martedì 30 maggio 2017

La trappola del governo sui voucher

Mdp contrario rischia di essere decisivo al senato, dove il segretario Pd vuole la fiducia per cercare l’incidente
«Più che l’ultimo voto di questa legislatura è il primo della prossima», commenta caustico Arturo Scotto, Mdp, dopo lo strappo deciso dal Pd sui voucher. Che il Nazareno voglia arrivare a uno scontro che offrirebbe a Renzi il tanto atteso «incidente» appare certo. L’emendamento «di mediazione» depositato nella notte in commissione bilancio alla camera è praticamente identico a quello precedente. I voucher sono rientrati dalla finestra, alla faccia degli impegni. La stessa ministra per i rapporti con il parlamento Anna Finocchiaro, che venerdì aveva cercato sino all’ultimo una vera mediazione, non può fare altro che blindarsi dietro un velo di propaganda bugiarda: «I voucher sono stati cancellati. Chi dice il contrario mente».
Mdp vota contro, come Sinistra italiana e M5S. Anche i tre esponenti orlandiani in commissione negano la loro approvazione non partecipando al voto. Corrono in soccorso Fi e Lega: la truffa dei voucher passa con 19 sì contro 6 no, cementando la futura intesa di governo tra Renzi e Berlusconi.
La Cgil reagisce come preannunciato: con il ricorso di fronte alla Corte costituzionale e con l’annuncio di una manifestazione a Roma il 17 giugno. I capigruppo di Sinistra italiana Marcon e De Petris dichiarano che chiederanno un incontro al presidente Mattarella per protestare contro l’aggiramento dell’articolo 75 della Carta, quello che regola i referendum, e per invocarne l’intervento. Nello stesso Pd il dissenso non si limita ai tre deputati che hanno abbandonato la commissione. Critica la forzatura decisa dalla segreteria anche Damiano, presidente della commissione lavoro.
Nulla di tutto questo scalfisce la determinazione di Renzi. Non solo vuole andare avanti ma tutto lascia pensare che sia deciso a far chiedere la fiducia al senato dove l’Mdp, a differenza della camera, è determinante. La fiducia non sarebbe in realtà necessaria, ma l’occasione per infliggere il colpo di grazia alla legislatura è ghiotta e la dichiarazione del capo dei deputati Rosato lascia poco spazio a dubbi: «Mi auguro senso di responsabilità e che al senato Mdp mantenga fede agli impegni assunti dicendo che avrebbe sostenuto con lealtà il governo. Dopo ognuno si assumerà le sue responsabilità». E se Mdp dovesse negare la fiducia? «C’è la Costituzione che prevede cosa succede nel caso non ci siano i numeri».
È una trappola ben congegnata. Le parole di Rosato, accompagnate da molte altre dichiarazioni simili del Pd, rivelano che il gioco del cerino è già cominciato. Renzi sa che Mdp non può votare il ritorno dei voucher e si prepara ad accollare truffaldinamente agli scissionisti la responsabilità della crisi. «Il gioco del cerino non funziona più», replica il capogruppo Mdp Laforgia. Renzi è invece convinto che funzionerà e che la propaganda contro i «sabotatori», prima interni al Pd, ora esterni ma non cambiati, pagherà in termini di voti. Dunque la fiducia, se non interverranno fattori esterni al parlamento, primo fra tutti la moral suasion del Colle, ci sarà.
A quel punto Mdp si troverà di fronte a una scelta difficile: votare contro la fiducia, col rischio di offrire a Renzi il destro per imporre lo scioglimento immediato delle camere e le elezioni con il Consultellum, che secondo molti osservatori resta la legge elettorale preferita dal Nazareno, oppure non partecipare al voto, deludendo così buona parte del proprio potenziale elettorato.
La fiducia probabilmente passerebbe anche col voto contrario dell’Mdp. I conti del Nazareno e quelli degli stessi bersaniani dicono che, con l’Ala verdiniana e i manipoli che ormai pullulano, si dovrebbe superare quota 161. A quel punto sarebbe Renzi a dover decidere se andare avanti qualche mese con un esecutivo zombie per varare una vera legge elettorale oppure scommettere sulle urne subito e vada come deve andare.

lunedì 29 maggio 2017

Tornano i voucher? È bufera

È polemica intorno alla scelta di reintrodurre nella 'manovrina' una norma sostituiva dei voucher anche per le imprese. Per Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro alla Camera, "si tratta di una scelta sbagliata e contraddittoria rispetto alla recente abrogazione, per Decreto, di questo strumento. Sono invece d’accordo sulla istituzione del Libretto Famiglia destinato a colmare un vuoto normativo, finalizzato all'effettuazione dei piccoli lavori domestici e di cura e per le attività no profit. Abbiamo presentato, in tal senso - prosegue - un emendamento a prima firma dell’onorevole Antonella Incerti. Per quanto riguarda le imprese, va sottolineato il fatto che esistono già numerosi strumenti di flessibilità ai quali non è utile aggiungerne di nuovi: il lavoro a chiamata, l’interinale e il contratto a termine".
"In ogni caso, la scelta di una strumentazione di flessibilità per il lavoro occasionale da utilizzare nelle imprese, andrebbe fatta, da parte del Governo, soltanto dopo un confronto approfondito e risolutivo con le parti sociali", conclude. Critiche anche da MDP: ''Il tema oggi non è uscire dalla maggioranza ma i voucher. Se verrà posta la fiducia su un provvedimento che contiene i voucher per le imprese, noi non la voteremo. Il resto lo valuteremo''. Così Francesco Laforgia, capogruppo Mdp a Montecitorio

venerdì 26 maggio 2017

Dopo Manchester, l’istituzionalizzazione del terrore da parte del governo May

Quello che è successo naturalmente sta lasciando e lascerà dei segni. Non è la prima volta che il Regno Unito è oggetto di attentati di natura jihadista, però è la contestualizzazione che ci interessa. Il paese che quasi un anno fa ha voluto uscire dall’Unione Europea anche per questioni legate al tema dell’immigrazione, cui viene spesso associato il tema della sicurezza legata al jihadismo, un paese che si appresta ad andare al voto l’8 giugno… Quindi questo attentato non è un evento privo di conseguenze politiche a stretto giro di posta…
Sì, assolutamente. E’ un evento che rischia di lasciare un segno profondo. Innanzitutto è da poco terminato (giovedì 25 maggio, ndr) un minuto di silenzio che è stato osservato in tutto il Regno unito per commemorare le vittime dell’attacco. Attacco che, come ha dichiarato il primo ministro May, potrebbe non essere paragonabile a quelli che si sono verificati in passato proprio perché, per ammissione del primo ministro, potrebbe essere il primo di una lunga serie. Quindi… C’è, se vogliamo, l’istituzionalizzazione del terrore da parte del governo britannico e fa anche impressione vedere i militari schierati nelle strade per supportare la polizia nelle operazioni che si stanno svolgendo in questi giorni. C’è anche una psicosi che si sta sviluppando; si moltiplicano gli allarmi bomba. Poche ore fa è stata evacuata anche una scuola, sempre nell’area di Manchester, per un allarme bomba… Sicuramente le elezioni dell’8 giugno si svolgeranno in un contesto molto particolare. E’ chiaro che si tratta di un contesto, quello britannico, nel quale probabilmente questo tipo di cose erano ampiamente pronosticabili, visto che circa 700 foreign fighters erano partiti dal Regno Unito negli scorsi anni. Viste le sconfitte militari riportate dall’Isis nel corso dell’ultimo anno, circa 320 sono già tornati in patria e probabilmente si tratta di individui che fanno parte di una filiera ben organizzata – come è anche dimostrato dalle operazioni di polizia di ieri – pronta a colpire con queste metodologie. E sicuramente tutto questo rischiadi lasciare un’impronta profonda sulla campagna elettorale. Quei temi della sicurezza, dell’immigrazione, rischiano di acquisire ancora più rilevanza nel discorso politico pubblico, in un momento particolare. Ricordiamo che adesso la campagna elettorale è sospesa fino a domani per gli eventi di Manchester, però nei giorni immediatamente precedenti all’attentato si era registrato nei sondaggi un primo recupero da parte del partito laburista di Jeremy Corbyn a svantaggio dei conservatori della May; recupero che era stato caratterizzata dalla campagna abbastanza efficace di Corbyn, che era parzialmente riuscito a spostare l’attenzione del pubblico su temi maggiormente di sinistra come l’educazione, la casa, il lavoro, cercando di implementare un’uscita dall’Unione europea su posizioni progressiste. E’ chiaro che questo evento rischia di riportare il dibattito pubblico e il discorso politico su posizioni probabilmente più consone al discorso conservatore; quindi la sicurezza, il blocco dell’immigrazione nonostante i governi conservatori degli ultimi anni siano stati corresponsabili dei fallimenti di politica estera, soprattutto in Medio Oriente, che poi hanno prodotto questa forza di effetti collaterali come quelli che stiamo osservando in questi giorni.
Diciamo che al netto di quanto avvenuto nello specifico, il ragionamento deve spostarsi sull’atteggiamento che l’attuale governo inglese ha in politica estera. Parliamo, ad esempio, della polemica che ha coinvolto più che altro gli Stati uniti, ma riguarda anche il Regno unito, sul sostegno militare ed economico al regime saudita e alle altre petromonarchie del golfo… Non si fa mai questo tipo di ragionamento, sembra più comodo il ragionamento “di pancia” sul tema dell’immigrazione… Non si ragiona invece sulle responsabilità che i governi hanno nel creare i presupposti che portano poi a queste conseguenze, agli attentati nelle nostre città. In campagna elettorale, in qualche modo, dovrebbe entrarci …
Sì, è assolutamente come dici tu. Questi collegamenti ovvi però sono purtroppo scarsamente ravvisati, sia dalla stampa che dagli altri mezzi di informazione britannici; e quella che tu definisci la reazione di pancia è quella che trova più largamente spazio, ovvero le classiche soluzioni legge ed ordine per andare a sconfiggere quelle che sono solo le manifestazioni ultime di questi fenomeni. Anche la storia di questo ultimo attentato ci descrive un po’ il fallimento della politica estera britannica in questi anni. Perché bisogna ricordare che proprio la famiglia dell’attentatore, libica, era scappata tra virgolette dalla Libia per fuggire dal regime del “crudele dittatore Gheddafi”, come era definito dalla stampa e dalla maggior parte delle forze politiche britanniche. Ovviamente questo dovrebbe determinare una sorta di corto circuito nell’opinione pubblica, che dovrebbe iniziare a porsi domande di un certo tipo sull’efficacia della politica estera britannica. Ma tutto questo non succede, anzi. La maggior parte dei tabloid – che poi sono quelli che hanno questo potere di creare l’opinione pubblica – sono prontissimi e molto efficaci a bastonare tutte le voci critiche che possono muoversi verso la politica estera britannica. Un paio di esponenti laburisti che negli scorsi giorni hanno provato, timidamente, a evidenziare questi link tra le conseguenze che si avvertono in casa e la politica aggressiva e imperialista del Regno Unito, di supporto a molti gruppi terroristi… questi esponenti laburisti, dicevo, sono stati prontamente randellati all’unanimità da media quali il Sun, il Daily Express, il Daily Mail… Questi tabloid, che sono di fatto i giornali più venduti nel Regno Unito, hanno il potere di creare un’opinione pubblica diffusa e di orientarla, purtroppo, a destra. Hanno avuto anche il potere di orientare il discorso politico sul processo di uscita dall’Unione Europea, declinandolo fortemente a destra. Questa è un’altra complessità di cui bisogna tenere conto, ovvero un discorso politico nel quale si tiene scarsamente in considerazione quello che è stato il ruolo dell’Unione europea nel promuovere politiche antipopolari. Si propone solo la questione dell’immigrazione, quale modo per scatenare una ulteriore guerra tra poveri.
Ultima battuta, Andrea. Alla luce di tutto questo, si può tratteggiare una prospettiva più o meno realistica di risultato elettorale, anche in relazione al fatto che si è in piena Brexit, in piena trattativa di uscita dall’Unione Europea? È un momento un po’ complesso, ci immaginiamo, per chi deve governare e guidare il paese…
Il momento è complesso e sicuramente la chiamata delle elezioni anticipate è stata una mossa cinica della May, che ha cercato sostanzialmente di trarre vantaggio da un momento nel quale i sondaggi indicavano il partito conservatore come trionfatore in eventuali elezioni. Questo processo è stato visto anche dalla May come un modo per compattare un partito conservatore nel quale esistono diverse sfumature, diverse posizioni sull’atteggiamento da tenere nelle negoziazioni con l’Unione europea. Come dicevo prima, 15 giorni fa, la sorte del partito laburista sembrava praticamente spacciata, si parlava di sondaggi che assegnavano ai conservatori il doppio dei voti rispetto a quello dei laburisti. Grazie al sistema elettorale britannico, questo si sarebbe tradotto in una vittoria a valanga. Però, come dicevo, negli ultimi 10 giorni le cose erano iniziate a cambiare, con una timida inversione di tendenza nei sondaggi, secondo cui la vittoria dei conservatori potrebbe essere di misura più ridotta. Quindi la May potrebbe avere comunque una maggioranza assoluta, alla Camera dei comuni, con la quale procedere nelle negoziazioni con un mandato forte. Ma la posizione del Labur potrebbe non essere così disastrosa, e quindi questo potrebbe riflettersi anche nelle dinamiche interne al partito e sulla posizione del leader Jeremy Corbyn, che dovrebbe affrontare nuove primarie, ma potrebbe comunque farlo su posizioni di forza, perché potrebbe incrementare i voti rispetto all’ultima elezione, quella del 2015, nella quale comunque i laburisti avevano subito una cocente sconfitta. Lo scenario che io prefiguro è quello di una vittoria conservatrice meno a valanga di quel che si pensava quando le elezioni sono state indette. Questo ovviamente significa tutto e niente, nel senso che al momento non è ancora chiaro quale sarà l’accordo che sarà trovato sul processo di uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, anche perché, ripeto, all’interno del Partito conservatore esistono varie sfumature, anche proprio sull’atteggiamento da tenere nei confronti della controparte e sulle diverse implicazioni della revisione dei trattati, come l’accesso al mercato unico, la questione dei cittadini europei residenti nel Regno Unito… Tutto questo non è presente in maniera chiara nel programma elettorale del partito conservatore, quindi c’è un altro elemento di confusione e di incertezza. La May chiede un mandato forte per sé, per negoziare, ma è sostanzialmente una sorta di delega in bianco.
Grazie Andrea, per il momento ti ringraziamo. Naturalmente ci riserviamo la possibilità di chiamarti ancora per ulteriori approfondimenti, visto che la situazione nel Regno Unito è delicata e densa di conseguenze. Grazie e buon lavoro.

