cambiato, è vero. Ma ciò non significa che non possa cambiare di nuovo. Soprattutto, non sono cambiati i bisogni e gli interessi di chi da questi mutamenti è stato danneggiato e vede un futuro in cui la propria condizione potrà semmai solo peggiorare. Chi vuole rappresentarli dovrà prenderne atto fino in fondo.

lunedì 12 giugno 2017

Submelius malware che attacca Chrome. Ecco come si diffonde ed elimina

Si chiama Submelius il malware che attacca Chrome. L’ultimo individuato nella guerra informatica, combattuta tra utenti e “pirati”, è particolarmente pericoloso. La sua diffusione è globale, dall’America Latina all’Italia passando per la Spagna.
Submelius malware che attacca Chrome. Ecco come
Il malware è stato individuato dalla softerhouse polacca ESET, l’inventrice dell’antivirus ‘Nod32’. Il trojan entra nei pc degli utenti, spiegano i ricercatori, grazie alla streaming di film e video non legali. Quindi sono da escludersi quelli trasmessi dalla piattaforme legali come Amazone Prime Video e, naturalmente, Netflix. Il meccanismo è semplice. Quando ci si trova su un sito illegale per vedere un film o una partita di calcio, viene chiesto all’utente, che naviga con Chrome, di attivare un plug-in video. Accettando la richiesta l’utente si ritrova in un altro sito, il Chrome Web Store, dove scaricare le estensioni video. Peccato che con queste, il malcapitato, si porti dietro anche il trojan Submelius.
Trojan Submelius cosa fa e come disattivarlo
Il consenso a scaricare le estensioni video permettono di leggere e modificare i dati di navigazione. A questo punto si apriranno finestre pubblicitarie e partirà in automatico il malware e qualunque altro tipo di virus contenuto nei codici. La prima cosa da fare per correre ai ripari è rimuovere tutto quanto scaricato. Nella barra degli indirizzi è necessario digitare l’indirizzo ‘chrome://extensions’ e cancellare quanto scaricato aiutandosi anche con la data e l’ora per individuare i componenti infetti. Fatta questa operazione è necessario lanciare il proprio antivirus, meglio se aggiornato e supportato da un abbonamento.