giovedì 25 maggio 2017

Nel 2017 già 3mila imprese fallite

Nei primi 3 mesi del 2017 in Italia hanno portato i libri in tribunale 3mila imprese. Complessivamente sono 19.000 le imprese che hanno chiuso cancellando decine di migliaia di posti di lavoro fra gennaio e marzo 2017. Tradotto: 211 fallimenti al giorno, più di otto aziende ogni ora sabati e domeniche inclusi. Sono i dati dell’“Osservatorio su fallimenti, procedure e chiusure di imprese” di Cerved relativo al primo trimestre 2017.
C’è perfino chi riesce a sostenere che siano dati “positivi”, ma i numeri sono da pelle d’oca. Certo la situazione sembra essere leggermente migliorata, -17% rispetto allo stesso periodo del 2016, ma dal 2008 ad oggi la crisi ha fatto fallire nel nostro Paese più di 100mila imprese. Di cui venticinquemila fallite per mancati pagamenti della pubblica amministrazione. A pagare il conto più salato sono le piccole imprese che, non solo non vengono pagate, ma devono anticipare l’Iva per emettere fatture che non verranno mai pagate. Chi si accontenta gode.
La verità è che sono numeri ancora lontani rispetto all’anno di riferimento pre-crisi in cui i fallimenti si erano attestati a 7.500. Solo la Francia presenta un numero di fallimenti superiore al 2009, con un più 13%. Tutti gli altri Stati segnalano, invece, un numero di aziende fallite inferiore a quello di sei anni fa. Eppure c’è chi parla di svolta…

mercoledì 24 maggio 2017

E' in questo momento, dopo Manchester, che bisogna rileggere l'editoriale di Friedman sul NYT

E' in questi momento, dopo il terribile attentato in Inghilterra, che bisogna ricordare l'editoriale di Thomas L. Friedman scritto sul New York Times poco meno di 1 mese fa.
In relazione al conflitto Siriano, daesh e alla strategia americana da perseguire in Siria, Friedman è arrivato a scrivere quanto segue e il NYT l'ha addirittura pubblicato come editoriale in prima pagina:
"(..) Cos'altro [potremmo fare]? Potremmo semplicemente smettere di combattere l'ISIS a livello territoriale in Siria e farlo diventare un problema interamente sulle spalle di Iran, Russia, Hezbollah e Assad.
(..) Perché il nostro obiettivo, adesso, dovrebbe essere quello di sconfiggere lo Stato islamico in Siria? E' davvero nel nostro interesse concentrarsi adesso esclusivamente sulla sconfitta dell'ISIS in Siria?
(..)L'ISIS in questo momento è la più grande minaccia per l'Iran, Hezbollah, Russia e le milizie iraniane pro-sciite - perché l'ISIS è un gruppo terroristico sunnita che giocava sporco come l'Iran e la Russia. Trump dovrebbe voler sconfiggere l'ISIS in Iraq. Ma in Siria? Non gratuitamente, non adesso."
Questo è l'occidente: incoraggia il terrorismo in paesi stranieri per fini (geo)politici e quando i terroristi colpiscono in Europa o negli Stati Uniti, i governi ne approfittano per limitare libertà e diritti degli stessi cittadini vittime degli attacchi.
Siamo all'interno di un gigantesco frullatore mediatico che allontana la comprensioni di eventi, come Manchester, dal grande pubblico al fine di offuscare e manipolare le coscienze.
Per sopravvivere nella giungla mediatica in cui ci troviamo, mista ad una guerra ibrida di quarta generazione, è fondamentale non fidarsi di media mainstream, politici e autoproclamati esperti: usare la propria testa, ricercare notizie da fonti diversificate e mettere in dubbio tutto.
Se il New York Times arriva a pubblicare un editoriale in cui incoraggia di non combattere daesh in Siria, siamo di fronte ad una situazione in cui i media sono armi di propaganda, ovvero #FakeNews.
Agite e ragionate di conseguenza. E' fondamentale.

martedì 23 maggio 2017

Sovranismo e barbarie

Il trionfo di bonbon Macron Oltralpe ha ridato grande speranza all’intero clero liberal-moderato, finalmente in grado di poter contare un trionfo nell’abaco dell’idiota tifo elettorale. Sulle conseguenze della scelta francese il tempo sarà galantuomo. Già da ora forniamo comunque ai nostri cugini un vigoroso in bocca al lupo per la doccia scozzese che l’enfant prodige- fabbricato a tavolino dal vispo Attali nell’atelier Rotschild- prepara con gaudio e letizia, fiero di offrire a Berlino e Francoforte gli scalpi di quella plebaglia che ancora non si rassegna a vivere da schiavi.
Un’epoca, la nostra, definitivamente al di là del bene e del male. Tutte le coordinate novecentesche sono state fatte saltare, in una continua e rovinosa corsa all’abisso che ha scalzato decenni di faticose conquiste sociali in un’orgia di deliri, menzogne e falsità. Del resto la traiettoria deprimente ha quanto meno ottenuto permesso alle peggiori élite dell’ultimo millennio di togliere la maschera della pecora e disvelare le fauci mefitiche della iena: le sfumature non sono più ammesse nel vaudeville dell’orrore, e chi non è servo del sistema diviene inesorabilmente nemico da abbattere quale cane idrofobico, senza pietà e misericordia. La polarizzazione della guerra sociale– che è insieme di classe, di identità e di nazioni- diviene oggi imminente e immanente, passaggio obbligato per la definitiva distruzione di un mondo, l’Occidente, del tutto alla mercé dei propri demoni mortali.
Da una parte, dunque, in posizione di innegabile forza si hanno le forze prone ai diktat della religione del mercato, fissata sui cardini della valorizzazione delle cose in funzione della svalorizzazione dell’Uomo; dall’altra, in rotta e quasi distrutto, l’esercito sterminato e disorganizzato dei popoli, rassegnati ad essere maciullati tra l’incudine del perbenismo e il martello della miseria. In realtà, una possibilità di lotta e di vittoria per i dominati ancora sussiste: la riconquista della Sovranità. Nonostante i proni aedi dell’establishment ne abbiano già cantato la dipartita, il “sovranismo” resta l’ultima arma di difesa e attacco per le masse subalterne oppresse dal dominio finanzial-liberista, ed in tal senso la lezione francese- seppur non vincente- può offrire a questa galassia variegata e contraddittoria un momento di svolta ideologica fondamentale. Come? E’ presto detto.
I presupposti del possibile e mancato trionfo di madame Le Pen si fondavano- al netto delle pur sacrosante istanze identitarie, patriottiche e valoriali- su una ragione primaria: il malessere economico. Individuando nella premiata ditta euro-UE le cause strutturali della decadenza d’Oltralpe, il FN era riuscito ad un tempo a spiegare le cause della miseria e formulare un’alternativa di sistema al sistema della finanza e del mondialismo. Allorché però la fiamma dell’euroscetticismo s’è andata sempre più a mitigare sull’altare del moderatismo da salotto, il consenso e le attese di larghe parti del proletariato e della piccola borghesia francese si sono di colpo volatilizzate, del tutto distrutte nella amara debacle lepenista nell’ultimo grand debat.
L’esito impietoso del secondo turno grida, muto e laconico, la sconfitta dell’alternativa
L’eredità delle présidentielle 2017 consegna alle forze sovraniste un monito decisivo: il messaggio economico è IL punto di forza del dissenso. Svilirlo, renderlo acqua sporca patteggiando più o meno velatamente con il porcile liberal-liberista, mitigarlo per vile timore non ha senso e non premia: in sostanza, il sovranismo o è nemico del modo di produzione contemporaneo o non è che mera ancella del meccanismo di dominazione e sfruttamento. Se non si accetta questa lapalissiana considerazione il dissenso resta mero tifo da stadio, passione adolescenziale presto o tardi smentita dalla realtà dei Trump, dei Geert Wilders e financo della Le Pen ultima maniera.
La struttura, ancora una volta, gioca un ruolo fondamentale. Senza la possibilità- e la volontà- di incidere a fondo sulla dinamica produttiva e commerciale, infatti, la politica resta un simpatico teatrino di pupi, un comitato di sofisti che giocano alla gazzarra mentre le decisioni esiziali vengono prese al riparo del processo elettorale. In questo senso il sovranismo italiano può approfittare dello stop francese per eliminare le scorie liberali e moderate che ancora annovera al proprio interno, ponendosi al contempo un unico obiettivo a cui tutto tendere: recuperare la sovranità per realizzare la democrazia sostanziale sancita dalla Costituzione Repubblicana.
Senza il confine dello Stato Nazionale nulla si può costruire e tutto si può perdere
Per divenire realmente qualcosa, quindi, il sovranismo italiano deve riuscire nell’impresa di raccogliere le varie e comuni esigenze del mondo del Lavoro per contrapporle al meretricio del capitalismo transnazionale, rappresentato da guitti infami e infimi da spazzare via senza eccessivo riguardo. Tutte le altre battaglie, seppur sacrosante e legittime, vengono di conseguenza rispetto al tema decisivo, da cui fatalmente dipendono: Lavoro contro Capitale, Costituzione contro Globalizzazione. La guerra, perché di conflitto si tratta a tutti gli effetti, sarà lunga e spietata, e probabilmente impegnerà almeno il prossimo decennio senza risparmiare niente e nessuno. Le attuali élite non sono eterne, e se la Storia è davvero un cimitero di aristocrazie la schiatta degli euroidioti prima o poi tornerà alla mota da cui proviene. Tutto sta nel favorire e accelerare tale processo, con la forza delle idee e la potenza della massa. Compito non facile, per carità, ma tempi d’eccezione richiedono responsabilità e uomini all’altezza degli eventi: sovranismo o barbarie!

lunedì 22 maggio 2017

MACRON MESSO A GESTIRE LA FINE DELL’EURO MA NON DEL PAUPERISMO

Era irrealistico credere che il sistema bancario francese lasciasse gestire la fine, più o meno prossima, dell’euro a Marine Le Pen. Come pure era irrealistico ritenere che, una volta che il sistema bancario francese avesse confezionato un candidato, non lo conducesse poi alla vittoria con largo margine tramite qualsiasi mezzo. Questi “mezzi” potrebbero rimanere per sempre segreto di Stato, anche se in epoca di software informatici non ci vuole un grande sforzo di immaginazione. Il “sovranismo” sconta quindi il suo vizio di origine, cioè quello di non essersi confrontato con il potere suggestivo e illusionistico del denaro. Il “sovranismo” ha puntato sul movimento delle opinioni pubbliche, senza tener conto del fatto che è il denaro a creare l’opinione pubblica, convincendola magari di aver votato come non ha votato.
Dall’osservatorio italiano questa saldatura tra banche ed apparati dello Stato non può essere del tutto percepibile, perché in Italia il sistema bancario non ha un potere interno ed internazionale paragonabile a quello del sistema bancario britannico, tedesco o francese. Del resto l’Italia è stata per oltre un quarantennio una potenza manifatturiera, ma non è più stata una potenza finanziaria almeno dai tempi dei Medici.
A differenza delle banche italiane, avvolte nel coro del colpanostrismo e prone all’idolo Draghi, le banche francesi hanno aperto un contenzioso giudiziario con la Banca Centrale Europea per contestarne i parametri di solvibilità e di “sofferenza”. La sfida delle banche francesi alla BCE indica chiaramente che sono pronte a cannibalizzare il patrimonio bancario altrui, ma non a farsi cannibalizzare a propria volta.
Che in Francia un “banchiere” venisse chiamato a gestire la fine dell’euro, era quindi scontato. Molte delle sbracate aperture di Macron alla Germania, come pure la rispolverata dell’asse franco-tedesco, appaiono quindi come tattica diplomatica, probabilmente mirata a scaricare interamente sulla controparte il fallimento della trattativa. I media nostrani hanno celebrato il presunto nuovo feeling tra la Merkel e Macron, fantasticando su un rilancio dell’Unione Europea e rinfocolando gli entusiasmi europeistici, peraltro presto spenti dalla nuova procedura d’infrazione che la Commissione Europea ha avviato contro l’Italia per le emissioni illegali dei veicoli FIAT in base al consueto criterio dei due pesi e due misure. Di fatto la cancelliera non ha concesso nulla alla Francia; ed è molto dubbio che i mandanti di Macron queste concessioni se le aspettassero davvero. La finanza francese deve avviare una fittizia trattativa con Berlino per far dimenticare la diretta responsabilità francese sia nella nascita dell’euro che nel massacro della Grecia, facendo apparire la Germania come l’unica colpevole dell’euro-disastro. Cosa che non dovrebbe risultare difficile, poiché storicamente i tedeschi sono specialisti nell’arte di addossarsi tutte le colpe.
La Francia ha più urgenza dell’Italia a chiudere i conti con l’euro e, a differenza dell’Italia, ha ancora gli strumenti per farlo. Il problema è che la fine dell’euro non comporta affatto la dismissione delle politiche di austerità, cioè di pauperizzazione, poiché queste sono funzionali alla finanziarizzazione dei rapporti sociali. La stessa confezione di Macron contiene una chiara indicazione in tal senso.
Macron ha tutte le caratteristiche del candidato artificiale e costruito a tavolino: ha l’aspetto di un attore, somiglia vagamente al Daniel Auteuil di una ventina di anni fa e può vantare anche una biografia trasgressiva ad uso del gossip più progressista. Persino la presenza nel suo curriculum di un’esperienza come dirigente in una delle banche Rothschild potrebbe essere soltanto un fittizio elemento di lustro nella costruzione del personaggio. Ma se i Rothschild non sono stati davvero in passato i datori di lavoro di Macron, lo sono comunque ora, dato che hanno concorso a piazzarlo all’Eliseo.
I Rothschild costituiscono un cancro con molte metastasi, quindi esistono più gruppi bancari europei che possono essere fatti risalire ai vari rami di questa famigerata famiglia. Sta di fatto che questa esclusiva dinastia finanziaria non disdegna affatto di impegnarsi in un business solo apparentemente “povero”, ma in realtà ricco di prospettive di profitto, come la microfinanza, cioè il microcredito a famiglie e piccole imprese, con iniziative come il St. Honoré Microfinance Fund. Ciò significa che la pletora di ONG dedite al microcredito ai poveri ha alle spalle i gruppi bancari più potenti.
Molti commentatori hanno sottolineato che le ultime elezioni francesi hanno spazzato via il sistema politico tradizionale, sia di destra che di sinistra, quel sistema dedito alla redistribuzione sociale attraverso clientele e welfare. Ciò significa che si prospetta un modello di società in cui il microcredito va a svolgere sia la funzione di business che di strumento di controllo sociale. La caduta tendenziale del saggio di profitto c’entra solo sino ad un certo punto in questa finanziarizzazione dei rapporti sociali. La realtà è che il capitalismo, non appena cessata la minaccia del comunismo, ha potuto ritornare alla sua vocazione originaria del business della povertà; un business già teorizzato da un filosofo vissuto a cavallo del XVII e del XVIII secolo, Bernard de Mandeville.

venerdì 19 maggio 2017

Primavera, sboccia la disoccupazione

La fanfara della mini-crescita (appena lo 0,2% in più, nel primo trimestre 2017) era appena squillata a vuoto, che ecco arrivare il dato più concreto: a marzo 2017 sono state presentate all'Inps 111.334 domande di indennità disoccupazione, con un aumento del 12% sulle 99.435 di marzo 2016.
Tradotto in termini semplici: la produzione complessiva è sostanzialmente stabile (oltre il 10% in meno rispetto al 2008, anno di inizio ufficiale della crisi attuale, ma solo per le statistiche) ma l’occupazione cala. Insomma si lavora con meno gente per fare la stessa quantità di merci.
Ci può essere anche una spiegazione alternativa: si licenziano lavoratori con contratto a tempo indeterminato (che dunque possono chiedere l’assegno di disoccupazione all’Inps) e si mettono al lavoro precari di ogni tipo, o addirittura lavoratori in nero. Come si vede, non è un’alternativa più ranquillizzante.
L'Osservatorio Inps sulla cig segnala infatti che rispetto a febbraio si è registra una crescita per le richieste di disoccupazione del 5,77%. Nei primi tre mesi, complessivamente, sono arrivate 381.495 richieste di indennità di disoccupazione (368.993 delle quali Naspi) a fronte delle 356.497 presentate nei primi tre mesi 2016 (+7%). Nei primi tre mesi del 2014 le richieste di disoccupazione superavano quota 532.000 mentre nel primo trimestre 2015 erano 494.359.
2014 e 2015 erano anni di crisi durissima (e c’era il governo Renzi…) e quindi si spiega facilmente che le richieste di assegno di disoccupazione fossero più numerose di ora; ma va segnalato che, dopo la leggera flessione del 2016, ora hanno preso a risalire. Si vede, insomma, che le misure prese da Renzi-Padoan-Gentiloni cominciano “a funzionare”…
Un altro segnale viene dalle richieste di cassa integrazione (che ricordiamo, vengono avanzate dalle aziende, non dai lavoratori): 23,9 milioni di ore di fermo con un calo del 38,8% rispetto a marzo (39,1 milioni di ore chieste) e del 58,1% rispetto ad aprile 2016 (57 milioni di ore). Nei primi quattro mesi dell'anno sono stati chiesti 129 milioni di ore di cassa integrazione nel complesso con un calo del 43% rispetto allo stesso periodo del 2016.
Solo in linea teorica si potrebbe affermare che ora le imprese “stanno meglio” e dunque fanno un ricorso minore a questo ammortizzatore sociale. Per capirci qualcosa questo va infatti incrociato con le richieste di disoccupazione (in forte aumento), Ne consegue che molto probabilmente, “grazie” al Jobs Act, ora le aziende si liberano della forza lavoro considerata eccedente… licenziando anziché chiedendo la Cig. Anche perché, bisogna ricordare, lo stesso istituto della cassa integrazione è stato “riformato” eliminando la cig straordinaria e lasciando in vigore solo quella “ordinaria” (che copre le crisi per eventi imprevisti, come terremoti, alluvioni, ecc).