venerdì 9 giugno 2017

LA FINANZIARIZZAZIONE CONTINUA ANCHE SOTTO L’ICONA DEL POLITICAMENTE SCORRETTO

La parodia del politicamente corretto, oggi vigente in Europa, ha posto alla gogna mediatica la scelta del nuovo buffone della Casa Bianca di defilarsi dall’accordo di Parigi sul clima. Quell’accordo era stato voluto proprio dall’icona del politicamente corretto, Barack Obama. Non è la prima volta nella storia che gli USA facciano di questi bidoni: nel 1919 il presidente Wilson impose agli altri Paesi vincitori della prima guerra mondiale la nascita della Società delle Nazioni (l’antenata dell’ONU), ma poi il Congresso USA non ratificò l’operato del suo presidente. È prassi normale nella politica internazionale americana l’imporre agli altri dei trattati a cui gli stessi USA poi non si sentono vincolati; e la loro messinscena democratica consente di questi voltafaccia senza rischiare di essere accusati di doppiogiochismo.
L’uscita degli USA dall’accordo peraltro cambia di poco le cose. Obama aveva disegnato l’accordo in funzione degli interessi delle multinazionali USA, le maggiori detentrici di brevetti nel campo delle tecnologie a presunto basso impatto ambientale; perciò, dato che le multinazionali sono in posizione di forza nei confronti di quasi tutti gli Stati, compresi molti Stati americani, i risvolti di business dell’accordo di Parigi rimarranno intatti.
La decisione di CialTrump si muove quindi sul piano del meramente simbolico. Il nuovo presidente USA ha impostato il suo piano di impatto mediatico proponendosi come icona del politicamente scorretto, in opposizione al suo predecessore. Questo sinora appare l’unico cambiamento della politica USA, dato che negli atti di CialTrump non si è configurata alcuna inversione di rotta nel rapporto tra finanza ed economia reale. Il nuovo “asse preferenziale” costituitosi tra USA e Arabia Saudita va appunto nel senso del perpetuare il dominio del movimento dei capitali.
I movimenti di capitali hanno sempre effetti destabilizzanti ed infatti l’Arabia Saudita, forte delle centinaia di miliardi appena elargiti agli USA, ha immediatamente avviato un brutale regolamento di conti con il suo principale concorrente sul mercato dei capitali, cioè il Qatar, accusato persino di “finanziare il terrorismo”. L’accusa è senz’altro fondatissima, ma che provenga proprio dall’Arabia Saudita costituisce un’ipocrisia degna del Sacro Occidente.
Anche per ciò che riguarda la politica interna, CialTrump non ha dato segni significativi di discontinuità col passato. L’attesa della drastica svalutazione del dollaro, che consentirebbe un rilancio delle esportazioni USA ed un ridimensionamento dell’invadenza commerciale della Germania e della Cina, è rimasta appunto un’attesa. In Italia molti “sovranisti” continuano a sperare in un’alleanza con gli USA in funzione antitedesca, ma, per il momento, sono solo speranze.
Il problema è che la “sovranità” è un’astrazione e ciò che conta è il rapporto di forza, che oggi è a favore delle lobby finanziarie. USA e Germania certamente si odiano, ma sottostanno alle stesse lobby. La stessa Italia, con il sistema industriale che ancora possiede, potrebbe uscire dall’euro anche domani mattina infischiandosene dei ricatti del Buffone di Francoforte, in arte Mario Draghi. Il problema è che l’Italia come soggetto politico non esiste e qui, come altrove, le scelte sono condizionate sempre dalle solite lobby finanziarie. La finanza non ha neppure bisogno di comandare, tramare o complottare, poiché si impone con la forza del senso comune, ormai radicato nella suggestione secondo cui la via maestra dello sviluppo economico consisterebbe nel dar torto ai poveri e nell’assistere i ricchi.
A proposito di assistenzialismo per ricchi, anche il taglio delle tasse alle imprese annunciato da CialTrump non avrebbe alcun effetto sul rilancio della produzione, perché notoriamente le imprese non investono nella produzione, bensì in prodotti finanziari, ciò che risparmiano sul fisco. C’è, anche in Italia, una forte campagna mediatica che tende a far credere all’opinione pubblica che il rilancio dell’economia sia legato al taglio delle tasse; ma in realtà un governo che volesse rilanciare davvero l’economia, invece di tagliare le tasse alle imprese, dovrebbe usare quei proventi fiscali per trasformarsi in committente di beni e servizi per quelle imprese. Così davvero le imprese sarebbero costrette ad investire ed assumere personale. Il punto è che le lobby finanziarie non hanno interesse a rilanciare l’economia reale ed i governi si adeguano al loro volere.
Il prezzo del petrolio intanto continua a cadere per il calo mondiale della produzione industriale. La questione della recrudescenza dell’aggressione imperialistica degli USA nei confronti del Venezuela non riguarda il petrolio in sé, che gli USA potrebbero comprare a prezzi stracciati. La vera questione oggi in ballo è quella della movimentazione dei capitali ottenuti dall’estrazione del petrolio venezuelano. Ha suscitato “scandalo” tra gli oppositori di Maduro la decisione di Goldman Sachs di acquistare obbligazioni dell’ente petrolifero venezuelano, più di due miliardi di bond pagati a circa un terzo del valore nominale. L’accusa a Goldman Sachs degli aspiranti golpisti venezuelani è quella di aiutare un “dittatore”, come se Maduro fosse stato eletto presidente con metodi più sordidi di qualsiasi altro capo di Stato o di governo. È chiaro che il mainstream ha le sue leggi inesorabili ed impone il suo conformismo, tanto che oggi anche a “sinistra” fa brutto non dire che Maduro è un dittatore.
È chiaro anche che mesi di destabilizzazione interna al Venezuela, causata proprio dalle ONG legate agli USA, hanno costretto l’ente nazionale del petrolio venezuelano a “internazionalizzare” i suoi profitti. Potrebbe essere un compromesso momentaneo, ma anche l’inizio di una resa totale del regime chavista al dominio della mobilità dei capitali; cosa che comunque non lo preserverebbe da un colpo di Stato camuffato da “rivoluzione colorata”.