giovedì 18 maggio 2017

Lavoro, aumentano (e non di poco) morti e infortuni. E questo nonostante la crisi economica!!!

L’ANMIL (Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi sul Lavoro) ha realizzato il 1° Rapporto sulla salute e sicurezza sul Lavoro, presentandolo oggi al Senato con l’intervento del presidente nazionale ANMIL Franco Bettoni, il presidente Commissione Lavoro del Senato Maurizio Sacconi e della Camera Cesare Damiano.
Già nei mesi di gennaio e febbraio dell’anno in corso si erano registrati i primi segnali negativi, ma la triste conferma è arrivata con il bilancio trimestrale elaborato dall’INAIL al 31 marzo 2017. In questo trimestre, rispetto allo stesso periodo 2016, sia gli infortuni che i morti sul lavoro sono cresciuti, in misura rispettivamente del 5,9% e dell’8,0%. Sono dati che non possono non destare forte preoccupazione, in quanto potrebbero significare una inaspettata inversione nella tendenza ormai storica dell’andamento infortunistico nel nostro Paese.
Negli ultimi anni l’attenzione di media, istituzioni e cittadini è molto cresciuta verso il tema della sicurezza sul lavoro. Ma, al di là dei meri dati statistici che con impegno l’INAIL diffonde periodicamente, per l’ANMIL il fenomeno degli infortuni e delle malattie professionali e le problematiche legate alla loro prevenzione meritano una più approfondita valutazione che analizzi l’efficacia della normativa attuale.
Con questo obiettivo, da diversi mesi, un gruppo di esperti dell’Associazione si è dedicato allo studio dei principali interventi del legislatore, della giurisprudenza, della prassi amministrativa e del mondo della ricerca in materia di salvaguardia della salute dei lavoratori e della loro sicurezza in ambito lavorativo che hanno caratterizzato in modo significativo l’anno precedente e la metà dell’anno in corso. I risultati di questo lavoro, che ha rivolto lo sguardo al contesto nazionale senza perdere di vista la prospettiva europea ed internazionale, hanno dato vita al 1° Rapporto sulla salute e sicurezza sul lavoro – che intende diventare un appuntamento annuale – per comprendere come sia cambiato il lavoro nel nostro paese con i Decreti 81 e 106 nell’ultimo decennio e fornire, a tutti gli addetti ai lavori, un servizio informativo e culturale aggiornato e completo, con l’auspicio di contribuire all’innalzamento del livello di conoscenza, di spirito critico e di quella consapevolezza che il tema merita, considerati i valori costituzionali che lo governano.

mercoledì 17 maggio 2017

La Brexit ora ha il supporto del 68% dei britannici

“Dimenticate il 52%”, ora a supportare la Brexit è il 68% dell’elettorato britannico: è quanto segnala una sondaggio operato da YouGov basato 5.248 interviste. Circa metà degli elettori che dichiarano d’aver votato Remain, infatti, ora ritengono che sia opportuno rispettare la volontà espressa dal popolo britannico, e che quindi il governo dovrebbe procedere con l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. La somma dei sostenitori veri e propri del Leave (45% degli intervistati) con i cosiddetti “Re-Leavers” (23%) produce un fronte favorevole all’uscita complessivo, dunque, pari al 68%. Il 22% degli intervistati, invece non era e non è a favore della Brexit: secondo questa porzione dell’elettorato il governo dovrebbe, comunque, fare retromarcia e ignorare l’esito del referendum.
Secondo Marcus Roberts, direttore dei progetti internazionali di YouGov, “l’ascesa dei Re-Leavers significa che i conservatori stanno pescando in un grosso lago, mentre gli altri partiti stanno gettando i loro ami in uno stagno. Quanto si parla della Brexit e delle sue implicazioni nella campagna l’elettorato non è composto da due pool divisi circa a metà 52/48. Al contrario”, ha dichiarato Roberts, “c’è un grosso bacino composto da Leave e Re-Leave e uno stagno molto più piccolo del Remain”.
Per questo alle prossime elezioni la premier conservatrice Theresa May, avrà gioco facile nel pescare “in un grosso bacino di elettori e con scarsa competizione”.

martedì 16 maggio 2017

La caduta dei mercanti e l’apocalisse dell’occidente

Anche i mercanti della terra piangono e gemono su di lei, perché nessuno compera più le loro merci: carichi d'oro, d'argento e di pietre preziose, di perle, di lino, di porpora, di seta e di scarlatto; legni profumati di ogni specie, oggetti d'avorio, di legno, di bronzo, di ferro, di marmo; cinnamòmo, amòmo, profumi, unguento, incenso, vino, olio, fior di farina, frumento, bestiame, greggi, cavalli, cocchi, schiavi e vite umane.
I mercanti hanno il tempo contato da sempre. Una manciata di giorni o poco più. Coltivano illusioni, costruiscono supermercati e inventano l’illegalità. Sono i principali ideatori dei campi di concentramento che hanno accompagnato il declino della civiltà occidentale. Esportano mercanzie di scarso valore e creano paradisi fiscali per aiutare il meccanismo di espropriazione della democrazia. Commerciano su tutto e di tutto determinano il prezzo e la durata prevista. Risorse naturali, terre, fiumi, oceani e deserti sono nel catalogo aggiornato della spoliazione totale della vita. Della schiavitù sono diventati specialisti fin dall’inizio e continuano ad aggiornarne i contorni e le possibilità. Non si sono accorti che il loro tempo è ormai scaduto. Sono stati giudicati e condannati in contumacia come i fabbricanti d’armi.

I mercanti e quanti a loro somigliano hanno terminato il tempo dell’inganno. Sono anch’essi vittime del naufragio al quale hanno costretti migliaia di umani che solo commerciano un futuro differente. Si sono rinchiusi dietro fili spinati e difesi da muri di cartone. Non servirà perché arriveranno da ogni parte per ritagliare porte d’ingresso e finestre sul mare. I mercanti saranno occupati a comprare e a vendere ai cittadini ciò di cui non hanno affatto bisogno. La pubblicità sarà messa nella pattumiera delle cose che hanno perso importanza. Al posto dei supermercato ci saranno giardini botanici e panchine per chi non ha tempo da perdere nei negozi. I mercanti hanno il tempo contato. Nessuno crede più alle loro promesse di felicità a prezzi scontati. Alcuni di loro, per salvarsi, hanno scelto di tornare alla terra.
Tutti i comandanti di navi e l'intera ciurma, i naviganti e quanti commerciano per mare se ne stanno a distanza, e gridano guardando il fumo del suo incendio: "Quale città fu mai somigliante all'immensa città?". Gettandosi sul capo la polvere gridano, piangono e gemono:"Guai, guai, immensa città, del cui lusso arricchirono quanti avevano navi sul mare! In un'ora sola fu ridotta a un deserto! Anche i mercanti della terra piangono e gemono su di lei, perché nessuno compera più le loro merci.
Guardano il fumo e le macerie delle mercanzie ormai inutilmente accastate nella polvere. Registri dei profitti, le piazze d’affari, le banche di credito e le agenzie di notazione, inutili ricordi di un tempo travolto dal reale. Gli altri mercanti hanno scelto di tornare a fare gli operai e i controllori di biglietti sui treni pendolari. Stanchi dopo il lavoro saranno seduti accanto all’ultimo migrante sbarcato con l’uniforme di scaricatore di porto in mobilità. Spazzeranno le strade dopo la notte bianca che si era celebrata in città. Gli ultimi mercanti faranno la fila davanti alle vetrine appositamente conservate coi prezzi da liquidazione. C’è chi si è reso disponibile a servire i pasti alla mensa dei senza dimora fissa.
Guai, guai, immensa città, tutta ammantata di bisso, di porpora e di scarlatto,adorna d'oro,di pietre preziose e di perle! In un'ora sola è andata dispersa sì grande ricchezza.