giovedì 8 giugno 2017

Lavoreremo per portare la guerra in Iran". La minaccia saudita è oggi realtà

Noi non aspetteremo che la guerra arrivi in Arabia Saudita, lavoreremo per portare la battaglia in Iran." Sono le parole del secondo vice Primo Ministro e ministro della Difesa del regime saudita Mohammed bin Salman il 3 maggio scorso.
"Se i sauditi faranno qualcosa di stupido, non lasceremo nessuna zona senza attaccarla, tranne Mecca e Medina". Questa era stata la risposta del ministro della Difesa iraniano il giorno dopo.
Prima dell'attacco del fondamentalismo terrorista sunnita di oggi contro il Parlamento iraniano ci sono stati i miliardi di armi (tanti miliardi, un recordi di miliardi) promessi al regime saudita da Trump in visita ufficiale a Riad e l'embargo contro il Qatar, reo di avere una posizione dialogante con Teheran.
Il quadro è chiaro, gli elementi sono tutti a vostra disposizione. Basta solo unire i puntini...

mercoledì 7 giugno 2017

Siria. E’ iniziata la battaglia di Raqqa. Bombardamento Usa uccide 21 civili

Le forze democratiche siriane (Sdf), l’alleanza curdo-araba sostenuta da Washington, hanno dato notizia dell’ingresso dei loro combattenti a Raqqa. Subito dopo c’è stato un altro annuncio, questa volta da parte della stessa alleanza dominata dalle Unità di Difesa del Popolo curdo (Ypg), che aveva fatto sapere di aver lanciato la “grande battaglia” per liberare Raqqa, ‘capitale’ nel Nord della Siria dello Stato Islamico. “Le nostre forze sono entrate nella città di Raqqa dal distretto orientale di Al-Meshleb”, ha detto all’agenzia France Presse il comandante delle Sdf Rojda Felat.
Migliaia di civili stanno fuggendo dalla città di fronte dell’avanzata delle Forze Democratiche Siriane per sottrarsi ai combattimenti ma soprattutto ai bombardamenti degli aerei Usa e della coalizione anti Daesh, che proprio ieri avevano causato 21 vittime tra i civili.“I civili stavano salendo su piccole imbarcazioni sulla riva Nord dell’Eufrate per fuggire dai quartieri meridionali di Raqqa”, ha detto Rami Abdel Rahman, riferendo anche di “diversi feriti in condizioni critiche”. Non tutti sono entusiasti dell’offensiva su Raqqa. Il primo ministro turco Binali Yildirim ha dichiarato infatti che Ankara reagirà immediatamente se l’offensiva lanciata dalle forze curdo-arabe sostenute dagli Stati Uniti rappresenterà una minaccia per la Turchia riporta il quotidiano turco Hurriyet.
Raqqa e l’omonima provincia si trovano in una posizione strategica. Qui si incoraciano infatti diverse arterie stradali a ridosso delle rive del grande fiume Eufrate. Raqqa si trova 160 chilometri a est dalla seconda città siriana, Aleppo, ma a soli 90 chilometri dal confine con la Turchia e a meno di 200 chilometri dal confine iracheno. La costruzione di una diga nei pressi della città di Tabqa, più a Ovest, ha permesso a Raqqa di acquistare un ruolo importante nell’economia del Paese con lo sviluppo del settore agricolo.
Raqqa è stata il primo capoluogo provinciale a cadere in mano dei ribelli anti Assad, tra cui gli jihadisti del Fronte al Nusra, affiliato ad al Qaida. All’inizio del 2014, però i miliziani di Al Nusra vennero cacciati dai “cugini” di Daesh che presero il pieno controllo della città.