lunedì 15 maggio 2017

Olanda, nasce commissione parlamentare per uscire dall’euro

Proprio quel parlamento olandese dove Mario Draghi ha tenuto un’audizione in settimana lodando i progressi economici dell’Eurozona ha dato la luce a una commissione per l’uscita dall’Eurozona. L’Olanda diventa così il solo paese virtuoso con tripla A dell’area euro a non escludere la possibilità di abbandonare la moneta unica.
L’idea di aprire un dibattito parlamentare serio sulla questione, nata a marzo prima delle elezioni che hanno visto la vittoria di potrebbe essere ripresa anche in altri Stati membri del blocco dove la questione è ancora tabù nonostante diversi economisti, anche Premi Nobel come Joseph Stiglitz, abbiano messo in discussione la validità e i benefici della moneta unica in un’area costituita da paesi così diversi fra loro.
Persino Wolfgang Schaeuble, il falco ministro dell’economia tedesco, di recente ha ammesso che il surplus commerciale gigantesco della Germania è dovuto “anche” all’euro.
La commissione parlamentare, nata dopo il voto del 15 marzo, sarà incaricata di stabilire se si può abbandonare la moneta unica e in quel caso come andrebbe fatto. Per arrivare a queste conclusioni verrà esaminato quale sarà il futuro della moneta unica, per vedere se all’Olanda conviene rimanere oppure uscire dall’euro.
A portare avanti questa inchiesta è il consiglio di stato, l’organo che fornisce consulenza legale al governo. L’idea è venuta dopo che le politiche di tassi ultra bassi della Bce hanno penalizzato diversi risparmiatori olandesi, in particolare i pensionati, e nasce anche dai dubbi sulla legalità del programma di acquisto di bond.
L’aspetto sorprendente di questa vicenda è che a chiedere questa inchiesta non è stato un parlamentare del partito di Geert Wilders bensì Pieter Omtzigt, parlamentare euroscettico del partito d’opposizione cristiano democratico, il quale ha motivato questa richiesta col fatto che la politica monetaria della Bce ha danneggiato enormemente l’economia olandese. E quindi è arrivato il momento di vederci chiaro, su questa moneta tossica.
Durante l’intervento di Draghi, usando la stessa logica con cui il capo della Bce aveva risposto a una domanda dei deputati del M5S sui costi che graverebbero sull’Italia in caso di uscita dell’area euro, citando l’enorme deficit italiano sul bilancio dei pagamenti Target 2, un deputato olandese ha chiesto alla Bce la restituzione di 100 miliardi euro in caso uscita dall’area euro. I calcoli si basano sul fatto che l’Olanda è in credito nei confronti della Bce e non in debito come l’Italia.
Il deputato olandese ha rilevato che l’Olanda vanta un surplus di circa 100 miliardi di euro verso il sistema Target 2, e di conseguenza ha chiesto a Draghi se, applicando il medesimo ragionamento applicato all’Italia, “allora se uscisse dall’euro l’Olanda dovrebbe avere 100 miliardi indietro”. Draghi ha liquidato ogni ipotesi di uscita dall’euro ribadendo che la moneta unica “è irrevocabile, e questo lo dice il trattato”. Alla fine dello scambio con Draghi, il deputato ha detto “staremo a vedere, allora”. Draghi ha replicato: “staremo a vedere, di sicuro”.

venerdì 12 maggio 2017

Caro Macron, l'Euro è già fallito. L'unica domanda è: Cosa vogliamo farci?

L’euro potrebbe non esistere più da qui a 10 anni se Parigi e Berlino non si affrettano a rafforzare l’unione monetaria, ha detto Emmanuel Macron, candidato alla presidenza francese, questo martedì. Macron afferma di ritenere che l’attuale sistema porti beneficio alla Germania a spese degli stati membri più deboli. Macron è stato Ministro dell’economia sotto il Presidente socialista Francois Hollande fino alle dimissioni presentate lo scorso anno per creare un proprio movimento politico e concorrere come candidato indipendente alle elezioni presidenziali di quest’anno.
In realtà, l’euro non avvantaggia la Germania. Una valuta tedesca indipendente avrebbe un valore molto più alto dell’euro attuale—perciò l’euro sta rendendo i cittadini tedeschi più poveri in termini di potere di acquisto verso l’estero della propria valuta.
“La verità è che dobbiamo tutti quanti riconoscere che l’euro è incompleto e non potrà durare se non si faranno delle grosse riforme”, ha detto Macron in un discorso alla Humboldt University di Berlino.
Nel suo discorso in inglese ha aggiunto: “[L’euro] non ha fornito all’Europa una piena sovranità internazionale rispetto al dollaro e alle sue regole. Non ha dato all’Europa una naturale convergenza tra i diversi paesi membri”.
Non potete e non riuscirete a promuovere la convergenza se costringete tutti a stare in un un’unica valuta e dunque in un unico regime monetario. Non è così che funziona—potete avere una moneta unica che funziona solo dopo che le economie che ne fanno parte hanno raggiunto una convergenza. Cosa più importante, dato che una moneta unica significa una politica monetaria unica, è necessario che tutti i paesi membri abbiano delle economie correlate, che attraversino le fasi del ciclo economico nello stesso momento e con la stessa velocità. Questo semplicemente non è il caso dell’economia dell’eurozona, e molto probabilmente non lo sarà mai. Pertanto è stata tutta una pessima idea introdurla [la moneta unica].
Come notava Milton Friedman diverso tempo fa, prima che tutto avesse inizio:
Se un paese viene colpito da uno shock negativo che richiede, per esempio, un abbassamento dei salari relativi rispetto ad altri paesi, questo si può ottenere cambiando un unico prezzo, cioè il tasso di cambio, anziché pretendere di cambiare contemporaneamente migliaia e migliaia di salari, o costringendo all’emigrazione dei lavoratori. Le sofferenze imposte alla Francia dalla sua politica del “franco forte” dimostrano il costo della decisione ispirata da motivi politici di non usare il tasso di cambio per correggere l’impatto della riunificazione tedesca. La crescita dell’economia britannica dopo l’uscita dal sistema monetario europeo qualche anno fa e il ritorno ad una sterlina fluttuante, dimostra l’efficacia del tasso di cambio come meccanismo di aggiustamento.
Da allora abbiamo avuto grosse bolle immobiliari (con i conseguenti inevitabili crash) in Irlanda e in Spagna. A causa dell’euro i tassi di interesse erano troppo bassi per le loro economie, a vantaggio esclusivo dell’economia tedescoa, allora in difficoltà. Dopo il crash la BCE ha mantenuto tassi di interesse troppo elevati e troppo a lungo. L’Italia non ha avuto praticamente alcuna crescita economica per due decenni, la disoccupazione giovanile in Spagna è ancora vicina al 50%. La Grecia è ovviamente un disastro e perfino la Finlandia si trova stritolata nel mezzo di una svalutazione interna.
Ciò che è peggio è che nessuno dei presunti benefici economici che erano stati prospettati è mai arrivato. Si diceva che ci sarebbe stato molto più commercio tra i paesi—e questo non si è visto affatto. Ciò che è successo è che le stime erano basate su combinazioni di precedenti unioni monetarie, unioni monetarie che coincidevano anche con unioni doganali. E ciò che abbiamo scoperto è che l’importante erano le unioni doganali (sarebbe a dire, nel nostro caso, il mercato comune), non le unioni monetarie.
Ci sono in definitiva solo due processi politici percorribili dopo aver preso atto che l’euro è un fallimento. Potremmo cercare di introdurre l’unione fiscale. Sarebbe a dire fare una cosa tipo il sistema degli Stati Uniti d’America—il denaro affluisce a Washington DC e da lì viene redistribuito. Questa redistribuzione mitigherebbe gli effetti della politica della moneta unica. Ma questo richiederebbe che i paesi europei facciano affluire il 20% del loro PIL a Bruxelles lasciando che siano i burocrati a spenderlo. In altre parole, vorrebbe dire che i tedeschi dovranno pagare per davvero le pensioni ai greci.
Ecco. Questo – Non – Succederà.
L’altra strada è quella di ammettere il fallimento, smantellare il tutto e dichiarare vittoria. Questo è ciò che dovremmo fare. L’euro è fallito. L’unica strada per migliorarlo non è politicamente percorribile. Dunque è meglio che lo smantelliamo prima che siano gli eventi a farlo per noi, in mezzo al caos che si produrrebbe forzando la situazione.

giovedì 11 maggio 2017

Gli avvoltoi a cena con Obama, la stampa festeggia

Oramai il regime politico mediatico ci abitua a sentirci felici della più sfacciata arroganza dei ricchi e del potere. Se la stampa di oggi fosse stata operativa quando Maria Antonietta suggerì di distribuire brioches al popolo a cui mancava il pane, forse sarebbe riuscita a promuovere la regina di Francia come una persona sensibile e spiritosa.
Quello che a Milano pagano i tremila ricchi sfacciati e i loro famigli per sentire mezz'ora di discorso di Obama, corrisponde a ciò che ricevono in un mese gran parte dei pensionati, al doppio di ciò che sempre in mese riceveranno gran parte di coloro che son rimasti in Almaviva, ad un mese di NASPI per il disoccupato che ha la fortuna di prenderla.. Mi fermo qui ma potrei andare avanti un mese.
A me tutto questo sembra una vergogna che annuncia vergogne, ma vedo invece che su tutti i mass media questa offesa ai poveri viene presentata come un grande evento progressista. Obama parlerà per mezz'ora di cibo corretto e rispettoso ad una platea di persone che han passato il tempo a mangiarsi il nostro paese. E prima di parlare a costoro Obama ha fatto qualche assaggino di buona cucina insieme a ai vip dei vip, Marchionne, Montezemolo, Marcegaglia, Della Valle, Renzi, la crème della crème.
Quando i ricchi ed i potenti diventano così sfacciati è perché pensano di poterselo permettere, di aver vinto ogni ambito della lotta di classe contro i poveri, a cui solo resterebbe di ammirare lo sfarzo mentre stringono la cinghia. È il ritorno al Medio Evo cui ci stanno rapidamente portando il capitalismo globale e le sue classi dirigenti, nelle quali destra e sinistra sono solo distinzioni per i gonzi.
La giustizia sociale nel mondo andrà sempre peggio, ed i mass media ci convinceranno che dobbiamo esserne felici, fino a che i ricchi ed i potenti non avranno di nuovo il timore della ghigliottina. In attesa di quel felice momento lasciatemi almeno esprimere tutto il mio disgusto per la mensa di Obama e per i suoi commensali .
PS: Ho saputo dalla stampa che Obama prenderebbe 350000€ per mezz'ora di discorso. 11600€ al minuto, il più alto costo del lavoro del mondo, davanti ad una platea che quando si parla di lavoro o pensioni è solita dire che non ci sono i soldi…