lunedì 5 giugno 2017

Sanzioni alla Russia: Perdite Impreviste

All'inizio dell'anno il quotidiano austriaco «Der Standard» ha pubblicato i risultati della ricerca dell'istituto austriaco WIFO sulle perdite economiche dei paesi Ue che nel 2014 hanno introdotto le sanzioni contro la Russia. Il committente della suddetta ricerca era il Ministero delle Finanze Austriaco. Nonostante il minuzioso lavoro degli esperti i risultati della ricerca sono passati inosservati dai mass-media Europei. È stato stimato un danno economico che nell’anno 2015 ammontava a 17,6 miliardi di euro, con la perdita dei 400.000 posti di lavoro.
«Der Standard» riporta che gli economisti di WIFO per la prima volta sono riusciti a separare le sanzioni dagli altri fattori, come ad esempio la diminuzione del prezzo del petrolio. L’articolo riporta i dati dei diversi paesi, in base ai quali risulta che più di tutti ha sofferto l’economia tedesca: le perdite del PIL ammontano a sei miliardi di euro, vale a dire 97 mila posti di lavoro. In base alle dimensioni del danno provocato dalle sanzioni al primo posto si colloca Germania e la seguono cosi in ordine: Francia, Polonia, Italia e Repubblica Ceca. Ad esempio in Austria, paese che ha svolto la ricerca, le esportazioni in Russia per l'anno 2015 sono diminuite quasi del 40%, a confronto con l'anno precedente perdendo circa 550 milioni di euro e 7 mila posti di lavoro.
Gli esperti che hanno svolto la ricerca, si sono basati sui dati del 2015. A seguito delle estensioni delle misure restrittive introdotte da UE, le relazioni economiche continuano drasticamente a diminuire. I ricercatori di WIFO hanno previsto che i paesi UE avranno una perdita economica mensile di 3 miliardi di euro, vale a dire 45 mila posti di lavoro. Le preoccupazioni degli esperti non sono stati presi in considerazione dai leader di UE, a dicembre dello scorso anno l’applicazione delle sanzioni è stata prolungata fino al 31 luglio 2017.
Una ricerca simile è stata svolta anche in Francia e i suoi risultati sono impressionanti. Gli esperti del centro analitico francese (CEPII) hanno valutato le perdite dei paesi che si trovano all'ovest del conflitto diplomatico con la Russia, prendendo in considerazione il periodo che va da dicembre del 2013 fino al mese di giugno 2015, e i numeri parlano chiaro, la perdita economica subita è di 60,2 miliardi di dollari, 82,2% dei quali non è legata ai prodotti agroalimentari, sull'import dei quali la Russia ha introdotto l'embargo perdendo così 10,7 miliardi di dollari e sulla vendita dei altri prodotti 49,5 miliardi di dollari. Ciò significa che una gran parte di esse è dovuta non all'embargo russo ma alle sanzioni introdotti dall’Occidente. L’analisi dei dati forniti dalle aziende francesi ha messo in evidenza che grazie alle sanzioni la probabilità dell'esportazione dei loro prodotti in Russia si è ridotta notevolmente. A CEPII ipotizzano che questo è legato all’aumento dei costi logistici e ai problemi con i finanziamenti delle operazioni economiche: grazie alle sanzioni il commercio con la Russia per le aziende occidentali è diventato più costoso.
Secondo i calcoli del centro di ricerca francese nel campo dell'economia internazionale 37 paesi hanno perso i profitti per sostenere l'embargo commerciale contro la Russia per un totale costo totale di 60,2 miliardi di dollari. La Germania ha perso più di 832 milioni $ al mese, qualcosa come il 27% di tutte le perdite, in termini di costi ha sofferto più degli altri paesi membri.
Altri grandi attori geopolitici hanno subito perdite minori: USA - 0,4%, Francia - 5,6%, Gran Bretagna - 4,1%.
La Germania dopo l'introduzione delle sanzioni contro la Russia annualmente perde più di 1 % del PIL. Questo dato è stato fornito dall'eurodeputato tedesco Marcus Pretzell durante una sua intervista, nella quale egli considerava una tale politica inaccettabile, perché va a danneggiare i propri interessi, a suo parere la revoca delle sanzioni contro la Russia doveva essere fatta già "ieri". Il parlamentare tedesco ha sottolineato che la maggior parte dei vincoli economici e finanziari hanno colpito l'industria automobilistica tedesca, dal momento che proprio la Russia era il suo maggior esportatore.
Anche i leader politici tedeschi sono consapevoli che è inopportuno continuare questa guerra economica contro la Russia; come ad esempio il premier della Baviera Horst Seehofer, dal momento dell'introduzione delle sanzioni ha regolarmente visitato Mosca, dove ha avuto numerosi incontri con i leader russi per difendere gli interessi del business bavarese. Il capo della Sassonia Stanislav Tillich si schiera per “porre fine alle sanzioni economiche nei rapporti con la Russia" e spera che "il dialogo con la Russia si ripristina, e le questioni politiche dove ci sono le divergenze vengono ben presto chiariti”.
Anche se le ricerche svolte e i pensieri alternativi dei politici europei non hanno causato alcuna reazione dei mass-media nazionali.
La guerra sanzionatoria contro la Russia viene ancora considerata da alcuni paesi europei come necessaria. In questo contesto è esemplare la risposta data dai rappresentanti del Ministero dell'Economia e del Lavoro tedesco al giornalista di Deutsche Welle riguardante i risultati delle ricerche dell'istituto austriaco: "Noi non abbiamo rilevato questi dati, e le ricerche degli altri paesi non possiamo commentare… noi non abbiamo effettuato questo tipo di studi … Non possiamo di sicuro valutare la qualità delle ricerche che riportano questi numeri che debbano essere trattati con molta cautela".
Lo scorso novembre 5 esperti che si occupano delle questioni economiche tedesche hanno presentato alla cancelliera A. Merkel una relazione di cinquecento pagine sulla situazione economica con le proposte dell'abbassamento dei rischi in base alle prognosi di sviluppo per l'anno 2017. "Zeit der Veränderung" - il tempo dei cambiamenti è il nome dato alla relazione. Tuttavia non c’è stato alcun cambiamento significativo nei rapporti con uno dei partner economici né tantomeno si prevede la regolamentazione dei rapporti con la Mosca. Il direttore del centro di ricerca Professore Christoph Schmidt ha aggiunto, che gli esperti non hanno effettuato alcun rilevamento dei dati in prospettiva di cancellazione delle sanzioni, dato che essi "non possono produrre alcun cambiamento notevole all'economia né tanto meno modificare l'assetto generale”.
In questi tre anni, dopo aver perso migliaia di posti di lavoro e 6 miliardi di euro delle potenziali entrate, privarsi di un mercato di 140 miliardi per i tedeschi è una cosa da niente? Una dichiarazione del genere da parte degli illustri economisti può essere dovuta solo ai due fattori - o non sono abbastanza preparati per il posto che occupano, oppure sono interessati a non rendere noti i dati reali prodotti dalle politiche sanzionatorie tedesche

giovedì 1 giugno 2017

L’inesorabile agonia dell’energia nucleare

Dopo la vittoria del NO al referendum del 2011 sulla ripresa dei programmi di energia nucleare per la produzione di energia elettrica, l’attenzione verso questo problema in Italia è crollata. Sarebbe necessario mantenere l’attenzione sul progetto del deposito nazionale per i residui nucleari a media e bassa attività che fu lanciato con molto risalto nel 2015, e del quale poi si è perduta ogni traccia un anno fa quando era stata preannunciata la pubblicazione dell’individuazione dei siti idonei: il che indica l’oggettiva difficoltà che le autorità incontrano per la reazione che solleverebbe nelle popolazioni interessate, ma finirà per aggravare la situazione confermando la sfiducia popolare verso le autorità responsabili, di fronte a un’emergenza nucleare (ma chi se la ricorda?) dichiarata nel 2003 dall’allora governo Berlusconi! Intanto lo stato della ventina di depositi “provvisori” esistenti in Italia continua, comprensibilmente, a deteriorarsi e ad aggravare il rischio di incidenti. E i cittadini continuano a pagare (in larga parte inconsapevolmente) nella bolletta elettrica gli “oneri nucleari” (componente A2) per la dismissione del programmi nucleari decisa 30 anni fa!
Non consola, del resto, il fatto che in tutto il mondo questo problema sia ben lungi dall’essere risolto, poiché l’industria nucleare e i governi sono sempre stati impegnati a fare profitti nella costruzione di nuove centrali trascurando invece la gestione della “coda” del ciclo nucleare, che invece presenta costi e rischi tutt’altro che indifferenti.
Ma la fine dei programmi nucleari civili sembra profilarsi in modo sempre più minaccioso, malgrado il potente lavoro delle lobbies nucleari. I segnali dell’agonia dei programmi nucleari civili si accumulano.