mercoledì 10 maggio 2017

INIZIA LA PRESIDENZA MACRON

Emmanuel Macron è stato dunque eletto, il 7 maggio, con un’ampia maggioranza dei voti espressi. Il 66% dei voti è un dato che impressiona, ma è anche un’illusione ottica. Se si considerano le percentuali di elettori che si sono astenuti o che hanno votato “scheda bianca o nulla”, Macron ha raggiunto solo il 43% dei voti degli aventi diritto. Questo dato è da confrontare con quello ottenuto da Jacques Chirac nel 2002 in un’elezione presidenziale in cui lo sfidante era anch’esso del Front National [Jean-Marie Le Pen, NdT]. In quel caso, al secondo turno Chirac aveva raggiunto il 62% dei consensi dell’insieme di tutti gli aventi diritto al voto. I 19 punti percentuali in meno di Macron rispetto a Chirac, dopo 15 anni, sono molto significativi. A riprova che si è trattato più che altro di un voto “di default” [per esclusione, NdT], i sondaggi, seppur da prendere con tutte le cautele, indicano che solamente il 43% di coloro che sono andati a votare per Macron approvano effettivamente il suo programma.
Il successo di Emmanuel Macron potrebbe rivelarsi nient’altro che un’illusione. La stampa ha sostenuto questo candidato quasi all’unanimità, i grandi media mainstream gli sono corsi dietro con rara indecenza, e ciononostante gli hanno procurato un consenso relativamente basso se confrontato a quello che aveva raccolto Jacques Chirac. I 19 punti mancanti la dicono lunga sulla collera dei francesi, una collera che è stata ampiamente espressa nel corso di questa campagna elettorale.
Durante i “festeggiamenti” organizzati per l’annuncio dei risultati elettorali, realizzati con una messa in scena così calcolata e priva di spontaneità da essere notata perfino dai giornalisti delle principali emittenti televisive, abbiamo assistito ad una doppia contraddizione, che in effetti potrebbe essere proprio la contraddizione della Presidenza Macron.
La prima contraddizione è stata quella di presentare l’eletto come un uomo solo, slegato da qualsiasi appartenenza, come voleva lasciar intendere la sua marcia solitaria verso lo scenario del Louvre, quando in realtà la sua candidatura è stata un’immensa opera di riciclaggio di uomini politici falliti o senza speranza, del Partito Socialista, del “Centro”, ma anche della destra. La seconda contraddizione è stata quella tra il tono apertamente “europeo” della sua messa in scena sul carosello del Louvre, e il discorso pronunciato da Emmanuel Macron dalla tribuna, un discorso nel quale la Francia era largamente presente. Macron ha espresso ciò che già aveva detto davanti alle televisioni estere, ma che aveva finora taciuto in Francia, di voler cioè “rifondare l’Europa”. Ma qualsiasi progetto di cambiamento delle istituzioni dell’Unione europea – dato che, politicamente e istituzionalmente, l’Europa non esiste – deve passare da un confronto esplicito con la Germania. Emmanuel Macron dovrà scegliere tra una preferenza europea e una preferenza francese. A voler combinare le due cose senza scegliere, si metterà nelle mani di Berlino e renderà chiaro a tutti che la sua presunta volontà di “rifondare l’Europa” non era che era una copertura per la sottomissione, non importa se voluta o subita.
La sconfitta di Marine Le Pen è indiscutibile. Lo è tanto di più perché nei primi giorni della campagna elettorale per il secondo turno delle presidenziali la dinamica mostrata dai sondaggi era quella di un aumento dei consensi, dal 38% fino al 42%. Questa dinamica si è poi interrotta, in gran parte a causa del modo in cui la Le Pen ha condotto la campagna elettorale. Se è scesa dal 42% al 34% non può prendersela con altri che con se stessa. Le ambiguità e le confusioni della sua campagna hanno avuto come effetto un vero e proprio crollo, e non sappiamo se ciò sia stato il frutto di incompetenza e di scelte sbagliate oppure sia stata una scelta deliberata.
La campagna elettorale che si sta aprendo ora per le elezioni legislative vede affrontarsi i quattro partiti che ormai dominano la scena politica francese. L’obiettivo di Emmanuel Macron è quello di raggiungere la maggioranza assoluta dei seggi. Ma questa non sembra essere la volontà dei francesi, che non hanno certo inviato questo messaggio attraverso le urne. Dato il tradizionale sistema di voto in Francia, sarà più che mai importante che ciascun partito chiarisca la propria posizione. I sostenitori di Jean-Luc Mélenchon possono sperare di raggiungere una buona posizione, ma si troveranno ad affrontare grosse difficoltà proprio a causa del sistema di voto. Converrà vigilare affinché questa elezione non permetta a dei partiti falliti di riprendere il controllo, né si risolva in una consegna di tutti i poteri ad Emmanuel Macron.

martedì 9 maggio 2017

Grecia, la battaglia sul debito

L’accordo tecnico raggiunto tra il governo greco e i creditori il 2 maggio porta a compimento il processo di accordo politico intrapreso dal premier Alexis Tsipras fin dal vertice di Malta
L’accordo tecnico raggiunto tra il govero greco e i creditori il 2 maggio porta a compimento il processo di accordo politico intrapreso dal premier Alexis Tsipras fin dal vertice di Malta: usando la consueta strategia di rifiutare sempre ogni concezione “tecnica” e “puramente economica” delle strategia imposta al paese, Tsipras aveva sollecitato la cancelliera Merkel e i massimi responsabili dell’UE a mettere freno al pericoloso gioco che portava avanti il FMI con la complicità del ministro tedesco delle Finanze Wolfgang Schauble. Il risultato è stato un compromesso, doloroso per Atene, ma necessario per portare avanti lo scottante problema del debito.
Si può dare per scontata la conclusione favorevole della seconda valutazione, che era in sospeso fin dalla fine di novembre, alla prossima riunione dell’Eurogruppo. Obiettivo importante per Atene, non tanto per la tranche di quasi 8 miliardi che saranno versati per il pagamento di varie scadenze del debito. L’importanza consiste nel fatto che la Grecia può ragionevolente sperare di potere oramai entrare nel programma Quantitative Easing della BCE.
Tsipras ha correttamente compreso che la parte più importante dell’adesione a questo programma non consiste nei miliardi che saranno incassati, quanto invece nel messaggio che Draghi manderà ai mercati e a chi studia possibili investimenti: un messaggio di svolta rispetto al passato: il paese si accinge a entrare in una fase di sviluppo. Questo passo della BCE in pratica si dovrebbe tradurre in un lento e difficile processo, pieno di insidie, alla fine del quale, se tutto va bene, alla conclusione del programma di “salvataggio” della Grecia, nell’estate del 2018, il paese potrà rientare nei mercati internazionali con i suoi bond. Gli aquirenti, in altre parole, dovranno essere rassicurati dalla BCE sul fatto che il pericolo di grexit sia svanito e che le opportunità di investimento offerte dal paese sono buone e a buon mercato.
Affinchè la Grecia venga inclusa nel progamma Quantitative Easing Mario Draghi dovrà decretare che il suo debito sia sostenibile. E’ evidente che tale definizione non ci può essere prima che la BCE abbia la possibilità di esaminare almeno le bozze delle misure a medio termine previste per il suo alleggerimento, anche se poi la loro applicazione inizierà l’anno prossimo o anche nel 2019. E questo nel migliore degli scenari, nel rarissimo caso cioè che Draghi non chieda impegni chiari e precisi.
E’ evidente che, anche su questo fronte, ogni decisione sarà presa, a cominciare dal prossimo vertice Eurogruppo, in base a criteri più politici che tecnici. Per il Presidente dela BCE significa di fatto procedere a forti sconti alle condizioni poste per il coinvolgimento al programma Quantitative Easing nel momento del suo annuncio, nel 2014.
In questo momento siamo ancora nella fase del dibattito riguardo alle misure da prendere a medio termine. Ai colloqui che si sono svolti in margine al vertice europeo di Malta, sono state anche segnalate delle convergenze tra il FMI e il governo tedesco, anche se in linea di massima le loro posizioni conitnuano a trovarsi agli estremi, con l’organismo della Lagarde che spinge per un haircut al più presto e Schauble che frena.
La sostenibiltà del debito greco è anche, per statuto, un punto chiave perchè il FMI continui a partecipare al programma greco. Dopo la conclusione anche tecnica dell’accordo agli inizi di maggio, le due altre richieste forti del Fondo, l’abbassamento della soglia di reddito esente da imposte e il taglio delle pensioni, sono state sostanzialmente soddisfatte dall’accordo di maggio, anche se non nella stessa misura.
La posizione del Fondo è che la sostenibilità del debito greco sarà assicurata se saranno rispettate due condizioni: da una parte, se sarà richiesto un’avanzo primario non eccessivo per il periodo seguente la conclusione del programma, cioè dal 2019 in poi. Dall’altra, se saranno annunciate fin da ora misure radicali a medio termine per il suo alleggerimento. In particolare, il FMI ha stimato che l’avanzo primario per il 2019 non dovrebbe superare l’1,5% del PIL. Ma è consapevole del fatto che gli europei molto difficilmente accetteranno una stima così bassa.
Nell’accordo tecnico appena sottoscritto si fa riferimento alla necessità di mantenere l’avanzo primario dopo il 2018 sul 3,5% per un periodo di tempo non specificato. Per Schauble si tratterebbe di un un periodo di 10 anni. Per il FMI un avanzo così alto per un periodo così lungo è “totalmente irrealistico”. In realtà, il decennio di Schauble sembra non essere più sul tavolo delle trattative, dove il negoziato verte tra i sostenitori del quinquennio e quelli che riducono il periodo a soli 3 anni. Quest’ ultima è la posizione di Atene, sostenuta dalla Commissione Europea. Alla fine del triennio, il surplus dovrebbe abbassarsi al 2,5%.
Si arriva così al nodo principale, che sono, come già detto, le misure a medio termine per il debito. L’ostacolo principale è Schauble. Di solito, si attribuisce questa sua inflessibilità alle necessità imposte dal periodo preelettorale che attraversa la Germania. Sicuramente la scadenza elettorale di settembre svolge un ruolo importante, ma il motivo vero è che lo stesso gruppo dirigente tedesco ha a lungo coltivato un clima estremamente sfavorevole per la Grecia, non solo presso l’opinione pubblica tedesca ma anche il sistema politico del paese, isolando le poche voci critiche, i Verdi e Die Linke.
Dietro la demonizazione dei greci c’è la strategia che Schauble e anche della Merkel hanno applicato fin dall’inizio della crisi, nel 2010, e che aveva un forte carattere punitivo: bisognava usare la crisi greca come un esempio negativo, come ammonimento per gli altri paesi non virtuosi dell’eurozona. Questo ha creato solidi stereotipi nell’opinione pubblica e anche nel gruppo parlamentare democristiano. Questi stereotipi hanno portato ora alla pretesa del corpo elettorale più conservatore di “riavere indietro fino all’ultimo centesimo”, rendendo difficile per la Merkel distaccarsi da posizioni oltranziste.
Il risulato è che il governo tedesco si trova di fronte a una contraddizione insolvibile: rifiuta le condizioni che il FMI pone per continuare a partecipare al programma greco, ma ritiene indispensabile la sua partecipazione. E questo perchè nel 2015 il terzo pacchetto di misure per la Grecia fu approvato al Bundestag con la condizione della partecipazione del FMI, in modo da assicurare misure più rigorose.
A febbraio sono state pubblicate le stime del FMI per le economie europee. La parte riguradante la Grecia tradiva le contraddizioni in cui si è trovata Christine Lagarde. Il board del Fondo ha imposto una visione strettamente correlata con lo statuto. Negli ultimi due anni il governo tedesco è riuscito ad arginare questo problema, muovendosi dietro le quinte, con accordi sotteranei con la Lagarde e con il responsabile per l’Europa Poul Thomsen. In questo modo, pur non partecipando di fatto al programma greco, il FMI ha fatto gioco di squadra con la Germania nel rendere sempre più pesanti le condizioni affnchè fosse chiusa la prima e la seconda valutazione delle “riforme” promosse dal governo greco.
Ma a febbraio, il board ha tirato le redini e la direttrice ha dovuto annacquare le sue prese di posizione, lasciando il solo Schauble a reggere la trincea dell’intransigenza. Il ministro tedesco ha reagito con la solita aggressività, ipotizzando la trasformazione dell’EMS a una specie di “FMI europeo”, escludendo però che questo valga per il caso greco. Qualche settimana fa Schauble non ha esitato perfino di riconoscere che le previsioni economiche di fonte greca siano più attendibili di quelle del Fondo.
In Grecia qualcuno aveva interpretato questa ultima dichiarazione come una svolta nell’atteggiamento del governo tedesco verso Tsipras. La verità però è un’altra. Schauble voleva sfruttare il maxi avanzo primario del 4,6% del 2016 per spingere il FMI a chiedere un avanzo del 3,5% il più a lungo possibile per gli anni dopo il 2018.
Come già si sa, l’impegno greco chiesto dai creditori per l’anno scorso era quello di ottenere un avanzo primario dello 0,5%. Aver superato otto volte quell’obiettivo ha dato nuova spinta al governo. Anche troppo, visto che è stato ottenuto con un ulteriore inasprimento delle imposte, togliendo fondi indispensabili all’economia reale e, alla fine, ha dato corda a Berlino per ottenere nuove imposte e nuovi tagli alla spesa pubblica.
Qualche settimana fa lo stesso Thomsen ha ammesso pubbicamente che nei primi 5 anni di applicazione del programma greco egli ha “sbagliato tutto” poichè aveva “sopravvalutato l’effetto delle misure sui conti pubblici”. Negli ultimi due anni, ha aggiunto, continuava a “sbagliare tutto” perchè l’aveva “sottovalutato”. Si è affrettato comunque ad aggiungere che aver ottenuto un ottimo avanzo primario nel 2016 non significa che sia “realistico” esigerne uno del 3,5% per molti anni di seguito.
Un’autocritica doverosa, vista la macroscopica inesattezza delle previsioni del FMI rispetto alla Grecia, oggetto ormai di commenti salaci in tutta la comunità degli economisti. Vanno quindi valutate con questo criterio le previsioni del Fondo sull’avanzo per l’anno in corso, che prevedono l’1,8%, contro l’impegno greco verso i creditori del 1,75% del PIL. Dal 2018 fino al 2022 si manterrà sul 1,5% contro il dovuto 3,5%. E tutto questo a condizione che già al prossimo Eurogruppo si inizi seriamente a studiare le misure di alleggerimento del debito.

lunedì 8 maggio 2017

Un giovane su 4 non lavora e non studia, siamo i più 'fermi' in Ue

In Italia un giovane su quattro non lavora e non studia. Con il 25,7% dei neet si classifica al primo posto nell'Europa a 28 a 10,9 punti di distanza dalla media Ue. Al secondo posto si posiziona la Grecia con il 24,1%, seguita dalla Bulgaria con il 22,2%. Al lato opposto della graduatoria ci sono i Paesi Bassi dove solo il 6,7% delle persone tra 15 e 29 anni è fuori dal mondo dello studio e del lavoro. I dati relativi al 2015 sono contenuti nelle tabelle pubblicate dall'Istat nel dossier 'Noi Italia, 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo', ed elaborati dall'AdnKronos.
Nel Belpaese la quota di ragazze che non appartiene a nessuno dei due mondi è del 27,1% contro una media europea del 16,7%, con una differenza di 10,4 punti percentuali. Mentre i ragazzi sono il 24,1% contro una media europea del 13%, con una differenza di 11,1 punti percentuali.
Esaminando i dati divisi per regioni emerge che in Sicilia il numero di neet sale al 39,5% dei giovani tra 15 e 29 anni; al secondo posto la Sicilia con il 36,2% e al terzo la Calabria con il 35,8%. Sono del sud anche le successive quattro regioni: Puglia (34,1%), Sardegna (32%), Basilicata (31,8%) e Molise (29,2). Bisogna scendere fino all'ottava posizione per trovare la prima regione che non fa parte del mezzogiorno: è il Lazio con il 23,3%. La percentuale minore di neet è nel Trentino-Alto Adige con il 13,1%.
Tornando ai dati Ue, sopra la media si posizionano 10 paesi che sono, dopo Italia, Grecia e Bulgaria: Romania (20,9%), Croazia (20,1%), Spagna (19,4%), Cipro (18,5%), Slovacchia (17,2%), Irlanda (16,8%), Ungheria (15,1%). Gli altri 18 paesi si posizionano, invece, sotto la media Ue e sono: Francia (14,7%), Polonia (14,6%), Belgio (14,4%), Lettonia (13,8%), Portogallo (13,2%), Regno Unito (12,7%), Estonia (12,5%), Finlandia (12,4%), Slovenia (12,3%), Lituania (11,8%), Repubblica Ceca (11,8%), Malta (11,4%), Austria (8,7%), Germania (8,5%), Danimarca (87,7%), Lussemburgo (7,6%), Svezia (7,4%), Paesi Bassi (6,7%).
Nella tabella che segue vengono riportate le percentuali relative ai giovani italiani, tra 15 e 29 anni, che non lavorano e non studiano, divisi per regioni.
Regioni.........................neet %
Sicilia............................39,5
Campania......................36,2
Calabria.........................35,8
Puglia............................34,1
Sardegna.......................32
Basilicata.......................31,8
Molise............................29,2
Lazio..............................23,3
Abruzzo..........................22,9
Piemonte.........................22,5
Liguria.............................21,1
Marche............................20,2
Toscana..........................19,7
V. d'Aosta.......................19,1
Umbria............................18,9
Emilia-Romagna...............18,9
Lombardia........................18,3
Veneto.............................18,2
Friuli-Venezia Giulia...........17,1
Trentino-Alto Adige...........13,1
Italia................................25,7

venerdì 5 maggio 2017

Italia «a testa alta» nelle spese per la guerra

L'Italia partecipa a testa alta all'Alleanza Atlantica, nella quale è il quinto maggiore contributore, e conferma l'obiettivo di raggiungere il 2 per cento del Pil nelle spese militari»: lo ha dichiarato il presidente del consiglio Gentiloni.
Proprio ricevendo il 27 aprile a Roma il segretario generale della Nato Stoltenberg. Ha così ripetuto quanto già detto al presidente statunitense Donald Trump, ossia di essere «fiero del contributo finanziario dell'Italia alla sicurezza dell'Alleanza», garantendo che, «nonostante certi limiti di bilancio, l'Italia rispetterà l'impegno assunto».
I dati sulla spesa militare mondiale, appena pubblicati dal Sipri, confermano che Gentiloni ha ragione ad andare fiero e a testa alta: la spesa militare dell'Italia, all'11° posto mondiale, è salita a 27,9 miliardi di dollari nel 2016. Calcolata in euro, corrisponde a una spesa media giornaliera di circa 70 milioni (cui si aggiungono altre voci, tra cui le missioni militari all'estero, extra budget della Difesa). Sotto pressione Usa, la Nato vuole però che l'Italia arrivi a spendere per il militare il 2% del Pil, ossia circa 100 miloni di euro al giorno.
Su questo, Trump è stato duramente esplicito: ricevendo Gentiloni alla Casa Bianca, riferisce lui stesso in una intervista alla Associated Press, gli ha detto: «Andiamo, devi pagare, devi pagare…».
E, nell'intervista, Trump si dice sicuro: «Pagherà». Non è però Gentiloni a pagare, ma la stragrande maggioranza degli italiani, direttamente e indirettamente attraverso il taglio delle spese sociali.
C'è però, evidentemente, chi ci guadagna. Nel 2016, l'export italiano di armamenti è aumentato di oltre l'85% rispesso al 2015, salendo a 14,6 miliardi di euro. Un vero e proprio boom, dovuto in particolare alla vendita di 28 cacciabombardieri Eurofighter al Kuwait, che diviene primo importatore di armi italiane. Un maxi-contrattto da 8 miliardi di euro, merito della ministra Roberta Pinotti, efficiente piazzista di armi (v. il manifesto del 23 febbraio 2016). Si tratta della più grande commessa mai ottenuta da Finmeccanica, nelle cui casse entra la metà degli 8 miliardi. Garantita con un finanziamento di 4 miliardi da un pool di banche, tra cui UniCredit e Intesa Sanpaolo, e dalla Sace del gruppo Cassa depositi e prestiti.
Si accelera così la riconversione armata di Finmeccanica, con risultati esaltanti per i grossi azionisti: nella classifica delle 100 maggiori industrie belliche mondiali, redatta dal Sipri, Finmeccanica si colloca nel 2015 al 9° posto mondiale con una vendita di armi del valore di 9,3 miliardi di dollari, equivalente ai due terzi del suo fatturato complessivo.
L'azienda accresce fatturato e profitti puntando su industrie come la Oto Melara, produttrice di sistemi d'arma terrestri e navali (tra cui il veicolo blindato Centauro, con potenza di fuoco di un carrarmato, e cannoni con munizioni guidate Vulcano venduti a più di 55 marine nel mondo); la Wass, leader mondiale nella produzione di siluri (tra cui il Black Shark a lunga gittata); la Mbda, leader mondiale nella produzione di missili (tra cui quello anti-nave Marte e quello aria-aria Meteor); l'Alenia Aermacchi che, oltre a produrre aerei da guerra (come il caccia da addestramento avanzato M-346 fornito a Israele), gestisce l'impianto Faco di Cameri scelto dal Pentagono quale polo dei caccia F-35 schierati in Europa.
Poco importa che Finmeccanica – in barba al «Trattato sul commercio di armamenti» che proibisce di fornire armi utilizzabili contro civili – fornisca armi a paesi come il Kuwait e l'Arabia Saudita, che stanno facendo strage di civili nello Yemen. Come stabilisce il «Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa» a firma della ministra Pinotti, convertito in disegno di legge, è essenziale che l'industria militare sia «pilastro del Sistema Paese», poiché «contribuisce, attraverso le esportazioni, al riequilibrio della bilancia commerciale e alla promozione di prodotti dell'industria nazionale in settori ad alta remunerazione», creando «posti di lavoro qualificati».
Poco importa naturalmente che si spendano per il militare, con denaro pubblico, oltre 70 milioni di euro al giorno, ormai in continuo aumento. Essenziale, stabilisce il «Libro Bianco», è che l'Italia sia militarmente in grado di tutelare, ovunque sia necessario, «gli interessi vitali del Paese». Più precisamente, gli interessi vitali di chi si arricchisce con la guerra.