La bancarotta dell’industria nucleare
Soprattutto dopo gli spaventosi incidenti nucleari di Fukushima del 2011 (a proposito, la situazione e l’emergenza rimangono drammatiche[1]) lo stato finanziario dei colossi dell’energia nucleare diventa sempre più disastroso[2].
Il 29 marzo scorso la Westinghouse ha presentato istanza di fallimento, per ristrutturarsi a causa dei costi dei quattro reattori AP-1000 che sta costruendo in Georgia e Carolina del Sud, i primi reattori ordinati negli USA dopo l’incidente di Harrisburg del 1979: i costi per ciascuno di questi reattori stanno eccedendo, anche per i ritardi che si accumulano, di 1-1,3 miliardi di $ quelli preventivati. La sua controparte giapponese Toshiba ha dichiarato di avere già perduto nel settore nucleare 6 miliardi di $, che potrebbero aumentare a 10.
Il gigante nucleare francese Areva ha registrato 665 milioni di Euro di perdita nel 2016, dopo avere perduto 2 miliardi nel 2015, e 4,8 miliardi nel 2014: lo scorso anno EDF è subentrata per metà ad Areva. L’ultimo progetto di EDF, il reattore noto col nome EPR, in costruzione a Flamanville è in ritardo di 6 anni, e il suo costo è triplicato, a più di 10 miliardi. Areva è detenuta per l’87% dallo Stato, e l’industria nucleare costituisce un asse portante dell’economia della Francia. Nel 2015 Areva incorse in un gravissimo scandalo per la falsificazione di documenti relativi ad anomalie nella composizione dell’acciaio dei vessel dei reattori che costruisce nell’acciaieria di Le Creusot.

Negli USA il nucleare non regge la competizione con le rinnovabili
Negli Stati Uniti il costo delle fonti rinnovabili sta diminuendo a vista d’occhio, e sta rendendo non redditizi un numero crescente di reattori nucleari[3] (si tenga presente che negli USA le compagnie elettriche sono private). Dopo il disastro di Fukushma esse hanno dovuto spendere milioni di dollari in più in sistemi di sicurezza per mantenere in funzione le centrali nucleari. Entergy ha già spento un reattore nucleare nel Vermont, e progetta di spegnerne altri quattro in perdita. Da tempo il governo ha fatto retromarcia sui prestiti all’industria nucleare[4].
La Germania dopo Fukushima ha deciso di chiudere i suoi 17 reattori nucleari entro il 2022: oggi la sua produzione elettrica è coperta per il 26% da eolico, solare e altre rinnovabili (sebbene il 44% continui ad essere prodotto con il carbone), e prevede di arrivare al 2025 con una produzione elettrica da rinnovabili del 40-45% sul totale della domanda.
In Svizzera nel referendum del 21 maggio scorso il 58,2% della popolazione ha votato per sostituire le 5 centrali nucleari del paese con fonti rinnovabili.
L’esperto francese di problemi nucleari Mycle Schneider ha dichiarato che l’energia nucleare “costituisce una bomba finanziaria ad orologeria, con gravi problemi di sicurezza”. Dal 1979, con l’incidente di Harrisburg, vi sono stati 6 incidenti nucleari gravissimi (contando a Fukushima tre reattori con fusione del nocciolo, più l’incidente, assolutamente nuovo e non meno grave, alla piscina di disattivazione del combustibile esaurito) in 48 anni, con una frequenza di un incidente grave ogni 8 anni.