giovedì 4 maggio 2017

LA COMMISSIONE EUROPEA AVVIA PROCEDURA D’INFRAZIONE CONTRO L’AUSTRIA PER LE MISURE ANTI-DUMPING SOCIALE

In un comunicato stampa del 27 aprile la Commissione Europea ha annunciato di avere avviato una “procedura d’infrazione contro l’Austria per l’applicazione della legge austriaca sulla lotta contro il dumping sociale e salariale nel settore dei trasporti stradali“.
Avete capito bene, Vienna continua ad adottare delle misure di protezione e la Commissione Europea stima che “queste pratiche costituiscano un limite al mercato interno dell’Unione Europea in modo sproporzionato“.
Ecco come la Commissione Europea, la massima istituzione della UE, giustifica la procedura d’infrazione: “Pur sostenendo appieno il principio del salario minimo nazionale, la Commissione Europea ritiene che l’applicazione della legge austriaca a tutti i settori di trasporto internazionale che comportano un carico e/o uno scarico sul territorio austriaco rappresenti una restrizione spropositata al libero esercizio dei servizi e alla libera circolazione delle merci“.
Lo scorso 31 gennaio i ministri dei trasporti di nove paesi (Germania, Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Italia, Lussemburgo, Norvegia e Svezia) avevano firmato una “Alleanza per l’Autotrasporto” per lottare contro la concorrenza sleale nel settore dei trasporti. Nel mirino c’erano paesi come la Polonia, la Bulgaria e la Lituania, i cui bassi standard sociali e e salariali comportano una pressione al ribasso sulle retribuzioni e le condizioni di lavoro anche per gli autisti occidentali (specialmente per quanto riguarda i tempi alla guida e i tempi di riposo). Varsavia, sostenuta da altri dieci paesi, aveva protestato contro la “regolamentazione spropositata” imposta dalla Francia e dalla Germania in materia di salario minimo. La Commissione le aveva dato ragione.
Alain Vidalies, Segretario di Stato per i trasporti, aveva motivato così l’iniziativa comune contro il dumping: “Se non facciamo nulla ci saranno delle reazioni a livello nazionale, e non è ciò che vogliamo. L’Europa non è basata sulla legge della giungla e sul dumping sociale. Queste cose alimentano il populismo“. Ecco di nuovo l’argomento dell’ascesa del “populismo” e dei rischi che porrebbe alla preziosa costruzione europea…
Nel giugno 2016 la Commissione Europea aveva aperto una procedura d’infrazione contro la Francia, così come già fatto contro la Germania nel 2015. Le due procedure sono tuttora in corso. Le professioni di fede europea decisamente non ripagano. Il Ministro tedesco dei trasporti, Alexander Dobrindt, aveva dichiarato: “Ci hanno accusato di protezionismo. Questo è infondato.” Oggi è venuto il turno dell’Austria di assaggiare il bastone di Bruxelles.
La Commissione Europea, come consentito dai trattati, interferisce dunque negli affari interni di un paese e pretende un cambiamento della legge. Vienna, che sta solo cercando di proteggere i propri camionisti (austriaci e non solo) dalla pressione salariale e sociale al ribasso imposta dalla libera circolazione dei servizi e delle merci, si vede rapidamente richiamata all’ordine da Bruxelles.
I padroni richiamano all’ordine i propri sottoposti con una simbolica violenza che nel linguaggio burocratico si veste di eufemismi: “Dopo uno scambio di informazioni con le autorità austriache e un’approfondita analisi giuridica delle misure adottate dall’Austria, oggi la Commissione Europea ha deciso di inviare una lettera di diffida. Le autorità austriache hanno da oggi due mesi di tempo per rispondere agli argomenti presentati dalla Commissione nella sua lettera“.
Il comunicato stampa ha il pregio di esporre la dura realtà del funzionamento della UE: “in quanto custode dei trattati, [la Commissione] deve […] vigilare affinché le misure legislative nazionali siano pienamente compatibili con il diritto dell’Unione Europea, e in particolare con la direttiva sul distacco dei lavoratori (direttiva 96/71/CE), con le prerogative in materia di trasporti, le libertà garantite dai trattati e specialmente il principio di libera circolazione dei servizi e delle merci, nonché con il principio di proporzionalità“.
I quattro pilastri della libera circolazione (capitali, merci, servizi e manodopera) non sono negoziabili dal momento in cui si fa parte dell’Unione Europea. Di fatto essi sono l’Unione Europea stessa. Fanno parte di quelle che si definiscono “prerogative comunitarie“, quel percorso a senso unico sul quale è diretta la costruzione europea fin dall’inizio, che garantisce che non ci possa essere alcuna deviazione rilevante dal dogma neoliberale. Se si accetta di restare dentro il quadro dell’Unione Europea si accettano necessariamente i quattro pilastri della libera circolazione e le loro conseguenze sociali.
Una qualsiasi modifica significativa dei trattati europei richiede l’unanimità dei paesi membri (secondo l’articolo 48 del Trattato di Maastricht), per cui si può facilmente capire che tutti i progetti per “un’altra Europa” sono destinati al fallimento. E dunque in questo caso i riformatori – più o meno sinceri – come sperano di poter costringere undici paesi UE, sostenuti dalla Commissione Europea, a rinunciare ai benefici della liberalizzazione nel settore dei trasporti su strada?

mercoledì 3 maggio 2017

Grecia. Altri tagli e privatizzazioni, per pagare i debiti con nuovi debiti

Un altro cappio intorno al collo della Grecia. Nella notte pare sia stato raggiunto un accordo – resta l’arcigna diffidenza del ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schauble, che però viene descritto come “possibilista” – su come Atene dovrà rispettare gli impegni presi sul nodo del debito.
La notizia, prevedibile, è che ci saranno nuovi debiti (“aiuti” per 7,4 miliardi) che serviranno a pagare quelli vecchi in scadenza, con ovvio aggravio della situazione. Per ottenere questo brillante risultato il governo Tsipras si impegna a tagliare ulteriormente le pensioni, a ridurre il limite dell’esenzione fiscale (da 8.636 a 6.000; in pratica un piccolo impoverimento dei più poveri) e a privatizzare le ultime aziende ancora di proprietà o a partecipazione pubblica (nel settore elettrico, fondamentalmente).
L’accordo era ritenuto “necessario” perché in caso contrario, alla scadenza fissata per il pagamento delle vecchie tranche (30 giugno) sarebbero scattate sanzioni tali da buttare la Grecia ancora una volta sulla via della forzata uscita dall’euro, senza peraltro alcuna politica elaborata per afrontare una simile eventualità.
Il governo rosè di Tsipras si preoccupa anche di mettere in evidenza le “contropartite” ottenute in questa debacle: la contrattazione collettiva (annullata dopo i precedenti accordi con la Troika) potrebbe essere ripristinata dal settembre 2018, e il governo potrebbe essere autorizzato – in fututo – a stanziare fondi per il sostegno ai bambini e aiuti alle famiglie con reddito più basso. Ma solo se nel frattempo il govero avrà rispettato alla lettera tutti gli impegni sottoscritti che, come si vede dalla materia fiscale, prevedono per il momento un ulteriore salasso a carico delle fasce più deboli.
Per capire la misura in cui il governo è ostaggio dei “debitori” bisogna infatti sapere che sono questi ultimi a fissare gli obiettivi di “avanzo primario” del bilancio pubblico (le entrate debbono essere obbligatoriamente superiori alle uscite). Il tutto avviene allo scopo di “convincere” il Fondo Monetario Internazionale a restare dentro il “piano di salvataggio”.
E’ possibile che vi rimanga, seppure controvoglia, visto che da tempo è il principale organismo sovranazionale a indicare – come unica soluzione possibile per Atene – la “ristrutturazione” (un taglio alle pretese dei creditori) del debito pubblico greco.
Ovvero l'esatto opposto di quel che quest'accordo prevede…

martedì 2 maggio 2017

Paradossi italiani: Alitalia può morire mentre a Mps sono andati 4 miliardi

Paradossi italiani. Paradosso Alitalia. Come per tutte quelle realtà che furono produttive e che ora stanno per morire. Paradossi italiani perchè solo in Italia accade. Che è anche un modo per capire. Perchè solo qui da noi il paradosso è diventato sistema. L’Italia della benemerita Iri e della maledetta Cassa del Mezzogiorno, dei finanziamenti a fondo perduto che spalancarono il pozzo senza fondo del debito pubblico. Miliardi buttati, in Alitalia e ovunque, come nel gioco dell’oca che riporta al punto di partenza. Paradossi italiani. Cosicchè se i lavoratori dicono no ad un nodo scorsoio sotto forma di referendum non ci può essere altro da fare che chiudere, spacchettare, vendere. Ora, mettiamo che sia giusto. Mettiamo che la tiritera degli aiuti di Stato da negoziare con l’Europa sia vera, mettiamoci pure in mezzo le colpe (enormi) dei sindacati; ma ecco che un paio di questioni rimangono in campo. La prima riguarda il perchè ad alcuni siano consentiti gli aiuti pubblici mentre ad altri no. La seconda è la pretesa che il management sia irresponsabile (cioè, senza oneri). Paradossi italiani. Abbiamo appena elargito 4 miliardi di euro di soldi pubblici a Monte dei Paschi di Siena: perché una banca fallita può ottenere aiuti di Stato e salvarsi mentre Alitalia no? E, inoltre: perchè lo Stato, cioè il Governo, non intenta una azione di responsabilità nei confronti di un management che ha dilapidato palate di soldi pubblici e s’è dimostrato incapace di gestire l’azienda Alitalia? Perchè mai a pagare dovranno essere i lavoratori con la cassa integrazione mentre i manager, che hanno provocato il disastro, otterranno liquidazioni da favola? Paradossi italiani. Ai quali Gentiloni e Calenda è ora che rispondano.